Theta – Obernuvshis’

Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato.

Prima prova su lunga distanza per Theta, progetto solista del musicista lombardo Mattia Pavanello, dopo l’uscita di un ep intitolato LXXV che aveva anticipato le coordinate sonore di una delle realtà più inquietanti in ambito musicale tricolore.

Pavanello è conosciuto per la sua militanza in band come Heavenfall e Furor Gallico, oltre che per una collaborazione illustre con i Folkstone, quindi sorprende in qualche modo ritrovarlo alle prese con un sound decisamente antitetico come il funeral doom dai tratti dronici e sperimentali offerto in Obernuvshis’.
Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato: Mattia dimostra di conoscere alla perfezione il genere senza però seguirne le coordinate pedissequamente, consentendo alla sua ispirazione di incanalarsi di volta in volta in flussi differenti che vedono la componente funeral preponderante, ma arricchita ed integrata da ambient, drone, sludge e qualche venatura di post metal.
Del resto Theta nasce come progetto in grado di incanalare le diverse pulsioni compositive di Pavanello verso un sound oscuro, privo di lampi di positività ma non per questo scevro di un buon impatto melodico: in poco più di tre quarti d’ora, Obernuvshis’ riesce a scuotere menti intorpidite dall’ascolto di dischi prodotti con il pilota automatico, grazie a soluzioni per nulla scontate.
Come già accennato, però, il punto di forza di un album come questo è il suo essere ascoltabile, pur essendo di fatto costruito su un’impalcatura atta ad evidenziare il lato oscuro dell’esistenza: a tale proposito il nostro evita di rifugiarsi nella cripticità sovente fine a sé stessa del rumorismo, per provare invece a creare un coinvolgimento, anche emotivo, ma è chiaro che la fruibilità di cui si accennava poc’anzi è strettamente connessa al background musicale di chi si accosta all’operato di Theta, rivolto soprattutto ad estimatori del doom dalla comprovata dimestichezza con il genere.
Come avviene spesso in questi casi, la suddivisione in tracce lascia il tempo che trova, sicché l’album va ascoltato e sviscerato nel suo complesso, con picchi qualitativi rinvenibili un po’ in tutti gli episodi fino al bellissimo epilogo di Concrete And Foundation, dove Pavanello dimostra le sue doti di chitarrista anche con un dolente ed ispirato assolo che chiude nel migliore dei modi un’opera di grandissimo pregio.

Tracklist:
1.Travel Far Into The Black Hole Depths
2.Ruins Of Inari
3.Butterfly’s Cycle
4.Harshness Of A
5.Concrete And Foundation

Line-up:
Mattia Pavanello – Guitars, Bass, Drum Programming, Synths and Sampling

THETA – Facebook

Davide Berardi – Fuochi e Fate

Fuochi e Fate raccoglie ed imprime sullo spartito storie di vita raccontate con l’ausilio della musica, rock/pop nel più ampio senso del termine.

Rock d’autore sulle pagine di MetalEyes con Davide Berardi ed il suo Fuochi e Fate, album che ha potuto vedere la luce per merito del sempre più diffuso crowdfunding, con il quale i musicisti si affidano alla generosità dei propri ascoltatori per la realizzazione dei loro progetti.

Fuochi e Fate è un live registrato negli studi della Joe Black Production dove Berardi, in compagnia di Umberto Coviello (batteria e chitarra), Antonio Vinci (piano e tastiere) e Mino Indraccolo (basso), ci avvolge in un caloroso abbraccio fatto di rock d’autore, ombre jazzate e luci di musica fusion che raccontano undici storie, tra il serio ed il faceto, storie di vita, malinconiche e spiritose, perse nelle vicende quotidiane che potrebbe essere quell di ognuno di noi.
Il gruppo suona con maestria e talento, la musica scivola accompagnando i testi, maturi e sempre con un velo di ironia nascosta anche tra le pieghe più seriose dell’esistenza.
E’ originale la scelta di un live senza il pubblico, di un album in presa diretta con il quale il musicista interagisce con i suoi ascoltatori forte di un lotto di canzoni piacevoli come Bruxelles, Sudamerica e Povero Fesso.
Detto della cover di La Cura, l’immortale capolavoro di Battiato, ricordo che una parte del ricavato della vendita del disco verrà devoluta alla cooperativa sociale Eridanio, fondamentale per la realizzazione dell’opera.
Fuochi e Fate raccoglie ed imprime sullo spartito storie di vita raccontate con l’ausilio della musica, rock/pop nel più ampio senso del termine.

Tracklist
1. Povero Fesso
2. Indescrivibile
3. Bruxelles
4. Supervisionario
5. Mi Sento Una Formica
6. I Piedi E Gli Occhi
7. Roba Da Poco
8. La Cura
9. Che Meraviglia
10. Sudamerica

Line-up
Davide Berardi – Voce, Chitarra
Umberto Coviello – Batteria, Chitarra
Antonio Vinci – Piano, Tastierre
Mino Idraccolo – Basso

DAVIDE BERARDI – Facebook

La Cuenta – La Confessione di Antonius Block

Un lavoro magnifico, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate da Bergman con Il Settimo Sigillo.

Quarto impressionante full length per i fiorentini La Cuenta, autori di uno sludge doom che si muove su binari tutt’altro che scontati, nonostante i concreti rischi che si corrono quando si struttura un lavoro in maniera simile.

Qui, infatti, troviamo un solo brano di circa trentacinque minuti, nel corso del quale la chitarra di Matteo Gigliucci urla e reitera le sue note, ben sostenuta dal violoncello dell’ospite Naresh Ran, creando un tessuto sonoro ossessivo e straniante, ottimamente sorretto dal lavoro percussivo di Nicola Savelli, ma alla resa dei conti, neppure troppo ostico all’ascolto, almeno per orecchie adeguatamente allenate.
Intendiamoci, la musica di immediata fruibilità è tutt’altra cosa, ma in quest’opera on si rinviene un rumorismo dronico fine a sé stesso e neppure una serie di suoni affastellati l’uno sull’altro contro ogni logica, bensì una linea armonica ben distinguibile, specie nella parte iniziale, prima che i campionamenti tratti dal bergmaniano Il Settimo Sigillo (del quale l’Antonius Block del titolo è il protagonista) irrompano, con il personaggio interpretato da Max Von Sydow (qui con la voce del doppiatore Emilio Cigoli) a farsi portavoce di una serie di quesiti destinati a restare irrisolti.
Per almeno una ventina di minuti il flusso sonoro si insinua nell’udito in maniera irresistibile e l’effetto è talmente soffocante che, quando interviene un cambio di registro, il respiro invece di aprirsi si blocca prima di ritrovare qualche particella di ossigeno; poi, quando si ode Block iniziare la sua confessione, a prendere la scena è la spinta sperimentale, anche se la tensione non scema affatto, semplicemente viene alimentata da un impatto più drammatico e solo in apparenza meno nitido, sovrapponendosi a linee guida in precedenza maggiormente identificabili.
Alla fine, del toccante dialogo tra Block con e la Morte, disturbato da un effluvio di effetti e negli ultimi minuti da riff di estrema pesantezza, l’unica frase che risulta perfettamente intelligibile è “non credi che sarebbe meglio morire?”, risultando in qualche modo emblematica della venefica profondità di questo magnifico album, di grande impatto sia dal punto di vita musicale sia da quello prettamente concettuale, e capace di restituire in toto, quasi ne fosse la colonna sonora,  le atmosfere cupe e l’inquietudine magistralmente evocate con il suo film dal regista svedese, tutto questo proprio nell’anno in cui ne ricorre il cinquantennale dell’uscita.

Tracklist:
1. La confessione di Antonius Block

Line-up:
Matteo Gigliucci: chitarra, ampli e pedali.
Nicola Savelli: batteria, macchine e pedali.

Guest:
Narèsh Ran: violoncello

LA CUENTA – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Q65vxYlOXHI

Freight Train – I

Il disco parte bene e finisce meglio, e la durata relativamente breve gioca a favore del gruppo che raccoglie il meglio di quanto composto in questi due anni

Si torna a parlare di hard rock melodico sulle pagine virtuali di MetalEyes con il debutto, tramite Rockshots Records, dei Freight Train, giovanissimo sestetto di Rimini.

Attivi da appena un paio d’anni avevano raggiunto molti appassionati con il primo videoclip, Any Way You Want It, cover del bellissimo brano dei Journey, incluso anche in I, lavoro che risulta la vera partenza per il gruppo nostrano.
Poco più di mezzora basta ai Freight Train per provare a conquistare fans dell’aor, grazie ad un buon talento compositivo in un genere in cui tecnica ed impatto vengono messi in ombra dall’importantissima forma canzone.
Il disco parte bene e finisce meglio, e la durata relativamente breve gioca a favore del gruppo che raccoglie il meglio di quanto composto in questi due anni, regalando ricami tastieristici supportati da chitarre che graffiano, prima di concedere solos di grande efficacia.
La materia è stata studiata e resa alla perfezione dai Freight Train che pescano dal cilindro almeno un trio di perle: You Won’t Fall, la splendida Another Chance e Reach For The Sky.
Influenze che a mio parere non si fermano solo all’America dei Journey, ma attraversano l’ Atlantico per giungere nel regno unito fino ed incontrare i Ten e proseguire per il nord Europa, ultima frontiera dell’hard rock melodico (dagli Europe cotonati degli anni ottanta, ai più giovani ma imperdibili Brother Firetribe).
Buona la prima, si dice in questi casi, album consigliato a chi cerca disperatamente nomi nuovi per continuare a sognare sulle ali dell’aor.

Tracklist
1. The Beginning
2. You Won’t Fall
3. Into the Fire
4. Another Chance
5. Here I Am
6. Somewhere, Someday
7. The Prelude
8. Reach for the Stars
9. Any Way You Want It
10. Into the Fire (Acoustic Version)

Line-up
Ivan Mantovani – Voce
Enrico Testi – Chitarra, Cori
Andrea Cappelletti – Chitarra
Anton Bagdatyev – Tastiere, Cori
Lorenzo Pucci – Basso, Cori
Mattia Simoncini – Batteria

FREIGHT TRAIN – Facebook

Legionem – Ipse Venena Bibas

Otto brani e altrettanti rituali cantilenanti che riportano al doom settantiano e al metal oscuro del successivo decennio, con un talento innato per queste tematiche radicato nel dna dei gruppi italiani.

Misteriosa ed affascinate band i Legionem, trio di esorcisti doom provenienti dalla provincia di Siena, al debutto per Black Widow con questo ottimo lavoro incentrato su un doom metal classico e dalle intriganti sfumature rituali.

E’ molto old school l’approccio al genere per il gruppo toscano, che per titolo usa la frase latina Ipse Venena Bibas (bevi tu stesso i veleni) inserita in un rituale esorcista, e che apre l’album un recitato tratto dalla bibbia (Marco 5,1-20).
Con questi presupposti Magister Notte VIII (voce, basso e tastiere), Monk From The Terror Cathedral (chitarra) e La Rosa Di Satana (batteria e voce) creano un’opera suggestiva, magari leggermente retrò per i canoni odierni ma sicuramente affascinante per chi si muove tra il doom progressivo e l’occult rock.
Pentagram e poi Paul Chain e Death SS: con Ipse Venena Bibas sembra di entrare in un mondo parallelo, contornato dai colori sbiaditi dell’arcano incantatore di Pupi Avati o de L’Anticristo di Alberto De Martino, vecchie credenze e possessioni demoniache descritte a loro tempo anche sul grande schermo.
L’album alterna doom rituale (Albertus Albertus, Ritual In The Catacomb, Black Chain Of Death) a brani più vivaci e vicini all’hard rock (Proculo’s Vial, Furcas And The Philosophem), lasciando qualcosa indietro nei suoni, ma potrebbe essere una scelta precisa, vista l’ atmosfera catacombale che regna sovrana.
Otto brani e altrettanti rituali cantilenanti che riportano al doom settantiano e al metal oscuro del successivo decennio, con un talento innato per queste tematiche radicato nel dna dei gruppi italiani: un album da ascoltare nelle giuste condizioni ambientali, magari nelle notti in cui i sogni diventano incubi.

Tracklist
1.Marco 5,1-20
2.The Bishop
3.Albertus Albertus
4.Proculo’s Vial
5.Rituals In The Catacomb
6.A Pentacle
7.Furcas And The Philosophem
8.Black Chain Of Death

Line-up
Magister Notte VIII – Vocals, Bass, Keyboards
Monk From The Terror Cathedral – Guitars
La Rosa Di Satana – Drums, Backing Vocals

https://www.facebook.com/legionemdoom

La Janara – La Janara

La musica del gruppo irpino ci avvolge e ci trasporta tra le montagne, in uno spazio temporale in cui roghi, streghe, spettri e tutte le creature del mondo occulto e mistico si prendono gioco degli uomini.

La label genovese Black Widow, che di musica di un certo spessore è portavoce da molti anni, ci presenta questo progetto in arrivo dall’Irpinia chiamato La Janara, creatura leggendaria di quei posti che, come molti altri luoghi sparsi per la nostra penisola, sono accompagnati da misteriosi racconti tramandati da generazioni.

In La Janara la musica è un bellissimo ed affascinante esempio di heavy metal, pregno di sfumature dark e progressive in linea con una tradizione nazionale consolidata, così come il fatto che venga rispettata all’estero e ignorata nel nostro paese, nonostante regali nel nuovo millennio ancora grande musica.
Accompagnata dalla voce della strega Raffaella Cangero (che è stata ospite anche nell’ultimo album degli Ecnephias), la musica del gruppo irpino ci avvolge e ci trasporta tra le montagne, in uno spazio temporale in cui roghi, streghe, spettri e tutte le creature del mondo occulto e mistico si prendono gioco degli uomini: le sonorità si sposano con i testi in italiano creando un alone di mistero, grazie anche ad atmosfere dark d’autore, sacrileghe ma raffinate, tra impennate metalliche, ritmiche doom, e bellissimi camei folk acustici.
La band passa dal metal classico, che si evince dai riff portanti dei brani Sul Rogo e Strega, marchiati a fuoco dal doom del maestri Paul Chain e The Black, al doom questa volta più classico della rocciosa Cuore Di Terra, mentre le trame acustiche di Orchi invitano al sabba di Requiem, altro brano atmosfericamente sopra le righe, valorizzato da un interpretazione varia e sentita della vocalist, ottima nel conferire un’anima ai testi mai banali dell’opera.
L’album è colmo di ispirazioni nobili come i già citati Paul Chain e The Black, a cui aggiungerei senza dubbio i grandi Death SS e, con le dovute differenze, si colloca vicino all’ultimo album degli Artemisia:  un gioiellino per il quale la parola arte non viene usata a sproposito.

Tracklist
1. Ianva
2. Sul Rogo
3. Spettri
4. Strega
5. Le Janare
6. Malombra
7. Cuore di Terra
8. Orchi
9. Requiem
10. Luce

Line-up
Nicola Vitale – Chitarra
Raffaella Cangero – Voce
Rocco Cantelmo – Basso
Stefano Pelosi – Batteria

LA JANARA – Facebook

Mindcrushers – Born In Doom

Born In Doom risulta un album diretto, potente e devastante, dalle reminiscenze old school ma perfettamente inserito nel contesto estremo odierno, anche per la sua soffocante atmosfera in cui si aggirano spiriti metallici provenienti da più di un genere.

Tra le montagne e le valli del Veneto si aggira questa creatura oscura, dal 2010 conosciuta come Mindcrushers, con un demo all’attivo uscito ormai sei anni fa.

Dopo vari assestamenti nella line up, la band (ora un quartetto) si presenta al popolo metallico con questo ottimo lavoro dal titolo Born In Doom, composto da una raccolta di brani pesanti come macigni, tra thrash metal ottantiano, death metal, ed atmosfere pregne di oscura malignità dark.
Ne esce un album diretto, potente e devastante, dalle reminiscenze old school , ma perfettamente inserito nel contesto estremo odierno, anche per la sua soffocante atmosfera in cui si aggirano spiriti metallici in arrivo da più di un genere.
I Mindcrushers con sagacia alternano parti veloci e thrash ad altre dove le ritmiche si trasformano in potentissimi mid tempo e i solos riportano l’ascoltatore a godere dell’heavy metal oscuro degli anni ottanta.
L’ottima partenza con Death Is A Straight Procession, Slaves Of The White One e Boredom (da cui è stato tratto un video) mette subito le cose in chiaro, la band veneta non fa prigionieri, ci investe con il suo thrash death oscuro, valorizzato da spunti di metallo classico, formando un pezzo di granito mastodontico, un monumento di metal maligno che oscura il sole e forma un bombardamento di tuoni e fulmini senza soluzione di continuità, mentre Crystal Night Of Knives e la coppia conclusiva formata dalle notevoli Rise The Fallen e Dark Endless, sono altre tracce che alzano il livello di questo ottimo lavoro.
L’opera scivola come un mamba nerissimo e pericolosissimo, tra mid tempo e sfuriate death metal, come se i Morbid Angel, gli Asphyx e i Kreator sotto la guida dei Metal Church più oscuri, dessero vita ad una jam, un rito infernale dove non si perde tempo, si sacrifica e si uccide, senza pietà.
Una band che finalmente (visto i risultati) arriva all’esordio con una personalità ed un approccio da gruppo navigato: si può quasi toccare, tra i solchi dell’album, una forte convinzione dei propri mezzi, oltre a tutte le carte in regola per regalare agli amanti di queste sonorità ottima musica anche in un prossimo futuro.

Tracklist
1.Intro
2.Death Is a Straight Procession
3.Boredom
4.Slave of the White One
5.Tragedy of Happiness
6.Ogre
7.Inverted Buddah
8.Crystal Night of Knives (Kristallnacht)
9.Stone in a Glass
10.Rise of the Fallen
11.Dark Endless (Heart)

Line-up
Obscure – voice, bass
Francesco Brunello – rythmic, lead guitar
Diego Bordin – drums
Mauro Ferracin . guitar

MINDCRUSHERS – Facebook

Kayleth – Space Muffin Rusty Edition

Dopo il buon successo di Space Muffin, uscito sempre per Argonauta Records nel 2015, ecco la ristampa arricchita da Rusty Gold, il primo ep del gruppo pubblicato nel 2010, ormai finito fuori stampa da tempo.

Dopo il buon successo di Space Muffin, uscito sempre per Argonauta Records nel 2015, ecco la ristampa arricchita da Rusty Gold, il primo ep del gruppo pubblicato nel 2010, ormai finito fuori stampa da tempo.

L’ep presenta delle sorprese, essendo molto interessante per scoprire la genesi di questo gruppo italiano, che propone uno stoner rockeggiante e desertico, rielaborato in una maniera interessante attraverso un groove peculiare ed importante. Confrontando ep e disco di debutto si possono notate molte differenze, in primo luogo di produzione e composizione, ma l’essenza dei Kayleth rimane sempre ruvidamente uguale, dato che in nuce l’ep contiene molto di ciò che verrà sviluppato nel disco. Il desert stoner è un genere che comprende molti gruppi, ma lo scarto che ne rende interessante uno lo hanno in pochi, i Kayleth sono fra questi. Questa ristampa, differente ed arricchita anche nell’artwork, rende molto bene l’idea di quello che è questo gruppo, ovvero potenza, ampiezza delle visioni e tanto suono ruvido, il tutto amalgamato molto bene. Bisogna ammettere che risentire Space Muffin a distanza di due anni rende ancora meglio, segno che dopo una decantazione questo vino è ancora più buono. Un ulteriore segno di una bandin grande crescita, e questo  sarà fondamentale per loro il prossimo disco.

Tracklist
1.Mountains
2.Secret Place
3.Spacewalk
4.Bare Knuckle
5.Born to suffer
6.Lies of mind
7.Try to save the appearances
8.NGC 2244
9.The Electric Tongue Is Coming (bonus track)
10.Rusty Gold (bonus track)
11.Deepest Shadow (bonus track)
12.Oops, I Eat You (bonus track)
13.Old Man’s Legacy (bonus track)

Line-up
Massimo Dalla Valle: Chitarra
Alessandro Zanetti: Basso
Daniele Pedrollo: Batteria
Enrico Gastaldo: Voce
Michele Montanari: Synth

KAYLETH – Facebook

Anubi’s Servants – Duat

A tratti il lavoro del gruppo entusiasma e le varie atmosfere create all’interno dei vari brani, pur mantenendo l’approccio estremo e consolidato nel genere, danno all’ascoltatore molti buoni motivi per ripartire daccapo al termine dell’ascolto.

Thrash metal old school pregno di sfumature death, epico e chiaramente ispirato all’antico Egitto, è la proposta degli Anubi’ s Servants, quartetto estremo in arrivo dall’Abruzzo.

La band ha mosso i primi passi già nel 2012 come gruppo punk e, in seguito, dopo vari assestamenti della line up, il tiro musicale si è spostato definitivamente verso un thrash metal classico, dalle ispirazioni consolidate nelle terre germaniche nel periodo a cavallo tra gli anni ottanta ed il decennio successivo e dal concept che rimanda alle sacre terre del Nilo.
I servi di Anubis, il dio dei morti, non lasciano scampo, il loro sound vi mostra una via particolare al male, fatta di cunicoli, labirinti costruiti nella notte dei tempi, antiche tombe in cui maledizioni ed ogni tipo di trappola sono lì a custodire segreti millenari.
Appena le vostre infedeli membra si poseranno sui tesori custoditi al buio dei templi, gli Anubi’ s Servants vi daranno la caccia senza pietà e vi colpiranno con una serie di brani diretti, aggressivi e mortali: il loro sound vi entrerà nelle viscere per esplodere da dentro, in uno tsunami di ritmiche che alternano velocità ed epici mid tempo, mentre il dio dei morti urlerà la sua rabbia, bestiale e rabbioso.
Duat è un gran bel disco, un concentrato di metal vecchio stile assolutamente non originale, ma in possesso di una carica e di una forma canzone che lascia senza fiato.
A tratti il lavoro del gruppo entusiasma, le varie atmosfere create all’interno dei brani, pur mantenendo l’approccio estremo e consolidato nel genere, danno all’ascoltatore molti buoni motivi per ripartire daccapo al termine dell’ascolto.
Alternanza di velocità e mid tempo, ottimi solos, refrain perfetti e impatto che decolla per non tornare sotto i livelli di massacro, in sede live faranno probabilmente un alto numero di vittime.
The God Of The Dead, Sentence (preceduta da un intro epico cinematografica) e la lunga Damned-Intermezzo-Psycostasia sono il fulcro di Duat, un lavoro che di adrenalinico thrash/death in arrivo direttamente dalle catacombe nascoste all’interno delle piramidi.

Tracklist
1.Intro-The Veil Of Isis
2.The God Of The Dead
3.Intro-Sentence
4.Evocation
5.Crossing The River
6.Damned-Intermezzo-Psycostasia
7.Duat
8.Slave Blood-Outro

Line-up
Gianluca Iannotti – Bass
Andrea Strino – Drums
Karim Shokry – Guitars
Omar Shokry – Vocals

ANUBI’S SERVANTS – Facebook

Overkhaos – Beware Of Truth

Un debutto al di sopra di ogni aspettativa, del quale basta solo dire che tra le sue trame si trova tutto ciò che anima lo spirito musicale di capisaldi del genere come Symphony X, Nevermore ed Iced Earth.

Prima di dispensare elogi ad un’altra ottima realtà made in Italy,  permettetemi di fare i complimenti all’ennesima label che ci regala grande musica metallica dall’anima progressiva, la Rockshots Records, che dopo l’ultimo lavoro degli Hidden Lapse  ci delizia con un altro gioiellino in arrivo dalla Puglia, intitolato Beware Of Truth, full length di debutto per i notevoli Overkhaos.

Nato quattro anni fa con il monicker Imperium, il gruppo dopo un paio di avvicendamenti nella line up, vira dall’heavy metal classico ad un più raffinato progressive metal dalle forti connotazioni heavy/thrash e ne esce questo bellissimo album, incentrato su una storia che prende spunto dalla società in cui viviamo, in mano a politici e lobbies che si arricchiscono sulla pelle dei comuni cittadini, ormai impoveriti e spogliati di qualsiasi briciolo di dignità.
Si parte da qui per stupire con la colonna sonora di una storia non troppo originale (ma non è poi colpa della band se certe storture sono divenute ormai un vissuto quotidiano) per la verità, ma che incide non poco quando il gruppo parte in quarta e vola sulle ali di un power metal progressivo e dannatamente trainante.
Mimmo D’Oronzo è il singer, interpretativo, vero animale metallico che ricorda Warrel Dane, la punta d’acciaio di una freccia scagliata mirando al cuore degli appassionati da un’arco che si fregia di musicisti sopra la media come Davide Giancane e Giuliano Zarcone alle chitarre e la sezione ritmica composta da Anna Digiovanni al basso e Andrea Mariani alla batteria, mentre il sangue sgorga copioso dalla ferita mortale che gli Overkhaos hanno aperto nel nostro petto.
Beware Of Truth è heavy/thrash metal in stato di grazia che, elegantemente vestito di abiti progressivi, ci scaraventa al muro, con la schiena che scalfisce il cemento e le ossa che scricchiolano sotto i colpi inferti da queste dieci bordate che formano quasi un’ora di musica a tratti entusiasmante.
Khaos, The Lie You Need, Die Catsaw!, Anna’s Song sono forse le migliori tra queste, ma potrei nominarle tutte all’interno di un debutto al di sopra di ogni aspettativa, del quale basta solo dire che tra le sue trame si trova tutto ciò che anima lo spirito musicale di capisaldi del genere come Symphony X, Nevermore ed Iced Earth.

Tracklist
01 Prelude
02 Silent Death
03 Solar Starvation
04 Khaos
05 The Lie you Need
06 Crumbling
07 White Light
08 Die Catsaw!
09 Anna’s Song
10 Deadline

Line-up
Mimmo D’Oronzo – voce
Davide Giancane – chitarra
Giuliano Zarcone – chitarra
Anna Digiovanni – basso
Andrea Mariani – batteria

OVERKHAOS – Facebook

Eva Can’t – Gravatum

Ascoltando Gravatum più volte con il giusto approccio, memorizzandone i passaggi e lasciandosi compenetrare dalla potenza lirica e drammatica del racconto, si arriverà al punto di non poterne più fare a meno, come è tipico delle opere musicali di livello superiore.

Gli Eva Can’t sono un band bolognese formatasi agli albori del decennio e guidata da Simone Lanzoni, ovvero il clean vocalist protagonista degli ultimi due magnifici album degli In Tormentata Quiete.

Già questo dato potrebbe, da solo, attrarre l’attenzione di molti tra i possibili appassionati smarriti nel labirinto formato dai sottogeneri del metal e del rock e dal relativo flusso oceanico di uscite, ma è bene dire da subito che, con Gravatum, gli Eva Can’t ci hanno omaggiato di un vero e proprio capolavoro di arte musicale, capace di trasportare ai giorni nostri il potenziale evocativo e poetico che fu il tratto distintivo del progressive italiano degli anni ’70, uno dei movimenti musicali più significativi e peculiari nella storia moderna delle sette note, a detta non solo del sottoscritto, ma anche di commentatori ben più quotati e credibili.
Il fatto che il gruppo felsineo sia approdato a questi lidi, pur essendo formato sostanzialmente da musicisti dal robusto background metal, non deve sorprendere, visto che i prodromi di tutto questo sono riscontrabili in un percorso evolutivo che, partendo dall’heavy del debutto L’enigma delle ombre, si è poi snodato senza porsi particolari limiti di stile o di genere.
Quello che sicuramente non è mai cambiata, costituendo uno dei tratti distintivi della band, è la cura nella stesura dei testi, sempre ispirati, dal grande afflato poetico e pervasi da un costate contrasto tra lo smarrimento di fronte alla caducità dell’esistenza e la consapevolezza di quanto questa rappresenti dopotutto un regalo, benché gran parte dell’umanità non ne abbia colto né il senso né, soprattutto, il valore.
In Gravatum, gli Eva Can’t non lesinano comunque sull’espressione di un’amarezza di fondo ben esplicitata da un concept che racconta gli ultimi istanti dell’uomo sulla Terra, in un turbinio inesauribile di emozioni in cui le liriche non rivestono un ruolo affatto marginale, ma appaiono fondamentali esattamente quanto un struttura musicale che, come detto, si muove da una base prog rock per sconfinare nel folk (La Ronda di Ossa), senza dimenticare le radici metal che emergono soprattutto nella splendida title track.
Ma l’album è nient’altro che un percorso emotivo regalatoci da Lanzoni e dai suoi altrettanto bravi compagni d’avventura fin dalla prima ora (Luigi Iacovitti alla chitarra, Andrea Maurizzi al basso e Diego Molina alla batteria), nel corso del quale ci si imbatte in ogni istante in attimi di cristallina bellezza, in una forma d’arte talmente evoluta e perfetta in grado di commuovere lasciando un segno indelebile.
Sfido anche i meno sensibili a non provare qualche brivido quando Simone Lanzoni intona Terra su un toccante tappeto pianistico, un connubio che riporterà chi ha già qualche capello bianco ai momenti perduti nel tempo e ritenuti irripetibili del miglior Banco del Mutuo Soccorso, anche se chiaramente il vocalist non ha nulla in comune stilisticamente con il compianto Di Giacomo, se non una stessa intensità interpretativa ed un’espressività che non vengono mai meno, neppure nelle parti recitate o nei rari passaggi in growl.
In poco più di un’ora gli Eva Can’t rielaborano con grande competenza il meglio della tradizione rock/metal italiana, ammantando il tutto di un’aura poetica in grado di fare la differenza, con il suggello dei sedici minuti di straordinaria varietà e profondità della conclusiva Pittori Del Fulgido Astratto.
Se i tolemaici ascoltatori odierni del progressive avessero ancora orecchie per sentire, con la band bolognese avrebbero trovato finalmente un moderno punto di riferimento e qualcuno degno senza alcun dubbio di soppiantare diversi gruppi storici che, con tutto il dovuto rispetto ed altrettanta riconoscenza, negli ultimi decenni hanno vissuto solo della luce riflessa del proprio illustre passato; purtroppo (anche se spero di sbagliarmi) a gratificare della giusta attenzione un album di tale spessore saranno i soliti e deprecati “metallari” dalla mentalità più aperta, quelli che le emozioni le ricercano anche nel presente,  senza condizionamenti o pregiudizi di sorta.
Comunque sia, ascoltando Gravatum più volte con il giusto approccio, memorizzandone i passaggi e lasciandosi compenetrare dalla potenza lirica e drammatica del racconto, si arriverà al punto di non poterne più fare a meno, come è tipico delle opere musicali di livello superiore.

Tracklist
1. L’Alba Ci Rubò Il Silenzio
2. Apostasia Della Rovina
3. La Ronda Di Ossa
4. Oceano
5. Terra
6. Gravatum
7. Pittori Del Fulgido Astratto

Line-up:
Simone Lanzoni: guitars, vocals
Diego Molina: drums
Luigi Iacovitti: guitars
Andrea Maurizzi: bass

Guests:
keyboards by Andrea Roda
lead guitar on “Oceano” by Andrea Mosconi

EVA CAN’T – Facebook

Prologue Of A New Generation – Mindtrip

Buona la prima per i Prologue Of A New Generation, in virtù di una prova di sicuro spessore dal punto di vista tecnico ed esecutivo.

Nei confronti di quello che si può definire, a grandi linee, prog/djent/core è necessario un approccio privo di condizionamenti o pregiudizi di sorta, come possono essere sia quello di considerare degni esponenti del genere solo pochi e selezionati gruppi stranieri, sia il ritenere il tutto una sterile e spesso cervellotica esibizione di tecnicismo fine a sé stesso.

Quindi faccio subito outing: partendo dai più estremi Meshuggah per arrivare ai più morbidi TesseracT, e comprendendo tutto quanto sta nel mezzo, simili sonorità non sono mai state nelle mie corde, spesso ritenendole per lo più un qualcosa di cui fruire in maniera omeopatica, pena l’insorgere di un potentissimo mal di testa a partire dal decimo minuto di martellamenti ritmici e dissonanti.
In prima battuta tale effetto è stato garantito anche da questo album d’esordio dei trentini Prologue Of A New Generation, testimoni ineccepibili di gran parte degli stilemi sonori che hanno fatto la fortuna di band come Periphery, Northlane e Monuments, citate nelle note di presentazione a cura della dinamica label Antigony.
Devo ammettere, però, che i ripetuti accolti, come spesso avviene finiscono per rendere un minimo di giustizia anche nei confronti di chi non aveva affatto convinto al primo impatto: i Prologue Of A New Generation non reinventano nulla di particolare, in un genere nel quale non ci sono neppure così tanti margini di sviluppo, ma la loro bravura si manifesta nella capacità di rendere meno scontati gli schemi compositivi, specialmente nei brani in cui sono i chorus melodici a fare la differenza, come avviene nelle ottime Introspective, Shive, Neverbloom e, sourattutto The Perfection Exists, dove il break che giunge poco prima dei due minuti è, in assoluto, uno dei passaggi più significativi dell’album. A favore del quintetto trentino va detto anche come lo schema che prevede l’apertura melodica inframmezzare le sfuriate più robuste non è poi neppure così scontata, aggiungendovi che il buon Mirko Antoniazzi si sgola senza risparmiarsi, ricordandosi di utilizzare, oltre ad un’appropriata voce pulita, anche un buon growl in alternativa alle urla di matrice core, mentre i suoi compagni ci danno dentro davvero come se non ci fosse un domani, assecondando tutte le aspettative di chi ha familiarità con il genere.
Probabilmente anche la durata ragionevole (circa mezz’ora) fa sì che una bella tranvata come Mindtrip possa venire accolta con misurato favore pure da chi abitualmente si nutre di ben altre sonorità, e questo non è assolutamente un risultato di poco conto; buona la prima, quindi, per i Prologue Of A New Generation, in virtù di una prova di sicuro spessore dal punto di vista tecnico ed esecutivo.

Tracklist:
1.Roots And Bones
2.Black Hands
3.Introspective
4.Mindtrip
5.Karmic Law
6.The Perfection Exists
7.Neverbloom
8.Shiva
9.Skyburial/Jhator

Line-up:
Mirko Antoniazzi (Voce)
Cris Merz (Chitarra)
Nico Tommasi (Chitarra)
Dionis Platon (Basso)
Filippo Tonini (Batteria)

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Stilema – Ithaka

Gli Stilema sono una valida realtà del folk metal italiano e mostrano tutto il loro potenziale in questo EP, facendo intuire che in futuro potranno senz’altro fare ancora meglio.

Stilema, una band nata con un solo obiettivo: unire il cantautorato italiano al folk celtico: infatti, è questo il sound che presentava il loro primo demo che prendeva il titolo dal nome della band.

Con l’uscita del primo EP, dopo aver aggiunto una chitarra elettrica alla formazione, ecco il primo cambiamento di stile; 2:3, infatti, mostrava un sound molto più rock-oriented. Nel 2017, gli Stilema pubblicano il loro secondo EP, intitolato Ithaka, che mostra chiaramente il netto cambiamento di stile della band, partita dal cantautorato e spintasi fino all’heavy metal. Nonostante questa grande mutazione, le forti radici folk sono troppo robuste e non possono essere estirpate. Sin dalla prima traccia, l’ascoltatore viene trasportato nell’antico mondo dei miti e delle leggende: l’atmosfera creata dalla band è molto stimolante, la calda voce di Gianni Izzo è azzeccatissima e i molti strumenti, ben equilibrati tra loro, aumentano ulteriormente la qualità del lavoro.
Ascoltando i brani, si nota subito che nel folk metal degli Stilema non c’è nulla di innovativo, il che può essere un male, ma anche un bene, mentre sorprende invece l’utilizzo dei testi in italiano: riguardo a tale aspetto, c’è da aggiungere che il primo brano, Ithaka, è ispirato all’omonima poesia del poeta greco Konstantinos Kavifis, brevemente citata in lingua originale. Qui gli Stilema ci mostrano subito il loro valido folk metal, dai tratti progressivi e che alterna parti melodiche ad altre più dure e aggressive, esibendo probabilmente il miglior brano del lotto.
Sicuramente tre brani sono pochi per farsi un’idea precisa sull’effettivo valore di questa band, dato che è totalmente cambiata dai primi due lavori, però quello che emerge da questo EP è la maturità di questi musicisti, capaci di offrire il genere in una forma diretta e con buona cura dei particolari, evidenziata da una copertina di forte impatto visivo e da testi sicuramente molto interessanti e ben strutturati.
Gli Stilema sono una valida realtà del folk metal italiano e mostrano tutto il loro potenziale con Ithaka, facendo intuire che in futuro potranno senz’altro fare ancora meglio.

Tracklist
1) Ithaka
2) Sole d’inverno
3) Girone dei vinti

Line-up
Gianni Izzo – Vocals, Acoustic Guitar
Federico Mari – Electric Guitar
Frenk Pastore – Bass, Keyboards
Domenico Pastore – Drums
Alessia Oliva – Flute
Fulvia Farcomeni – Violin

STILEMA – Facebook

Veins – Innocence

Nel sound dei Veins troviamo un thrash metal che non disdegna parti classiche e sfuriate metalliche che si trasformano, in un attimo, in bellissime ed atmosferiche parti acustiche.

Ci sono voluti tre anni ai Veins per licenziare il loro debutto discografico, ma diciamo subito che ne è valsa la pena.

Innocence è un concept che parla di giovani, del loro perdere ben presto l’innocenza dovendo affrontare un mondo sempre più difficile, mentre la disperata voglia di crescere per essere pronti ad affrontarlo si traduce in un death/thrash moderno, dal buon tasso tecnico e dall’impatto di un carro armato.
Rabbia, frustrazione e rancore che cresce per una società che, senza aspettare, mette il giovane individuo di fronte ad una vita sicuramente non simile a quella vista e raccontata da chi lo vuole mentalmente schiavo, mentre la tensione sale sempre più.
Il quartetto romano spiega tutto ciò con l’aiuto di bordate estreme che ricordano il death americano delle nuove generazioni (Lamb Of God), ma non solo, perché nel sound del gruppo troviamo un thrash metal che non disdegna parti classiche e sfuriate metalliche che si trasformano, in un attimo, in bellissime ed atmosferiche parti acustiche; le chitarre, da parte loro, sono protagoniste di riff e solos da applausi, mentre la voce urla, ma sa anche essere delicata, prima di tornare a sfogare rabbia con l’ausilio di una sezione ritmica personale, varia e potente.
Album ottimo per intensità e coinvolgimento, Innocence non concede tregua ed anche le parti in cui la tempesta elettrica lascia spazio a sfumature acustiche la tensione è sempre ai massimi livelli: Dawn, Dying, l’eccezionale Bullet In The Head, l’atmosfera intimista della title track che esplode in Take My Hand, fanno di questo debutto un prodotto consigliato agli amanti del genere.

Tracklist
01. Animula Vagula Blandula
02. Part I
03. Dawn
04. Reflections
05. Part II
06. Dying
07. Bullet In The Head
08. Innocence
09. Take My Hand
10. Time Doesn’t Exist

Line-up
Francesco De Canio – voce, chitarra
Lorenzo Natale – chitarra
Fabio Romano – basso
Riccardo Piazza – batteria

https://www.facebook.com/veins666

She Was Nothing – Reboot

L’album scorre via in maniera assolutamente gradevole, ben prodotto e ricco di brani orecchiabili, ma nel contempo è afflitto da una “leggerezza” che rischia di far perdere alla band molti degli estimatori dal background metallico.

Secondo album per i milanesi She Was Nothing, a 5 anni di distanza da Dancing Through Shadows, lavoro che ebbe una buona accoglienza all’epoca con la sua abbastanza audace mistura tra elementi metal ed elettronici.

Reboot, come suggerisce il titolo, sembra resettare in parte quanto fatto in passato, intanto “ripulendo” il sound quasi del tutto della componente metal, fatto salvo qualche riff disseminato in maniera omeopatica nei brani; il risultato è un album che scorre via in maniera assolutamente gradevole, ben prodotto e ricco di brani orecchiabili, ma nel contempo afflitto da una “leggerezza” che rischia di far perdere alla band molti degli estimatori dal background metallico.
Before It’s Too Late – Pt. I è, se vogliamo, emblematica del nuovo corso, con i suoi rimandi ai Linkin Park, trattandosi di una canzone appena sporcata da una vena rock e focalizzata su un chorus di immediato impatto, ma destinato a dissolversi come una bella ma effimera bolla di sapone; molto meglio, allora, Can’t Stop These Things, leggermente più robusta e vicina al sound di una band di notevole spessore artistico come furono gli AFI di inizio millennio.
La tendenza è, comunque, quella di proporre un rock talvolta spruzzato di dub ed elettronica (che sono i momenti in cui le cose tutto sommato funzionano meglio, come nella buona B.S.O.D.), in grado di catturare l’attenzione con una manciata di potenziali hit (la già citata opener, Man VS Beast, Cocoon), spingendosi su lidi abbastanza lontani da quelli di chi si nutre del rock e metal di matrice underground.
Reboot non è affatto un brutto disco, visto che consente di passare una cinquantina di minuti abbastanza spensierati, ma il suo problema è che, con tali caratteristiche, difficilmente potrà rendersi appetibile a chi è abituato ad altre sonorità

Tracklist:
1. Before It’s Too Late – Pt. I
2. Can’t Stop These Things
3. The Hunt
4. Digging Under Your Skin
5. Man VS Beast
6. Brick After Brick
7. Before It’s Too Late – Pt. II
8. Back to Sleep
9. B.S.O.D.
10. Another Day, Another Way
11. Cocoon
12. Reboot

Line-up:
Augusto Boido – Bass, Guitars
Claudio Lobuono – Vocals
Davide Malanchin – Drums
Leonardo Musumeci – Keyboards

SHE WAS NOTHING – Facebook

Echotime – Side

Un sound che prende ispirazione da Dream Theater e Queensryche ma che vive di una sua personalità ben marcata e soprattutto molto emozionale, cosa da non sottovalutare assolutamente nel genere

Si torna a parlare di metal progressivo, ispirato dai gruppi di punta del genere e valorizzato da ottimi inserti jazz/fusion, con il nuovo album dei marchigiani Echotime, band che si era messa in mostra con il primo album Genuine, uscito nel 2013.

E’ così che, seguendo la protagonista del concept Lily nei suoi incontri lungo il corso della vita, veniamo presi per mano dal gruppo di Urbino che ci accompagna nel suo mondo, bizzarro e teatrale, costruito su fondamenta progressive, ma pervaso di emozionanti atmosfere che mutano in un susseguirsi di sorprese che culminano nella splendida The Bend Of Love, brano portante di questo bellissimo lavoro.
Intorno gira una macchina perfetta, dotata di un buon bagaglio tecnico che le permette di giocare con generi e sfumature diverse, passando in modo semplice e naturale dal prog metal classico di Mr. Valentine e Sickness, alle variazioni musicali che si portano dietro tracce dal mood teatrale, come la già citata The Bend Of Love o Freakshow (The).
Ottimo il lavoro chitarristico, con potenti lampi che tengono l’opera ben salda nel metal, così come la sezione ritmica protagonista di una prova che asseconda l’anima cangiante del songwriting.
Il cantato è la ciliegina sulla torta:, emozionante ed interpretativo, si avvale di passaggi recitati tra molti dei vari brani e dà prova di un’ottima versatilità modulandosi tra parti agguerrite ed altre più pacate ma drammatiche.
Side gode di un sound moderno e progressivo, che prende ispirazione da Dream Theater e Queensryche, ma che vive di una sua personalità ben marcata e soprattutto molto emozionale, cosa da non sottovalutare assolutamente nel genere

Tracklist
1. In-Side
2. Mr. Valentine
3. The Fourth Estate
4. The Lighthouse
5. Money
6. Sickness
7. Addiction
8. Hymn of Glory
9. Millstone
10. The Orphanage
11. The Bend of Love
12. Lust and Desire
13. The River
14. Black Dunes
15. Stream of Life
16. I Have Seen…
17. The Freakshow
18. Out-Side

Line-up
Alex “Kage” Cangini – Vocals
Nicolas Pandolfi – Guitars
Giacomo “Chris” Bartolini – Bass
Federico “Smiths” Fabbri – Keyboards
Federico “Face” Fazi – Drums

ECHOTIME – FAcebook

Hidden Lapse – Redemption

Un album affascinante, suonato, cantato e prodotto professionalmente, drammatico e duro, ma raffinato ed elegante, insomma un’opera completa che non mancherà di soddisfare gli amanti della musica metallica e progressiva.

Che la scena italiana stupisca sia quanto mai viva ormai non è una novità: che si tratti di metal estremo, hard rock o, come in questo caso, di metal melodico tecnicamente sopra la media e dalle squisite trame progressive, la qualità raggiunta nel nostro paese è davvero molto alta.

E noi non possiamo che godere di questo stato di grazia che ci porta a fare la conoscenza degli Hidden Lapse, trio formato dal chitarrista Marco Ricco, dalla bassista Romina Pantanetti e dalla bravissima cantante Alessia Marchigiani.
Partiamo proprio da quest’ultima per introdurci nel mondo degli Hidden Lapse: la sua splendida voce, personale, delicata ma allo stesso tempo interpretativa e forte, si muove sinuosa tra i cambi di tempo e gli intrecci melodici che portano ad un sound complicato nella sua semplicità.
Sembra un paradosso, ma la musica racchiusa in Redemption, pur vivendo di intricate parti metal progressive con un buon uso dell’elettronica, è semplice ed elegante, raffinata nel suo pur difficile spartito che ci ricorda più di una band senza esserne troppo devota.
I riferimenti sono tutti per i gruppi di genere, anche se l’uso della voce femminile è un punto a favore del gruppo e dei brani composti per questo bellissimo debutto, partendo da Silence Sacrifice, l’inizio della sofferenza di questa donna condannata a morte e del suo rivivere la propria vita, mentre brani dall’effetto di un tornado come Drop, Pure e Compassion ci accompagnano in questo viaggio nella vita della sfortunata protagonista.
Un album affascinante, suonato, cantato e prodotto professionalmente, drammatico e duro, ma raffinato ed elegante, insomma un’opera completa che non mancherà di soddisfare gli amanti della musica metallica e progressiva.

Tracklist
01. Prologue – Dead Woman Walking
02. Silent Sacrifice
03. Interlude – The Right To Remain Silent
04. Drop
05. Lucid Nightmare
06. Pure
07. Redemption
08. Interlude – The Last Meal
09. Compassion
10. Awareness
11. Epilogue – Mercy Upon Your Soul

Line-up
Alessia Marchigiani – voce
Marco Ricco – chitarra
Romina Pantanetti – basso

HIDDEN LAPSE . Facebook

Ex Trim – Novum Genus Mali

Novum Gens Mali è un disco cento per cento nu metal, nello svolgimento e nello spirito, congiungendo la parola di morte con un suono vivo, dinamico e lavico

Fare musica intelligente non è facile, scrivete testi che abbiano senso ed una consecutio logica non è affatto comune in Italia.

Ma la cosa ancora più difficile è scegliere un codice musicale che ti dia la possibilità di poter esprimere meglio ciò che vuoi dire. Molto spesso il genere scelto diventa la sovrastruttura che comanda tutto e che guida le scelte musicali. Gli Ex Trim plasmano il nu metal più distorto ed aggressivo per diventare ancora più inquietanti di quello che sono. Gli Ex Trim sono la voce che ti sussurra le verità che non vorresti sapere, ma che sai essere quelle più vere. La musica non è solo spensieratezza, ma anche violenza mentale, immagini disturbate e distopiche. Il nu metal è nato apposta per questo, vedi i Korn e tanti altri, per disturbare mischiando frammenti di incubi diversi per gridare assieme nella notte, e gli Ex Trim fanno un ottimo nu metal, disturbato e potente. Il cantato in italiano è adattissimo a queste situazioni di spinte e tensioni, di attacchi e di rotolamenti nel fango, anche se non manca la melodia. Il concept di questo album autoprodotto sull’industria musicale odierna, dove è ormai chiaro che sia diventata territorio di caccia per i cani che vogliono controllare le nostre menti, mentre bisogna sanguinare per capire. Vampiri in ogni dove, larve che succhiano le nostre vibrazione che provengono dalla musica. Il ritmo è incalzante, i punti di vista sono quelli dei dannati che non arriveranno a domani, e che nel frattempo bruciano. C’è anche un livello più profondo di lettura di questo disco, ovvero trovare nei testi la denuncia di ciò che è diventata la nostra amata musica, della plastica che ci propinano, mentre gli Ex Trim sono nati per fare male, trasudano cattiveria, sia dal suono psycho, sia dai testi che non lasciamo molto spazio all’amore e alla bellezza. Novum Gens Mali è un disco cento per cento nu metal, nello svolgimento e nello spirito, congiungendo la parola di morte con un suono vivo, dinamico e lavico. Meraviglia vera per chi ama le viscere del nu metal, dove c’è sola carne morta in questo buco nero. Autoproduzione come vera via per esprimere se stessi e la propria musica.
Moriremo tutti e male.

Tracklist
01. Index
02. Prologo Finale
03. Necrosogni
04. Zombie
05. Valgo Zero
06. Novum Genus
07. NGM
08. Insonnia
09. Hellfie
10. #Corvocapra
11. Dovete Estinguervi
12. 13.04.16.2.54
13. Disilluso
14. Cassandra
15. Senza Lidi

Line-up
Omega – Voce
Beta – Basso
Alfa – Chitarra
Gamma – Batteria
Delta -Percussioni Synth

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Anticlockwise – Raise Your Head

Raise Your Head è un album a tratti esaltante, un ascolto imperdibile per chi ama il metal, lasciando da parte noiose sfumature e dibattiti su generi e sottogeneri.

Ecco una band che non si nasconde dietro un dito, ma ti sbatte in faccia la sua influenza primaria, poi la manipola, la personalizza e se ne esce con un album inattaccabile.

Gli Anticlockwise arrivano da Bergamo mossi da una passione per i Nevermore, quella magnifica creatura con la quale Warrel Dane, uno dei cantanti più sottovalutati dell’intero panorama metal, elargiva interpretazioni canore d’alta scuola dopo aver stupito tutti con gli altrettanto imperdibili Sanctuary.
Ma si parlava del quartetto nostrano, ed allora incominciamo col dire che questo bellissimo terzo album esce per la Revalve, ormai un marchio di qualità all’interno di una scena italiana che, a discapito di un’altissima qualità, fa fatica ad uscire da un anonimato che comincia davvero ad essere fastidioso.
Raise Your Head è dunque il terzo album di una discografia che si completa con Non Linear Dynamical Systems, licenziato nel 2009, ed il precedente Carry The Fire uscito tre anni fa.
Il gruppo torna quindi con una nuova raccolta di brani che dal thrash metal prendono forza ed aggressività ma, come faceva appunto la band statunitense, lo nobilita parti con intricate, atmosfere drammatiche ed oscure prese dall’US Metal (si parlava di Sanctuary), suggestive ma possenti sfumature progressive, ed un cantato che, come il miglior Dan,e fa il bello e cattivo tempo, ed artisticamente parlando risulta sfaccettato in tutte le sue sfumature che assecondano la musica composta.
Attenzione però, gli Anticlockwise non sono semplicemente dei bravissimi cloni, il loro sound si sposta, quando il concept (ispirato ai meccanismi di comunicazione e ad internet) lo richiede su lidi thrash metal classici, sempre di matrice statunitense, o si invola sulle ali del progressive metal.
Prodotto da Simone Mularoni, Raise Your Head è un album riuscito, a tratti esaltante, che non manca certo di rivestirsi dei fasti del gruppo americano, ma lo fa con la personalità dei grandi, risultando un ascolto imperdibile per chi ama il metal, lasciando perdere noiose sfumature e dibattiti su generi e sotto generi.
Into The R.A.M., varia, devastante e spettacolare nelle sue mille sfaccettature, The Blue Screen Of Death e The Broken Mirror, violente e progressive come l’urgenza thrash/power/prog metal di The Gutenberg Plague sono le perle nere di questo bellissimo esempio di metallo forgiato nella nostra bistrattata penisola.
Gli Anticlockwise sono autori di un album da portare ad esempio quando i soliti esterofili da bar fanno spallucce al solo nominare il metal nazionale, mai come oggi al di sopra delle più rosee aspettative.

Tracklist
01. Slave
02. Raise Your Head
03. The Gutenberg Plague
04. Mothertongue
05. The Wire
06. The Broken Mirror
07. The Blue Screen of Death
08. Into the R.A.M.
09. Dystopia MMXVI

Line-up
Claudio Brembati – vocals
Pietro “Pacio” Baggi – guitars
Michele Locatelli – bass
Daniele “Bubu” Gotti – drums

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