Mechina – As Embers Turn To Dust

La title track posta in chiusura è un outro atmosferica atta a descrive il nulla che segue alla distruzione totale, mentre il dito si avvicina al tasto play per ripetere questa straordinaria sequela di emozioni che ancora una volta i Mechina ci hanno saputo donare

Puntuale con l’inizio del nuovo anno, Joe Tiberi ci porta con sé sull’astronave Mechina, e ci consegna un altro capolavoro di metallo industriale, fantascientifico ed orchestrale.

Ormai non è più una sorpresa, siamo arrivati al settimo album con As Embers Turn To Dust che segue una trilogia di opere straordinarie (Xenon, Acheron e Progenitor) convogliando ancora una volta tutto il meglio del metallo estremo moderno in un unico sound, che dalle orchestrazioni prende la propria forza e dal death la cattiveria ed il senso di terrore profondo che l’ignoto causa nell’essere umano.
Splendidamente attraversato dall’orientaleggiante ed evocativa voce di Mel Rose, molto più protagonista che sul precedente Progenitor, la nuova opera fantascientifica dei Mechina si sviluppa immaginando la morte del pianeta in una terribile sequenza di catastrofi ed attacchi alieni, mentre il genere umano si estingue e tutto brucia in un paesaggio di morte e desolazione.
L’opener Godspeed Vanguards segue il sound di Progenitor, la voce pulita riempie di impulsi new wave la musica di Tiberi, ma l’entrata in scena della Rose a duettare con il growl di Holch torna a far scorrere brividi di gelido terrore con Creation Level Event e, soprattutto, con la magnifica Impact Proxy.
Le orchestrazioni tornano a dominare la scena come sul mastodontico Acheron, una fantastica e magniloquente colonna sonora di un disfacimento, una biblica punizione a cui il pianeta non può sottrarsi.
Da una supernova arrivano le note pianistiche di Aetherion Rain, che col tempo si trasforma nella sublime The Synesthesia Signal, alimentata dalla stupenda interpretazione della Rose e dai tasti d’avorio che, in sottofondo, continuano a mandare nello spazio note, ultimi esempi di un mondo annientato dalle nefaste conseguenze espresse dalla violentissima Unearthing The Daedal.
Joe Tiberi conferma di essere al sound del precedente album con la devastante The Tellurian Pathos, mentre le tastiere si riprendono la scena nella galassia martoriata con le armonie di Thus Always To Tyrants.
La title track posta in chiusura è un outro atmosferica atta a descrive il nulla che segue alla distruzione totale, mentre il dito si avvicina al tasto play per ripetere questa straordinaria sequela di emozioni che ancora una volta i Mechina ci hanno saputo donare, in un genere che di per se è freddo come lo spazio profondo.
Pensavo fossero umani, invece niente, anche il 2017 lo chiudiamo in anticipo, almeno per quanto riguarda il sound proposto dal gruppo americano … ennesimo capolavoro.

TRACKLIST
01. Godspeed, Vanguards
02. Creation Level Event
03. Impact Proxy
04. Aetherion Rain
05. The Synesthesia Signal
06. Unearthing the Daedalian Ancient
07. The Tellurian Pathos
08. Thus Always to Tyrants
09. Division Through Distance
10. As Embers Turn to Dust

LINE-UP
Mel Rose – Vocals
David Holch – Vocals
Joe Tiberi – Guitars, Programming

MECHINA – Facebook

Nighon – The Somme

Il ritorno dei finlandesi Nighon sarà una piacevole riscoperta per tutti gli appassionati del genere e non. Una combo di voci tra melodia e potenza, testi impegnati e non banalità. Bentornati ragazzi.

I Nighon, band finlandese formatasi nel 2008, è arrivata al suo secondo album in studio che, come ben sostiene il detto popolare, è il più difficile da realizzare nella carriera di un artista.

C’è anche da dire che il fatto di aver condiviso il palco con band del calibro di myGRAIN, Magenta Harvest, Finntroll e Kill The Kong, solo per citarne alcune, ha influenzato e arricchito il loro percorso in maniera significativa.
Il risultato è quindi un nuovo album che viene catalogato come gothic, ma che ha la peculiarità di risultare molto attuale e ben accostabile anche ad altri generi di radice comune, anche grazie a sonorità aperte alle tecnologie moderne.
A tutto questo aggiungiamo il fatto che all’interno di The Somme troviamo musica che affronta riflessioni in merito a tematiche complesse che ultimamente interessano un po’ tutti: la guerra, la società post-moderna nei suoi conflitti più evidenti, quindi nulla di banale.
Per lanciare al meglio questa nuova fatica, il primo singolo estratto è esattamente il secondo contenuto nell’album e uno dei più melodici, The Greatest of Catastrophes, accompagnato proprio in questi giorni da un video accattivante, una scelta che potrebbe essere considerata comoda per certi versi.
Nonostante ciò, The Greatest of Catastrophes è solo una delle quattordici tracce, le quali hanno la caratteristica principale di essere equilibrate e mai troppo complesse o eccessive nel loro intento, soprattutto se consideriamo i testi già densi di significato.
Fondamentalmente, anche nei pezzi più energici, come You Do Not Know What The Night May Bring per citarne uno, questi ragazzi sanno interessare l’ascoltatore persino quello meno appassionato; stesso discorso vale per le songs più melodiche (The Dirge, Lest We Forget) e per gli intermezzi introduttivi che incontriamo qua e là.
Insomma, nel suo complesso The Somme è un lavoro che non propone nulla di realmente innovativo, ma è fatto bene e curato nella sua interezza, a dimostrazione di quanto i Nighon ci credano seriamente e sappiano lavorare insieme senza essere influenzati dalle molteplici band provenienti dal loro stesso paese.
Non essendo troppo vincolante nel suo genere, ve lo consiglio vivamente.

TRACKLIST
01 – Marseille 1914
02 – The Greatest of Catastrophes
03 – The Dirge
04 – Lest We Forget
05 – Medic
06 – Blow Them to Hell
07 – Altafjord
08 – Scharnhorst
09 – Reclaming Ravenpoint
10 – You Do Not Know What the Night May Bring
11 – Minor Secundus
12 – Tragédie
13 – I Fear for Tomorrow
14 – Somme

LINE-UP
Nico Häggblom – Voce
Alva Sandström – Voce
Björn Johansson – Chitarra
Mika Paananen – Batteria
Michael Mikander – Chitarra
Mats Ödahl – Basso

NIGHON – Facebook

Woest – La Fin de l’ère Sauvage

Un album la cui apparente modernità viene ampiamente incrinata da un approccio selvaggio e ostentatamente datato a livello di rivestimento sonoro.

I marsigliesi Woest esordiscono con questo full length intitolato La Fin de l’ère Sauvage, un lavoro che include pulsioni industrial all’interno di un’impalcatura black doom.

Come spesso accade, dal suolo francese giungono proposte fortemente disallineate rispetto alla normalità, una tendenza questa che dà vita a dischi geniali così come ad altri cervellotici o deludenti: il caso in questione si colloca più o meno a metà strada, in virtù di una buona propensione sperimentale che purtroppo non sempre è sorretta da suoni ottimali.
Non so se ciò possa dipendere solo dalla qualità del promo in mio possesso, ma qui la produzione alquanto ovattata non sembra valorizzare al meglio uno stile che si differenza sostanzialmente dal black più canonico, necessitando a mio avviso di una maggiore pulizia a livello sonoro.
Detto ciò La Fin de l’ère Sauvage mostra più di un passaggio brillante che rende merito al tentativo, da parte dei Woest, di creare un qualcosa di non scontato: il loro industrial black è algido, solenne e cadenzato, in possesso dunque di tutte le caratteristiche per poter inquietare i sonni di più di un ascoltatore, in virtù di rare concessioni alla melodia.
La barbarie est l’état naturel de l’humanité. La civilisation n’est pas naturelle. Elle résulte simplement d’un concours de circonstances. Et la barbarie finira toujours par triompher” è il motto, mutuato dal Robert E.Howard, che campeggia sulla pagina Facebook e sul Bandcamp della band transalpina, e credo si confaccia perfettamente ad un album la cui apparente modernità viene ampiamente incrinata da un approccio, appunto, selvaggio e ostentatamente datato a livello di rivestimento sonoro.
Un lavoro complesso, a tratti ostico, ma senz’altro interessante.

Tracklist:
01-Le Froid Efface
02-Tout S’écroule
03-La Fin de l’ère Sauvage
04-Noir
05-Moelleuse et Tiède
06-Toundra

Line-up:
Torve – vocals
Malemort – guitars, drum machine
Dismas – bass

WOEST – Facebook

Noctiferia – Transnatura

Transnatura è un lavoro che si ama alla follia o si odia con lo stesso ardore, ma se apprezzate la musica senza per forza etichettarla ed ogni tanto vi concedete l’ascolto di opere al di fuori dei cliché metallici, i Noctiferia possono diventare una piacevole scoperta.

Arrivano al sesto album in dieci anni gli sloveni Noctiferia, band che nella sua carriera ha sicuramente dato pochi punti di riferimento agli ascoltatori, stupendo ad ogni lavoro e passando dal metal estremo degli esordi al death metal melodico di metà discografia, fino all’industrial per giungere infine ai suoni di Transnatura.

Pax, precedente lavoro targato 2014, aveva presentato al mondo una band industrial, mentre con Transnatura, il gruppo lascia quasi del tutto le vie marziali dell’industrial metal per un sound che parte da una base semiacustica e si sviluppa tra dark e folk, con un uso molto originale di strumenti tradizionali.
L’album sembra un opera acustica concepita dai Rammstein, gotica a tratti, orchestrale in alcuni casi (Sleeper Is Awake), molto varia nel coniugare le varie ispirazioni che ad ogni brano cambiano completamente le carte in tavola, pur rimanendo nell’acustico ed oscuro mondo del dark rock.
Ed infatti si può assolutamente affermare che l’ultimo album della band slovena sia tutto fuorché metal, lasciato forse definitivamente (ma chi può dirlo?) ad altre entità per affrontare un mondo meno marziale e violento ma altrettanto affascinante.
Registrato e prodotto molto bene, Transnatura coinvolge non poco con le sue atmosfere che si rifanno, in molti brani, alla tradizione del paese natio dei sei musicisti, che sfruttano il loro talento per le sfumature teatrali e ci regalano piccole perle interpretative come Gaga People, Samsara ed il clamoroso dark/blues che anima la splendida Rudra.
E’ bene chiarirlo, Transnatura è un lavoro che si ama alla follia o si odia con lo stesso ardore, ma se apprezzate la musica senza per forza etichettarla ed ogni tanto vi concedete l’ascolto di opere al di fuori dei cliché metallici, i Noctiferia possono diventare una piacevole scoperta.

TRACKLIST
1. Mara
2. Catarsis
3. Holyman
4. I Am You
5. Sleeper is Awake
6. Samsara
7. Gaga People
8. Demoncracy
9. Rudra
10. Su maha gora
11. Rust

LINE-UP
Gianni Poposki- vox
Igor Nardin- guitars
Uros Lipovec- bass guitar
Mathias Gergeta- drums/ percussion
Roman Files- guitar
Damjan Tomoski – keys/percussion

NOCTIFERIA – Facebook

Aborym – Shifting.Negative

Shifting.Negative è quello che, senza alcuna remora, si può definire lo stato dell’arte di un certo modo di rimodellare la materia metal, rendendola moderna e sperimentale senza farla apparire nel contempo plastificata o cervellotica.

Accostare oggi gli Aborym ai Nine Inch Nails, per quanto possa essere accettabile, rischia d’essere riduttivo nei confronti della band di Fabban, anche se immagino che per lui l’essere avvicinato ad uno dei personaggi più influenti della musica contemporanea, come è Trent Reznor, non credo sia affatto sminuente.

Del resto gli Aborym non sono giunti alla forma espressa in questo nuovo Shifting.Negative da un giorno all’altro, bensì attraverso un percorso lungo oltre un ventennio ed in costante progressione, raggiungendo infine un risultato che va anche ben oltre quelli ottenuti in tempi recenti da chi, a torto o ragione, viene considerato il loro più naturale punto di riferimento (assieme ai NIN non è peccato aggiungervi anche i Ministry).
Mi azzardo ad affermare ciò, visto che né Reznor né Jourgensen si sono mai spinti così avanti, in un non luogo dove la forma canzone riesce misteriosamente a sopravvivere, nonostante la sua essenza sia costantemente messa a repentaglio da una sorta di “schizofrenia illuminata”, esasperata da un’instabilità che ben rappresenta gli umori cupi e poco rassicuranti dei quali l’album è pervaso ed esaltata, infine, da una produzione capace di rendere essenziale qualsiasi battito o rumore in sottofondo; la scelta di affidare il lavoro alle mani esperte di professionisti del calibro di Guido Elmi e Marc Urselli lucida al meglio l’ineccepibile prestazione d’assieme di tutti musicisti, tra i quali non si può fare a meno di citare il contributo chitarristico di Davide Tiso , senza per questo dimenticare i fondamentali Dan V, RG Narchost e Stefano Angiulli.
In buona sostanza, più ascolto Shifting.Negative e più mi rendo conto d’essere al cospetto di un’opera in grado di lasciare il segno, collocandosi temporalmente molto più avanti di gran parte della musica oggi in circolazione; non è neppure facile descrivere in maniera esauriente un lavoro di questa natura, con il rischio concreto di scrivere delle solenni fesserie o, peggio ancora, delle banalità, cercherò quindi di esprimere alcune delle impressioni derivanti da molteplici ascolti.
Partirei, quindi, da Precarious, singolo/video che ha anticipato l’uscita del disco e che ne ha rappresentato il mio primo approccio: tanto per far capire quanto la nostra mente sia condizionata da schemi precostituiti, ho trascorso circa sei minuti ad attendere quell’esplosione fragorosa che invece non sarebbe mai arrivata, percependo solo dopo diversi passaggi che quei momenti apparentemente interlocutori altro non erano che il naturale sviluppo di un brano intimo, intenso e disturbante allo stesso tempo, e tutto questo senza fare nemmeno ricorso a particolari artifici.
Già questo era il segno premonitore di un album che avrebbe in qualche modo scombinato i piani di chi si sarebbe aspettato, magari, un altro passo in direzione di quella relativa fruibilità che aveva mostrato a tratti il precedente Dirty: Shifting.Negative non stravolge il marchio di fabbrica degli Aborym, bensì lo consolida rendendolo ancor più peculiare ed imprevedibile, facendo apparire anche il passaggio più ostico quale inevitabile approdo di una creatività artistica segnata dall’inquietudine.
Concludo citando altri momenti chiave quali Unpleasantness, traccia che apre magistralmente l’album risultando probabilmente anche quella più orecchiabile (prendendo con tutte le cautele del caso questo aggettivo applicato alla musica degli Aborym) in virtù di un chorus piuttosto arioso, pure se inserito in un contesto aspro e disturbato da incursioni elettroniche, e l’accoppiata centrale formata da Slipping throught the cracks e You can’t handle the truth, in cui le già citate band icona del genere vengono omaggiate e non saccheggiate.
Shifting.Negative è quello che, senza alcuna remora, si può definire lo stato dell’arte di un certo modo di rimodellare la materia metal, rendendola moderna e sperimentale senza farla apparire nel contempo plastificata o cervellotica: un disco fondamentale per chiunque abbia voglia di osare qualcosa in più, spingendosi oltre schemi prestabiliti ed ascolti rassicuranti.

Tracklist:
1. Unpleasantness
2. Precarious
3. Decadence in a nutshell
4. 10050 cielo drive
5. Slipping throught the cracks
6. You can’t handle the truth
7. For a better past
8. Tragedies for sales
9. Going new places
10. Big h

Line-up:
Fabban: programming, modulars, synth and vocals
Dan V: guitars and bass
Davide Tiso: guitars
Stefano Angiulli: synths and keyboard
RG Narchost: additional guitars

ABORYM – Facebook

Sonus Mortis – Hail The Tragedies Of Man

Ogni ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.

Il progetto solista del dublinese Kevin Byrne, denominato Sonus Mortis, era stato nel 2014 una di quelle piacevoli scoperte capaci di cambiare in meglio l’umore di ogni appassionati di musica a 360 gradi.

Propaganda Dream Sequence aveva evidenziato un approccio fresco e personale alla materia estrema nel suo abbinare elementi sinfonici, pulsioni industriali e una base death doom, anche se, ovviamente, per sua natura il sound dei Sonus Mortis risultava rallentato solo a tratti, prediligendo spesso ritmi più martellanti.

Il successivo War Prophecy ha poi consolidato il livello raggiunto con il full length d’esordio e, mantenendo la cadenza di in un’uscita all’anno, Kevin nel 2016 ha puntualmente offerto ai propri estimatori questo Hail The Tragedies Of Man.
Se vogliamo, l’unico aspetto negativo del fare centro al primo colpo con un lavori di livello superiore alla media, rende più complessa la progressione con i lavori successivi, ma non è neppure facile mantenere comunque uno standard ugualmente elevato: il musicista irlandese ci riesce anche stavolta in virtù di una capacità di scrittura sempre efficace e in grado di integrare un sound aspro con notevoli spunti melodici.
Non resta che ribadire, ad uso e consumo di chi si volesse avvicinare all’operato del bravo Byrne, gli accostamenti naturali con gli ultimi Samael e soprattutto con i Mechina (e di conseguenza Fear Factory): in particolare il parallelismo con la creatura di Joe Tiberi (che puntualmente ha pubblicato il suo probabile nuovo capolavoro nel primo giorno dell’anno) appare il più interessante proprio per un percorso simile ma che diverge in maniera sostanziale per il diverso background musicale dei musicisti counvolti.
Se dall’altra parte dell’oceano quella che giunge fino a noi è una tempesta di suoni futuristici, solenni e spaziali, nel senso più autentico del temine, i Sonus Mortis mettono in scena il lato più atmosferico e, non a caso, gran parte dei brani si avvalgono di incipit rallentati che preludono a altrettante esplosioni sonore, alternate a brillanti aperture atmosferiche; inoltre, va segnalato un più ampio ricorso a clean vocals che si rivelano del tutto efficaci nella sua alternanza al più consueto screaming growl filtrato, pur non possendo il buon Kevin un estensione vocale particolarmente ampia.
Hail The Tragedies Of Man mostra una serie di variazioni sul tema che rendono interessante il lavoro in ogni frangente, in barba alla sua ora e passa di durata: a tale riguardo, basti l’ascolto di due brani contigui per collocazione in scaletta ma ben diversi per approccio, come The Great Catholic Collapse, dalle magnifiche progressioni chitarrstiche ed un andamento più rallentato, e I See Humans But No Humanity, furiosa per la prima metà nel suo snodarsi per oltre otto minuti (seconda per durata solo all’opener Chant Demigod) per poi adagiarsi su un assolo prolungato e vibrante.
Non è parlando di ogni brano che si rende il servizio migliore ai Sonus Mortis: l’ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.
Come per i già citati Mechina, continuo a meravigliarmi del fatto che nessuna label di spessore internazionale non abbia ancora gettato il suo sguardo sui Sonus Mortis: un peccato, soprattutto perché la conoscenza di realtà di tale spessore meriterebbe d’essere estesa ad un’audience infinitamente più ampia di quanto possa produrre un volenteroso passaparola sul web.

Tracklist:
1.Chant Demigod
2.Null And Void
3.Subproject 54
4.No Escape
5.And So We Became Slaves Forever
6.End Of Days
7.The Great Catholic Collapse
8.I See Humans But No Humanity
9.Chaos Reigns
10.Wretched Flesh, I Embrace
11.Hail The Tragedies Of Man

Line-up:
Kevin Byrne

SONUS MORTIS – Facebook

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw

Atonismen – Wise Wise Man

Un oscuro scrigno musicale che, alla sua apertura, esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.

La tanto bistrattata rete nel corso degli ultimi decenni ha dato la possibilità a molte realtà di farsi conoscere, specialmente quelle nate in paesi ai confini del mondo musicale e, in questo caso, metallico.

I paesi dell’Europa dell’est per esempio, solo pochi anni fa praticamente sconosciuti a livello musicale, hanno trovato nel web la possibilità di far conoscere le loro scene, qualitativamente notevoli come in Russia, dove la musica è storicamente una parte importante della crescita culturale e non un fastidioso ripiego come per esempio nel nostro paese.
Noi fin dai tempi di Iyezine, abbiamo sempre dato il giusto spazio alle varie scene mondiali, missione che portiamo avanti con entusiasmo anche sulla nuova testata metallica a nome MetalEyes e le soprese non mancano di certo, cominciando dagli Atonismen e dal loro bellissimo primo album, Wise Wise Man.
Il trio di San Pietroburgo è un gruppo nuovo di zecca formato dal polistrumentista e cantante Alexander Orso e dai due chitrarristi Alexander Senyushin e Child Catherine.
Il loro nuovo lavoro è quanto mai riuscito, visto che nel proprio sound ingloba vari suoni ed influenze, per un mix letale ed estremo di gothic, dark, elettronica e death metal molto affascinate.
Atmosfere horror, sadiche parti elettroniche, una voce personalissima e teatrale, ritmi marziali, orchestrazioni sinfoniche, ed accelerazioni estreme, fanno parte di questo oscuro scrigno musicale che alla sua apertura esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.
Pensate ad una jam tra i primi Crematory, i Rammstein, e le sinfonie dark di una tra le miriadi di gothic metal band sparse per il globo, ed avrete un’idea del sound malato, destabilizzante e molto estremo del gruppo russo, che dà il meglio di sé quando l’elettronica diventa padrona del sound, con parti industrial dark malatissime e destabilizzanti.
Si passa così da brani potentissimi di oscuro ed orchestrale gothic metal (la title track e la stupenda Sorry), devastanti esempi di musica estrema moderna, maligna e terrorizzante come i due remix e la splendida Almagest.
Album affascinate, molto curato e maligno il giusto per farvi attraversare da voglie strane di bondage, frustini e torture assortite.

TRACKLIST
1.Almagest
2.Sorry
3.My Tale
4.Wise Wise Man
5.Wiegenlied
6.In Timeless Clamor
7.Wise Wise Man (dark-mix)
8.Wise Wise Man (industrial-mix)

LINE-UP
Alexander Orso – All instruments, Vocals
Alexander Senyushin – Guitars
Child Catherine – Guitars

ATONISMEN

Fabiano Andreacchio & The Atomic Factory – Living Dead Groove

Un sound non da tutti, specialmente se si è ancorati ai soliti cliché.

Esce sotto l’ala della Sliptrick Records il nuovo lavoro del bassista Fabiano Andreacchio dopo le fatica strumentale dello scorso anno intitolata Bass R-Evolution.

Il nuovo progetto si chiama Fabiano Andreacchio & The Atomic Factory, dove il musicista è dedito, insieme a Mikahel Shen Raiden (chitarra e voce) e Nicola De Micheli (batteria), ad una sorta di industrial metal dalla forte impronta techno, valorizzato da scorribande progressive con sempre in evidenza il gran lavoro della sezione ritmica condotta dal basso, usato dal protagonista non solo come strumento di accompagnamento ma vero propulsore del sound alquanto originale dell’album, intitolato Living Dead Groove.
Un sound non da tutti, specialmente per chi è ancorato ai soliti cliché, perché la musica spazia senza freni tra frenetiche ritmiche industrial, con toni vocali che richiamano la musica elettronica in stile Kraftwerk, e metal che ha tanto di estremo, moderno, ma pur sempre convogliato in un’espressione sonora che richiama i Cynic ed i gruppi totalmente slegati dalle briglie dettate dai generi.
Quattordici brani in quasi cinquanta minuti di musica senza freni, dove l’elettronica ha comunque la maggior parte dei pregi nel rendere l’ascolto molto vario ed assolutamente appagante, grazie anche ai suoni che escono potenti e cristallini, in overdose industriale e con il progressive a spezzare la tensione con atmosfere dilatate e ariose.
Geniale la cover di Smell Like Teen Spirit dei Nirvana, qui intitolata Smell Like a Corpse, da bass heroes le neanche troppe divagazioni strumentali, dove tutto il talento di Andreacchio è ben in evidenza, mentre sono da applausi un paio di tracce che mettono in risalto l’anima death prog del lavoro (Hypocrsy e Cangrene).
Non mancano gli ospiti che vanno a valorizzare molti dei brani dell’album, come Jeff Hughell (Six Feet Under), Brian Maillard (Dominici, Solid Vision), Dino “Bass Shred” Fiorenza (Y. Malmsteen, E. Falaschi), Gabriels, Francesco Dall’O’ e altri.
Un album che dividerà critica e pubblico,ma che ha nella sua anima crossover il vero punto di forza: dategli un ascolto.

RACKLIST
1.Zombie’s Breakfast
2.Not Dead Yet
3.Corpse’s Hill
4.Splatter Head feat. Gabriels
5.S.o.S. feat. Dino Fiorenza
6.Hypocrisy
7.Cangrene feat. Brian Maillard
8.X-Cape feat. Francesco Dall’O’
9.End of Abomination feat. Jeff Hughell
10.Smell Like a Corpse
11.Creepy Groove feat. G. Tomassucci
12.Hypocrisy Francesco Zeta Rmx
13.Corpses Hill Smoke DJ Rmx
14.End of Abomination Acoustic

LINE-UP
Fabiano Andreacchio-Bass and Vocals
Mikahel Shen Raiden-Guitar and Backing Vocals
Nicola De Micheli-Drums

ATOMIC FACTORY – Facebook

Pain – Coming Home

Un album che sintetizza il credo musicale odierno del musicista svedese, un rock industriale dal piglio melodico, dark nelle atmosfere ma arioso nello spirito.

Peter Tägtgren si può certamente considerare insieme a Dan Swanö la mente più geniale del panorama metal scandinavo: leader dei seminali Hypocrisy, con cui ha scritto una serie di lavori irrinunciabili per gli amanti del death metal nord europeo prima, ed ora assoluto protagonista delle divagazioni elettro/industrial dei Pain, con in mezzo centinaia di album prodotti che ne hanno fatto una firma prestigiosa anche dietro alla consolle.

Tägtgren torna con i suoi Pain dopo la collaborazione con Till Lindemann, vocalist dei Rammstein, e Coming Home già dal titolo si preannuncia come un ritorno al progetto che ad oggi considera il solo mezzo per liberare la sua creatività, lontano dai dettami estremi di una band storica come gli Hypocrisy, focalizzandosi su di un genere che possiamo sicuramente considerare la strada ultima del musicista e produttore svedese.
Aiutato da Clemens Wijers per le orchestrazioni (Carach Angren), Tägtgren aggiunge un altro tassello alle fondamente della casa Pain con un lavoro godibilissimo, ultra melodico, ma ritmicamente pesante di quegli umori industriali che indubbiamente portano in terra tedesca e nel cortile della casa dei Rammstein.
Ma attenzione, dove il gruppo tedesco mantiene la sua più fortunata caratteristica, nell’andamento marziale e freddo, la musica dei Pain si nutre di umori dark wave, comuni al rock ottantiano, con l’occhiolino strizzato al pop di quegli anni, fortunato non solo per il metal ma pure per la musica mainstrem.
Ne esce come sempre un lavoro difficile da digerire per i fans storici del Tägtgren cattivo ed estremo dietro al microfono degli Hypocrisy: Coming Home risulta colmo di brani dal piglio radiofonico, una raccolta di episodi godibili in qualsiasi club sparso per le vie notturne delle città europee, meravigliosamente orchestrali, dannatamente irresistibili e commerciali come forse non i Pain prima d’ora non avevano mai prodotto.
Un album che sintetizza il credo musicale odierno del musicista svedese, un rock industriale dal piglio melodico, dark nelle atmosfere ma arioso nello spirito e A Wannabe, Pain In The Ass e Black Knight Satellite ne sono il più fulgido esempio.

TRACKLIST
01 – Designed to Piss You Off
02 – Call Me
03 – A Wannabe
04 – Pain in the Ass
05 – Black Knight Satellite
06 – Coming Home
07 – Absinthe-Phoenix Rising
08 – Final Crusade
09 – Natural Born Idiot
10 – Starseed

LINE-UP
Peter Tägtgren – vocals, guitar, programming

David Wallin – drums
Michael Bohlin – guitar
Johan Husgavfel – bass

PAIN – Facebook

Styxian Industries – Zero.Void.Nullified {Of Apathy and Armageddon}

Zero.Void.Nullified è un lavoro valido, ma il potenziale della band sembra superiore al risultato ottenuto sul campo: una serie di riff azzeccati uniti ad una prestazione tecnicamente valida non valgono per ora qualcosa in più di un’abbondante sufficienza.

L’esordio su lunga distanza per gli olandesi Styxian Industries arriva finalmente sotto l’egida della tentacolare Satanath Records, dopo diversi anni ed una serie di lavori di minutaggio ridotto.

Zero.Void.Nullified è un’opera devota al black di matrice industrial, una materia che viene trattata in maniera piuttosto efficace dal trio dei Paesi Bassi, anche se la tendenza oscilla tra un’adesione alle sfuriate canoniche del genere e l’approdo a ritmiche elettroniche, senza che si vada quasi mai a sconfinare nella danzabilità dei primi The Kovenant.
Il disco si dipana in maniera interessante, anche se talvolta affiora nei nostri un’indole un po’ troppo ondivaga, poiché nel complesso viene a mancare per continuità sia la martellante pesantezza dell’industrial sia la ferocia nichilista del black: il risultato è un compromesso tra queste due componenti che offre buoni risultati, come la notevole We Took the World, la cangiante Zero Void Nullified e la parossistica Salvation (con clean vocals rivedibili, però) accompagnati ad una serie di brani che, alla lunga, lasciano un po’ di stanchezza, essendo ricchi di potenziale corrosivo ma poveri di riff e spunti capaci di imprimersi a lungo nella mente.
L’operato dei Styxian Industries è tutt’altro che riprovevole, ma la sensazione è che, allo scopo di mantenere un certo equilibrio tra le due componenti, si scelga una via di mezzo che frena uno sviluppo più deciso, e probabilmente costruttivo, in un senso o nell’altro.
Zero.Void.Nullified è un lavoro valido, ma il potenziale della band orange mi sembra superiore al risultato ottenuto sul campo: l’impalcatura è solida, ma i contenuti sono senz’altro migliorabili, e una serie di riff azzeccati uniti ad una prestazione tecnicamente valida non valgono per ora qualcosa in più di un’abbondante sufficienza.

Tracklist:
1. Feed Us
2. You
3. Salvation
4. Revelation
5. Whiskey Vodka Blood
6. Zero Void Nullified
7. Bastard God
8. Wasted World
9. We Took the World
10. Execute Planet Earth

Line-up:
Ms. M – Guitars
Mr F. – Percussion, Drums
Ir T. – Vocals

STYXIAN INDUSTRIES – Facebook

Cypecore – Identity

La musica dei Cypecore pesca dal melodic death metal scandinavo dal thrash/groove americano fusi con dosi letali di ritmi ed atmosfere industrial.

La label svedese Adulruna records licenzia il terzo parto di questa creatura nata in Germania che di nome fa Cypecore.

Una band che senza tanti fronzoli ha dato alla luce tre lavori sulla lunga distanza, serza perdersi con lavori minori, da quando nel 2008 uscì Innocent, seguito da Take the Consequence due anni dopo.
Sono passati dunque sei anni dall’ultimo lavoro e Identity conferma la buona proposta del gruppo, un death metal melodico violentato da ritmiche thrash, tanto groove ed una vena industriale che riempe di atmosfera apocalittica e moderna il sound.
Undici tracce comprese di intro ed outro più una bonus track finale, completano questo lavoro che risulta una mazzata niente male, non dimenticando l’importanza della melodia, inserita a valanga nell’uso della doppia voce e nei molti solos e che rendono i Cypecore un buon ascolto anche per gli amanti del classico death metal melodico.
Identity funziona, i colpi mortali e distruttivi inferti da brani come Saint Of Zion, My Confession, Drive e The Void non risparmiano nessuna delle vittime cadute sotto il bombardamento cyber/thrash che la band scatena, l’aura moderna ed estrema rimane intatta anche quando la voce pulita e le melodie chitarristiche smorzano l’effetto devastante che la band riesce ad emanare amalgamando le sue principali influenze concentrandosi, magari troppo, su ritmiche decisamente sostenute.
L’outro strumentale che rivendica l’anima cyber del gruppo, potrebbe essere l’inizio di una virata decisa verso l’industrial, magari sempre sostenuto dalle varie correnti musicali in seno della band; si sente ancora forte l’odore di Soilwork tra le trame di Identity, non un male, semmai un dettaglio, ma la propensione industrial è quella che a mio parere va assolutamente curata da parte del quintetto tedesco.
Identity comunque rimane un buon lavoro, l’impatto è terremotante, così come di livello la produzione, le idee non mancano ed il gruppo ne esce compatto ed estremo il giusto per non deludere gli amanti del metal più moderno.

TRACKLIST
1. Intro
2. Saint of Zion
3. Where the World Makes Sense
4. My Confession
5. Hollow Peace
6. Identity
7. Drive
8. A New Dawn
9. The Abyss
10. The Void
11. Outro
12. The Hills Have Eyes

LINE-UP
Christoph “Chris” Heckel – Bass
Tobias Derer – Drums
Nils “Nelson” Lesser – Guitars
Christoph “Greek” Rogdakis – Guitars, Keyboards
Dominic Christoph – Vocals

CYPECORE – Facebook

Minenwerfer / 1914 – Ich Hatt Einen Kameraden

Uno split unico e magnifico, che raggiunge perfettamente lo scopo che si era preposto, quello di ricordare quei caduti, persone prima vive e con una storia, amori ed errori, ora solo un fiore in un campo lontano.

Concept split tra due grandi gruppi, per una pubblicazione di altissimo valore.

Il disco è un concept album sulla prima guerra mondiale, focalizzato sugli stati d’animo e le durissime situazione che hanno dovuto affrontare i soldati di entrambi gli schieramenti. A prima vista questo split potrebbe sembrare politicizzato, ma non lo è affatto, anzi ha un valore documentale molto alto. La musica di questi due gruppi ci porta con il cuore prima e con il cervello poi sul campo di battaglia, e possiamo vedere i soldati vivere, ma soprattutto morire, cadere come mosche in un’immensa carneficina, dono degli umani al nero signore. I due gruppi protagonisti dello split vengono da due paesi che erano su opposti schieramenti durante la Prima Guerra Mondiale, i Minenwerfer vengono dal nuovo mondo, più precisamente da Sacramento, California, mentre i 1914 sono ucraini di L’Viv. I Minenwerfen, che era il nome di un mortaio a corta gittata che montava proiettili da 7,58, molto usato dall’esercito tedesco, poiché serviva a bombardare piccole fortificazione e trincee, come quel mortaio aggrediscono con il loro war black metal, devoto al classic black, ma con grandi inserti delle nuove tendenze, ed il tutto è molto distruttivo e potente, perfettamente inquadrato nel quadro del concept album.
La seconda parte dello split vede gli ucraini 1914 compiere un gran lavoro di documentazione storica e sonora, proponendo un suono industrial black, al quale questa definizione sta davvero stretta. Il loro incedere è davvero estremo ed unico, poiché fondono insieme diverse istanze, dal death al black ed un tocco industrial, come nel pezzo Gas Mask, dove la claustrofobia raggiunge davvero livelli estremi, e fa persino capolino l’ 8 bit, dando un grandissimo valore aggiunto al disco.
Uno split unico e magnifico, che raggiunge perfettamente lo scopo che si era preposto, quello di ricordare quei caduti, persone prima vive e con una storia, amori ed errori, ora solo un fiore in un campo lontano. Ed il black metal continua ad essere una guerra.

TRACKLIST
1.Minenwerfer – First Battle of the Masurian Lakes
2.Minenwerfer- Battle of Bolimów (Weisskreuz)
3.Minenwerfer – Iron Cross (Ostfront 1915 Version)
4.Minenwerfer – Second Battle of the Masurian Lakes
5.1914 – An Meine Völker!
6.1914 – Karpathenschlacht (Dezember 1914 – März 1915)
7.1914 – 8 × 50 mm. Repetiergewehr M.95
8.1914 – Gas mask (Eastern front rmx)

ARCHAIC SOUND – Facebook

Mechina – Progenitor

Progenitor è un altro album mostruoso sotto ogni aspetto, la totale perfezione nell’amalgamare le orchestrazioni sinfoniche al metal estremo moderno, a cui si aggiungono atmosfere sempre differenti che fanno dei Mechina degli assoluti maestri.

E’ arrivata, l’abbiamo aspettata un’anno esatto, ma puntuale il 1° gennaio 2016 l’astronave Mechina è tornata per riportarci in giro per l’universo, tra mondi sconosciuti, alla scoperta di antiche ed affascinati civiltà persi nel black hole estremo che è la musica di questa band fuori dal comune.

Gli ufficiali Joe Tiberi e Dave Holch, sempre sul ponte di comando, questa volta affrontano battaglie intergalattiche, con la consapevolezza di essere una macchina da guerra devastante, i nemici non sono i mostri mitologici di Acheron, ma esseri più vicini a noi, come in Xenon e la musica di conseguenza risulta meno sacrale ed epica e più industrial, tornando a confrontarsi con i Fear Factory e gruppi più terreni.
Il risultato non può che essere comunque a vantaggio di questi splendidi creatori di musica estrema moderna, ormai tenacemente un passo davanti a tutti, almeno alle band che affrontano lo stesso genere dei mostruosi musicisti dell’Illinois.
Come avrete capito, il nuovo lavoro si avvicina al sound di Xenon, lasciando ad una splendida voce femminile, molte parti dei vari brani.
Sempre epico ma meno oscuro del suo predecessore, Progenitor è molto più siderale, ma mentre Acheron non lasciava trasparire la benché minima luce, il nuovo lavoro lascia spazio alla speranza, come se la band volesse dirci che lo spazio profondo non è poi così annichilente come descritto un anno fa.
Sinfonie ariose si fanno spazio tra le devastanti ritmiche industrial death, attimi di terrorizzante death metal moderno sono spazzati via da un mood positivo, nascosto, ma ben visibile ad un orecchio attento, e Progenitor decolla, dopo il massacro Ashes of Old Earth, per donare ancora una volta una visione dello spazio che, ad ogni album lascia in noi sensazioni ed emozioni differenti, come la trama e le varie avventure di un’odissea, iniziata ormai più di dieci anni fa con The Assembly of Tyrants.
Benissimo ha fatto il gruppo a non soffermarsi troppo sulla monolitica magniloquenza di Acheron, il nuovo album traccia altre coordinate su cui l’astronave Mechina viaggia, non solo death metal sinfonico e industrial ma dark wave ottantiana, specialmente nella sublime Anagenesis, capolavoro di Progenitor, alla pari con Cryoshock e la title track, posta in chiusura e che torna al death metal sinfonico dalle ritmiche devastanti a cui ci hanno abituato questi fenomenali musicisti americani.
Progenitor è un altro album mostruoso sotto ogni aspetto, la totale perfezione nell’amalgamare le orchestrazioni sinfoniche al metal estremo moderno, a cui si aggiungono atmosfere sempre differenti che fanno dei Mechina degli assoluti maestri.
Il viaggio è finito, scendiamo dall’astronave e salutiamo i due ufficiali sperando che sia un arrivederci al prossimo anno: 1-1-2017, io li sto già aspettando.

TRACKLIST
1. Mass Locked
2. Ashes of Old Earth
3. Starscape
4. Cryoshock
5. The Horizon Effect
6. Anagenesis
7. Planetfall
8. Progenitor

LINE-UP
Joe Tiberi- Guitars, Programming
David Holch- Vocals

MECHINA – Facebook

War Anyway – War For Peace

Un lavoro industrial/metal/rock su cui vale la pena soffermarsi

I francesi War Anyway, formazione a due di cui è stato impossibile trovare i nomi, debuttano sulla breve distanza con i cinque brani del controverso ep War For Peace. Il disco, incentrato sul tema della guerra come portatrice di pace (?), insiste su ritmi marziali abbinati a riusciti mix di melodia e ruvidezza.

Le isolate pulsazioni di Crossing The Rubicon, si sviluppano ben presto in un trascinante rock industriale incentrato su batteria, chitarra e synth (ottimi i ritornelli), mentre l’alternarsi di energia e (relativa) quiete di We Are The Army, risultando sempre coinvolgente e deciso, lascia che a seguire sia il breve e spigliato procedere di Actions Have Consequences.
Il torbido svilupparsi dell’elettrica e incisiva The Rise Of A Tyrant, invece, cede spazio al più ragionato svilupparsi (non meno determinato) della conclusiva e intensa The System Is Down.

I cinque brani proposti dai War Anyway, tralasciando le tematiche del concetto di guerra e di pace (e di come raggiungere quest’ultima), vanno dritti al punto in maniera diretta ed efficace, convincendo fin dal primo ascolto. Un lavoro industrial/metal/rock su cui vale la pena soffermarsi.

TRACKLIST
01. Crossing The Rubicon
02. We Are The Army
03. Actions Have Consequences
04. The Rise Of A Tyrant
05. The System Is Down

WAR ANYWAY – Facebook

Pavillon Rouge – Legio Axis Ka

Album difficile da assimilare per chi vive di musica a compartimenti stagni, Legio Axis Ka è consigliato agli amanti dell’estremo che non disdegnano soluzioni moderniste ed elettroniche.

I suoni metallici amalgamati a quelli sintetici ed elettronici non fanno più quel clamore di una ventina d’anni fa: anche in questo ibrido musicale si è già detto più o meno tutto e gli album che hanno fatto storia sono stati saccheggiati dalle nuove leve in ogni loro parte.

Vero è che, chi ha raccolto maggiori proseliti sono quei gruppi che, partendo dalla lezione impartita dai Fear Factory, hanno creato mostri di abominevole metal estremo, violentato e reso ancora più devastante dalle soluzioni industriali.
Ma i francesi Pavillon Rouge fanno spallucce e proseguono imperterriti la loro discesa negli inferi con Legio Axis Ka, un monolite di black metal estremizzato da iniezioni di elettro/industrial, dalle forti reminiscenze new wave e dall’appeal straordinario.
Il gruppo estremo di Grenoble, attivo da quasi una decina d’anni, immette sul mercato tramite la Dooweet, questo secondo, splendido lavoro dopo cinque anni dall’ultimo parto, “Solmeth Pervitine”.
Black metal si diceva, feroce, e distruttivo, una bestia malefica che si nutre di suoni drogati e sintetici, atmosfere cyber ed industriali, fanno del nuovo lavoro una massacrante prova di forza da parte della band transalpina, in un viaggio per lo spazio che finisce inevitabilmente con una interminabile caduta tra le braccia di un demoniaco signore residente nel più profondo abisso.
Ottimamente usati, i suoni moderni trasmettono atmosfere che si diversificano ad ogni passaggio: ora disturbanti, molte volte creando sfumature sinfoniche e spaziali, ora tuffandosi nella techno (Kosmos Ethikos), creando un universo di musica estrema varia e dall’ottimo feeling.
Un mostro creato, come dal dottor Frankenstein, impossessandosi di parti che, ricucite assieme prendono vita, richiamando sotto la fiamma nera del black oltranzista una serie di generi nati dai suoni sintetici come l’industrial, la techno e la new wave per un risultato forse ambiguo ma molto affascinante.
Spaziale nel suo incedere, Legio Axis Kla, ha nelle parti estreme , dove la furia black è tenuta per le briglie dalla marzialità dei suoni cyber, i momenti più intensi come nell’opener Prisme vers l’Odysée e L’enfer se souvient, l’enfer sait, ottima accoppiata di songs estreme e furiose.
Mars Stella Patria si allontana dall’approccio black sinfonico delle prime due tracce per una canzone molto più sintetica e techno, ed è proprio su questa alternanza di stili che Legio Axis Ka vive, lasciando alla monumentale A l’Univers, il compito di inglobare tra il suo spartito tutti gli umori e le sfumature che compongono la musica dei Pavillon Rouge.
Album difficile da assimilare per chi vive di musica a compartimenti stagni, Legio Axis Ka è consigliato agli amanti dell’estremo che non disdegnano soluzioni moderniste ed elettroniche, se ne astengano invece gli adepti del black più oltranzista.

Tracklist:
1. Prisme vers l’Odysée
2. L’enfer se souvient, l’enfer sait
3. Mars Stella Patria
4. A l’Univers
5. Aurore et Nemesis
6. Droge Macht Frei
7. Kosmos Ethikos
8. Notre Paradis
9. Klux Santur

Line-up:
E.Shulgin – Bass
Kra Cillag – Vocals
Mervyn Sz. – Guitars, Programming
François Guichard – Guitars (lead), Vocals

PAVILLION ROUGE – Facebook

Dan Deagh Wealcan – Who Cares What Music Is Playing In My Headphones?

E’ un susseguirsi di sorprese questo nuovo lavoro dei Dan Deagh Wealcan, che in poco più di trenta minuti racchiudono un’enormità di generi, creando varie atmosfere che cambiano come il clima primaverile

La Metal Scrap non si fa mancare niente nel proprio rooster: le band su cui l’etichetta ha messo lo zampino sono ottime realtà appartenenti ai più svariati generi, dal metal classico all’estremo, fino all’alternative e, come nel caso dei Dan Deagh Wealcan, all’industrial, anche se manipolato e reso originalissimo da abbondanti dosi di alternative metal, maturo e progressivo.

Il duo con cittadinanza in una delle più belle capitali europee (Mosca) nasce nel 2012 ed è al secondo lavoro: Mikhail A. Repp e Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenk soprendono per l’elevata qualità della loro musica, strutturata su un sound che ha, come punto di riferimento, il sound pazzoide di Trent Reznor ed i suoi Nine Inch Nalis, reso originale da una serie di spunti che chiamare geniali è dir poco e che pescano dall’alternative così come dal prog moderno, dall’industrial al metal, in un’amalgama di suoni che spaziano senza lasciare mai la strada dell’originalità.
E’ un susseguirsi di sorprese questo nuovo lavoro dei Dan Deagh Wealcan, che in poco più di trenta minuti racchiudono un’enormità di generi, creando varie atmosfere che cambiano come il clima primaverile, tuoni e fulmini, quando la band decide di aggredire, ma all’improvviso un vento alternativo spazza il cielo e la musica torna su motivi più rock/wave, rabbuiandosi all’improvviso al ritorno di forti burrasche musicali.
Bellissime Dogs In A box ed, Easy Way Long Way (progressiva, oscura, colma di cambi di tempo e allucinanti digressioni alla Primus sopra un tappeto di elettronica); Neutral Moresnet è una song estrema, i maestri Ministry fanno capolino, la voce diventa un pazzoide urlo di dolore, mentre in What Was That sono i Primus a tornare in bella mostra nel songwriting del gruppo moscovita.
In un lavoro così folle poteva mancare Devin Townsend? Baseless Hatred spara accelerazioni thrash che stravolgono ancor di più il sound e l’idea che ci eravamo fatti sulla musica del duo, continuando poi ad alternare elettronica ad alternative rock, in un turbinio di cambi di tempo ed atmosfere.
Gran bel disco, a cui bisogna dedicare un po’ di tempo per far proprie tutte le sfumature che ad ogni ascolto escono dall’opera scritta da questi due geniali musicisti, ai quali ogni tipo di etichetta sta stretta e pare sempre forzata, tanto è originale la loro proposta.

Track List:

1. Anamorphic Widesound
2. Dogs in a Box
3. Easy Way – Long Way
4. No More Than Usual
5. Neutral Moresnet
6. What Was That?
7. Baseless Hatred
8. I Killed Everything That Was Good in Me
9. Endless Apathy 03:43 Total playing time:

Mikhail A. Repp – Sound.
Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenko – Voice

Originale sound che mischia industrial, alternative, prog e metal è quello che ci propongono i moscoviti Dan Deagh Wealcan.

https://www.facebook.com/DanDeaghWealcan

Sick N’ Beautiful – Hell Over Hell

Preparatevi e andate allo spettacolo, il circo è arrivato in città!

Certo che nella capitale in fatto di metal e rock non si scherza: con ancora nelle orecchie l’industrial/street/ glam dei divertentissimi Dope Stars Inc, gruppo che se fosse straniero sarebbe idolatrato da mezzo globo, ecco che mi esplode nelle orecchie Hell Over Hell, debutto di questo fantastico combo, sempre di Roma, partito alla conquista del globo con il suo spettacolo di hard rock circense, che poi non è altro che hard rock alternativo, colmo di groove e digressioni moderne, talmente ben fatto che comincio a pensare che i Sick N’ Beautiful siano davvero di un altro pianeta.

Prodotto alla grande tra Roma e Los Angeles e licenziato dalla Rosary Lane Usa, l’album è composto da un lotto di brani divertentissimi e dall’appeal esagerato: la band capitanata dalla singer Herma, dotata di una voce sensuale, piccante e tremendamente cool, spazia tra l’hard rock stradaiolo, con bordate di groove e ritmiche industrial che accentuano i ritmi, rendendoli ambigui e ipnotizzanti; senza farsi mancare nulla, i Sick N’ Beautiful affondano il colpo, piazzando solos metallici grondanti feeling dalle corde delle due asce di Rev C2 e Lobo.
Le canzoni di questo lavoro (tredici più tre interludi elettro-atmosferici) spaziano tra l’industrial/groove di Rob Zombie e l’hard rock di matrice statunitense: il look dei protagonisti amalgama il fascino da zombie futurista dell’ex leader degli immensi White Zombie alla teatralità fantascientifica dei Kiss e del glam/horror di Alice Cooper, influenze dichiarate del gruppo, nel quale personalmente ho trovato anche molte affinità con lo Slash solista di “Beautiful Dangerous”, brano in compagnia di Fergie contenuto nel primo album del chitarrista americano, e con l’alternative dei Nymphs di Inger Lorre.
Spettacolare il singolo e primo video New Witch 666, dal solo orientaleggiante e dalle ritmiche industrial/groove poggiate su un’atmosfera da grand guignol, così come le ritmiche del basso pulsante di Sick to the Bone, che sfociano nello street metal di Bigbigbiggun, l’orchestrazione futurista di Makin’Angels, la trascinante No Sleep Till Hollywoood e la sexy Queen Of Heartbreakers.
Ancora atmosfere dal lontano oriente con Pain For Pain: il basso di Bag Daddy Ray pulsa ipnotico, così come gli interventi elettronici, mentre Gates To Midnight risulta una sorta di semi ballad, originalissima, cadenzata, ammaliante ed Hell Over Hell si avvia al gran finale con (All In The Name Of) Terror Tera, dove le ritmiche originalissime e la voce maschile, questa volta protagonista, ci stupiscono con sfumature al limite del blues, in un brano dall’andamento geniale.
Album che smuove montagne, divide oceani e provoca uno tsunami di emozioni nei corpi e nelle menti … forza gente, preparatevi e andate allo spettacolo, il circo è arrivato in città!

Tracklist:
1. March of the Scolopendra
2. Sick to the Bone
3. Bigbigbiggun!
4. Radio Siren
5. Interlude – Angel of the Lord
6. Makin’ angels
7. Kastaway Krush
8. Interlude – A Swedish Rhapsody
9. New Witch 666
10. No Sleep Till Hollywood
11. Queen of Heartbreakers
12. Pain for Pain
13. Bleed on Me
14. Gates to Midnight
15. Interlude – Pots, Pans, and Empty Green Meth Cans
16. (All in the Name Of) Terror Tera

Line-up:
Herma – Vocals
Rev C2 – Guitar
Lobo – Guitar
Big Daddy Ray – Bass
Mr.PK – Drums

SICK N’BEAUTIFUL – Facebook