Witches Of Doom – Deadlights

Ritorno coi fiocchi per le streghe capitoline, Deadlights continua a mantenere il gruppo sul podio delle migliori realtà del genere uscite dal nostro underground negli ultimi anni: un’opera ed una band da amare senza riserve.

A distanza di un paio d’anni tornano i Witches Of Doom, eccellente band nostrana che tanto aveva impressionato con il primo lavoro, quell’Obey che raccoglieva tra i propri solchi quarant’anni di musica oscura, partendo dall’hard rock settantiano dei Black Sabbath, passando per il dark ottantiano e finendo nel doom/stoner di fine millennio.

Un album che finì nella mia playlist di fine anno e non poteva essere altrimenti, vista l’alta qualità del songwriting e le influenze del gruppo che, come spiriti, passavano tra i solchi delle canzoni, senza mettere in secondo piano una personalità debordante, confermata in questo Deadlights, licenziato dalla label americana Sliptrick Records e pronto a conquistare le anime oscure che vagano nel mondo dell’underground metal/rock.
Ancora una volta a prenderci per mano ed accompagnarci nel nuovo sabba delle streghe romane è il singer Danilo Piludu, senza esagerare uno dei migliori cantanti in circolazione nel genere, eclettico, passionale e dotato di una forza interpretativa devastante, un’ugola dark che nelle sue corde vocali racchiude quel tanto che basta di Danzig, Jyrki69, Andrew Eldritch, conferendogli un mood settantiano che rende la sua voce tremendamente efficace ed ipnotica.
I suoi compari non mancano di costruire una cattedrale musicale gotica che si erge nella notte buia e che appare come d’incanto tra la nebbia, con questa volta e specialmente nella prima parte del disco una componente elettronica più accentuata.
Difficile parlare di un lavoro che non lascia un punto di riferimento, alternando con sagacia atmosfere new wave e dark, a molte parti gothic rock, pur avendo sempre presente la componente stoner, che rende le songs ossianiche e liturgiche, litanie oscure destabilizzanti, incantesimi a base di musica rock nera come la pece.
Dopo il bellissimo debutto non era così facile ripetersi, ma già dall’opener e singolo Lizard Tongue si intuisce che la qualità mostrata in passato è rimasta inalterata, ed il brano esplode tra elettronica, stoner con un Piludu sontuoso, in versione Glenn Danzig.
Gli accordi orientaleggianti che compaiono in Run With The Wolf, fanno da preludio ad una delle molte top songs del lavoro: il basso pulsa come i battiti di un cuore nero, spettrale e lasciva ma non pregna di esplosioni elettriche devastanti, Deface risulta un brano capolavoro così come la metallica Homeless, granitica ed emozionale, geniale nel proporre accordi dal sapore western (Fields Of The Nephilim) su una devastante base elettro/stoner.
Si continua a viaggiare sulle ali dei corvi posati sui campanili della famigerata cattedrale e sul piccolo cimitero gotico antistante, mentre Black Voodoo Girl, la superba Mater Mortis ( brano strumentale dove il doom metal incontra lampi e scariche elettroniche per tre minuti circa di geniale musica oscura) e Gospel Of War ci invitano al finale doorsiano con I Don’t Want To Be A Star, brano che chiude l’album con magnifiche atmosfere settantiane deviate da sfumature dark psichedeliche e conferma la totale genialità di questa fantastica band nostrana.
Ritorno coi fiocchi per le streghe capitoline, Deadlights continua a mantenere il gruppo sul podio delle migliori realtà del genere uscite dal nostro underground negli ultimi anni: un’opera ed una band da amare senza riserve.

TRACKLIST
01. Lizard Tongue
02. Run With The Wolf
03. Deface (The Things That Made Me A Man)
04. Winter Coming
05. Homeless
06. Black Voodoo Girl
07. Mater Mortis
08. Gospel For War
09. I Don’t Want To Be A Star

LINE-UP
Federico “Fed” Venditti – guitar
Jacopo Cartelli – Bass
Danilo “Groova” Piludu – Vox
Andrea “Budi” Budicin – Drums
Graziano “Eric”Corrado-keyboard

WITCHES OF DOOM – Facebook

The 69 Eyes – Universal Monsters

Il buon disco di un gruppo che ormai ha finito di sorprendere ma che sa regalare ancora musica piacevolmente intrisa di decadenti melodie e di buone trame rock.

Il ciuffo in stile Misfits, che Jyrki sfoggia sulla copertina del nuovo album dei The 69 Eyes , poteva far pensare in un primo momento ad un clamoroso ritorno alle sonorità rock’n’roll degli esordi, ed in effetti in Universal Monsters i fantasmi del passato tornano ad elettrizzare il sound dei vampiri di Helsinki.

Niente paura, per le anime dark che ormai sono la maggioranza nelle nutrite truppe di fans del gruppo, chiarisco subito che il sound per cui la band è famosa non corre pericolo e continua la sua strada nei meandri della musica dark rock, o gotica come è di moda chiamarla nel mondo musicale di oggi, ma in questo lavoro ci scontriamo con la voglia del gruppo finlandese di riscoprire in parte la voglia di rock esibita in passato.
D’altronde, ormai più di vent’anni fa, i The 69 Eyes si fecero strada a colpi di rock’n’roll con due album straordinari come Savage Garden e Wrap Your Troubles in Dreams, poi come d’incanto la trasformazione con quello che per molti fu un disco di transizione, ma che per il sottoscritto rimane il loro capolavoro, Wasting The Dawn che pescava non poco dal sound gotico (questo sì) dei Type 0 Negative, allora signori e padroni del genere.
Il dopo Wasting The Dawn fu un’ascesa di popolarità e la definitiva consacrazione nel mondo del dark rock molto più raffinato, e in qualche modo patinato, con Blessed Be e Paris Kills, ed il gruppo ha mantenuto tali coordinate stilistiche per tutti questi anni, fino a questo nuovo lavoro che tra alti e, fortunatamente pochi, bassi non deluderà gli amanti delle sonorità ormai note al combo vampiresco.
Universal Monsters ha nella bellissima Jerusalem il brano capolavoro, una song inusuale per la band, impostata con trame acustiche ed elettricità tenuta a freno da ritmi ipnotici e con un Jyrki splendido, con la sua voce profonda e tremendamente emozionale.
Dolce Vita apre l’album con quegli impulsi rock di cui si scriveva in precedenza, un’apertura tremendamente efficace, con un refrain che più classico non si può in pieno The 69 Eyes style.
In Shallow Graves si respira aria di cimiteri gotici, con i corvi in lontananza che sorvegliano la sepoltura, mentre subito prima Miss Pastis aveva riconfermato l’atmosfera rock’n’roll che a tratti si respira sull’album.
Rock’n’roll Junkie conclude questo Universal Monsters, un brano che si riempie di umori settantiani alla Stones in versione oscura, bellissimo esempio di come il gruppo sa essere eclettico e vario quando lascia le briglie che lo tiene legato agli stilemi del dark per riesplorare l’universo rock.
Un disco buono di un gruppo che ormai ha finito di sorprendere ma che sa regalare ancora musica piacevolmente intrisa di decadenti melodie e di buone trame di quel rock, che se non racchiude più il seme della ribellione, è costruito su una base di talento sopra la media.

TRACKLIST
01. Dolce Vita
02. Jet Fighter Plane
03. Blackbird Pie
04. Lady Darkness
05. Miss Pastis
06. Shallow Graves
07. Jerusalem
08. Stiv & Johnny
09. Never
10. Blue
11. Rock’N’Roll Junkie

LINE-UP
Jyrki 69 – Vocals
Bazie – Guitar
Timo-Timo – Guitar
Archzie – Bass
Jussi 69 – Drums

THE 69 EYES – Facebook

Sepvlcrvm

Continuano le nostre interviste ai gruppi appartenenti al roster dell’Argonauta e che suoneranno all’ Argonauta Fest il 7 maggio, dalle 18.00 in poi, alle Officine Musicali a Vercelli.
I Sepvlcrvm sono un duo ancora inedito e misterioso, ed il loro disco uscirà prossimamente.
Nell’attesa di scoprirli dal vivo ecco le loro parole.

iye Come è nato il gruppo ?

Da ricerca e contemplazione.
Antiche scritture costituiscono la fonte di meditazioni rituali che si concretizzano in Musica ed Immagine.
La condivisa Passione e Dedizione all’Arte nonché la profonda stima tra i due componenti del progetto hanno agevolato chiarezza d’intenti ed individuazione di sentieri d’indagine.

iye Quali sono le vostre influenze sonore ?

Tutte le sperimentazioni sonore utili a canalizzare il messaggio ed estrinsecare la visione.
E’ inopportuna e complessa la definizione di un genere musicale che non intende porsi limiti e confini ma solo piena libertà espressiva.

iye Come siete approdati su Argonauta ?

Il signor Lucisano, persona conosciuta da tempo come dedicata ed appassionata, ha dimostrato interesse ed apprezzamento per il progetto.
Siamo onorati di questa collaborazione e siamo convinti che possa condurre a reciproche soddisfazioni.

iye Cosa vi aspettate dall’Argonauta Fest ?

L’Argonauta Fest vedrà l’uscita del nostro secondo lavoro Vox In Rama.
L’esibizione costituisce un momento cruciale di condivisione e scambio nel quale mostreremo uno dei molteplici volti del progetto.

iye Progetti futuri ?

Mantenersi vigili, attenti, scrupolosi nella ricerca e nella comprensione.
Meditare e contemplare l’intrinseca saggezza degli antichi Insegnamenti.
Procedere, umili ma fermi, lungo la via intrapresa con crescente lucidità di rappresentazione.

SEPVLCRVM_2015

Il Castello di Atlante – Arx Atlantis

Arx Atlantis è un bellissimo e quanto mai riuscito affresco di rock progressivo

Si torna a parlare di rock progressivo sulle pagine della nostra zine con l’ultima opera di Il Castello Di Atlante, storica band piemontese, attiva dal 1974 e con otto precedenti album usciti dall’inizio degli anni novanta in avanti.

L’esordio infatti è datato 1992 (Sono io il signore delle terre a nord), poi una serie di lavori che portano il gruppo fino a Cap. 8 Live di due anni fa.
Arx Atlantis è un bellissimo e quanto mai riuscito affresco di rock progressivo, che immortala la tradizione dello stivale nel genere, traghettata dal decennio settantiano fino ai nostri giorni da un numero di band dall’alto tasso qualitativo, con lavori che sono entrati di diritto nel gotha del rock progressivo internazionale.
Storie di altri tempi dai rimandi folk, stupende e ariose armonie tastieristiche, il violino che riempie l’atmosfera di melodie trasportate nel tempo, un viaggio tra racconti che donano una magica aura di immortalità, sono le prime impressioni suscitate dall’ascolto di canzoni sognanti come l’opener Non Ho Mai Imparato o Il Tempo del Grande Onore, rigorosamente cantate in italiano e suonate meravigliosamente dai sette musicisti, con l’aiuto dei tasti d’avorio di Tony Pagliuca delle ombre sulla splendida e medievale Ghino e L’Abate di Clignì.
Un genere il progressive che spesso si è chiuso in sé stesso, costruendosi un mondo a parte nel vasto panorama della musica rock, importantissimo per lo sviluppo della musica contemporanea, non solo quindi sfoggio di mera tecnica strumentale ( in abbondanza su questo lavoro) ma scrigno di emozioni senza tempo che Il Castello Di Atlante regala all’ascoltatore, come dei moderni cantastorie, menestrelli in questo mondo dove la realtà, specialmente quella più orrenda, supera la fantasia.
Ed allora salutate il mondo per una cinquantina di minuti e fatevi travolgere dalle melodie che escono sublimi dallo spartito di Arx Atalantis, opera che dalla prima all’ultima nota del capolavoro Il Tesoro Ritrovato (brano che chiude il cd), non risparmia travolgenti cambi d’ atmosfere, ritmi che si rincorrono, sinfonie progressive di rara bellezza in un crescendo
di emozioni senza fine.
Per chi ama il genere Arx Atlantis è l’ennesimo album imperdibile creato dal gruppo piemontese, l’anno di nascita ed il curriculum di cui la band si può vantare mi inducono a non parlare di influenze ma al limite di paragoni, che vanno dai Genesis ed E.L.P. ai nostri mostri sacri come Il Banco Del Mutuo Soccorso, Le Orme e PFM.

P.S. Un consiglio per i più giovani : ascoltate e riascoltate gruppi come Il Castello Di Atlante, fonte del lungo fiume di band che alimentano il mare del metallo progressivo contemporaneo.

TRACKLIST
1. Non Ho Mai Imparato
2. Il Vecchio Giovane
3. Ghino e L’Abate di Clignì
4. Il Tempo del Grande Onore
5. Il Tesoro Ritrovato

LINE-UP
Aldo Bergamini – guitar, vocals
Andrea Bertino – violin
Davide Cristofoli – piano, keyboards, synths
Massimo Di Lauro – violin on track 4
Paolo Ferrarotti – vocals, keyboards, drums on track 5
Dino Fiore – bass
Mattia Garimanno – drums

Guest:
Tony Pagliuca – keyboards on track 3

IL CASTELLO DI ATLANTE – Facebook

Tusmørke – Fort Bak Lyset

Tutto è magnifico in questo disco.

Capolavoro tra prog e folk, per questi giganti norvegesi.

Disco davvero illuminante e bellissimo per questi bardi nordici che musicano le storie del folclore della zona di Oslo, soprattutto delle storie che trattano della morte e dei mondi dentro e fuori di noi. Tutto è magnifico in questo disco, innanzitutto un senso pervasivo e fantastico di grande prog, con composizioni curatissime in tutti i dettagli, mai noiose e con un sottobosco folk quasi metal. Tute le canzoni sono suonate e cantate come se fossero favole autosufficienti, che ci conducono nottetempo per stagni, fiumi e tronchi che nascondono altre vite ed altre storie. I Tusmørke hanno imparato moltissimo dalla psichedelia settantiana anatolica, ma hanno rielaborato personalmente il tutto dando vita ad una fantastica miscela. Fort Bak Lyset significa andare dietro alla luce, e la luce dei Tusmørke si fa seguire più che volentieri. Un lavoro straordinario, di un’atmosfera incredibile, dove tutto è bellissimo, e nel quale si può praticare un vero escapismo, cercandovi e trovandovi rifugio dalla pazzia del nostro mondo. In alcuni punti possiamo addirittura sentire odore di funky psichedelico, amazing.
Ennesimo ottimo disco norvegese non black metal, conferma che la Norvegia è una ricchissima terra musicale.

TRACKLIST
1. Ekebergkongen
2. Et Djevelsk Mareritt
3. De Reiser Fra Oss
4. Fort Bak Lyset
5. Spurvehauken
6. Nordmarka
7. Vinterblot

LINE-UP
Benediktator
Krizla
HlewagastiR
The phenomenon Marxo Solinas.
DreymimaðR.

TUSMØRKE – Facebook

Messa – Belfry

Belfry dà uno stato di calma quasi eterna, un punto distaccato dal quale osservare i nostri disperati affanni, una comoda nicchia nel fresco di un ghiacciaio morto da eoni.

Incredibile debutto per questo gruppo italiano, doom con fortissime influenze anni settanta, droni possenti e volanti, il tutto fatto benissimo.

Disco per fortuna inconsueto e fuori dall’ordinario per questo gruppo nato, composto da musicisti dai più disparati bagagli musicali, dal black metal al grind, dal prog al dark ambient, al doom. Tutto ciò porta ad un risultato strabiliante per un gruppo nuovo, dato che si è formato nel 2014. Il suono dei Messa sembra un rituale pagano molto oscuro e godibile, che cattura vari immaginari, nobilitato dalla voce di Sara, sacerdotessa che ci accompagna in questo viaggio agrodolce.
Tutte le canzoni sono diverse e raccontano una storia che si intreccia con suoni e visioni diverse. Belfry dà uno stato di calma quasi eterna, un punto distaccato dal quale osservare i nostri disperati affanni, una comoda nicchia nel fresco di un ghiacciaio morto da eoni. I Messa hanno il passo dei grandi gruppi, e grande scenicità musicale, come se fossero stati portati nel mondo reale da Dario Argento in persona, perché per tutto il disco aleggia questo sentimento di horror anni settanta all’italiana. Differenti visioni musicali si amalgamano per un risultato straordinario.

TRACKLIST
1- Alba
2- Babalon
3- Fårö
4- Hour Of The Wolf
5- Blood
6- Tomba
7- New Horns
8- Bell Tower
9- Outermost
10- Confess

LINE-UP
Mark Sade: guitar/bass/ambient
Sara: Voice.
Mistyr : drums.
Albert: lead guitar

MESSA – Facebook

The Foreshadowing – Seven Heads Ten Horns

I The Foreshadowing consolidano la recente fama acquisita con un altro splendido disco.

Per una band che ha raggiunto il picco qualitativo della propria carriera il difficile viene proprio nel momento in cui bisogna dare seguito a quanto di buono fatto in precedenza, con l’obiettivo di migliorare ulteriormente o, in subordine, quello di mantenersi su uno standard quanto meno simile.

Per i The Foreshadowing la missione appariva ancor più complessa, visto che il valore assoluto di un disco come Second World ne aveva esteso la fama oltre i confini nazionali, portandoli anche ad intraprendere un tour americano in compagnia di nomi pesanti quali Marduk e Moonspell.
Nonostante il primissimo approccio con Seven Heads Ten Horns mi avesse lasciato più di una perplessità, la percezione dei contenuti dell’album è progressivamente lievitata, ascolto dopo ascolto, fino a svelarne inesorabilmente la vera natura, quella di degno successore di una pietra miliare come Second World.
I The Foreshadowing confermano così il loro valore uscendo vincenti da questa ardua prova, anche se il particolare stile esibito non rappresenta più una sorpresa, essendosi consolidato nel corso degli anni; la band capitolina in questo caso ha optato per un percepibile ammorbidimento del sound, puntando allo sviluppo di chorus dal grande impatto, di quelli che si imprimono subdolamente nella memoria e ci si ritrova a cantare quasi in maniera inconsapevole: una scelta, questa, che offre risultati eccellenti anche se viene sacrificato un pizzico di quella energia esibita nei lavori precedenti.
Del resto i nostri possiedono quella peculiarità tipica dei campioni che è l’esibizione di una cifra stilistica riconoscibile, non solo per il timbro vocale di Marco Benevento, ma anche per un gusto melodico innato che li porta ad essere, volendo un po’ forzare la mano nei paragoni, un ideale punto di incontro tra Paradise Lost, Moonspell e Depeche Mode.
Azzardato ? No, perché un brano di una bellezza stordente come Until We Fail avrebbe trovato una naturale collocazione all’interno di quel capolavoro intitolato Songs of Faith and Devotion; no, perché il background doom attinto dai maestri di Halifax si fonde mirabilmente, in canzoni come Two Horizons e Lost Soldiers, con la malinconia gotica dei lusitani.
I brani citati sono quelli che maggiormente spiccano in una tracklist priva di passaggi a vuoto, prima che la conclusiva Nimrod, traccia di quasi un quarto d’ora composta da quattro movimenti (The Eerie Tower, Omelia, Collapse e Inno al Dolore) si snodi in un magnifico crescendo emotivo, trovando la propria sublimazione in un drammatico ed emozionante finale.
Seven Heads Ten Horns è incentrato, dal punto di vista lirico, sul declino della civiltà europea, delineandone un parallelismo tutt’altro che fuori luogo con quella dell’antica Bababilonia, con tanto di metaforico crollo della torre posto come funesto epilogo di un lavoro curato sotto tutti gli aspetti, incluso quello grafico, grazie all’ennesimo visionario artwork creato dal frontman dei Septicflesh, Seth Siro Anton.
I The Foreshadowing consolidano la recente fama acquisita con un altro disco impeccabile e, francamente, alla luce dello status raggiunto e del livello espresso, si auspicano per loro ben altri palcoscenici rispetto a quelli offerti in un’italietta dalla ristretta cultura musicale.

Tracklist:
1. Ishtar
2. Fall of Heroes
3. Two Horizons
4. New Babylon
5. Lost Soldiers
6. 17
7. Until We Fail
8. Martyrdom
9. Nimrod (The Eerie Tower / Omelia / Collapse / Inno al Dolore)

Line-up:
Alessandro Pace – Guitars
Andrea Chiodetti – Guitars
Francesco Sosto – Keyboards
Marco Benevento – Vocals
Francesco Giulianelli – Bass
Giuseppe Orlando – Drums

THE FORESHADOWING – Facebook

Darkend – The Canticle Of Shadows

Farvi trascinare in un mondo circondato dall’orrore e dalla deviata spiritualità di questo enorme caleidoscopio musicale di malvagità unica, è un’esperienza che dovete assolutamente vivere se siete amanti del metal più estremo e dalle reminiscenze sinfonico orchestrali.

Una band immensa, un sound apocalittico che, pur basandosi sulle estreme note del black metal, si contorna di sinfonie, cori monastici, il tutto con una spiccata predisposizione teatrale.

Un esempio concreto e quanto mai sublime di come la scena nostrana sia cresciuta in modo esponenziale, andando oltre le più rosee aspettative, regalando monumenti di musica concettualmente estrema e profonda.
I Darkend non sono una sorpresa, il loro precedente lavoro Grand Guignol-Book I aveva fatto gridare al miracolo, questa volta perpetuato dalle forze del male, più di un addetto ai lavori e questo fenomenale ultimo parto, conferma il talento estremo del gruppo emiliano.
Symphonic black metal, per lasciarvi un’ indicazione di massima, ma qui si va oltre il già sentito, per la ricchezza di clamorose partiture estreme per fermarsi ad inutili categorizzazioni o paragoni con altre realtà: d’altronde, quando il sax crimsoniano prende il comando di A Precipice Towards Abyssal Caves (Inmost Chasm, I), non potrete che inchinarvi a cotanta genialità.
Allora un passo indietro, tanto lo so che molti, occupati a svuotare il portafogli all’uscita dell’ultimo patetico album della solita band glorificata dalle riviste di settore più cool, non conosceranno questo eccezionale combo, che vede la sua nascita una decina di anni fa, nelle pianure padane di un’Emilia lontana da lambrusco e pop corn e più vicina al signore oscuro.
Due full length all’attivo, prima di questo capolavoro: Assassine del 2010 e, appunto, Grand Guignol-Book I, uscito quattro anni fa; il gruppo si compone di cinque elementi con a capo il singer Animae superbo cantore di questo devastante girone infernale tradotto in musica.
Musica demoniaca, sinfonica e sublime, perché il male è oltremodo affascinante, ipnotizza ed ammalia, senza lasciare scampo a chi vi si avvicina senza le dovute precauzioni.
Citare ogni capitolo di questa opera oscura e magniloquente è quanto meno un’impresa, mentre invitarvi a fare vostra la glaciale perfezione della terrificante Il Velo Delle Ombre è quantomeno un’obbligo da parte del sottoscritto.
Farvi trascinare in un mondo circondato dall’orrore e dalla deviata spiritualità di questo enorme caleidoscopio musicale di malvagità unica, è un’esperienza che dovete assolutamente vivere se siete amanti del metal più estremo e dalle reminiscenze sinfonico orchestrali.
Cosa hanno di diverso i Darkend rispetto ad una qualsiasi altra band straniera? Proprio quello che fa arricciare il naso a molti, il fatto di essere italiani e di esibire tematiche occulte profondamente radicate nel loro DNA.
Dimenticavo: al disco hanno collaborato Attila Csihar (Mayhem), Niklas Kvarforth (Shining), Sakis Tolis (Rotting Christ) e Labes C. Necrothytus (Abysmal Grief), serve altro?
Devo tornare indietro di un bel po’ di anni, fino all’uscita di In The Nightside Eclipse degli Emperor, per ricordare d’aver provato qualcosa di simile ascoltando black metal, non aggiungo altro.

TRACKLIST
1. Clavicula Salomonis
2. Of the Defunct
3. A Precipice Towards Abyssal Caves (Inmost Chasm, I)
4. Il velo delle ombre
5. A Passage Through Abysmal Caverns (Inmost Chasm, II)
6. Sealed in Black Moon and Saturn
7. Congressus cum Dæmone
8. Inno alla stagione dell’inverno

LINE-UP
Valentz – Drums
Animæ – Vocals
Specter – Bass
Ashes – Guitars
Nothingness – Guitars

DARKEND – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Pino Scotto – Live For A Dream

Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.

Mi è difficile parlare di Pino Scotto, un artista che amo profondamente, non solo per la sua carriera musicale che, senza ombra di dubbio, è una della più importanti e gloriose in ambito hard rock ed heavy metal del nostro paese, ma soprattutto come persona, un uomo che incarna il mio pensiero al 100%, fuori da inutili ed obsoleti discorsi di una politica che purtroppo è diventato solo un circo, puro e fuori dagli schemi in modo talmente naturale, che quello che dice, molte volte forzando la mano, anche per una persona non più di primo pelo come il sottoscritto, diventa l’unica ineluttabile verità.

Ed è così che diventa un onore scrivere qualche riga per la nostra ‘zine sull’ultimo lavoro del rocker italiano per antonomasia, una raccolta di brani che ne ripercorre la carriera, dai Pulsar, passando per i gloriosi Vanadium, i Fire Trails e l’esperienza solista.
Un rocker che ha attraversato quarant’anni di musica rock in Italia, un paese dove ancora oggi la musica del diavolo è vista come una fastidiosa sottocultura, anche in questi ultimi anni in cui i talenti continuano a moltiplicarsi.
Con il blues signore e padrone del suo background, Pino ci delizia con questi diciotto brani dove non manca una marea di ospiti illustri della scena meta/rock tricolore, a conferma dell’eclettismo di un musicista non rinuncia a collaborare con le nuove generazioni di musicisti, che siano di provenienza metal, rock o addirittura rap.
Il suo tono graffiante da rocker navigato spadroneggia su questo nuovo Live For A Dream, gli ospiti valorizzano brani stupendi, profondi, molti composti da testi di denuncia contro un mondo ed un sistema a cui il musicista partenoopeo non ha mai concesso nulla, tirando dritto per la sua strada che continua a non avere un punto d’arrivo sul proprio navigatore.
Una truppa di talenti della scena tra cui Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie, Dario Cappanera, Stef Burns, Steve Angarthal, Rob Iaculli, Alex Del Vecchio e Fabio Treves, tra gli altri, fornisce il proprio contributo nel far risplendere questa raccolta, tra classici, ultime produzioni ed inediti (Don’t Touch The Kids e The Eagle Scream, brano scritto in memoria del suo vecchio amico Lemmy, e di cui uscirà un video).
Non mancano, chiaramente, oltre alle più datate produzioni i brani simbolo della sua carriera solista, ora più che mai sulla cresta dell’onda anche per il programma Database che conduce da ormai tredici anni su Rock Tv.
Morta La Città, Quore Di Rock’N’Roll, Signora Del Voodoo e Angus Day, e poi le stupende Dio Del Blues e Third Moon (made in Fire Trails) e via via tutte le altre, fanno di Live For A Dream una completa e suggestiva panoramica sul mondo di Pino Scotto, supportata da un DVD contenente immagini live delle registrazioni in studio, interviste e videoclips, in attesa di ritrovare in giro per i palchi nostrani per l’ennesimo tour questo inesauribile condottiero del rock’n’roll.

PS. Nel 2011, insieme a Caterina Vetro, Pino Scotto fonda Rainbow Projects, un progetto di educazione, sanità e sviluppo nato per contribuire a migliorare le condizioni di vita di bambini estremamente svantaggiati come gli orfani e le vittime di abusi in Belize, quelli della discarica di Coban in Guatemala o a forte rischio di prostituzione minorile e mendicanza in Cambogia: questo, tanto per chiarire, a chi se ne fosse fatta un’idea precostituita o travisata, di che pasta è fatto questo monumento vivente alla vera cultura rock’n’roll.
Un artista che musicisti, fans e addetti ai lavori dovrebbero solo ringraziare ogni volta che fa mattina e ci si alza dal letto …

TRACKLIST
1.Don’t Touch the Kids
2.The Eagle Scream
3.A Man on the Road
4.We Want Live Rock ‘n’ Roll
5.Easy Way to Love
6.Streets of Danger
7.Too Young to Die
8.Dio del Blues
9.Gamines
10.Leonka
11.Spaces and Sleeping Stones
12.Third Moon
13.Come noi
14.Quore di Rock ‘n’ Roll
15.Morta è la città
16.Che figlio di Maria
17.Signora del Voodoo
18.Angus Day

DVD
1.A Man on the Road
2.We Want Live Rock ‘n’ Roll
3.Easy Way to Love
4.Streets of Danger
5.Too Young to Die
6.Dio del Blues
7.Gamines
8.Leonka
9.Spaces and Sleeping Stones
10.Third Moon
11.Come noi
12.Quore di Rock ‘n’ Roll
13.Morta è la città
14.Che figlio di Maria
15.Signora del Voodoo
16.Angus Day

LINE-UP
Pino Scotto-Vocals
Roberto Tiranti, Fabio Lione, Ambramarie – Vocals
Stef Burns, Steve Angarthal, Igor Gianola, Dario Cappanera, Filippo Dallinferno, Ale “Fuzz” Regis – Guitars
Rob Iaculli, Alex Mansi, Marco di Salvia – Drums
Dario Bucca, Ciccio Li Causi – Bass
Alex Del Vecchio. Maurizio Belluzzo – Keyboards
Valentina Cariulo – Violin
Fabio Treves – Haromonica

PINO SCOTTO – Facebook

The Erkonauts – I Did Something Bad

Prodotto da Drop, bassista degli immensi Samael,I Did Something Bad è un notevole esempio di metallo alternativo dalle reminiscenze prog e punk.

Mentre il music biz ed i canali più importanti dell’informazione musicale si chiedono che futuro avrà il rock, dopo la dipartita in poco tempo di alcuni degli artisti più conosciuti che, se non altro, riempivano le arene nei festival estivi e le tasche degli organizzatori, le ‘zine di riferimento sono travolte da una serie di gruppi e album che, nel sottobosco musicale, tengono accesa la fiamma con lavori di qualità in tutti i generi musicali.

E’ clamoroso a mio avviso, il fatto che un canale televisivo come Rock TV non abbia un programma, nel suo palinsesto, che parli delle scene underground sviluppatesi in questi anni, fornendo non solo supporto ai gruppi ed alle label, sempre più in crisi, ma un’informazione più approfondita ai molti fans sparsi sul territorio.
Ci sono le ‘zine, come detto, e meno male, visto che un lavoro del livello di questo I Did Something Bad, rischierebbe di passare del tutto inosservato, specialmente se parliamo nello specifico della nostra penisola.
I The Erkonauts sono un gruppo proveniente dalla Svizzera, fondato un paio di anni fa e dove milita l’ex cantante dei Sybreed Ales Campanelli, ora insieme ai suoi ex compagni della sua prima avventura (Djizoes), con cui ha composto questo straordinario lavoro di alternative metal, ristampato quest’anno dalla Kaotoxin con l’aggiunta di due brani registrati per l’occasione, ma uscito originariamente un paio di anni fa.
Prodotto da Drop, bassista degli immensi Samael, l’album è un notevole esempio di metallo alternativo dalle reminiscenze prog, ma attenzione non aspettatevi il solito disco alla Tool o un post grunge tecnico, qui si marcia spediti sull’ottovolante del punk e del metal moderno, i brani vorticano e rapiscono come in un’improbabile jam tra Primus, Jane’s Addiction e Suicidal Tendencies, anche se a tratti spunta una vena psichedelica che fa strabuzzare occhi e puntare orecchie, laddove le sei corde strizzano l’occhio al David Gilmour di pinkfloydiana memoria (la superba Hamster’s Ghosthouse).
Punk, alternative metal, progressive moderno, e rigurgiti settantiani, sono pane per i denti di chi, senza paraocchi di sorta si avvicina a questo immenso lavoro che sfiora il capolavoro.
La band si districa nel suo stesso travolgente songwriting con maestria, le chitarre formano un muro compatto di riff, mentre Campanelli è spettacolare al microfono, enorme nei brani che esplodono sotto la cascata di watts, personale e sanguigno quando la tempesta si calma un poco (Your Wife è una supeballatona da brividi).
Non manca la componente metal, violenta ad un passo dall’estremo suonare, come un bolide sparato a trecento all’ora su di un rettilineo troppo corto per fermarsi in tempo (Machine), mentre gli strumenti continuano a far uscire dalle loro corde e bacchette, note che si alternano e cambiano pelle come un grosso rettile che, dopo averci ingoiato, lascia il segno del suo passaggio con l’involucro vuoto del suo vecchio manto.
Siamo quasi a metà di questo 2016, ed in campo alternative metal troverete molte difficoltà ad ascoltare un album che si avvicini a I Did Something Bad, ve lo assicuro.

TRACKLIST
1. The Great Ass Poopery
2. Tony 5
3. All the Girls Should Die
4. Nola
5. Dominium Mundi
6. Hamster’s Ghosthouse
7. Gog
8. Your Wife
9. 9 Is Better Than 8
10.Machine
11.Culbutos

LINE-UP
Ales Campanelli – bass, vocals
Sébastien “Bakdosh” Puiatti – guitars
Adrien Bornand – guitars
Kevin Choiral – drums

THE ERKONAUTS – Facebook

Pristine – Reboot

Il rock è vivo e vegeto, si rigenera per mezzo dei suoi figli e voi non avete scuse

Non credo che nelle fredde lande scandinave vi siano crocicchi ove si possa vendere l’anima al diavolo, così da suonare la sua musica con magico talento, eppure all’ascolto di questo lavoro, rimane il dubbio che i Pristine qualcuno abbiano incontrato, tra le strade ricoperte di ghiaccio del loro paese, la Norvegia.

Terzo lavoro per il gruppo di Oslo, dopo l’esordio del 2011 Detoxing, ed il seguente No Regret di tre anni fa, mentre la band è pronta per la calata nella nostra penisola in questo periodo, a supporto degli svedesi Blues Pills.
Capitanati dalla notevole singer Heidi Solheim, una via di mezzo tra Patty Smith, PJ Harvey e Bjork, i Pristine fanno il botto, con questo straordinario Reboot, un concentrato di rock blues ad alta gradazione emozionale, colmo di psichedelia e rock’n’roll, uno sguardo attento sul sound americano, un viaggio nei meandri più sanguigni della musica del diavolo.
Reboot è composto da un lotto di brani uno diverso dall’altro, uno più emozionante dell’altro, con il blues che spadroneggia, lasciando però spazio a momenti di psichedelia lisergica in un trionfale tributo agli anni settanta e agli dei dell’hard rock.
Il nostro viaggio tra le fiamme, nella casa di satanasso, inizia con il blues energico dell’opener Derek, i Bad Company sono lì, a farci l’occhiolino, mentre senza voltarci saliamo sul dirigibile zeppeliniano con All My Love.
All I Want Is You è il primo tuffo nella psichedelia, un blues drammatico ricamato da una chitarra pinkfloydiana e da un hammond dai colori porpora, che ritroveremo nel capolavoro The Middlemen, ma prima c’è da muovere le natiche con il rock’n’roll di Bootie Call seguito dal blues messianico della title track.
The Middlemen, il capolavoro di questo album, canzone lisergica ed emozionale, valorizzata da una prova sontuosa della vocalist e dell’axeman Espen Elverum Jakobsen, porta il gruppo norvegese molto vicino all’olimpo dove riseidono i grandi; con l’inno California, la song più moderna e hard rock dell’intero lavoro, il sole brucia l’asfalto e siamo lontani dal freddo norvegese, con la temperatura che sale con il blues tragico (cantato dalla Solheim con un trasporto tale da sconvolgere) di Don’t Save My Soul.
The Lemon Waltz chiude il lavoro, una ballad rock blues che ricorda nei suoi accordi e armonie i Beatles di Sgt.Peppers, chiudendo un cerchio iniziato con i Bad Company, i Led Zeppelin, i Pink Floyd e l’america sudista raccontata dai The Allman Brothers Band e Grand Funk Railroad.
Reboot è un album superbo, un esempio di come nel 2016 si può suonare rock ad altissimi livelli, prendendo ispirazione dalle proprie influenze ma senza risultare patetici come molti dinosauri inchiodati al proprio portafoglio.
Il rock è vivo e vegeto, si rigenera per mezzo dei suoi figli e voi non avete scuse, fatelo vostro.

TRACKLIST
1.DEREK
2.ALL OF MY LOVE
3.ALL I WANT IS YOU
4.BOOTIE CALL
5.REBOOT
6.THE MIDDLEMEN
7.CALIFORNIA
8.LOUIS LANE
9.DON’T SAVE MY SOUL
10.THE LEMON WALTZ

PRISTINE . Facebook

Wonderworld – II

Un ascolto piacevole che ci prende per mano accompagnandoci in territori cari a Uriah Heep, Led Zeppelin, Deep Purple era Hughes e Coverdale, con una sound grintoso e raffinato, irruente ed estremamente elegante, come ci hanno abituato da tempo tutti il lavori che vedono coinvolto Tiranti.

Secondo lavoro per la band italo/norvegese Wonderworld, che vede il nostro Roberto Tiranti insieme alla coppia di musicisti scandinavi Ken Ingwersen e Tom Fossheim, rispettivamente alla chitarra e alla batteria.

Anche questo secondo lavoro si distingue per un elegante classic rock di scuola settantiana, pennellato di blues e soul, suonato divinamente e dal songwriting sontuoso.
Scritto a quattro mani da Tiranti e Ingwersen, II conferma ancora una volta l’eclettico talento del musicista genovese, instancabile artista e vocalist sopraffino, alle prese con questa raccolta di brani che svaria tra ruvidità ed eleganza, grinta e melodia, vorticosi sali e scendi nel rock e nell’hard & heavy di stampo classico.
Gruppo di tre elementi, quindi pochi fronzoli e sound che va dritto al punto, con un Ingwersen che si dimostra chitarrista fenomenale, raffinato quando i brani lo richiedono, tostissimo quando le atmosfere si irrobustiscono ed il gruppo se ne esce potenti bordate hard rock.
Sempre magistrale il lavoro di Tiranti al microfono e chirurgico il drumming di Fossheim, così che II si rivela un altro bellissimo album caratterizzato da sonorità classiche, magari poco considerate nel superficiale mondo del music biz odierno, ma assolutamente imprescindibili per gli amanti della buona musica.
Le ritmiche raffinate di brani come Elements, It’s Not Over Yet e Echo Of My Thoughts si scontrano con le atmosfere adrenaliniche di Evil In Disguise, Forever Is The Line e della sabbathiana In The End; in mezzo una serie di songs che fanno dell’hard rock raffinato il loro credo, magistralmente interpretate da questo power trio, che non lascia da parte emozionalità e feeling.
Un ascolto piacevole che ci prende per mano accompagnandoci in territori cari a Uriah Heep, Led Zeppelin, Deep Purple era Hughes e Coverdale, con una sound grintoso e raffinato, irruente ed estremamente elegante, come ci hanno abituato da tempo tutti il lavori che vedono coinvolto Tiranti.
Non perdete altro tempo e fate vostro questo bellissimo album, ulteriore dimostrazione dell’immortalità della nostra musica preferita, specialmente se suonata a questi livelli.

TRACKLIST
1. Forever Is A Lie
2. Remember My Words
3. Elements
4. It’s Not Over Yet
5. Echo Of My Thoughts
6. The Evil In Disguise
7. Return To Life
8. Memories
9. In The End
10. Down The Line

LINE-UP
Roberto Tiranti – vocals, bass
Ken Ingwersen- Guitars
Tom Fossheim- Drums

WORDERWORLD – Facebook

Tombstoned – II

I Tombstoned sono un gruppo particolare e qui lo confermano nettamente, producendo un disco fantastico.

Tornano questi giganti finlandesi del doom rock, con il secondo capitolo su lunga distanza.

Dopo un ottimo album omonimo nel 2013 pubblicato dalla fondamentale Svart Records, che li ha portati a suonare al Roadburn di quell’anno, ecco il nuovo capitolo. Ed è al livello del precedente, se non migliore, ma i Tombstoned vanno ascoltati ed assaporati disco dopo disco. Rispetto all’esordio alcune cose sono cambiate, il suono è sempre un piacevolissimo doom rock fortemente influenzato dagli anni settanta, ma per niente derivativo. Vivendo in nazioni differenti i membri del gruppo hanno accentuato il carattere jam session dei loro brani, ed il risultato è ottimo, lunghi riff con ottime melodie che sanno dove andare e cosa fare. il tutto con composizioni di ottima qualità.
I Tombstoned non hanno vissuto tempi facili ultimamente e la loro musica è più oscura rispetto al passato, anche il cantato è mutato, divergendo dall’iniziale carattere sabbatiano per trovare qualcosa di più simile al post punk. II è un disco molto affascinante e con un timbro dominante e forte. L’approccio totalmente analogico all’incisione da quel tocco di calore che rende ancora più magica questa musica. I Tombstoned sono un gruppo particolare e qui lo confermano nettamente, producendo un disco fantastico.

TRACKLIST
1. Pretending to Live
2. Brainwashed Since Birth
3. Time Travels
4. And I Told You
5. Haven’t We Seen All This Before
6. You Can Always Close Your Eyes
7. Remedies

LINE-UP
Akke – Drums
Olavi – Bass
Jussi – Guitar & Vocals

TOMBSTONED – Facebook

Gabriels – Fist Of The Seven Stars, Act 1 Fist Of Steel

Opera che rasenta il capolavoro, il secondo album di Gabriels è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese

La label genovese Diamonds Prod., dopo aver licenziato il bellissimo album del progetto Odyssea di Pier Gonella e Roberto Tiranti, pesca un altro gioiello metallico, il secondo lavoro solista del musicista e compositore siciliano Gabriels, che torna sul mercato tra anni dopo il notevole Prophecy, un concept ispirato ai fatti dell’undici settembre 2001.

Gabriels si contorna, come nel primo album, di un manipolo agguerrito di talenti della scena metallica nazionale e non solo, portando in musica le gesta dei protagonisti del manga e anime Hokuto No Ken di cui il musicista è cultore.
Fist Of Steel è il primo capitolo di una trilogia intitolata Fist Of The Seven Stars, dunque un concept oltremodo ambizioso e, almeno in questa prima parte, il risultato è quantomai eccellente.
I musicisti che hanno aiutato Gabriels in questa avventura sono tanti, chi come membro fisso della line up, chi come special guest, contribuendo a rendere l’album un manifesto sontuoso di musica fieramente metallica, melodica e orchestrale.
Da Wild Steel, Marius Danielsen, Dario Grillo, Dave Dell’Orto e Ida Elena splendidi interpreti al microfono, all’apporto strumentale dei vari Glauber Oliveira (Dark Avengers), Stefano Calvagno (Metatrone), Francesco Ivan Sante’ Dall’O tra gli altri alla sei corde, Andrea “Tower” Torricini dei Vision Divine al basso e chitarra, tanto per citare alcuni dei musicisti impegnati, rendono quest’opera un’escalation di emozioni, capitanati ovviamente dai tasti d’avorio di Gabriels, alle prese con hammond, synth e pianoforte accompagnandoci nel mondo eroico della leggenda di Hokuto No Ken, famosissima in tutto il mondo.
Il sound si discosta leggermente dal mood del primo lavoro, che a più riprese ricordava l’hard rock orchestrale dei danesi Royal Hunt: Fist Of Steel risulta più power oriented, specialmente nella prima parte con la title track e She’s Mine che fanno decollare l’album fino ad elevate vette qualitative con la melodica Seven Stars e la power A New Beginning, song che avvicina il sound ai primi lavori dei tedeschi Edguy.
Il cuore dell’album è lasciato a tre brani superbi per intensità e prestazioni vocali: Break Me, My Advance e To Love, Ever Invain, mentre Black Gate ci riporta su ritmiche power metal.
Revenge Invain e Decide Your Destiny chiudono questo primo capitolo al meglio, con un’apoteosi di suoni orchestrali, nobile metallo sinfonico, cori epici ed emozioni che crescono a dismisura, mentre le note che le dita di Gabriels fanno scaturire dalle tastiere, formano arcobaleni di scale melodiche sopraffine.
Opera che rasenta il capolavoro, la prima parte di quello che diventerà un lavoro monumentale è l’ennesima conferma del talento in possesso, non solo del musicista siciliano, ma di molti protagonisti della scena underground metallica del nostro paese; è davvero l’ora di tagliare il cordone ombelicale che vi lega ai sempre più imbolsiti dinosauri di ere passate tuffandovi nella musica del nuovo millennio che, con rispetto, guarda al passato ma vive nel presente ed è pronta per un roseo futuro: scegliere questo lavoro per farlo sarebbe il migliore inizio.

TRACKLIST
1) Fist of Steel
2) She’s mine
3) Mistake
4) Seven Stars
5) A new beginning
6) Break me
7) My Advance
8) To love, ever invain
9) Sacrifice
10) Black Gate
11) Revenge invain
12) Decide your destiny

LINE-UP
Gabriels: All the Keyboards, Piano, Synth, Hammond and background vocals
Wild Steel : Vocals
Dario Grillo : Vocals
Marius Danielsen: Vocals
Ida Elena : Vocals
Dave Dell’Orto : Vocals
Iliour Griften : Background Vocals
Glauber Oliveira : Guitars
Stefano Calvagno : Guitars
Giovanni Tommasucci : Guitars
Francesco Ivan Sante’Dall’O : Guitars
Angelo Mazzeo : Guitars
Tommy Vitaly : Guitars
Dino Fiorenza : Bass
Christian Cosentino : Bass
Simone Alberti : Drums

Guests:
Andrea “Tower” Torricini : Bass and Guitars
Davide Perruzza : Guitars

GABRIELS – Facebook

Dark Oath – When Fire Engulfs the Earth

Non poteva che esserci la Wormholedeath dietro alla pubblicazione di When Fire Engulfs the Earth, primo full length di questo quartetto proveniente da Coimbra, non un caso, visto la notevole qualità dei prodotti firmati dalla label nostrana che non si è fatta sfuggire neppure i Dark Oath.

Il gruppo ha all’attivo due ep, usciti tra il 2010 e il 2012 (Under a Blackened Sky e Journey Back Home), primi passi verso quello che di fatto risulta la glorificazione del concept dei Dark Oath, un death metal epico, sinfonico e guerresco, che poco ha della tradizione metallica del loro paese, guardando invece ai paesi nordici e non solo, mantenendo una personalità sorprendente per una band al debutto.
Dotati di una guerriera vichinga al microfono, nella persona di Sara Leitão, singer da aggiungere al novero di Angela Gossow e compagnia, e avvalendosi di un songwriting in stato di grazia, i Dark Oath conquistano un posto d’onore per quanto riguarda le migliori uscite del genere in questo primo scorcio dell’anno del signore 2016.
Il loro sound esplode letteralmente in un’epica battaglia senza soluzione di continuità, metal bombastico, estremo ed oscuro, un assalto al fosso di Helm musicale in cui gli scudi si spezzano, le lame tagliano la carne e gli sciacalli si dissetano dopo aver banchettato con i cadaveri degli eroi, dalla vita spezzata da una lancia.
Senza tregua per più di un’ora, la mente viaggia tra il campo di battaglia, con un furore da tregenda, un epico orgoglio e tanta violenza in una musica lanciata alla velocità della luce, intervallata da chorus magniloquenti; le ritmiche forsennate fanno da tappeto sonoro all’unisono con orchestrazioni da brividi alle varie Land Of Ours, Battle Sons, Thousands Beasts, Wrath Unleashed, le asce ricamano riff e solos melodici ed il gruppo disegna atmosfere di scontri all’ultimo sangue.
I Dark Oath mostrano le stesse capacità dei Bal-Sagoth, ma risultando rispetto a questi più death oriented, di proporre atmosfere leggendarie, in un vortice continuo di sonorità estreme da apocalisse, e stupiscono per come riescono a tenere l’ascoltatore incollato alle cuffie, travolgendolo con la stessa carica degli eserciti alla conquista della gloria …

TRACKLIST
1. Land of Ours
2. The Tree of Life
3. Battle Sons
4. Watchman of Gods
5. Thousand Beasts
6. Death of Northern Sons
7. Wrath Unleashed
8. Vengeful Gods
9. When Fire Engulfs the Earth
10. Brother’s Fall

LINE-UP
Sara Leitão – Vocals
Joël Martins – Guitar, Orchestrations
Sérgio Pinheiro – Guitar, Back vocals
Afonso Aguiar – Bass

DARK OATH – facebook

Grey Heaven Fall – Black Wisdom

In quest’album non si inseguono vanamente i nomi di punta del black/death, bensì vengono ampliati non poco gli orizzonti sonori grazie ad un impeto avanguardistico sempre equilibrato e ben sorretto dalla tecnica individuale.

I russi Grey Heaven Fall sono una realtà ben più che interessante, in quanto portatori di una proposta musicale a suo modo originale o, perlomeno, capace di differenziarsi il giusto dalla massa riuscendo così a spiccare in maniera netta.

Infatti, nel black/death che ne costituisce l’asse portante, il trio di Podolk immette un tecnicismo asservito al mantenimento di una tensione costante del sound, ed è proprio grazie a ciò che la bravura di questi musicisti non resta un esercizio fine a sé stesso e trova sbocco, invece, in un’ora di musica certamente impegnativa, ma talmente ricca di spunti da riuscire nell’intento di tenere alla larga ogni parvenza di noia.
Quelli che, in molti dischi prodotti da band con la stessa attitudine, si rivelano passaggi solo cervellotici, in Black Wisdom si ammantano di oscurità, giungendo persino ad evocare un mood malinconico che parrebbe antitetico alle robuste partiture della band russa: in quest’album non si inseguono vanamente i nomi di riferimento del genere suonato, bensì vengono ampliati non poco gli orizzonti sonori grazie ad un impeto avanguardistico sempre equilibrato e ben sorretto dalla tecnica individuale.
Black Wisdom trova la sua sublimazione in un ascolto attento e non frammentato, essendo un album che va consumato nella sua interezza perché possa appagare in maniera totale tutti i sensi: già, perché qui la tensione prodotta da un sound di rara profondità si assapora, si tocca, si annusa e si osserva; velenosa ed amara, come i suoi testi critici nei confronti della religione (cantati in lingua madre ma lodevolmente restituiti in inglese nella confezione curata dalla Aesthetics Of Devastation), la musica dei Grey Heaven Fall si esalta nella sua reiterazione, annichilendo una potenziale concorrenza magari di pari livello per maestria tecnica ma inferiore per efficacia e sintesi del songwriting.
Cito ad esempio solo To The Doomed Sons Of Erath, un brano che lacera l’anima con le sue dissonanze che non riescono ad imprigionare un afflato melodico e drammatico come di rado è dato ascoltare, ma mi spingo a anche a rimarcare assoli chitarristici di grande classe che spiccano come oasi improvvise nel cuore di maelstrom sonori quali Spirit of Oppression e That Nail in a Heart ; black, death, doom, progressive, ambient, in Black Wisdom entra tutto questo ma viene risputato fuori in una forma che non appartiene di diritto ad alcun illustre progenitore.
Vi diranno che ci possono essere somiglianze con il black avanguardistico di band come Deathspell Omega o Blut Aus Nord: sarà anche vero, ma secondo me i Grey Heaven Fall superano a tratti anche questi inattaccabili esempi, in virtù di un’espressione sonora che nasce da un sentire profondo, da un’inquetuidine che trova sfogo in una furia metronomica ma nel contempo inarrestabilmente creativa.
Black Wisdom è un disco che quando entrerà in circolo lascerà strascichi irreparabili, sappiatelo.

Before trying to find God in beauty, look for him in the deepest abomination

Tracklist:
1.The Lord is Blissful in Grief
2.Spirit of Oppression
3.To the Doomed Sons of Earth
4.Sanctuary of Cut Tongues
5.Tranquillity of the Possessed
6.That Nail in a Heart

Line-up:
Arsagor – Guitars, Vocals
SS – Bass
Pavel – Drums

GREY HEAVEN FALL – Facebook

Hollow Leg – Crown

Un disco praticamente perfetto, un’opera incentrata sul serpente Set che sta dominando il mondo, un suono che come un serpente si snoda e torna su stesso, per alzarsi verso il cielo.

Un disco praticamente perfetto, un’opera incentrata sul serpente Set che sta dominando il mondo, un suono che come un serpente si snoda e torna su stesso, per alzarsi verso il cielo.

Terzo disco per gli Hollow Leg, secondo su Argonauta Records. Rispetto a ad Abysmal del 2013 la ricerca di un suono che possa essere infestato da vari generi continua. La base di impasto è lo sludge stoner, ma questo disco, come gli Hollow Leg stessi, sono fortemente southern, sia per la loro provenienza floridiana che per la loro musica. La produzione perfetta, anche grazie alla masterizzazione di Sanford Parker dei Corrections House, mette in primo piano questo miracolo sonoro, che senza tanti effetti od acrobazie toglie la patina a qualcosa di davvero antico e lo rende in musica. Tutto il disco non ha un momento di cedimento, la lancetta rimane sempre in alto, creando un’atmosfera davvero unica. Un altro grosso valore di Crown è la ragione per la quale è stato concepito. Questo disco parla di Set e di come il dio serpente sta dominando il mondo. La sua dominazione è sottile, eppure è sotto i nostri occhi in qualsiasi momento della nostra vita. Le stigmate del serpente sono possessione e schiavitù, che sono le parole d’ordine del nostro sistema economico e di vita. Solo il serpente può mangiare la sua corona, e noi lo riforniamo quotidianamente di energia. Tutto ciò lo ritroviamo in Crown, un disco che ha davvero un peso specifico, una forza incredibile, come un gas che passa sotto le porte ed arriva ovunque. I riferimenti possono essere trovati volendo, ma gli Hollow Leg sono unici e questo disco lo conferma. La prima edizione sarà limitata a 250 copie in vinile colorato.

TRACKLIST
SIDE A
1.Seaquake
2.Coils
3.The Serpent in the Ice
4.Atra
5.Side B
6.Electric Veil
7.Seven Heads
8.New Cult

LINE-UP
Brent
Tim
Scott
Tom

HOLLOW LEG – Facebook

Riccardo Storti / Fabio Zuffanti – Prog Rock: 101 dischi dal 1967 al 1980

Prog Rock è un libro che nasce dalla voglia di trasmettere senza alcuna reticenza un sapere che è frutto, anzitutto, di una grande passione per la musica.

Entrando in qualsiasi libreria, ci si trova spesso di fronte a volumi, talvolta ponderosi, intitolati i “100 migliori dischi del ….” dove, al posto dei puntini, si può inserire un genere musicale a piacere.

Parliamo, quindi, di un tipo di operazione che sovente si rivela piuttosto arida, trasformandosi in una sequela di recensioni postume raggruppate in un volume, per di più con la pretesa nemmeno troppo velata, da parte dell’autore, di attribuire un valore assoluto alle proprie scelte.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere, allora, perché possa valere la pena di acquistare questo Prog Rock – 101 dischi dal 1967 al 1980: ebbene, a parte la scelta bizzarra di non voler fare cifra tonda, la differenza sostanzialmente sta soprattutto in chi lo ha scritto e nelle modalità di selezione dei dischi prescelti.
Gli autori di quest’opera sono infatti i genovesi Fabio Zuffanti, uno dei musicisti contemporanei dediti al progressive tra i più noti ed attivi nella scena italiana, e Riccardo Storti, grande esperto della materia e suo compagno d’avventura nella trasmissione televisiva Astrolabio, in onda su Teleliguria, in collaborazione con il Centro Studi per il Progressive Italiano.
In questo caso i due autori riescono a completarsi alla perfezione, per cui alla competenza tecnica del musicista si aggiunge la conoscenza enciclopedica del saggista/appassionato, dando vita ad un lavoro che, pur non avendo l’ambizione d’essere esaustivo, rappresenta uno spaccato fondamentale di un movimento musicale che, volenti o nolenti, in quegli anni non ha solo cambiato il corso della musica, ma ha costituito una vera e propria espressione culturale a sé stante, trovando un terreno particolarmente fertile nel nostro paese.
Il libro è stato inizialmente ideato dal solo Zuffanti (che, per chi lo ignorasse, è il fondatore di band come Finisterre, Höstsonaten, La Maschera di Cera e, oggi, è attivo con il progetto che porta il suo nome), il quale, scelti i 101 dischi, è ricorso al fondamentale aiuto dell’amico per completare un lavoro mastodontico che ha richiesto diversi anni di lavoro, non essendo stato lasciato nulla al caso nella descrizione di ogni album, fin nei suoi più reconditi dettagli.
Come sottolineato argutamente da qualcuno, in occasione della presentazione del libro avvenuta presso la Libreria Feltrinelli nel capoluogo ligure, di fatto le scelte effettuate da Zuffanti sono inattaccabili in quanto dichiaratamente soggettive, prive quindi dell’ambizione di trasformare un elenco di preferenze in una vera e propria classifica da imporre al lettore.
Nonostante tutto, nel fare questo, i nostri sono ricorsi ad un stratagemma, ovvero quello di non citare più di un album accreditato ad ogni singola band (o musicista): in tal modo si è evitato di saturare il libro con le intere discografie dei gruppi maggiori (King Crimson su tutti, come affermato esplicitamente parlando di In The Wake Of Poseidon), optando piuttosto per una disamina della singola opera, integrata da una panoramica su tutti i restanti lavori.
Un altro criterio utilizzato, che potrebbe far storcere il naso a qualcuno tra gli appassionati più integralisti, è stato quello ampliare lo spettro delle scelte a tutta la musica definibile progressiva in senso lato, intendendo come tale quella che all’epoca sfuggiva alle regole del pop ed alla codificata alternanza strofa-ritornello: questo ha fatto sì che il primo disco ad essere preso in esame sia stato niente meno che Sgt.Pepper dei Beatles, mentre in chiusura è stato collocato Symphonye Celtique del bardo Alan Stivell.
E’ evidente quanto questi due nomi siano d’istinto difficilmente collocabili all’interno del genere così come lo abbiamo sempre inteso, con la logica del negozio di dischi che ha la necessità di incasellare cd o vinili in un settore piuttosto che in un altro, ma è anche grazie a questo che molti, magari, scopriranno che quell’Alan Sorrenti dai più ricordato come la pop star bianco vestita che cantava Figli delle Stelle, è lo stesso autore di Aria, uno dei dischi fondamentali per l’intero movimento.
E ancora, se tra gli artisti italiani troveremo figure “insospettabili” come Battisti, Branduardi, Fortis, Lolli o, un po’ meno a sorpresa, Battiato, non mancano tutti i nomi storici più ordinariamente associabili al genere (inutile citarli), italiani e non, oltre che aperture verso il cosiddetto kraut rock, rappresentato dai dischi di Tangerine Dream, Popol Vuh e Klaus Schulze.
Il libro si occupa, quindi, per lo più di nomi noti ma senza ignorare realtà misconosciute, come diversi gruppi operanti al di là di quella che, a quel tempo, veniva definita “cortina di ferro”; anche per questo il lavoro di ricerca effettuato da Storti e Zuffanti acquisisce ulteriore valore, alla luce delle innumerevoli notizie che accompagnano anche la descrizione di album che non riscossero successo neppure all’epoca.
Per assurdo, proprio la dovizia di particolari talvolta appesantisce la lettura, specie quando si vivisezionano singoli brani spaccando il minuto ed i secondi, oppure quando l’analisi della tecnica musicale si trasforma in terreno per iniziati, risultando non sempre di facile comprensione per chi non sa tenere in mano uno strumento.
Un eccesso di zelo del tutto perdonabile, derivante da una voglia di trasmettere senza alcuna reticenza un sapere che è frutto, anzitutto, di una grande passione per la musica: Prog Rock è un libro che andrebbe letto e riletto dai più giovani, i quali avrebbero così la possibilità di scoprire che le sonorità amate dai loro genitori sono ancora più che mai attuali, nonostante i parametri odierni di misurazione del tempo sembrino farli risalire ad epoche ancor più remote.
Nel contempo, dai più attempati miei coetanei auspicherei una maggiore apertura verso quanto viene prodotto ai giorni nostri, perché il “pericolo” derivante dalla lettura un libro come questo, per gli appassionati di prog che hanno superato gli ‘anta, è proprio quello di farli ripiegare ancor più su un momento della storia musicale a suo modo irripetibile, spingendoli a trascurare per partito preso chi cerca di promulgarne la tradizione rielaborandola con un sentire più moderno.
In sintesi, la mia esortazione è: andiamo pure a goderci i concerti delle band storiche ancora attive o delle stesse tribute band, che ripropongono con rigore quasi filologico le gesta dei grandi del passato, ma non dimentichiamo mai di supportare anche chi propone musica originale, per favore …

P.S.: Non riuscendo a resistere alla tentazione di individuare un album mancante in Prog Rock (sempre in ossequio a quella soggettività nelle scelte che sta alla base dell’opera, sia chiaro), un giochino che coinvolgerà fatalmente chiunque lo avrà tra le mani, indico Before And After Science di Brian Eno, datato 1977: neppure questo si può definire un lavoro ortodossamente progressive ma, con i criteri di inserimento adottati, non avrebbe affatto sfigurato.

pagine 409
€25.00

FABIO ZUFFANTI – Bandcamp

RICCARDO STORTI – Facebook

FABIO ZUFFANTI – Facebook

Mourning Sun – Último Exhalario

Último Exhalario è un disco che travalica i generi e lascia inermi al cospetto delle sua bellezza, facendo apparire inadeguato od enfatico ogni aggettivo usato per descriverlo.

Sfolgorante esordio su lunga distanza dei cileni Mourning Sun, i quali hanno il merito di riportarci con la mente alla metà degli anni ’90, quando il  doom melodico con voce femminile era in realtà una mera trasposizione della poesia in musica, resa unica da interpreti divine quali Kari Rueslåtten e Anneke Van Giersbergen.

Ana Carolina, la talentuosa ragazza che presta la propria voce alla riuscita dell’album della band di Santiago, ne è degna e legittima erede, con la sua voce eterea, cristallina, tanto da apparire talvolta acerba, tale è la purezza che riesce ad emanare in ogni passaggio.
Último Exhalario è un lavoro di una bellezza straniante: qui l’enfasi metallica si manifesta in quantità omeopatica ed il doom costituisce solo un approdo spirituale, nel quale i Mourning Sun vengono collocati più per affinità elettive che non per stile musicale vero e proprio.
Allo spegnersi dell’ultima nota di Anguish vi ritroverete a volerne ancora, di questa musica che nutre l’anima prima che il corpo, e trentacinque minuti rischiano di non essere del tutto sufficienti a saziarvi, specie dopo averne assaporato i sublimi aromi.
Vena Cava è una canzone dal fascino quasi insostenibile, con la chitarra a mantenere un tono costantemente minaccioso quanto soffuso, prima di aprirsi in un finale che avrebbe avuto ampio diritto di cittadinanza in quel capolavoro intitolato Mandylion.
Spirals Unseen regala i principali passaggi contraddistinti da quella robustezza assimilabile ad un gothic doom più canonico, ma il sax che entra in scena attorno al quarto minuto spariglia definitivamente le carte, e non vanno certo ignorati altri due gioielli come la title track, rarefatta inizialmente per poi farsi drammatica nella sua parte conclusiva, e Cabo De Hornos, dove la sirena Ana attira a sé, senza alcuna possibilità di resistere al suo canto, i marinai alle prese con una dei tratti di mare più perigliosi del pianeta.
Sebastián Castillo ed Eduardo Poblete si rivelano musicisti eccellenti: il primo con la sua chitarra accompagna senza mai prevaricare la carezzevole voce di Ana, mentre il secondo lega il suono con rara raffinatezza ed altrettanta sobrietà tastieristica.
Último Exhalario è un disco che, semplicemente, travalica i generi e lascia inermi al cospetto delle sua bellezza, facendo apparire inadeguato od enfatico ogni aggettivo usato per descriverlo.
Resta solo da aggiungere una cosa, molto banale: ascoltatelo, più e più volte, senza farvi distrarre da qualche passaggio apparentemente interlocutorio, che è in realtà propedeutico agli abbacinanti lampi emotivi regalati da questa stupenda band.

Tracklist:
1. Último exhalario
2. Vena Cava
3. Hoowin (Mythic Ancestors)
4. Spirals Unseen
5. Cabo de hornos (Cape Horn)
6. Anguish (Prelusion)

Line-up:
Claudio Hernández – Drums
Sebastián Castillo – Guitars
Eduardo Poblete – Keyboards
Ana Carolina – Vocals, Lyrics

MOURNING SUN – Facebook