From Oceans To Autumn – Ether​/​Return To Earth

Il campo base del viaggio è il post rock, ovvero una musica ariosa e sognante, ma poi si arriva ad esplorare territori come i migliori Rosetta, e ci si spinge a regalare momenti molto simili alle atmosfere pinkfloydiane.

La musica può essere un mezzo per raggiungere svariati scopi, e la stessa canzone è altamente soggettiva se ascoltata da due persone differenti.

A volte però la musica è soltanto un velo di maya che nasconde altre cose, ed in questo caso tantissimi altri mondi e multiversi. From Oceans To Autumn è un creatore di mondi, una tensione continua verso l’infinito usando la musica come un vettore spaziale per portarci lontano. Già nel precedente A Perfect Dawn ci eravamo stupiti di fronte ad un disegno musicale davvero superiore e completamente diverso dai nostri parametri abituali. Qui è tutto ancora più maestoso ed etereo. Brandon Helms diventa un David Lynch musicale e disegna scena per scena un doppio disco incredibile e bellissimo. Il campo base del viaggio è il post rock, ovvero una musica ariosa e sognante, ma poi si arriva ad esplorare territori come i migliori Rosetta, e ci si spinge a regalare momenti molto simili alle atmosfere pinkfloydiane. I due cd sono un viaggio verso lo sconosciuto, verso galassie di suoni e rumori, atmosfere rarefatte e poi fughe verso il centro della stanza, e il momento dopo si apre la finestra e si vola. Le differenze fra i due dischi sono abbastanza sostanziali, nel senso che il primo cd offre un taglio maggiormente post rock, mentre il secondo è allo stesso tempo maggiormente ambient ma anche più chiuso e meno arioso, più inquieto. Impossibile stabilire quale dei due sia meglio, anche perché sono quasi due dischi diversi anche se c’è un filo che li lega, e che è quello di essere stati composti da un genio che risponde al nome di Brandon Helms, un compositore classico nato fortunatamente nei nostri tempi. Questa potrebbe benissimo essere infatti musica classica, per consistenza, forza e potenza, ma anche per la delicatezza e la negazione di barriere musicali. Molto coraggiosa anche la scelta di produrre due cd che devono essere ascoltati a fondo il più possibile, in un momento in cui la fruizione della musica è quella dello streaming, un rubinetto velocissimo dove tutto scorre ascoltato in superficie, mentre questo è un nettare divino che va degustato. Meraviglie.

TRACKLIST
disc 1 “ether”:
1. quintessence/core
2. medium
3. air/elysium
4. stratus/vapor

disc 2 “return to earth”:
1. arrival
2. live again
3. visible light II
4. keep awatchful eye
5. Isle
6. 211 south
7. Reconnect
8. through the ages

FROM OCEANS TO AUTUMN – Facebook

Rebirth of Nefast – Tabernaculum

Un opus magnum di arte nera intricato, aggressivo ma carico di antiche e sinistre suggestioni.

Una oscura perla fuoriesce, senza alcun preavviso, dalla infinita scena black metal underground: i Rebirth of Nefast, in realtà one man band di Stephen Lockart, in arte Wann, esistono dal 2006 ma fino ad ora avevano prodotto solo un demo (Only Death 2006) e uno split con Slidhr nel 2008, poi il nulla.

Wann ha continuato a suonare insieme a musicisti di altre splendide realtà musicali islandesi, vedi Sinmara e Wormlust, e irlandesi come Myrkr senza però riesumare la sua principale creatura; da una terra, l’Islanda, che sta proponendo molti tra i migliori artisti del genere, tipo Svartidaudi, Almirkvi, Myspyrming, solo per citarne alcuni, appare questo opus magnum di majestic and magnificent black metal.
Registrato agli studio Emissary di Reykjavik di proprietà dello stesso Wann e prodotto dalla Norma Evangelium Diavoli, l’opera nella sua lunga durata, un’ora abbondante, presenta sei brani in cui sono elaborati con grande cura black metal, doom, ambient, prog a formare una esperienza uditiva atmosferica monumentale ed eclettica: Wann ha una forza compositiva unica, è abile a variare all’interno di ogni brano le varie componenti creando dei portali che si dischiudono su arcaiche dimensioni.
Tempeste sferzanti si alternano a presenze oscure, culminanti in magnifiche atmosfere sorrette da suoni di tastiera e violini (il suggestivo ultimo brano) che racchiudono misteri esoterici ed occulti; fin dal primo brano The lifting of the veil tutte queste coordinate sono presenti, un inizio lento, maestoso, inquietante evolve lentamente verso una sfuriata black incompromissoria per poi sfumare in dolenti note di maestose tastiere. Tutti i rimanenti cinque brani propongono variazioni e sfumature riconducibili a un suono dark, intricato, aggressivo, inquietante.
Da ascoltare nel giusto mood e necessariamente da centellinare perché, come tutte le grandi opere, si apre lentamente lasciando sensazioni che ogni adoratore delle nere arti non può non apprezzare: insieme all’esordio dei Digir Gidim, una delle rivelazioni di questo inizio anno!

TRACKLIST
1. The Lifting of the Veil
2. The First Born of the Dead
3. Alignment Divine
4. Carrion Is a Golden Throne
5. Magna – Mater – Menses
6. Dead the Age of Hollow Vessels

LINE-UP
Wann – All instruments, Vocals

REBIRTH OF NEFAST – Facebook

This Morn’Omina – Kundalini Rising

L’ascolto di un lavoro dalle simili caratteristiche non è affatto semplice, ma chi apprezza il versante industrial e sperimentale della musica non farà fatica ad entrare in sintonia con i This Morn’Omina.

Questa è musica che, probabilmente, con una webzine che si chiama MetalEyes dovrebbe entrarci poco o nulla, eppure resto fermamente dell’idea che gran parte del materiale sonoro che arriva dalla Dependent Records, sia esso riconducibile all’ebm, piuttosto che all’industrial o al synthpop, possa trovare orecchie disposte ad apprezzarlo anche sulle nostre metalliche sponde.

Questo è il caso di Kundalini Rising, ultimo parto discografico del prolifico duo belga This Morn’Omina: come il titolo lascia facilmente intuire, l’album trae linfa, non solo a livello tematico, dalla spiritualità induista ma continua l’opera di compenetrazione tra le sonorità elettro/industrial e quelle mistico/tribali tipicamente orientali.
L’ascolto di un lavoro dalle siffatte caratteristiche non è affatto semplice, ma chi apprezza il versante industrial e sperimentale della musica non farà fatica ad entrare in sintonia con Mika Goedrijk (ideatore del progetto) e Karolus Lerocq, i quali paiono a volte giocare con l’ascoltatore, spiazzandolo nel loro passare con disinvoltura da loop aspri e ossessivi a momenti quasi danzerecci (ovviamente tutt’altro che intesi in senso dispregiativo), avvolgendolo con la più disturbante dark ambient o soprendendolo con squarci di musica tradizionale indiana.
Il problema, ammesso che lo sia, di Kundalini Rising è quello d’essere un lavoro che sfiora le due ore complessive di durata (infatti il formato standard prevede il doppio cd), un fatturato tutt’altro che usuale o facile da digerire, specie quando i suoni inducono una senso di straniamento dalla realtà: a livello esemplificativo consiglio di dare un’occhiata qua sotto al video girato per Garuda Vimana, che nonostante sia uno dei brani più brevi devasta l’udito e la psiche come se si sviluppasse per mezz’ora.
Elettronica, strumenti tradizionali, ambient ed una voglia inarrestabile di abbattere schemi e muri sonori: questo è Kundalini Rising, questi sono i This Morn’Omina, e se qualche orfano di Godflesh e Ministry avesse voglia di valicare il confine tra l’industrial metal e quello elettronico non deve farsi sfuggire l’occasione.

Tracklist:
Disc 1
1. Ayahuasca (Lets Shift together)
2. Tir Na Nog
3. Hadji Hadja
4. Yugan (feat. Catastrophe Noise)
5. Garuda Vimana
6. (The) Waters Of Duat
7. Earthwalk
8. Maenad

Disc 2
1. God’s Zoo (Original)
2. The Apotheosis Of Eckhart
3. Graveheart
4. Mohenjo daro
5. Kachina Blue (The Watcher)
6. Kachina Red (The End Of The World)
7. Shakti
8. Moksha

Line up:
Mika Goedrijk
Karolus Lerocq

THIS MORN’OMINA – Facebook

Mosaic – Old Man’s Wyntar

Supreme Thuringian Folklore …come spesso accade nell’underground si celano grandi realtà per “open-minded people”.

Spettacolare riedizione (la quarta in tre anni) da parte della tedesca Eisenwald dell’ep Old Man’s Wyntar dei Mosaic, che in realtà nascondono le gesta musicali di un solo artista, Inkantator Koura, accompagnato da altri musicisti (Leshiyas, Scorpios, Maya e altri).

Le tre precedenti edizioni non sono neanche lontanamente paragonabili alla magnificenza dell’ attuale packakging in A5 digibook con testi tedesco e inglese, con intervista all’artista e storia del concept; inoltre, per rendere imperdibile il tutto e’ stato aggiunto un terzo capitolo intitolato Joyful reminiscense and sacred eyes. Inkantator Koura narra di un concept riguardo a winter journey through ancient mysticism and bittersweet darkness e lo fa creando un masterpiece, stratificando suoni black metal, neofolk, ambient, experimental trascinando l’ascoltatore in un vortice di emozioni varianti dall’ incanto alla melanconia, dall’orgoglio alla oscurità, dalla disperazione alla estasi. L’opera alterna momenti folk e neo folk struggenti e dolorosi con parti black raramente esasperate o ritmicamente forsennate, ma cariche di fierezza e disperazione; la struttura è complessa a formare una materia cangiante che sfida l’ascoltatore ad entrare in un regno di freddo e oscurità omaggiante la stagione invernale. L’opera originaria, edita nel 2014, nelle parole dell’autore intesa come un omaggio a Paysage d’Hiver, entità guidata da Wintherr (ora anche nei Darkspace), si divide in due capitoli: il primo, Awakening & Snowfall, inizia con Incipit:Geherre, una litania ovattata sferzata da un gelido vento, per poi proseguire con Onset of Wyntar, brano a tinte black molto atmosferico con Inkantator che declama le sue lyrickal magick.
Il terzo brano Im Winter, che conclude il primo capitolo, profuma di immobili e infiniti ghiacci e mi ha ricordato echi, probabilmente non voluti, di una leggenda Krauta di acidfolk, gli Amon Duul II (qualche vecchio ascoltatore ricorderà); il secondo capitolo, …of Magick and Darkness, presenta Snowscape, un breve viaggio guidato da una tersa melodia,White gloom, un fiero inno black come un lupo in cerca di prede da dilaniare, mentre in the darkness the wind still blows… e Black Glimmer, spettrale e salmodiante racconto ricco di tensione per un posto in cui …nothing shall be green here, for as long as winter reigns. Il terzo capitolo, Joyful reminiscense and sacred eyes, presenta altri tre brani che completano il concept, Silent world, holy awe, oscuro e acido folk rock ,Vom ersten schnee/a tale of mother Hulda dove una nonna, su note molto malinconiche, narra al nipote l’origine della neve; il finale Silver Nights, della durata di circa venti minuti (l’opera dura in tutto molto più di un’ora) chiude su intense, atmosferiche ed epiche note black un lavoro molto particolare, originale, di non facile assimilazione e, come chiosa Inkantator, …for candid, open minded people that take an umbiased approach to music and don’t need to sort everything into stereotyped thinking.

TRACKLIST
1.Incipit: Geherre
2.Onset of Wyntar
3.Im Winter
4.Snowscape
5.White Gloom
6.Black Glimmer
7.Silent World, Holy Awe
8.Vom ersten Schnee
9.Silver Nights

LINE-UP
Inkantator Koura – all instruments and vocals

MOSAIC – Facebook

daRKRam – Stone And Death

Il tessuto sonoro si trasforma in una spessa ragnatela dalla quale si viene irrimediabilmente avvolti e che rende incapaci di reagire, anche quando la ragione consiglierebbe una disperata ricerca di vie di fuga.

Sono sempre più numerosi gli album definibili, più o meno a buon titolo, di musica ambient che ci vengono sottoposti, sia direttamente dai loro autori sia da etichette lungimiranti come, in questo caso, la Club Inferno, sub label della più metallica My Kingdom.

daRKRam è il progetto solista di Ramon Moro, musicista torinese le cui radici vanno ricercate nel jazz e già questo, in partenza, costituisce per forza di cose un elemento distintivo: in Stone And Death infatti, troviamo più di un passaggio in cui a prendere la scena è la tromba, strumento d’elezione del nostro, che va a creare un inconsueto connubio con il sottofondo dronico di fondo.
Inutile dire che l’ambient di daRKRam è quanto di meno rassicurante sia dato ascoltare: dimentichiamo quindi le soluzioni cristalline e magari sorrette da valide intuizioni melodiche ed andiamo invece ad immergerci senza timore, ma con il doveroso rispetto, in questo caliginoso e terrificante territorio musicale.
Un approccio, quello di Moro, che si spinge lontano dalla music for “something” di Eno, per approdare ad un qualcosa di più avvicinabile alle uscite della Cold Meat Industry del secolo scorso: il tessuto sonoro si trasforma in una spessa ragnatela dalla quale si viene irrimediabilmente avvolti e che rende incapaci di reagire, anche quando la ragione consiglierebbe una disperata ricerca di vie di fuga. Senza neppure rendersene conto, infatti, dopo una decina di minuti ci si trova inermi e privi di difese nei confronti del flusso ronzante che scava incessantemente la nostra psiche e che, alla lunga produce danni meno visibili ma più profondi di qualsiasi espressione musicale che definiremmo convenzionalmente “pesante”.
Per oltre un’ora si viene annichiliti dall’ossessivo sgocciolio di suoni resi in maniera perfetta, solo sporadicamente screziati da improvvisi soprassalti prodotti dagli strumenti a fiato (in Connection, soprattutto), un altro elemento che innalza Stone And Death ad un livello superiore alla media degli ascolti ricadenti in quest’ambito: la speranza è che tale mirabile esempio di dark ambient riesca a raggiungere non solo chi si ritrova “obbligato” ad ascoltarlo (per fortuna aggiungerei, nel mio caso), trovando invece un’audience adeguata e, inutile dirlo, più che mai open minded.
In buona sostanza, trattasi di un lavoro a suo modo magnifico, che necessita ovviamente dell’ausilio di una ricettività all’ascolto superiore alla media o, quanto meno, della ferrea volontà di provare a farne propria la reale essenza.

Tracklist:
1. VIII [Inner Need]
2. XXII [Equilibrium]
3. VI [Male Role]
4. II [Reaction to Conflict]
5. X [Connection]
6. XII [Conflict]
7. III [Evolution]
8. XVI [Work]
9. V [Inner Essence]

Line up:
daRKRam: trumpet, flugelhorn, music, ambience

daRKRam – Facebook

Lethe – The First Corpse On The Moon

Non esiste un solo buon motivo per rinunciare ad un’ora di musica di tale livello.

Close your eyes, open your mind, and let the music take you on a musical journey through different moods … è senz’altro il caso di seguire il consiglio della My Kingdom, attiva etichetta italiana che ha il merito d’aver acquisito i servigi, tra gli altri, di questi meravigliosi Lethe, progetto musicale che vede una sorta di alleanza tra musicisti norvegesi e svizzeri.

Infatti, attorno ai due protagonisti principali, lo scandinavo Tor-Helge Skei (Manes e Manii) e l’elvetica elvetica Anna Murphy (Eluveitie, Nucleus Torn), ruotano musicisti per lo più provenienti dalle loro rispettive band e troviamo, quindi, da una parte Eivind Fjøseide (chitarra), Tor Arne Helgesen e Rune Hoemsnes (batteria) e Asgeir Hatlen (voce), tutti gravitanti attorno al nucleo dei Manes, e dall’altra Fredy Schnyder (piano, Nucleus Torn) e Ivo Henzi (chitarra, ex Eluveitie).
Questo particolare connubio dà vita ad un lavoro di spessore non comune come The First Corpse On The Moon (il secondo nella discografia dei Lethe), difficile da inquadrare in un genere specifico anche perché il sound fluttua liberamente tra le intuizioni di Skei e la voce splendida della Murphy: tale presupposto consente di passare senza controindicazioni dagli accenni rap di Down Into The Sun (con l’ospite K-Rip) all’opprimente oscurità di My Doom, dalle melodie cristalline della title track all’incalzante crescendo di Snow, per arrivare ad altre due gemme di incommensurabile bellezza come Wind To Fire e With You.
L’intreccio tra le voci di Asgeir Hatlen e Anna Murphy rasenta la perfezione, con il caldo timbro del cantante norvegese che supporta la particolare voce della sirena svizzera, una sorta di Bjork meno estrema nei suoi vocalizzi ma ugualmente coinvolgente e, a tratti, commovente (in With You la sua interpretazione raggiunge un’intensità emotiva spasmodica).
Il senso di smarrimento che si fonde alla visionarietà, nell’artwork creato dall’ormai onnipresente Costin Chioreanu, ben rappresenta gli umori che l’album esprime, e che vanno forse anche oltre le attese degli ascoltatori più esigenti.
E’ proprio l’imprevedibilità che non impedisce, però, lo snodarsi di un filo conduttore melodico sempre definito, il tratto distintivo che eleva quest’opera al rango degli ascolti irrinunciabili per chi ricerca nella musica bellezza e talento fusi in maniera mirabile. Nessun esorcismo, neppure quello evocato dal titolo della traccia conclusiva, ci impedirà d’essere letteralmente posseduti dalla voce di Anna e dall’estro di Tor-Helge: davvero, non esiste un solo buon motivo per rinunciare ad un’ora di musica di tale livello.

Tracklist:
1. Night
2. Inexorbitant Future
3. Down Into The Sun
4. My Doom
5. Teaching Birds How To Fly
6. The First Corpse On The Moon
7. Snow
8. Wind To Fire
9. With You
10. Exorcism

Line up:
Line Up: Tor-Helge Skei: guitars, bass, sampling, programming, synths, lyrics
Anna Murphy: vocals, hurdy-gurdy, programming, synths, lyrics

Guest musicians:
Eivind Fjøseide: guitars;
Tor Arne Helgesen: drums;
Rune Hoemsnes: drums;
Asgeir Hatlen: vocals;
Tom Christian Engelsøy: additional vocals;
Richard Spooner: spoken voice;
K-Rip: rap;
Fredy Schnyder: piano;
Shir-Ran Yinon: violin ensemble;
Ivo Henzi: additional guitars;
Mark Cunningham: trumpets;
P Emerson Williams: sounds & vocal effects;
Rune Folgerø: vocal effects;
Andi Dobler: lyrics;
Torstein Parelius: additional lyrics

LETHE – Facebook

2nd Face – Nemesis

L’opera prima di 2nd Face dimostra come non sia necessario imbracciare delle chitarre e dotarsi di un aspetto truce per proporre musica ugualmente minacciosa e rumorosa.

Notevole esordio per il progetto 2nd Face guidato dal giovane tedesco Thorn.

Prendendo le mosse (tenendo parzialmente fede a quanto dichiarato in sede di presentazione) dalla scuola canadese dei primi anni ottanta, il musicista di Mainz mette in scena un’interpretazione dell’elettro industrial in grado di metter d’accordo fasce di ascoltatori confluenti da svariati generi, partendo dall’ebm per spingersi fino al metal alternativo.
Il marchio di garanzia applicato su Nemesis dalla Dependent Records si rivela fondamentale per schiudere i contenuti musicali di 2nd Face a chi tende a non prestare attenzione a nomi che non siano già affermati: l’album si rivela un’ottimo compendio di elettronica disturbante, mai banale e con tutte le caratteristiche per risultare gradito anche a chi apprezza sonorità più aspre.
Sono dodici i brani che vanno a comporre l’intrigante puzzle sonoro formato da Nemesis, uno sforzo compositivo che supera abbondantemente l’ora di durata ma non stanca, in virtù della brillante alternanza tra ritmi incalzanti e melodie (Instinct, Brother), cupe aperture atmosferiche (la magnifica Mindlapse, nella quale ho rinvenuto richiami agli Ultravox di Lament,  e la solenne Nemesis), spunti ossessivi (Deathspread) e momenti più robusti, dall’indole metal pur senza usarne la strumentazione canonica (Punisher).
Non va neppure dimenticato che Thorn (al secolo Vincent Uhlig) è ancora giovanissimo, ma questo dato diviene un valore aggiunto, in quanto la palese maturità compositiva viene esaltata dalla freschezza nell’interpretare un genere in cui il pericolo dell’adagiarsi al manierismo si annida dietro ogni angolo.
L’opera prima di 2nd Face dimostra come non sia necessario imbracciare delle chitarre e dotarsi di un aspetto truce per proporre musica ugualmente minacciosa e rumorosa: davvero una bella sorpresa, il cui ascolto è vivamente consigliato ai frequentatori della nostra webzine dotati di mentalità aperta (che mia auguro siano il 100% …).

Tracklist:
1.Instinct
2.Movement
3.Divine
4.Mindlapse
5.Deathspread
6.Weapon
8.Brother
9.1st Of His Name
10.Now You Can See
11.Punisher
12.Insanity

2ND FACE – Facebook

Fallen – No Love Is Sorrow

No Love Is Sorrow travalica l’idea dell’ambient come musica di mero sottofondo, rendendola soprattutto appagante per l’ascoltatore, in quanto capace di schiudere ad ogni passaggio sensazioni uditive sempre differenti.

A due anni di distanza dalla prima uscita, Lorenzo Bracaloni ritorna con il suo progetto ambient Fallen.

Come ebbi occasione di scrivere in occasione di un lavoro riuscito come Secrets Of The Moon, il musicista toscano continua a sviluppare quel discorso che, in qualche modo, prendeva le mosse da Hidden Tales And Other Lullabies, uno dei dischi uscito con il monicker The Child Of A Creek; la forma di ambient che ritroviamo in No Love Is Sorrow non differisce nella sostanza da quanto contenuto nel disco precedente, essendo nuovamente ispirata alla lezione della Kosmische Musik degli anni 70 (forse non è un caso se l’etichetta che pubblica l’album, la AOsmosis Record, sia proprio tedesca) ma appare, se possibile, ancor meglio focalizzata.
Da vecchio estimatore di quel genere musicale e, in seguito, delle opere di Brian Eno, specialmente in compagnia del duo Moebius/Roedelius (alias Cluster), non posso non apprezzare ogni singola nota presente in questo lavoro.
Negli ultimi tempi ci stanno giungendo all’attenzione diversi album che confermano quanto sia stata azzeccata la scelta, da parte di MetalEyes, di creare una sezione denominata “altri suoni”, in modo da non precluderci la possibilità di poterci occupare anche di musica che di metal e rock non ha nulla, se non il tratto comune d’essere rivolta ad un’audience piuttosto selezionata.
Quella esibita da Fallen, però, ha una marcia in più e No Love Is Sorrow è degno erede delle opere dei grandi del passato: chi ne dubita ascolti la title track, traccia che, dopo una avvio segnato da una cupa vena elettronica, si apre in un finale dai toni struggenti, oppure la stupenda Shimmering, che sarebbe stata degna di far parte di quel capolavoro semplicemente intitolato Cluster & Eno.
Questo è solo un esempio di quante frecce il musicista abbia nella sua ampia faretra, a garanzia del fatto che questo approccio travalica l’idea dell’ambient come musica di mero sottofondo, rendendola soprattutto appagante per l’ascoltatore, in quanto capace di schiudere ad ogni passaggio sensazioni uditive sempre differenti.
Difficile fare di meglio, davvero, perché No Love Is Sorrow riluce di una bellezza dalle radici antiche che non merita d’essere offuscata da qualsiasi paragone od accostamento, seppure calzante: la sensibilità musicale di Lorenzo Bracaloni si rivela ancora una volta superiore alla media, rendendolo oggi uno degli autori di musica ambient più credibili, non solo nel ristretto ambito nazionale.

Tracklist:
1.Echoes And Sin
2.Eyes Like Windows
3.No Love Is Sorrow
4.Soft Skin, Eternal Verses
5.Shimmering
6.A New Beginning

Alec Empire – Volt (Original Soundtrack)

L’operazione si rivela indubbiamente di notevole interesse, sia per i contenuti della pellicola, che racconta il dramma palestinese da un punto di vista particolare, sia per l’approccio di Alec Empire, che cerca di assecondarne le tematiche offrendo una ambient elettronica ora soffusa, ora nervosa.

Alec Empire non ha certo bisogno di presentazioni, basti solo ricordare ai più distratti che è stato uno dei principali agitatori della scena hardcore elettronica degli anni novanta con i suoi Atari Teenage Riot.

Come spesso succede, la fase di innovazione e l’impulso ribellistico impresso nei primi anni della propria attività ha progressivamente lasciato posto ad un ammorbidimento che, nel recente passato, ha prodotto lavori di buono spessore (sia solisti che con la sua ricostituita band) ma privi, appunto, di quella carica, cosa a mio avviso comprensibile, sebbene a molti degli estimatori degli Atari Teenage Riot la cosa non sIA andata giù.
Questo nuovo lavoro del musicista tedesco ce lo propone su un piano differente, trattandosi della soundtrack del film Volt, girato dal regista tedesco/palestinese Tarek Ehlail.
L’operazione si rivela indubbiamente di notevole interesse, sia per i contenuti della pellicola, che racconta il dramma palestinese da un punto di vista particolare, sia per l’approccio di Alec Empire, che cerca di assecondarne le tematiche offrendo una ambient elettronica ora soffusa, ora nervosa.
La storia raccontata da Ehlail vede quale suo fulcro la contrapposizione delle parti, in una rappresentazione allegorica nella quale, poi, la dualità diviene il concetto cardine del racconto cinematografico.
Empire sostiene d’aver composto la musica guardando il film e ciò spiega l’alternanza di umori e di ritmi: la base è sempre comunque costituita da un’elettronica asservita all’ambient (il musicista berlienese ha citato esplicitamente il Carpenter di Fuga da New York quale sua fonte di ispirazione), per un risultato finale decisamente valido, anche se, ancor più di altri casi, proprio per il suo particolare metodo compositivo, l’opera privata delle immagini perde sicuramente qualcosa a livello di impatto.
Indubbiamente questa prima esperienza di Alec Empire quale compositore di colonne sonore appare riuscita, e su questo non era lecito nutrire dubbi visto lo spessore dell’artista, ma l’ideale, ancor più dell’ascolto della soundtrack, sarebbe riuscire a vedere direttamente il film, anche se immagino che ciò ben difficilmente possa passare nelle sale cinematografiche italiane, sebbene si stia parlando di un’opera che in Germania ha ottenuto diversi riconoscimenti.
Chi ci riuscisse, ne trarrebbe probabilmente una duplice soddisfazione …

Tracklist:
1.”Now it’s between you and G-d” (Volt Theme Track)
2.Now It’s Between You And G-d
3.Victims Of Authority
4.Love While Death Is Watching
5.Shadow Boxing Pt.2
6.Meeting Her
7.Following Her, Torturing The Witness
8.The Confession
9.Changes Are Coming / The Raid
10.Getting Ready/ Wind/ Riotzone/ Out Of Control
11.Keep Quiet For Now
12.Shadow Boxing Pt.1
13.Shadow Boxing Pt.3
14.The Wall Screams Murder
15.Running Away/ Get It Right/ They Are Coming

S A R R A M – A Bolu, in C

A Bolu, in C è un’eloquente dimostrazione di come si possa comporre ottima musica ambient mettendo una strumentazione essenziale al servizio di un’innata sensibilità compositiva

Quest’opera prima in veste solista del musicista nuorese Valerio Marras, in arte S A R R A M, è l’ennesima dimostrazione di quanto la musica ambient possa risultare coinvolgente e tutt’altro che perimetrale rispetto alla percezione dell’ascoltatore.

A Bolu, in C, dove il “bolu” in questione è il volo in lingua sarda, è una lunga traccia che va a sfiorare i quaranta minuti di durata, nel corso dei quali ci si ritrova a librarsi al di sopra degli scenari unici che la meravigliosa isola mediterranea offrire.
Diviene pressoché perfetta, così, la simbiosi con le 10 immagini prodotte dal fotografo Bobore Frau, il quale ha immortalato squarci naturalistici del nuorese (Barbagia e Baronia): è la chitarra di Marras a condurci in questo virtuale viaggio alato, con l’intromissione di loop ed effetti volti a schiudere l’accesso alle immagini successive.
La forma di ambient perseguita da S A R R A M è quindi piuttosto carezzevole ed evocativa, muovendosi sulla falsariga del movimento di musicisti britannici gravitante nella cerchia del David Sylvian della seconda metà degli anni ottanta (faccio riferimento soprattutto alla seconda metà strumentale di Gone To Earth).
A Bolu, in C è un’eloquente dimostrazione di come si possa comporre ottima musica ambient mettendo una strumentazione essenziale al servizio di un’innata sensibilità compositiva, senza per questo dimenticare il prezioso contributo visivo contenuto nel digipack prodotto in 100 copie dall’etichetta Talk About Records.
Se è difficile descrivere in maniera esaustiva i contenuti di un disco rock o metal, figuriamoci per quel che riguarda l’ambient, per sua natura un flusso di sensazioni più che una canonica sequela di brani, per cui non resta che esortare chi apprezza il genere ad ascoltare l’operato del bravo Valerio Marras.

Tracklist:
1. A Bolu, in C

Line-up:
Valerio Marras–Guitar, effects

S AR R A M – Facebook

Noêta – Beyond life And Death

Un album che deve essere assimilato nella sua forma di continuo flusso sonoro, capace di colpire e scuotere emotivamente quegli animi che non si sono ancora del tutto assopiti.

Come sempre, dalla scuderia della Prophecy giunge a noi musica mai banale e che, nella maggior parte dei casi, costringe chi vi si approccia ad uno sforzo in più per scongiurare il rischio di non cogliere il valore del contenuto delle diverse proposte della label tedesca.

Confesso che, nel caso del full length d’esordio del duo svedese Noêta, ho faticato più del solito, a causa del sound rarefatto ed essenziale che, soprattutto nella fase iniziale del lavoro, vede in primo piano la voce salmodiante di Êlea stagliarsi su un tappeto ora tenuemente percussivo, ora acustico ma privo di quegli slanci di immediatezza melodica capaci di conquistare al primo ascolto.
Ma la musica dei Noêta è perfettamente allineata alle tematiche tutt’altro che lievi proposte a livello lirico, sicché la ricerca del significato dell’esistenza, la presa di coscienza della sua imperscrutabilità e lo sgomento che ne consegue, divengono un tutt’uno con suoni pervasi da un constante senso di inquietudine.
Folk, dark, ambient vanno a comporre una quadro affascinante, in grado di insinuarsi con inesorabile lentezza tra le pieghe dell’animo, lasciando al termine dell’ascolto un languido senso di vuoto che mette in stand by ogni sensazione, piacevole o dolorosa che sia.
Come si diceva in apertura, la fatica spesa per penetrare nel sound dei Noêta è ampiamente ripagata, specie nella parte centrale di Beyond life And Death, quando è lo struggimento a prendere campo con una coppia di perle musicali quali In Void e Dead Soil, ma è quasi superfluo precisare come l’album debba essere assimilato nella sua forma di continuo flusso sonoro, capace di colpire e scuotere emotivamente quegli spiriti che non si sono ancora del tutto assopiti.

Tracklist:
1.Beyond Life
2.In Drowning
3.Darkest desires
4.Pneuma
5.In Void
6.Dead Soil
7.Beyond Death
8.In Thunder
9.Urkaos

Line up:
Êlea
Ândris

NOÊTA – Facebook

Asofy – Nessun Luogo

Nessun Luogo è un opera che alza di molto l’asticella rispetto al lavoro precedente, e non è detto che tutti riescano necessariamente a valicarla, prima o poi: la proposta degli Asofy rifulge per profondità ed integrità ma è necessario lavorarla con pazienza e predisposizione per coglierne appieno il significato lirico e musicale.

Asofy è il progetto musicale di Tryfar, artista multiforme noto anche come grafico.

Nel 2013 avevamo avuto l’occasione di parlare del precedente full length Percezione, un lavoro che aveva lasciato più di una sensazione positiva; oggi ritroviamo il musicista lombardo con Nessun Luogo, disco che lo vede operare in solitudine non avvalendosi più di Empio alla voce.
Il concept ruota attorno al quartiere dove Tryfar è cresciuto e alle trasformazioni che ha subito nel tempo, fenomeno tipico di tutte le periferie, destinate con il tempo a smarrire del tutto quello scampolo di identità che qualche decennio fa conservavano non essendo ancora state del tutto inglobate dalle grandi città o invase dalle sue infrastrutture.
Nel lavoro non si percepiscono sentori nostalgici o particolari forme di rimpianto dovute ai cambiamenti: quella di Tryfar appare come una sorta di accompagnamento musicale messo in sottofondo mentre si sfoglia un album di fotografie che ritraggono un quartiere in diverse epoche storiche: non c’è empatia neppure nel constatare l’ineluttabile avvicendarsi della popolazione, vista alla stregua del taglio di un albero o dell’abbattimento di un edificio : lo stesso incedere musicale è all’insegna di una certa uniformità, quasi che Tryfar voglia sottolineare la sua estraneità ad ogni forma di turbamento dovuta a trasformazioni più formali che sostanziali.
Il sound è una forma di dark ambient che ben si sposa con le tematiche trattate: gli arpeggi sono avari di aperture melodiche decise, privilegiando una sorta di oppressiva sospensione delle emozioni, lasciando solo alla lunga e conclusiva title track accelerazioni e barlumi di fruibilità ad accompagnarne i testi declamati con tonalità che, per lo più, appaiono quasi un sussurrato rantolo.
Nessun Luogo è un opera che alza di molto l’asticella rispetto al lavoro precedente, e non è detto che tutti riescano necessariamente a valicarla, prima o poi: la proposta degli Asofy rifulge per profondità ed integrità ma è necessario lavorarla con pazienza e predisposizione per coglierne appieno il significato lirico e musicale.

Tracklist:
1. Lontano da me
2. Nemeton
3. Fosca
4. Infine
5. Figure scure
6. Orizzonte
7. Memoria
8. Piccola disperazione
9. Nessun Luogo

Line-up:
Tryfar: Vocals, All instruments

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw

Dark Awake – Anunnaki

Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient.

Dark Awake è un progetto dark ambient attivo da circa un decennio per volontà del musicista greco Shelmerdine VI°, e Anunnaki è il quarto full length, uscito originariamente nel 2014 e riedito in vinile, alla fine del 2016, dalla label ellenica Sleaszy Records in edizione limitata a 500 copie.

Il disco in questione mostra un approccio piuttosto lontano dalla più consueta riproposizione ad oltranza di limitati spunti sonori o rumoristici: per una volta, la dichiarazione di intenti di un’artista corrisponde pienamente alla realtà e così, quando sul bandcamp dei Dark Awake ne leggiamo la definizione di progetto dedito a musica neoclassica, marziale, dark ambient e neo folk, non si può che essere del tutto d’accordo.
Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient, come avviene magistralmente in Die Nibelungen, ma l’effetto straniante non è da meno nella greve litania con voce femminile Decay o nelle pulsioni liturgiche di Towards The Nine Angles, deviate da un percussionismo ritmato e da rumorismi assortiti.
Euphoria (Of The Flesh) è un esempio di musica classica dai tratti inquietanti e malevoli, mentre la dark ambient più riconoscibile della title track schiude la strada alla notevole Sacrarium, traccia che riporta alla già battuta strada classico-liturgica.
Chiaramente si tratta di un lavoro per intenditori audaci e pervasi anche da una discreta dose di masochismo: va detto però, ad onor del vero, che la forma di ambient perseguita dai Dark Awake è più movimentata, grazie alle numerose variazioni sul tema e ad una parvenza melodica presente in quasi tutti i brani, benché qui venga meno ogni effetto cullante e rassicurante, catapultando invece l’ascoltatore in un’atmosfera sovente da incubo.
Un album molto convincente, che il formato in vinile dovrebbe ancor più valorizzare rendendolo appetibile agli estimatori del genere, oltre a costituire una buona base di partenza per esplorare il resto della discografia firmata Dark Awake.

Tracklist:
1. Blut Ist Feuer
2. Die Nibelungen
3. Decay
4. Towards The Nine Angles
5. Virgo Lucifera
6. Euphoria (Of The Flesh)
7. Thy Satyr
8. Anunnaki
9. Sacrorum

Line-up:
Shelmerdine VI° – All Instrumentats, Orchestration
Sekte – Vocals

DARK AWAKE – Facebook

Heather Wasteland – Under The Red Wolfish Moon

Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva, ma ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato.

Gli ucraini Heather Wasteland erano una delle band incluse nella compilation Mister Folk, della quale abbiamo parlato qualche settimana fa, ed oggi abbiamo l’opportunità di esaminare il loro operato in maniera più ampia, tramite l’ep d’esordio intitolato Under The Red Wolfish Moon.

Va detto subito che il quartetto originario della Crimea è anomalo in tutti i sensi, incluso quello del teorico genere d’appartenenza: basti pensare che la line up consta di un batterista e tre bassisti, rispettivamente alle prese con lo strumento nella versione a 4, 5 e 6 corde; a quest’ultimo è affidato il compito di arricchire il sound creando le parti di tastiera ed archi tramite un pick up collegato ad un guitar-synth della Roland.
Balza subito all’orecchio che la rinuncia a voce e chitarra potrà costituire un problema per la fruizione immediata del lavoro, anche se va detto che i nostri se la cavano davvero bene, sopperendo a queste volontarie lacune con un sound sufficientemente dinamico ed originale.
Più che folk metal, a tratti, gli Heather Wasteland si spingono verso una forma di musica medievaleggiante e barocca che il triplo basso rende assolutamente peculiare (un titolo come Venice – Barocco Veneziano è abbastanza eloquente, in tal senso).
E’ anche vero, d’altra parte, che la durata ridotta agevola la fruizione , che altrimenti alla lunga potrebbe risultare più difficoltosa, ma in ogni caso Under The Red Wolfish Moon si rivela una prova interessante, anche per i numerosi riferimenti storici contenuti nel libretto che, nel rievocare la storia della parte meridionale della Crimea, finiscono peraltro per richiamare alla memoria una parte importante della storia marinara del nostro paese, che vede la mia Genova ritornare ad essere La Superba e non l’attuale vertice smussato di quello che fu il cosiddetto triangolo industriale.
Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva e dubito che possa soppiantare nelle preferenze degli appassionati gli album di folk metal, per così dire, più tradizionali; ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato, perché questo quattro simpatici ed audaci “cimmeri”, hanno tutte le potenzialità per sorprenderci ulteriormente in futuro, dopo questo già interessante assaggio del loro “heretical folk”.

Tracklist:
I – Tre Sverd
II – Under The Red Wolfish Moon
III – Venice (Barocco Veneziano)
IV – Beltane (Intro) / Wicker Man
V – Under The Red Wolfish Moon (Single Edit)

Line-up:
Anatoliy Polovnikov – drums
Sergey AR Pavlov – 4-string bass
Andrey “SLN” Anikushin – 5-string bass
Alexander Vetrogon – 6-string bass

HEATHER WASTELAND – Facebook

My Silent Land – Life Is War

Life Is War appare peculiare perché fresco, frutto dell’istinto compositivo di chi è piuttosto al di fuori dei circuiti musicali canonici e che, quindi, compone musica per il solo piacere di farlo senza particolari calcoli.

Ecco arrivare, agli ultimi sgoccioli di un 2016 dimenticabile per molti motivi (in campo musicale principalmente per la moria delle icone del rock/metal e non certo per la qualità delle uscite), un lavoro in grado di emozionare e far pensare, semplicemente tramutando in note, senza ricorrere a trucchi od effetti speciali, il sentire del proprio autore, Silvio Spina da Cossoine (Sassari).

Il suo progetto My Silent Land può essere definibile homemade nel senso più reale del termine, e questo rischia di rivelarsi fuorviante, facendo pensare nell’immediato ad un qualcosa di casereccio e poco curato: l’ascolto di Life Is War, prima uscita in cd della one man band dopo un demo risalente a qualche anno fa, ci mette di fronte all’opera di un musicista con le idee chiare sia dal punto di vista compositivo che lirico.
L’album, infatti, è incentrato su un tema spinoso e forse abusato come la guerra, vista però (fortunatamente) per quello che è, ovvero un tragedia per chi ne viene coinvolto in prima persona e, sovente, anche in maniera indiretta, senza scivolare nelle forme di pericolosa fascinazione che l’argomento esercita in diversi ambienti del metal; musicalmente Silvio si muove su territori ambient-folk-post rock, potendo ricordare di tanto in tanto qualche nome noto, come Antimatter nella fase iniziale di The Battle o gli ultimi Anathema in Dark & Light, ma si tratta solo di lampi, di riflessi incondizionati non tanto dell’autore ma più dell’ascoltatore, specie se ha immagazzinato molti anni di musica nella propria memoria.
La verità è che Life Is War appare peculiare perché fresco, frutto dell’istinto compositivo di chi è piuttosto al di fuori dei circuiti musicali canonici (anche se va annotata la partecipazione come bassista, in The Departure, del conterraneo Bloody Hansen, artefice dell’intrigante progetto The Providence) e che, quindi, compone musica per il solo piacere di farlo senza particolari calcoli e senza perdersi nell’attenzione ai particolari sacrificando la sostanza.
Non c’è un solo minuto sprecato in questo bellissimo lavoro, che ci fa immergere in atmosfere più malinconiche che tragiche, nonostante ciò possa apparire stano per un concept imperniato sulla guerra, qui intesa sia dal punto di vista bellico vero e proprio, sia in senso metaforico volendone creare un parallelismo con la vita quotidiana di ognuno di noi.
E’ piacevole perdersi in questa quarantina di minuti condotti per lo più dalla chitarra acustica e dalla voce, a tratti incerta e in tal senso in linea con le tendenze attuali del neofolk, ma sempre capace di trasmettere con efficacia il pensiero dell’autore, all’insegna di una linearità compositiva che va in direzione ostinata e contraria, per risultato e per intenti, rispetto all’esibizione cervellotica di contorsioni musicali atte a nascondere, il più delle volte, degli enormi vuoti di ispirazione.
Semplicità che, ci tengo a ribadire, non deve essere scambiata per banalità: My Silent Land si rivela un progetto comunque curato, nel quale non mancano riferimenti colti alla cinematografia o alla storia moderna, tramite l’ausilio di campionamenti come quelli tratti da Salvate il Soldato Ryan (The Battle) o il discorso di Kennedy sul New World Order (Dark & Light).
New World Order è, appunto, il brano che chiude il lavoro, una bonus track che rappresenta la versione demo di una traccia che confluirà sul prossimo lavoro targato My Silent Land: un assaggio che, visto l’esito oltremodo positivo di Life Is War, eleva non poco le aspettative nei confronti delle future mosse dell’ottimo musicista sardo.

Tracklist:
1. Feel The War
2. The Departure (feat. Bloody Hansen)
3. Marching Over The Silent Land
4. The Battle
5. Collateral Murders
6. Dark & Light
7. Winter’s Night
8. The Last Letter
9. After The War
10. New World Order (Demo Version)

Line-up:
Silvio “Viossy” Spina – voce, chitarre, basso, drum machine, tastiere, synth

MY SILENT LAND – Facebook

Gopota – Music For Primitive

Un gran lavoro, in grado di inquietare facendo intuire l’orrore piuttosto che esibendolo esplicitamente

Usciamo ancora una volta dai più consueti e, per certi versi, rassicuranti confini metallici, per addentrarci negli strati più profondi della musica intesa come flusso emotivo e ed elemento di disturbo per coscienze appiattite dalla quotidianità.

Music For Primitive è il secondo album dei Gopota, duo italo-russo che non lascia soverchie speranze di redenzione con il proprio sound per il quale, volendogli per forza trovare un termine di paragone, è naturale l’associazione alle sonorità che, negli ani novanta, vennero proposte dai musicisti operanti nella seminale etichetta svedese Cold Meat Industry, in primis quei Brighter Death Now dello stesso Roger Karmanik, ideatore di quella stimolante realtà discografica arenatasi purtroppo da qualche anno.
Inquadrati in qualche modo i Gopota, non resta che ascoltarne l’operato sotto forma di un ora circa di interferenze uditive, capaci di sovrapporsi con il proprio substrato sonoro a a quel costante rumore di fondo fatto di messaggi, spot, suonerie telefoniche e voci bercianti banalità, un subdolo attentato cacofonico che la nostra mente ha derubricato, sbagliando, ad innocua ed accettabile normalità.
Ognuno può trovare nelle cinque tracce di Music For Primitive i significati che più gli aggrada o gli conviene, ma di certo l’ambient qui contenuta non rappresenta un sottofondo cullante o gradevole: il senso di disfacimento e di degrado, fisico e psichico, che per esempio il funeral doom esplicita accentuandone l’impatto emotivo, nell’operato di Antonio Airoldi e Vitaly Maklakov rimane represso, quasi fosse incapace di fuoriuscire con tutta la sua virulenza.
Alla stregua di un organismo vivente che lotta per incrinare uno spesso involucro che lo imprigiona, il death industrial dei Gopota lancia pesanti segnali verso l’esterno, sia che il tutto vada ad inserirsi nell’ingannevole pace e solennità dei canti gregoriani (Summa Liturgica), sia quando si palesa come un insistente ronzio che riporta l’immaginazione a ciò che avviene nei pressi di sostanze organiche in progressivo disfacimento (Meaningless, Empty Eye)
Un gran lavoro, in grado di inquietare facendo intuire l’orrore piuttosto che esibendolo esplicitamente: volendo fare un accostamento neppure troppo audace, questa era la prerogativa, in campo letterario, di un certo H.P. Lovecraft.

Tracklist:
1.Intro
2.Meaningless
3.Summa Liturgica
4.Attitude
5.Empty Eye

Line-up:
Antonio Airoldi
Vitaly Maklakov

Ra Al Dee Experience – Diatessaron

Musica che affonda le radici nella tradizione mediorientale, esprimendosi con arpeggi ossessivi tra i quali solo di rado trovano uno sviluppo prolungato di linee melodiche convenzionali.

Conosciamo Mors Dalos Ra quale frontman degli interessanti tedeschi Necros Christos, band dedita ad un black death intriso di riferimenti all’occultismo ed alla religione; lo ritroviamo oggi, assieme al percussionista Ben Ya Min Al Dee, alle prese con un particolare progetto acustico denominato Ra Al Dee Experience, del quale Diatessaron è il primo parto discografico.

Così come con i Necros Christos, l’approccio alla materia non è affatto diretto né semplice da decrittare, visto che le citate componenti concettuali che vi vengono immesse rendono ancor più ostica una fruizione immediata.
La veste acustica del lavoro non deve ingannare, infatti, sulla sua natura: quanto contenuto in Diatessaron non è il più consueto neo folk, bensì musica che affonda le radici nella tradizione mediorientale, esprimendosi con arpeggi ossessivi tra i quali solo di rado trovano uno sviluppo prolungato di linee melodiche convenzionali. Se vogliamo, fa eccezione l’unico tentativo di forma canzone che corrisponde alla title track, non fosse altro perché si tratta del solo brano in cui appare la voce e, in effetti, fa un certo effetto sentir cantare in tedesco sopra un tessuto sonoro che si ispira a lande ben lontane geograficamente e culturalmente da quelle germaniche.
Indubbiamente, chi apprezza gli album improntati sulla chitarra acustica potrebbe trarre un certo piacere dall’ascolto di Diatesseron, mentre ho qualche dubbio che lo stesso possa accadere per chi segue i Necros Christos, visto che l’unico tratto comune con i Ra Al Dee Experience, oltre alla presenza di Dalos Ra, è quell’impronta spirituale che, ovviamente, qui viene veicolata in maniera ben diversa.
Un lavoro sicuramente interessante ma che temo sia destinato ad essere derubricato alla stregua di un mero sfogo compositivo del suo autore principale, nonostante l’oggettivo valore, un po’ come accaduto in passato per i due “Saurian” di Karl Sanders dei Nile.

Tracklist:
1 Das Aleph, welches der Ewige, gelobet sei Er, am Berge Sinai intonierte
2 Aller Tage enden im Dunkel
3 Moses geht den Exodus
4 :Diatessaron:
5 Steine sprechen in der Ödnis von Sin
6 Das Wasser von Mara

Line-up:
Ben Ya Min Al Dee – Percussion
M. Dalos Ra – Guitars

RA AL DEE EXPERIENCE – Facebook

Ataraxia – Deep Blue Firmament

La musica degli Ataraxia esula da etichette o limiti spazio temporali, ed è essenzialmente la rappresentazione più pura di quanto sia concesso fare all’uomo manipolando le sette note.

Non c’e dubbio che ogni genere musicale sia più o meno adatto agli umori ed alle circostanze connesse al momento dell’ascolto: per un disco degli Ataraxia immagino, quale luogo ideale, una zona collinare o, ancora meglio, posizionata sulle alture della mia Genova dove, con i contrafforti appenninici alle spalle, si ha la fortuna di godere, a poca distanza, della vista di tutto il golfo.

Purtroppo tale abbinamento non sempre è possibile, pertanto ad un lavoro come Deep Blue Firmament viene affidato il non facile compito di farci immaginare quegli stessi scenari anche stando seduti in un angolo delle proprie dimore abituali.
Del resto gli Ataraxia compiono questa magia ormai da venticinque anni, reiterandola mediamente una volta all’anno senza mai mostrare cenni di stanchezza o cali d’ispirazione: chiamiamola neo folk o come meglio ci aggrada, la verità è che questa musica esula da etichette o limiti spazio temporali, ed è essenzialmente la rappresentazione più pura di quanto sia concesso fare all’uomo manipolando le sette note.
La voce meravigliosa di Francesca Nicoli è ovviamente il tratto che identifica gli Ataraxia nel loro primo palesarsi al nostro udito, la guida ideale per un viaggio virtuale tra civiltà perdute, suoni ancestrali, spiritualità e natura, il tutto intriso di quel carico di malinconia che è insito nelle anime sensibili, un club che pare divenire sempre più ristretto, a giudicare dalle nefandezze che, quotidianamente, i nostri sensi devono sempre più subire.
Da Delphi ad Alexandria II è tutto un susseguirsi di emozioni, una danza tra luci ed ombre, condotta attraverso l’uso di diversi idiomi, a corollario di suoni talmente cristallini da far temere che qualcosa possa infrangerli da un momento all’altro.
Non mi dilungherò nel canonico passaggio ai raggi x dei vari brani, un po’ per atavica incapacità, ma soprattutto perché non c’è davvero bisogno di farlo quando ci si trova al cospetto di musica di tale levatura, e neppure mi permetterò di lanciarmi in improbabili paragoni che potrebbero risultare persino offensivi per chi ci regala la propria arte da oltre un quarto di secolo.
Mi limiterò quindi a chiedervi in maniera accorata di continuare a supportare questa band, se già la conoscevate, e di scoprirla definitivamente qualora così non fosse, a meno che non vogliate continuare ad ignorare le eccellenze che, almeno a livello artistico, questo vituperato paese continua a produrre nonostante la protervia e l’ignoranza dilagante provino a soffocarle: gli Ataraxia sono una di queste, indubbiamente tra le più luminose e durature.

Tracklist:
1.Delphi
2.Message to the clouds
3.Greener than grass
4.Myrrh
5.Alexandria part I
6.Rosso Sangue
7.Galatia
8.May
9.Vertical
10.Ubiquity
11.Phoebe
12.Alexandria part II

Line-up:
Francesca Nicoli – Voce
Vittorio Vandelli – Chitarra classica, chitarra elettrica, chitarra fado, basso, cori
Giovanni Pagliari – Tastiere, armonizzazioni, cori
Riccardo Spaggiari – Rullante, tamburi a cornice, daf, darabouka, piatti, pads elettronici, programmazione

ATARAXIA – Facebook