Sorrow Plagues – Homecoming

Homecoming è un lavoro che non mostra cedimenti e riesce a mantenere sempre un invidiabile equilibrio tra le diverse componenti del sound.

Sorrow Plagues è il nome del progetto solista di David Lovejoy, musicista inglese che ha iniziato questa sua avventura nel 2014, pubblicando diversi ep e singoli fino ad approdare all’esordio su lunga distanza l’anno scorso, per giungere infine a questo suo secondo full length intitolato Homecoming.

L’ambito entro il quale si muove il ragazzo britannico è un black atmosferico con spiccata propensione verso lo shoegaze: una soluzione che abbiamo già incontrato più volte ma che si rivela sempre gradevole ed opportuna, in special modo se esibita con il buon talento e la sensibilità che contraddistinguono questo album.
La malinconia di fondo che pervade il lavoro è percepibile anche dai titoli dei brani che non lasciano molto spazio all’immaginazione: David si dimostra anche un musicista a tutto tondo, esibendo un buon gusto dal punto di vista tastieristico ed un bel tocco chitarristico, mentre come da copione nel genere la voce viene un po’ sopraffatta dagli strumenti a livello di produzione.
Continuo a pensare che questa soluzione stilistica abbia un senso solo quando proviene dai bassifondi dell’underground musicale, come avviene appunto in questo caso, rivelandosi frutto di un’espressione spontanea, fresca e ricca di spunti eccellenti, ben lontana dai tentativi di rendere più fruibile, con solo il risultato di farlo apparire artefatto, un sottogenere che per finalità e tematiche dovrebbe posizionarsi esattamente agli antipodi di ogni tentazione commerciale (ogni riferimento agli ultimi Ghost Bath è del tutto voluto …).
Del resto David fa propri gli insegnamenti del maestro Neige e ne sviluppa in maniera competente e spesso emozionante le coordinate tipiche, grazie ad ariose ed ampie aperture melodiche che vengono sporcate solo da uno screaming di stampo DSBM.
Homecoming è un lavoro che non mostra cedimenti e riesce a mantenere sempre un invidiabile equilibrio tra le diverse componenti del sound, trovando il suo picco ideale nella più lunga e magnifica Disillusioned ed il suggello con una title track che vede anche l’utilizzo di parti di sax, a testimoniare la volontà di Lovejoy di non rendere troppo monodimensionale la proposta.
Al momento il nostro ha chiamato a sé altri musicisti per poter offrire anche dal vivo la propria musica: una scelta condivisibile e che, spesso, consente ai titolari di one man band di ampliare ulteriormente i propri orizzonti con ricadute ovviamente positive anche sull’approccio compositivo; già così, comunque, i Sorrow Plagues si dimostrano una delle migliori espressioni odierne dello shoegaze abbinato al black atmosferico.

Tracklist:
1. Departure
2. Disillusioned
3. Isolated
4. Irreversible
5. Relinquish
6. Homecoming

Line up:
David Lovejoy – All Instruments

SORROW PLAGUES – Facebook

Osculum Infame – Axis Of Blood

Musica estrema di altissimo livello, sinistra, diabolica e con quel talento naturale che i francesi hanno nel saper rendere raffinata anche una proposta come Axis Of Blood.

Partiamo da questa importantissima considerazione: in Francia si suona grande metal estremo, molto del quale fuori dai soliti schemi.

Noi che per vocazione vi parliamo di sonorità per lo più underground, siamo da anni sottoposti agli ascolti di opere in arrivo dalla terra transalpina: molte sono piacevoli novità, altri nuovi lavori di realtà storiche dell’ underground estremo francese, per molti territorio impervio e poco conosciuto, a meno che non siate esperti della scena.
L’Osculum Infame, nel linguaggio della demonologia, è il bacio sull’ano con cui la strega saluta il diavolo nel corso del sabba, ma è anche il monicker con cui agisce questa notevole band parigina, devota al black metal ed attiva dai primi anni novanta.
Con il primo ed unico full length diventato di culto (Dor-nu-Fauglith 1997) ed una serie di ep, il quintetto si è costruito una fama sinistra che lo ha portato fino ai giorni nostri e all’uscita di quello che è il suo secondo lavoro sulla lunga distanza, un’opera nera dal titolo Axis Of Blood.
Accompagnato da una copertina che ci ricorda cosa si incontra tra le buie strade in luoghi e tempi dove domina l’oscuro signore, l’album risulta uno splendido spaccato di musica demoniaca e satanica, fuori dalle mode, inquietante e autentico come ci hanno abituato le band provenienti dalla scena francese.
Attenzione però, perché Axis Of Blood non è il solito album prodotto male ed ovattato per suscitare chissà quali suggestioni in giovani blacksters brufolosi: il sound prodotto è perfetto e professionale, le atmosfere oscure e diaboliche raggelano come non mai la stanza di chi si mette all’ascolto dell’opera, noncurante di quale forza si possa risvegliare dal torpore di anni nel più profondo silenzio.
Licenziato dal gruppo nel 2015 e ritornato sul mercato per mezzo della Necrocosm, Axis Of Blood torna a far parlare dei suoi creatori, anche per mezzo di un documentario uscito all’inizio dell’anno sulla nascita e lo sviluppo della scena black metal francese intitolato Blu Bianco Satana, a conferma dell’assoluta attitudine dei protagonisti riguardo alla cultura del genere e a tutto quello che ne consegue.
Musica estrema di altissimo livello, sinistra, diabolica e con quel talento naturale che i francesi hanno nel saper rendere raffinata anche una proposta come Axis Of Blood.

Tracklist
1.ApokalupVI
2.Cognitive Perdition of the Insane
3.Kaoïst Serpentis
4.My Angel
5.Absolve Me Not!
6.Let There Be Darkness
7.Inner Falling of the Glory of God
8.White Void
9.Asphyxiated Light
10.I in the Ocean of Worms
11.Solemn Faith

Line-up
Dispater – Guitars
I. Luciferia – Guitars, Keyboards
S.RV.F – Bass
Malkira – Drums
Deviant Von Blakk – Vocals, Guitars, Bass

OSCULUM INFAME – Facebook

Wormwitch – Strike Mortal Soil

Strike Mortal Soil è un album che convince nel corso dei suoi quaranta minuti intensi, feroci e che non lasciano tregua al rachide cervicale.

Un paio di anni fa abbiamo fatto la conoscenza di Colby Hink, musicista canadese alle prese con una notevole interpretazione del black metal atmosferico con il suo progetto solista Old Graves.

Lo ritroviamo oggi alla guida di un ben più incalzante trio denominato Wormwitch e dedito ad una versione del genere ben più movimentata e definibile, a grandi linee, come black/death n’roll, risultando un potenziale crocevia dove gli Entombed “wolveriniani” incontrano gli ultimi Satyricon e Darkthrone e, tutti assieme, omaggiano doverosamente i Motorhead.
Al di là delle sensazioni più o meno soggettive che Strike Mortal Soil possa lasciare nell’ascoltatore, è fuor di dubbio che questo primo full length dei Wormwitch sia una buonissima esecuzione di uno stile che rifugge i fronzoli e va dritto all’obiettivo, grazie al suo carico di groove e ad una notevole prova d’assieme, con il ringhio del bassista Robin Harris ad imperversare lungo tutta la durata del lavoro ed un Hink che lascia da parte i delicati arpeggi della sua veste solista per sfornare riff ficcanti a getto continuo, sorretto anche dal lavoro percussivo di un bravo Cam Sauders.
Quaranta minuti intensi, feroci e che non lasciano tregua al rachide cervicale, salvo qualche mortifero rallentamento piazzato qua e là: Strike Mortal Soil è un album che convince, trovando la sua probabile punta in Everlasting Lie, non a caso la traccia scelta per essere abbinata ad un video, ma con tutti gli altri nove brani collocabili tranquillamente su uno stesso apprezzabile livello.

Tracklist:
1. As Above
2. Howling From the Grave
3. Weregild
4. Even the Sun Will Die
5. Relentless Death
6. Cerulean Abyss
7. Everlasting Lie
8. …And Smote His Ruin Upon the Mountainside
9. Mantle of Ignorance
10. So Below

Line up:
Colby Hink – Guitar
Robin Harris – Bass/Vocals
Cam Saunders – Drums

WORMWITCH – Facebook

Perished – Kark

Atmosferici, ma senza spingersi fino ad un approccio sinfonico, e aspri, ma senza scadere in soluzioni monocordi, i Perished proponevano in maniera esemplare il genere, probabilmente in una forma anche più convincente rispetto a nomi ben più celebrati.

Facciamo un bel passo indietro di circa un ventennio dedicandoci alla ristampa di Kark, primo dei due full length pubblicati dai Perished, band black metal norvegese scioltasi poi nel 2003, dopo la pubblicazione di Seid.

L’attiva etichetta italiana ATMF rimette in circolazione questo lavoro in formato digitale ed in CD (dopo che due anni fa la Darkness Shall Rise si era occupata della riedizione solo come musicassetta) compiendo un’opera di divulgazione e recupero di un album di sicuro valore, passato però in secondo piano all’epoca della sua uscita: comprensibile, se pensiamo che nel 1998a le band di maggior spicco erano reduci da lavori fondamentali come Anthems To The Welkin At Dusk (Emperor), Nemesis Divina (Satyricon) e Enthrone Darkness Triumphant (Dimmu Borgir), con l’attenzione degli appassionati focalizzata essenzialmente su una manciata di nomi di simile levatura.
I Perished proponevano però con grande competenza e buoni esiti un black metal che, tutto sommato, finiva per risultare una via di mezzo tra gli stili delle band citate, peccando in tal senso in peculiarità ma risultando ben più che gradevole o meritevole di una limitata attenzione.
Atmosferico, ma senza spingersi fino ad un approccio sinfonico, e aspro, ma senza scadere in soluzioni monocordi, il quartetto di Hommelvik proponeva in maniera esemplare il genere, a mio avviso in una forma anche più convincente rispetto a nomi ben più celebrati: probabilmente il trovarsi lontano geograficamente dalle due fucine del black metal come Bergen e Oslo ha continuato a rendere i Perished più marginali di quanto avrebbero dovuto.
Con i suoi validi otto brani originali, tra i quali spicca una magnifica Paa Nattens Vintervinger, più le tre bonus track costituite da altrettante tracce provenienti dal demo Through the Black Mist del 1994 (A Landscape Of Flames, quando i nostri si esprimevano ancora in inglese) e dall’ep autointitolato del 1996 (Kald Som Aldri Foer e Gjennom Skjaerende Lys), Kark risulta un lavoro che merita d’essere quantomeno riscoperto, rappresentando una nitida fotografia di quello che nel secolo scorso era il valore delle band cosiddette di retrovia del black metal norvegese.

Tracklist:
1.Introduksjon
2.Imens Vi Venter…
3.Stier Til Visdoms Krefter
4.Paa Nattens Vintervinger
5.Iskalde Stroemmer
6.Og Spjuta Fauk
7.Befri De Trolske Toner
8.Renheten Og Gjenkomsten
9.A Landscape Of Flames
10. Kald Som Aldri Foer
11.Gjennom Skjaerende Lys

Line-up:
Bruthor – Bass
Jehmod – Drums
Ymon – Guitars
Bahtyr – Vocals

Pulvis Et Umbra – Atmosfear

Atmosfear non si rivela un ascolto facile, perché il sound non si limita mai ad un’unica soluzione: le parti atmosferiche incutono ancora più terrore, mentre le sfuriate estreme alternano veloci e violente parti blackened death metal a più cadenzate ritmiche deathcore.

Tra i meandri estremi nascosti nel nostro paese vivono realtà che si nutrono di ispirazioni tradizionali e moderne, lasciate sfogare in un sound la cui la parola d’ordine è massacro, devastante maligno e senza soluzione di continuità.

Noi italiani, poi, vi aggiungiamo poi quel pò di atmosfere oscure di cui siamo maestri e che rendono le proposte personali in un genere dove la ripetitività è pari alla violenza espressa.
Con i Pulvis Et Umbra, one man band creata dal polistrumentista lombardoDamy Mojitodka che. con questo nuovo lavoro chiamato Atmosfear, giunge al traguardo del terzo full length dopo Reaching The End (2012) ed Implosion Of Pain (2014), ci troviamo al cospetto di un sound che amalgama e alterna death, black e soluzioni moderne dalle tinte horror ed evil, una commistione di atmosfere e sfumature estreme che non lascia scampo.
Aiutato da altri musicisti quasi esclusivamente in sede live, Mojitodka canta e suona tutti gli strumenti, aiutato da Riccardo Grechi per i suoni di batteria e da Lility Caprinae al microfono nella black metal song Crows Belong To Her.
Atmosfear non si rivela un ascolto facile, perché il sound non si limita mai ad un’unica soluzione: le parti atmosferiche incutono ancora più terrore, mentre le sfuriate estreme alternano veloci e violente parti blackened death metal a più cadenzate ritmiche deathcore.
Affiorano melodie nei solos della melodic death metal Darkest Sorrow, ma è solo un attimo prima della caduta nell’abisso con la superba Divinity Or Icon, brano di una fredda malignità che scuote e sconvolge, mentre il demone ci porta via l’anima.
Unica pecca di questo lavoro è la produzione, che a tratti nelle parti più violente tende ad appiattire il suono, mentre la tensione estrema rimane altissima così come la componente oscura.
Hanno del teatrale le sfumature su cui si muove Atmosfear, che infligge l’ultimo mortale colpo con il black/doom della demoniaca Blinded By Thoughts e chiude la porta dell’inferno con l’outro strumentale Predominio Tecnologico.
Un buon lavoro, consigliato agli amanti del metal estremo aperti a più soluzioni stilistiche che portino in ogni caso ad un solo approdo, il male assoluto.

Tracklist
1.The Soul Collectress
2.Atmosfear
3.Crows Belong To Her
4.Virus
5.Darkest Sorrow
6.Divinity Or Icon
7.The Price Of Trust
8.Can’t Handle
9.Blinded By Thoughts
10.Predominio Tecnologico

Line-up
Damy Mojitodka – all instruments / vocals
Mirko Costa – Guitar (session live member)
Francesco Garatti – Guitar (session live member)
Riccardo Grechi – Drums (session live member)

PULVIS ET UMBRA – Facebook

Rapheumet’s Well – Enders Door

Una bella sorpresa, una band ed un lavoro assolutamente da non perdere per gli amanti del death/black sinfonico.

Provenienti dall’underground estremo statunitense, i Rapheumet’s Well fanno parte di quella nutrita schiera di gruppi che segue la via oscura tracciata dai Dimmu Borgir.

Enders Door è il terzo full length del sestetto del North Carolina e, in effetti, il loro symphonic black/death prende ispirazione da quello del gruppo norvegese, per poi trovare una propria caratterizzazione fatta di aperture melodiche, uno straordinario lavoro ritmico ed una neanche troppo velata vena progressiva.
Teatrale, a tratti epico, l’album si nutre di oscure trame sinfoniche, cavalcate metalliche ed atmosfere decadenti, mantenendo un approccio vario, così da non stancare l’ascoltatore donandogli un’opera ben strutturata, suggestiva e a tratti molto affascinante.
Un mondo pieno di sorprese, un album estremo che non rinuncia a melodiche trame intimiste e progressive, per poi asfaltare gli astanti sotto un macigno orchestrale ed estremo.
Parte alla grande Enders Door con l’accoppiata The Traveller e Distress from the Aberrant Planet, brani che strizzano l’occhio felino e malvagio alla band di Shagrath, mentre l’ apice compositivo risulta il trittico sinfonico progressivo Lechery Brought the Darkness, la title track e Prisoner Of The Rift.
Una bella sorpresa, una band ed un lavoro assolutamente da non perdere per gli amanti del death/black sinfonico.

Tracklist
1.The Traveler
2.Distress from the Aberrant Planet
3.The Autogenous Extinction
4.Secrets of the Demigods
5.Lechery Brought the Darkness
6.Enders Door
7.Prisoner of the Rift
8.The Diminished Strategist
9.Nastarian Waltz
10.Ghost Walkers Exodus
11.Killing the Colossus
12.Eishar’s Lament
13.Unveiling the Sapient

Line-up
Jeb Laird – Lead Vocals
Annette Greene – Clean Vocals, Keys
Jon Finney – bass
Brett Lee – Guitar
Hunter Ross – Guitar
Joshua Ward (Nasaru) – drummer, Clean vocals

RAPHEUMET’S WELL – Facebook

Throne Of Heresy – Decameron

Un gran bel disco di black/death scandinavo, per esecuzione, intensità e propensione melodica, realmente da godersi dalla prima all’ultima nota.

Spostiamoci per una volta, almeno per quanto mi riguarda, nei territori del black death melodico e chi, meglio di una band svedese, poteva offrire un’interpretazione ottimale del genere?

I Throne Of Heresy sono attivi da qualche anno e hanno già pubblicato, con questo Decameron, tre album di ottima fattura, ma indubbiamente l’opera di cui ci occupiamo si rivela un progetto piuttosto ambizioso, trattandosi di un concept sulla peste (altrimenti detta morte nera, che guarda caso corrisponde anche al genere musicale offerto) scritto dal vocalist Thomas Clifford.
Musicalmente parlando, l’approccio melodico della band di Linkoping porta ad un livello superiore l’impatto delle pulsioni estreme, offrendo una buona varietà stilistica abbinata alla produzione continua di chorus trascinanti.
L’opener The Shores of Issyk-Kul si rivela già un buon esempio di quanto riserveranno i Throne Of Heresy raccontando l’esordio e la propagazione dell’epidemia: se il brano in questione vive di un notevole impatto melodico, Siege Of Caffa è invece una travolgente cavalcata destinata a lasciare il segno (e giustamente la band ci ha costruito sopra un video); notevole anche la title track, resa epica ed evocativa nella sua parte iniziale dal contributo vocale dell’ospite Karl Beckman (King of Asgard/ex-Mithotyn), così come Alvastra con il suo crescendo conclusivo, ma Decameron vive comunque di una buona compattezza che mantiene il livello costantemente medio alto con i suoi ritmi incalzanti gratificati da una ottima produzione opera di Magnus Andersson (bassista dei Marduk).
Un gran bel disco per esecuzione, intensità e propensione melodica, realmente da godersi dalla prima all’ultima nota.

Tracklist:
1. The Shores of Issyk-Kul
2. Pax Mongolica
3. Siege of Caffa
4. The Plague Ships
5. Decameron
6. Liber Secretorum
7. JÑrtecken
8. A Silent Vigil
9. Alvastra
10. The Pale Burden

Line-up:
Mathias Westman – Drums
Tomas Göransson – Guitars
Björn Ahlqvist – Bass
Thomas Clifford – Vocals
Lars Björkens – Guitars

THRONE OF HERESY – Facebook

Kval – Kval

Kval è un lavoro che a molti potrà apparire obsoleto ma che, in realtà, racchiude molto dell’essenza di quelli che furono i primi passi del black metal atmosferico, e questo è già di per sé un buon motivo per ascoltarlo, se non bastasse un impatto melodico tutt’altro che trascurabile.

Se si dovesse trovare un album che esemplifichi per i neofiti cosa sia il black metal atmosferico, credo che questo primo passo autointitolato della one man band finnica Kval sia perfetto in tal senso.

In realtà, a ben vedere, questo non sarebbe a tutti gli effetti il full length d’esordio, visto che si tratta della versione ri-registrata dell’album Kuolonkuu, edito con il nome Khaossos nel 2015 e oggi rimesso in circolazione dalla Hypnotic Dirge con una nuova copertina e l’aggiunta di una breve traccia strumentale.
Da quanto premesso, si capisce quanto sia stata opportuna questa operazione, visto che qui siamo al cospetto di un’interpretazione del genere senz’altro ossequiosa dei dettami di Burzum e Forgotten Woods, come da note di presentazione, ma che va anche oltre offrendo una serie di brani capaci di catturare l’attenzione e di avvolgere con il loro approccio molto tradizionale e ricco di ottime intuizioni melodiche appoggiate sul classico ronzio di sottofondo, caratteristica di gran parte delle produzioni novantiane.
Kval strepita in lingua madre testi colmi di negatività sopra un tappeto di black che fa della sua linearità il proprio punto di forza: la produzione che opprime la voce è la normalità, in un lavoro che si snoda su ritmi costantemente compassati, con brani segnati da spunti melodici che vengono reiterati fino ad ottenere l’assuefazione desiderata: il musicista finlandese, però, sa anche fermare la sua ragionata corsa inserendo qualche passaggio acustico o piazzando tastiere minimali ma irresistibili come in quella che fu la title track nella prima stesura, Kuolonkuu.
L’album vede come fulcro quattro tracce che da sole vanno ben oltre la mezz’ora di durata (oltre a quella appena citata, la magnifica Sokeus, Harheinen e Polkuni Vailla Suuntaa) visto che, assieme allo strumentale inedito Kaiku Tyhjyydesta, in chiusura ed apertura si trovano due brani ambient (Usva e Toisella Puolen): Kval è un lavoro che a molti potrà apparire obsoleto ma che, in realtà, racchiude molto dell’essenza di quelli che furono i primi passi del black metal atmosferico, e questo è già di per sé un buon motivo per ascoltarlo, se non bastasse un impatto melodico tutt’altro che trascurabile.

Tracklist:
1 – Usva
2 – Sokeus
3 – Harheinen
4 – Kaiku Tyhjyydesta
5 – Polkuni Vailla Suuntaa
6 – Kuolonkuu
7 – Toisella Puolen

Line up:
Kval

KVAL – Facebook

Lilyum – Altar Of Fear

Il black metal per i Lilyum non è solo un rivestimento musicale, bensì l’espressione di un modo d’essere, la naturale conseguenza dell’attrazione fatale per tutto quanto sia oscuro e comunque avulso dai conformismi.

I Lilyum sono da oltre un decennio una delle migliori espressioni del black metal italiano, nonché probabilmente anche una delle più sottostimate in relazione al valore espresso, all’interno di un percorso musicale che giunge con Altar Of Fear al settimo full length.

Kosmos Reversum, che della band è l’anima ed il fondatore, non è tipo da curarsi più di tanto di tutto questo, perché ben conosce le sfaccettature dell’ambiente musicale essendovi coinvolto anche in altre vesti, e giustamente prosegue a testa alta per la propria strada, lasciando che a parlare sia la sua musica, un black che continua ad esibire gli aspetti tradizionali del genere con una brillantezza ed una competenza tali da non farlo mai apparire obsoleto.
Altar Of Fear, del resto, arriva dopo due ottimi lavori come Glorification Of Death e October’s Call, e non sorprende affatto quindi la qualità che i Lilyum continuano ad esibire, nonostante le sostanziali novità nella line up: intanto, l’interruzione del sodalizio con il vocalist Xes, iniziato con Crawling In The Past nel 2010, poteva non risultare del tutto indolore visto, che a mio avviso, parliamo di uno dei migliori interpreti in campo black (come continua a dimostrare con gli Infernal Angels), ma il ritorno di Lord J. H. Psycho (anche chitarra, basso e tastiere), che aveva ricoperto il ruolo nei primi due full length Ultimatum e e Fear Tension Cold, non lo fa rimpiangere nonostante la differenza di stile che riconduce il tutto ad un più classico screaming in vece del growl del suo predecessore; infine, il nuovo album segna anche l’ingresso stabile in formazione del batterista Frozen (anche negli ottimi siciliani Krowos) dopo che questi aveva prestato la sua opera come session man nel periodo a cavallo tra i due decenni.
Tutto questo, non so quanto incidentalmente, porta ad un inasprimento delle sonorità rispetto al recente passato, mettendo in luce un approccio più diretto ma non meno efficace: del resto il black metal per i Lilyum non è solo un rivestimento musicale, bensì l’espressione di un modo d’essere, la naturale conseguenza dell’attrazione fatale per tutto quanto sia oscuro e comunque avulso dai conformismi, anche se abbiamo visto quanto, in questi ultimi anni, il genere sia stato manipolato e restituito in maniera diametralmente opposta allo spirito che animava i suoi creatori.
Altar Of Fear è, però, tutt’altro che una rappresentazione becera e minimale del black, in quanto risulta curato nei suoi dettagli, eseguito e prodotto come dovrebbe essere un disco di questo tipo e lasciando che i suoni giungano alle orecchie dell’ascoltatore con le proprie ruvidezze e senza essere edulcorati, pur essendo ugualmente contraddistinti da una loro pulizia: l’opener Alkahest è una dimostrazione eloquente di quanto appena affermato, nel suo svilupparsi con la giusta dose di cattiveria ed attitudine, e questa sarà la tendenza di un lavoro comunque per nulla monolitico, visto che i Lilyum non disdegnano passaggi più ragionati, spesso ai limiti dell’ambient, come avviene nel collegamento tra la fine di The Watchers’ Departure e l’inizio di Voices From The Fire, oppure dimostrano un gusto melodico di prim’ordine, pur se compresso sempre da una ritmica frenetica, racchiuso nelle atmosfere della magnifica Tomorrows Worth Erasing.
Anche la conclusiva Siege The Solar Towers, con i suo anomali dieci minuti di durata, può essere presa ad emblema di quello che non si può definire un nuovo corso per i Lilyum, bensì la fruttuosa ricerca di soluzioni differenti senza che venga meno la continuità stilistica ed il tratto personale che Kosmos Reversum è sempre riuscito a conferire al sound della sua band.
Pertanto non posso che ribadire quanto già dichiarato inizialmente, esortando chiunque apprezzi il black nella sua vera essenza a non perdere l’occasione di ascoltarne una delle sue più autentiche e coinvolgenti raffigurazioni.

Tracklist:
1.Alkahest
2.Siege the Solar Towers
3.The Watchers’ Departure
4.Voices from the Fire
5.Tomorrows Worth Erasing
6.Stain of Salvation
7.Siege the Solar Towers

Line-up:
Kosmos Reversum – rhythm and lead guitars, clean guitars on 6
Lord J. H. Psycho – vocals; bass guitar, lead, harmony and clean guitars, ebow, synthesizers, samples and ambience, additional rhythm guitars on 2, 5 and 7
Frozen – drums and percussion

LILYUM – Facebook

Atriarch – Dead as Truth

La band ribadisce la bontà della sua arte, continuando il suo desolato, apocalittico e personale percorso artistico.

Non hanno bisogno di un’opera di lunga durata gli statunitensi Atriarch per ribadire, dopo tre full length, la bontà del loro percorso artistico sempre monolitico, atmosferico e soprattutto molto personale.

Anche il cambio del chitarrista, ora Joshua Dark al posto di Brooks Blackhawk, non ha sostanzialmente modificato la trama sonora imbastita dal quartetto che rimane carica di oscura atmosfera ed è frutto di una commistione di post-punk, nera darkwave, black doom e lampi di deathrock; grande lavoro della sezione ritmica dove la batteria è molto varia e potente ed il suono del basso sempre presente e poderoso sposta, forse, il suono su atmosfere più darkwave e post punk, meno su suoni metallici. Tale sensazione non scalfisce nel modo più assoluto l’essenza dell’arte del quartetto; fin dal primo brano Inferno si è chiamati a immergersi nelle tenebre più oscure, i ritmi sono lenti, ritualistici, apocalittici e scandiscono allucinazioni in cui orizzonti plumbei e confusi si scontrano in un universo desolato. La voce potente e declamatoria di Lenny Smith ci accompagna narrandoci di storie di violenza, odio, disperazione e morte. La musica degli statunitensi, di Portland, incastonando il meglio di certa ossessiva darkwave (Bauhaus, Killing Joke) in strutture black e doom crea una interpretazione decisamente unica del suono estremo, generando sublimi muri di suono che in Dead ricordano anche maestosità come i Joy Division dove …”love is lost, life forgot, nothing left inside”. Gli altri quattro brani per un totale di poco più di mezz’ora affondano e penetrano nell’anima di noi ascoltatori generando un’energia devastante, purificatrice per un mondo dolente incapace di risollevarsi dalle sue miserie.

Tracklist
1. Inferno
2. Dead
3. Devolver
4. Void
5. Repent
6. Hopeless

Line-up
Andy Savage – Bass
Joshua Dark – Guitars
Maxamillion Avila – Drums
Lenny Smith – Vocals

ATRIARCH – Facebook

Esoctrilihum – Mystical Echo From A Funeral Dimension

Il black targato Esoctrilihum è per lo più ripiegato su sé stesso, privo com’è di aperture melodiche o atmosferiche, salvo poi concedersi pause improvvise per lasciare spazio a momenti acustici o ambient.

Prima uscita per questo ennesimo progetto solista denominato Esoctrilihum, il cui promotore è il musicista francese Asthâghul.

L’appartenenza al roster della I,Voidhanger, di norma, dovrebbe garantire sonorità introspettive ed oscure, il tutto abbinato ad una notevole qualità media e ad una vena sperimentale che rende l’ascolto impegnativo quanto gratificante.
Mystical Echo From A Funeral Dimension tiene quasi del tutto fede a queste coordinate, salvo la capacità penetrativa del sound che, questa volta, fatica non poco a superare i primi ostacoli frapposti tra sé e l’ascoltatore.
Il black targato Esoctrilihum è per lo più ripiegato su sé stesso, privo com’è di aperture melodiche o atmosferiche, salvo poi concedersi pause improvvise per lasciare spazio a momenti acustici o ambient: il problema che affligge un po’ tutto il lavoro è l’apparente scollamento tra le varie parti, al quale deve essere aggiunto l’aspetto non secondario di una durata (un’ora circa) che rende l’assimilazione del lavoro ancora più problematica.
Asthâghul ha sicuramente le idee molto chiare dal punto di vista lirico-concettuale, e la sua visione a dir poco fosca dell’esistenza (propria e altrui) ben si sposa con le sonorità offerte, al netto ovviamente di quella farraginosità che appesantisce un po’ tutti i brani: è apprezzabile, infatti, il tentativo di unire l’estrosità del black transalpino con la gelida solennità di quello tedesco e lo spirito primitivo di quello scandinavo, ma nel mettere molta carne al fuoco inevitabilmente non tutta finisce per essere cotta alla perfezione.
Certo che, ascoltando una traccia oggettivamente impressionante come Infernus Spiritas, con un incedere ossessivo che meglio si amalgama ai rallentamenti e alle oasi acustiche, non è difficile capire come mai l’etichetta italiana si sia accaparrata i servizi degli Esoctrilihum, intuendone probabilmente quel notevole potenziale che, a mio avviso, se fosse stato maggiormente focalizzato avrebbe potuto rendere irrinunciabile un lavoro come Mystical Echo From A Funeral Dimension, capace invece di conquistare solo ad intermittenza

Tracklist:
1. Ancient Ceremony From Astral Land
2. Following The Mystical Light Of The Shadow Forest
3. Prayer Of The Lamented Souls
4. Infernus Spiritas
5. Shtalosoth
6. BltQb (Black Collapse)
7. Mighty Darkness

Line-up:
Asthâghul – all instruments and vocals

ESOCTRILIHUM – Facebook

Nyss – Princesse Terre (Three Studies of Silence and Death)

Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.

Black metal esoterico, atmosferico e maledettamente affascinante.

I Nyss sono un duo francese che dopo aver pubblicato quattro ep arriva al debutto per Avantgarde Music, ed è un gran disco di black metal moderno e sperimentale. I pezzi sono tre, la presentazione è molto semplice, la musica viene messa in primo piano ed occupa lo spazio più importante del progetto, tanto che si hanno pochissime informazioni sul gruppo, come nella tradizione dei gruppi francesi di black metal. Ascoltando il loro debutto intitolato Princesse Terre (Three Studies Of Silence And Death) si apre un mondo popolato di dolore e di verità negate, un affondare nella nostra maledizione, il tutto reso con un black di taglio atmosferico molto debitore alle origini ed all’ortodossia del genere. Il risultato è un disco eccezionale, moderno e sperimentale ma soprattutto sovraccarico di emozioni, in un continuo rollio di tempi ed atmosfere. I tre pezzi sono altrettante piccole nere sinfonie legate fra loro dal filo comune della sofferenza, mediate da una composizione al di sopra della media, con un piglio che solo i grandi gruppi black hanno, soprattutto nei crescendo con chitarre e tastiere molto presenti nel disco. Le tre lunghe suite hanno migliaia di sorprese in serbo, come un vecchio castello abbandonato infestato dagli spiriti, ma quel vecchio castello è la nostra anima. I Nyss confermano e superano quanto di buono avevano fatto nelle precedenti uscite, ed appartengono di diritto a quell’aristocrazia black metal atmosferica che sta contando ottime uscite, come potete bene vedere nel catalogo della stessa Avantgarde Music. Dischi come questo sono un arricchimento culturale ed un estremo oscuro piacere per gli amanti del genere, perché qui ci troviamo a livelli altissimi.

Tracklist
I
II
III

Line-up
Þórir Nyss ~ Instruments of the art
L.C. Bullock ~ Invocations

NYSS – Facebook

Narbeleth – Indomitvs

In Indomitvs non troviamo alcuna tentazione avanguardistica, sinfonica o atmosferica: Narbeleth è sinonimo di puro e fedele black scandinavo, sebbene la sua progressiva crescita stia avvenendo da una zona del pianeta ben lontana dalle gelide e maestose foreste del Nord Europa.

Narbeleth è il progetto musicale del musicista cubano Dakkar, il cui operato è già stato trattato in occasione dei due lavori precedenti, A Hatred Manifesto e Through Blackness and Remote Places.

Indomitvs è il quarto full length pubblicato a partire dal 2013 e rappresenta il consolidamento di una posizione di tutto rispetto assunta dal musicista dell’Avana, rappresentando peraltro un qualcosa che nulla ha a che vedere con la normale curiosità destata dalla provenienza caraibica, oggettivamente anomala quando il genere trattato è il black metal.
Dakkar non fa nulla per trasformare la materia, ma la prende nella sua versione primitiva riversandola sullo spartito con convinzione e competenza: è così, infatti che il black riacquista le sue sembianze originarie grazie ad un incedere ruvido, diretto, ma non privo di un senso melodico in grado di fare la differenza rispetto ad una sterile riproposizione del genere.
Come d’abitudine, il nostro chiude i propri lavori con una cover che omaggia importanti nomi (non sempre tra i più famosi) del passato e così, dopo Darkthone, Urgehal e Judas Iscariot, in Indomitvs è la volta degli Arckanum, il cui atteso ritorno peraltro uscirà sempre per Folter Records a fine settembre: un segni di profondo rispetto da parte di Dakkar per le radici del genere, ma anche un sintomo di apertura verso un’interpretazione fedele e di ampio respiro, trattandosi a ben vedere di quattro realtà piuttosto differenti tra loro.
Per il resto, i sette brani offerti si equivalgono, senza toccare vette irraggiungibili ma neppure scendendo mai al di sotto di un buon livello, in virtù di un approccio sincero riscontrabile in maniera esemplare nelle ottime When the Sun Has Died, Via Profane Crafts e soprattutto The First to Rise, nella quale l’evocazione di antiche divinità è accompagnata anche da un pregevole lavoro di chitarra solista.
In Indomitvs non troviamo alcuna tentazione avanguardistica, sinfonica o atmosferica: Narbeleth è sinonimo di puro e fedele black scandinavo, sebbene la sua progressiva crescita stia avvenendo da una zona del pianeta ben lontana dalle gelide e maestose foreste del Nord Europa.

Tracklist:
1. The Distortion of Life
2. When the Sun has Died
3. The Lower Point of the Star
4. Herald of the Dawn
5. The First to Rise
6. Via Profane Crafts
7. Sinister Laberynths of Human Soul
8. Daudmellin (Arckanum cover)

Line-up:
Dakkar – All vocals, Guitars, Bass

NARBELETH – Facebook

Atrexial – Souverain

Sembra che, dopo tanti anni trascorsi negli abissi dell’underground estremo, Naga S.Maelstrom e compagni abbiano trovato la via giusta per arrivare almeno alla superficie, con l’aiuto di una label che di sonorità death/black se ne intende.

Metal estremo nero come la pece, inglobato in un armageddon di suoni death/black in arrivo da Barcellona.

Una reunion di demoni sotto il monicker Atrexial, provenienti da alcune realtà della scena underground catalana, chiamati a raccolta da Naga S. Maelstrom, chitarrista degli Human Carnage, death metal band inattiva da un bel po’ di anni, raggiunto da Louen (chitarra e voce) e Labelua (batteria).
Il trio, diventato nel frattempo un quartetto con l’arrivo di Belegurth, licenzia il suo esordio sotto Gods Ov War, questo minaccioso Souverain che nulla toglie e nulla aggiunge al mondo oscuro del metal estremo, ma si colloca tra quelle opere di nicchia che gli estimatori del genere potrebbero trovare malignamente gradevole.
Death/black alla Behemoth, con molti tratti distintivi che ci portano pure in Svezia, specialmente quando la band lascia i mid tempi e le ritmiche death, per abbandonarsi al black metal duro e puro e prodotto discretamente, quanto basta per rendere il maelstrom musicale godibile, Souverain risulta un buon lavoro di genere, attraversato da venti maligni che portano burrasche estreme, alternando death/black a sferzate black metal, mentre attimi di atmosferici ricami acustici sfumano in ripartenze e assalti sonori dal buon impatto.
Qualche brano più ordinario lascia il palcoscenico a buone cavalcate estreme come Under The Scourge Of Lamashtu o Illuminator, dando in pasto ai fans del genere un album certamente dotato della giusta attitudine.
Sembra che, dopo tanti anni trascorsi negli abissi dell’underground estremo, Naga S.Maelstrom e compagni abbiano trovato la via giusta per arrivare almeno alla superficie, con l’aiuto di una label che di sonorità death/black se ne intende.

Tracklist
1.Enthronement (Intro)
2.The Hideous Veil of Innocence
3.Under the Scourge of Lamashtu
4.Unmerciful Imperial Majesty
5.Illuminatur
6.The Ominous Silence
7.Ascension
8.Shadows of the Nephilim Throne
9.Trinity
10.Souverain
11.Eternal (Outro)

Line-up
Naga S. Maelstrom – Bass, Guitars, Synths
Labelua – Drums
Louen – Guitars, Vocals (lead)

ATREXIAL – Facebook

Darkenhöld – Memoria Sylvarum

Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Quarto album per un’altra ottima band black metal francese, i nizzardi Darkenhöld.

Memoria Sylvarum arriva tre anni dopo il già ottimo Castellum, rispetto al quale la band attenua la componente folk per spingere maggiormente su una vena più oscura e raggiungendo, se possibile, un equilibrio ancora maggiore tra tutte le componenti che entrano a far parte del sound.
I testi, ormai del tutto interpretati in lingua madre, abbandonano la loro ispirazione medievale per spostarsi verso una più canonica ma sempre efficace componente naturalistica, nella fattispecie costituita dalle foreste del sud della Francia: in questo senso appare rafforzato il legame con il black di stampo scandinavo, anche se allo stesso tempo il tratto stilistico dei Darkenhöld conserva una certa personalità.
Il pregio maggiore dei trio è quello di offrire una versione del genere di buona fruibilità e limpidezza, con un approccio melodico ed atmosferico anteposto a qualsiasi altro tipo di orpello, senza così appesantire l’assimilazione di un album della giusta durata, dove ogni elemento è perfettamente incastonato nell’insieme, siano essi arpeggi chitarristici di matrice folk oppure assoli di scuola hreavy.
Brani magnifici come Ruines Scellées en la Vieille Forêt, Errances e la conclusiva Présence des Orbes sono il viatico migliore per immergersi con i Darkenhöld in un’epoca passata, accompagnati da sonorità che, pur nelle loro sembianze estreme, conservano un’aura antica che ben si sposa con l’immaginario lirico.
Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Tracklist:
1. Sombre Val
2. La Chevauchée des Esprits de Jadis
3. Ruines Scellées en la Vieille Forêt
4. A l’Orée de l’Escalier Sylvestre
5. La Grotte de la Chèvre d’Or
6. Sous la Voûte de Chênes
7. Clameur des Falaises
8. Errances (Lueur des Sources Oubliées)
9. Présence des Orbes

Line-up:
Aboth – Drums, Percussion, Keyboards
Aldébaran – Guitars, Keyboards, Bass
Cervantes – Vocals

DARKENHOLD – Facebook

Beastcraft – The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship

I Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.

Il black metal primigenio vive in questa che sarà l’ultima uscita marchiata Beastcraft, creatura demoniaca e blasfema nata nel 2003 per volere di Sorath e Alastor, quest’ultimo scomparso nel 2012.

Sorath ha dato alle stampe questo notevole esempio di black metal maligno ed efferato, composto da brani scritti quando ancora Alastor non era sceso negli inferi, magari come tributo o più semplicemente per fare in modo che queste nove perle nere non andassero perse.
The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship ci conduce nel mondo sonoro del duo norvegese, una delle band più sottovalutate del panorama estremo di stampo black: lo si evince  ascoltando queste gemme oscure e blasfeme, brani diretti e pregni di insani blast beat e splendidi e decadenti muri di black cadenzato e declamatorio, cavalcate atmosfericamente infernali rese perfettamente malvage da una produzione che si rifà alle prime messe nere anni novanta (Demonic Perversion e Deathcraft And Necromancy)
Un pezzo di storia del black metal norvegese, magari commercialmente parlando in ritardo di qualche anno (nel 2003 la fase true aveva ceduto il passo alle velleità sinfoniche ed atmosferiche): i Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.
L’album è completato da un DVD contenente rare esibizioni live e in studio, rivelandosi un gioiellino per gli amanti del gruppo e del true norwegian black metal.

Tracklist
1. Aapenbaring
2. Demonic Perversion
3. Deathcraft And Necromancy
4. The Fall Of The Impotent God
5. Her Highness Of Hell
6. Reborn Beyond The Grave
7. Waging War On The Heavens
8. The Devil’s Triumph
9. The Beast Descends

Line-up
Alastor – Guitar, bass
Sorath – Vocals, drums

https://www.facebook.com/BeastcraftOfficial

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
78

Astarium – Drum-Ghoul

La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.

Ho avuto occasione nelle scorse settimane di parlare della one man band siberiana Astarium, prima con l’ep Epoch Of Tyrants e poi con lo split assieme a Burnt e Scolopendra Cingulata.

Vista l’iperproduttivita di SiN, l’uomo che sta dietro a tutto questo, per evitare di esser nuovamente sorpassato dall’attualità mi precipito a scrivere due righe anche su quello che, per ora, sembra essere l’ultimo parto dell’instancabile musicista di Novosibirsk, il full length Drum-Ghoul.
Se nelle precedenti occasioni avevo apprezzato la genuinità dell’operato da parte del nostro, ritenendo nel contempo un po’ troppo scolastico il risultato dal punto di vista prettamente musicale, devo dire che quelli che nella precedente occasione mi apparivano come insanabili difetti, questa volta acquisiscono una loro funzione essenziale.
La chiave di volta è il suono delle tastiere, che in un ambito dichiaratamente orrorifico come quello di Drum-Ghoul, con il loro timbro minimale, a tratti vicino a quello delle mitiche tastierine Bontempi (i miei connazionali meno giovani capiranno di cosa sto parlando), si rivelano più funzionali alla creazione di un’atmosfera profondamente malata e nel contempo surreale.
La lunghissima opener Hill Of Scape-Gallows (oltre un quarto d’ora di durata) funge da prova del nove per l’ascoltatore: chi riesce ad arrivare senza fatica alla sua fine, da qual momento in poi potrà godersi un lavoro strambo quanto si vuole, ma decisamente affascinante; la voce continua ad essere uno screaming piuttosto piatto alternato ad un growl effettato ma, tutto sommato, contribuisce a creare quell’alone straniante che ha comunque nel suono della tastiere il suo principale artefice.
Dread Asylum è piuttosto gobliniana nel suo snodarsi melodico, e in fondo pensare a quest’album come un’ipotetica soundtrack di un film horror è un’ipotesi tutt’altro che peregrina, mentre Hospitality Of Demon si snoda in maniera più canonica mantenendo comunque le caratteristiche sonore delle altre tracce, con Pernicious Elixir a chiudere le macabre danze con il suo reiterato giro di tastiera, preludio di un finale che si stempera con uno pseudo-violino.
La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.
SiN è portatore di una concezione della musica lontana diversi anni luce lontana da qualsiasi parvenza di commercialità, e solo anche per questo si merita un certo credito, al di là di tutte le altre considerazioni.

Tracklist:
01. Hill Of Scape-Gallows
02. Dread Asylum
03. Hospitality Of Demon
04. Pernicious Elixir
Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook

Lascar – Saudade

Il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia.

Secondo full length in un breve lasso di tempo per il cileno Gabriel Hugo ed i suo progetto solista Lascar, dopo Abscence uscito all’inizio del 2016.

Saudade continua con lo stesso canovaccio, ovvero quella di un post black dalle terminazioni shoegaze e depressive, sulla falsariga di nomi come Ghost Bath ma, ovviamente molto meno curato a livello di produzione e sicuramente più genuino e sentito dal punto di vista compositivo.
Lo screaming di matrice DSBM del musicista di Santiago si staglia su un tessuto sonoro che sovrappone accelerazioni in blast beat a passaggi ariosamente malinconici leggermente affossati da un lavoro alla consolle non proprio impeccabile, senza che però il tutto vada a vanificare la buona propensione melodica dell’opera nel suo insieme.
Il modus operandi si ripete puntualmente in ognuna delle quattro tracce dalla lunghezza media di una decina di minuti, senza presentare quindi variazioni sul tema ma neppure smarrendo il pathos che Hugo riversa nelle proprie composizioni, capaci di restituire in maniera compiuta quel senso di perdita, fragilità e disperazione che viene opportunamente citato in sede di presentazione.
Allo stesso modo il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia, trovando a mio avviso i propri picchi nella seconda metà dell’album con Uneven Alignment e Bereavement.
Al netto dello schema compositivo forse un po’ troppo reiterato e di suoni non sempre limpidissimi, quest’opera nome Lascar dovrebbe trovare senz’altro i favori del pubblico di nicchia che ama questo particolare sottogenere del black.

Tracklist:
01) Tender Glow
02) Thin Air
03) Uneven Alignment
04) Bereavement

Line up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook

Nagaarum – Homo Maleficus

L’interpretazione del black metal da parte di Nagaarum è abbastanza personale senza essere cervellotica e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.

Eccoci al cospetto di un altro musicista connotato da una produttività apparente compulsiva: il suo nome é Nagaarum, proviene dall’Ungheria e Homo Maleficus è il suo quattordicesimo full length dal 2011.

Ho già detto la mia al riguardo, ma mi ripeto a scanso di equivoci: una certa iperattività è sempre benvenuta, specie viene asservita ad un talento cristallino, altrimenti è grande il rischio di disperdere il proprio potenziale in una forsennata iperattività.
Il musicista magiaro, del quale malgrado tutto scopro l’esistenza solo in questa occasione, non pare essere afflitto più di tanto da certi problemi: la sua interpretazione del black metal è abbastanza personale senza essere cervellotica (se si eccettuano gli schizofrenici cambi di tempo di Vassal Nevelt) e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.
In circa tre quarti d’ora Nagaarum esprime tramite la sua musica e in lingua madre il suo punto di vista sul disastro verificatosi nel 2010 in Ungheria, quando la rottura della diga di contenimento del materiale di scarto di una fabbrica di alluminio spinse una marea di fanghiglia rossa su 40 chilometri quadrati di terreni circostanti il villaggio di Kolontar, provocando diverse vittime, l’irrimediabile danno alle attività agricole locali e la sparizione di ogni forma di vita da almeno due corsi d’acqua facenti parte del bacino del Danubio.
La musica contenuta in Homo Maleficus è quindi cupa, priva di pulsioni melodiche e colma di una tensione che sovente si sfoga con violente sfuriate black (nella magnifica Dolgunk végeztével), ottundenti riffing post metal (Mens dominium) o di matrice doom (A befalazott) per stemperarsi nell’ambient della conclusiva Kolontar.
Non mi resta quindi che fare ammenda per aver sottostimato inizialmente le potenzialità di questo bravo e prolifico musicista, capace di produrre un album dai contenuti piuttosto profondi svincolandosi dalla secche di una ordinarietà che, per uno abituato a pubblicare mediamente più di due full length all’anno, sarebbe stata anche comprensibile.
Complimenti al bravo Nagaarum, del quale non resta che andare a riscoprire (nei limiti del possibile) la consistente discografia.

Tracklist:
1. A befalazott
2. Az elvhű
3. Vassal nevelt
4. Cipelők
5. Mens dominium
6. Dolgunk végeztével
7. Kolontár

Line up:
Nagaarum – All instruments, Vocals, Lyrics

NAGAARUM – Facebook

Amiensus – All Paths Lead To Death

All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro.

L’etichetta francese Apathia Records è caratterizzata da un roster in gran parte autoctono, oltre che composto complessivamente da band connotate da un’irrequietezza compositiva che spinge spesso i generi suonati su un piano avanguardista.

In qualche modo gli Amiensus, quindi, costituiscono un’anomalia, in primis perché statunitensi e, in secondo luogo, in quanto il loro black metal non presenta tratti particolarmente sperimentali; questo, però, non va in alcun modo ad intaccarne la qualità, visto che questi giovani americani, con questo nuovo ep, propongono il genere in maniera del tutto convincente, fondendo abilmente il filone scandinavo con quello nordamericano e ammantando il tutto di una misurata componente atmosferica.
All Paths Lead To Death giunge due anni dopo il full length Ascension: in quel caso gli Amiensus esibivano un black più frastagliato e integrato da una voce femminile, mentre oggi paiono più orientati ad un impatto diretto e privo di fronzoli, anche se comunque sempre progressivo nel suo incedere; indubbiamente i riferimenti a molte delle band che hanno fatto la storia del genere non sono difficili da cogliere, ma i nostri sfuggono alla tentazione di aderirvi in maniera calligrafica, mettendoci in eguale misura cattiveria, convinzione e anche tecnica.
In meno di mezz’ora gli Amiensus offrono cinque brani intrisi della medesima forza di penetrazione, sviscerando senza eccessivi scostamenti la materia black e lasciando qualche bagliore melodico ed epico alla conclusiva The River, dopo che nella precedente Desolating Sacrilege avevano provveduto a surriscaldare per bene i padiglioni auricolari degli ascoltatori.
All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro, perché personalmente questa strada intrapresa dagli Amiensus mi piace non poco.

Tracklist:
1.Gehenna
2.Mouth of the Abyss
3.Prophecy
4.Desolating Sacrilege
5. The River

Line-up:
James Benson : Harsh Vocals, Clean Vocals, Guitar
Alec Rozsa : Keyboards, Guitars, Vocals
D. Todd Farnham : Bass
Zack Morgenthaler : Lead Guitar, Keyboards
Chris Piette : Drums

AMIENSUS – Facebook