Descend Into Despair – Synaptic Veil

Synaptic Veil è un’opera varia e matura, nella quale i meandri del doom più estremo e nel contempo atmosferico vengono esplorati senza nessuna remora ma con i giusti dosaggi, passando da attimi più eterei ad altri intrisi di ineluttabile dolore.

Tre anni dopo l’esordio su lunga distanza, intitolato The Bearer of All Storms, ritornano i rumeni Descend Into Despair con il loro funeral/death doom melodico ed atmosferico.

Parlando del precedente lavoro, all’epoca della sua uscita ero rimasto perplesso su alcune scelte effettuate dai ragazzi di Cluj-Napoca, in particolare quella di riversare su disco una mole esorbitante di materiale, finendo per diluire quanto di buono era stato possibile riscontare tra le righe di un songwriting ancora relativamente acerbo: ebbene, il valore del nuovo album dimostra nel migliore dei modi che, quando c’è il talento, bisogna solo dare tempo al tempo perché questo si manifesti compiutamente.
Synaptic Veil è infatti un’opera varia e matura, nella quale i meandri del doom più estremo e nel contempo atmosferico vengono esplorati senza nessuna remora ma con i giusti dosaggi, passando da attimi più eterei ad altri intrisi di ineluttabile dolore, grazie ad un lavoro chitarristico prezioso, esaltato per di più dal lavoro in studio affidato alle mani del musicista rumeno più noto nel settore, ovvero Daniel Neagoe (Eye Of Solitude, Clouds).
Il passaggio anche al microfono di Xander (che come chitarrista ha prestato i suoi servigi sugli ultimi due album dei Deos del duo Dehà/Neagoe, tanto per chiudere il cerchio) costituisce un ulteriore e decisivo passo avanti, visto che il suo growl è pressoché all’altezza di quello del suo connazionale ed anche le clean vocals convincono senza apparire mai forzate.
Con tutti questi ingredienti, Synaptic Veil si rivela così un album superbo, che va elaborato con la giusta pazienza per consentire all’ascoltatore d’essere annichilito dalla dolente bellezza di brani come Alone with My Thoughts e Demise, con quest’ultima vero fulcro del lavoro in virtù di quasi un quarto d’ora in cui i Descend Into Despair esprimono lo stato dell’arte del genere, edificando un monumento di rara intensità e malinconico abbandono.
Momenti acustici, spunti corali e stupende melodie chitarristiche, che spesso vanno in crescendo nella parte finale dei brani, rappresentano in questo l’ideale per l’appassionato del genere che non verrà deluso neppure dalla profondità delle liriche, tutte opera del vocalist e già brillanti in The Bearer of All Storms, ulteriore punto di forza della band nel loro tentativo di sviscerare le complessità e le contraddizioni della psiche umana.
Synaptic Veil consacra i Descend Into Despair come nuova e splendente realtà, espressione di un movimento metal underground rumeno che brulica di band di eccellente livello.

Tracklist:
1. Damnatio Memoriae
2. Alone with My Thoughts
3. Demise
4. Silence in Sable Acrotism
5. Tomorrow

Line-up:
Xander (guitars, vocals)
Florentin (keys)
Cosmin (guitars)
Luca (drums)
Alex (bass)
Flaviu (keys)
Dragoș (guitars)

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Lying Figures – The Abstract Escape

The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.

Primo full length per questa band francese che ha mosso i sui primi passi alla fine dello scorso decennio e che, oggi, dà finalmente un seguito consistente agli accenni di ottimo death doom fornito con un demo ed un ep rilasciati qualche anno fa.

The Abstract Escape si rivela infatti un’opera di notevole spessore, anche perché il gruppo di Nancy spicca per un approccio alla materia leggermente diverso, senza tralasciare di immettere nelle proprie composizioni passaggi riconducibili al gothic più depressivo, sfumatura quest’ultima che ben si sposa a tematiche legate a disagi psichici ed esistenziali.
Dei Lying Figures colpisce la capacità di toccare notevoli vette evocative subito dopo averne preparato il terreno con passaggi più rarefatti e solo apparentemente interlocutori, il tutto in qualche modo aderendo all’andamento schizofrenico di una mente malata che prova, invano, a riemergere dagli abissi nella quale è sprofondata.
In circa 50 minuti la creatura fondata dai due chitarristi Mehdi Rouyer e Matthieu Burgaud offre questi otto brani di ottima fattura, dimostrando la padronanza tipica di chi si è preso tutto il tempo necessario (come non sempre avviene) prima di imbarcarsi in un’avventura tutt’altro che scontata come il primo passo su lunga distanza: anche grazie a questo The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
La voce di Thibault Robardey interpreta tutto ciò con la giusta enfasi e, anche se magari certi passaggi possono risultare un po’ forzati, l’effetto desiderato viene raggiunto ampiamente: tutto ciò contribuisce a rendere diversi brani delle opalescenti e dolorose perle, il cui afflato melodico è sempre in primo piano e capace di illuminare il disco con improvvise aperture.
Tormented Soul e There was a hole here, it’s gone now sono due trace magnifiche per intensità, aderendo alle caratteristiche appena descritte, ma sono di poco superiori, probabilmente solo per gusto personale, al resto di una tracklist che vede anche la disperata Monologue of a sick brain, la gothicheggiante e più ritmata Remove the black e la conclusiva Zero, all’insegna invece di un sound più rallentato, quali altri punti di spicco di un disco bellissimo.
The Abstract Escape, come molte altre opere simili, va lavorato con pazienza perché non entra nelle corde dell’ascoltatore con particolare agio, ma quando ciò avviene rilascia quelle sensazioni che ogni amante del doom che si rispetti ricerca con doverosa e tenace pazienza.

Tracklist:
1. Hospital of 1000 deaths
2. Tormented souls
3. Monologue of a sick brain
4. The Mirror
5. There was a hole here, it’s gone now
6. My Special place
7. Remove the black
8. Zero

Line-up:
Thibault Robardey – vocals
Matthieu Burgaud – guitars
Mehdi Rouyer – guitars
Frédéric Simon – bass
Charles Pierron – drums

LYING FIGURES – Facebook

Fuoco Fatuo – Backwater

Un meraviglioso, oscuro opus di grande arte funeral senza eguali in Italia: una grande crescita artistica di questa band che ha prodotto uno dei migliori dischi del 2017.

Impenetrabile dai raggi del sole, ma proiettato costantemente verso il nero vuoto cosmico, verso le nostre più ataviche angosce e paure!

I Fuoco Fatuo, band varesina attiva dal 2012, stupiscono con una seconda opera di funeral doom di altissimo livello; nel roster della famosa etichetta canadese Profound Lore, dopo essersi fatti scoprire nel 2014 con The Viper Slithers in the Ashes of What Remains, più ancorato su lidi death/doom, con l’attuale opera Backwater esprimono veramente un colossale suono funeral, opprimente, angosciante che prende alla gola e non ti fa respirare dall’inizio alla fine dei suoi 62 minuti.
Non vi è una sola nota, nei quattro lunghissimi brani, che non crei un’atmosfera ammorbante, come un magma lavico denso, viscoso che ricopre ogni cosa, che si muove lentamente e ti soffoca; forse l’ unica possibilità di fuga è verso il vuoto cosmico, dove però le nostre paure non sono affatto lenite ma saranno ulteriormente accresciute: brani con titoli suggestivi come la meravigliosa Sulphureous Hazes, in cui la componente death, rimane legata solo alla parte vocale, mentre il suono può in parte ricordare i finnici Tyranny o gli Swallowed di Lunarterial, con in aggiunta una componente lisergica e visionaria molto particolare.
La misteriosa cover virata su colori nero e viola, la masterizzazione del suono da parte di un grande musicista come James Plotkin (Scorn, Khanate solo per nominare alcune collaborazioni) arricchiscono un’opera che non ha, al momento, molti eguali nel nostro territorio; come ha detto un amico, bisogna lasciarsi intercettare dalla buona musica e in questo caso, una volta entrati nell’inferno, non va opposta resistenza e si deve imparare a convivere con le nostre paure.
Dall’ascolto di quest’opera si esce lacerati nel profondo dell’anima: brani come Perpetual Apochaos e Nemesis, nel loro mastodontico svolgersi, non possono lasciare indifferenti chi si nutre di funeral doom. Non per molti, ma forse neanche per pochi … tra i migliori dischi del 2017.

TRACKLIST
1. Sulphureous Hazes
2. Rainfalls of Debris
3. Perpetual Apochaos
4. Nemesis

LINE-UP
G. Guitars, Bass
M. Vocals, Guitars
F. Drums

FUOCO FATUO – Facebook

Red Moon Architect – Return of the Black Butterflies

Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte dei Red Moon Archiect, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del funeral death doom melodico.

Se può essere inutile rimarcare come la Finlandia sia, per distacco, la patria delle sonorità più oscure e melanconiche, non lo è affatto continuare ad esaltare la qualità che le diverse band provenienti dalla terra dei mille laghi, alle prese con la materia funeral death doom, offrono ad ogni uscita.

In questo caso il lavoro preso in esame è il terzo dei Red Moon Architect, nati nel 2011 come progetto solista del talentuoso Saku Moilanen e poi trasformatisi nel tempo in una band a tutti gli effetti: Concealed Silence (2012), infatti, vedeva accreditato il solo musicista di Koivolua con l’ausilio di diversi ospiti, tra i quali la sola vocalist Anni Viljanen è rimasta a costituire il tratto d’unione tra quel lavoro e quelli successivi della band, ovviamente assieme al suo mastermind.
Se Fail, uscito nel 2015, consolidava il valore e lo status dei Red Moon Architect, questo nuovo Return of the Black Butterflies ha tutte le carte i regola per innalzare ulteriormente il livello della band finlandese e portarla a riempire un certo vuoto lasciato dai Draconian, dopo la svolta verso sonorità più morbide attuata da questi ultimi nell’ultimo decennio.
Certo, rispetto alla band svedese i nostri si spingono con più frequenza verso lidi prossimi al funeral, ma il connubio tra la voce femminile della Viljanen ed il growl del nuovo arrivato Ville Rutanen riporta automaticamente in quell’ambito, avendo in comune lo stesso senso drammatico ed evocativo che contraddistingueva le prime opere della creatura di Johan Ericsson.
Saku Moilanen si conferma compositore di grande spessore, offrendo una cinquantina di minuti di sonorità plumbee ma intrise di melodie dolenti che, come da copione, assumono sembianze drammatiche in coincidenza con il growl per poi aprirsi malinconicamente con l’entrata in scena della voce femminile.
Questo fa capire che non c’è da aspettarsi proprio nulla di nuovo ma, paradossalmente, tale aspetto si rivela la pietra angolare sul quale i Red Moon Architect erigono il loro magnifico monumento al dolore che, comunque, non assume mai un aspetto monocorde perché, pur tra gli scostamenti ridotti consentiti dal genere, il funeral opprimente esibito in maniera magistrale in End of Days è, per esempio, ben diverso sia dal gothic di Tormented sia dall’atmospheric doom di NDE.
Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte della band finlandese, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del genere.

Tracklist:
1. The Haunt
2. Tormented
3. Return of the Black Butterflies
4. Journey
5. End of Days
6. NDE

Line up:
Saku Moilanen – Schlagzeug & Keyboard
Ville Rutanen – Gesang
Matias Moilanen – Gitarre
Anni Viljanen – Gesang
Jukka Jauhiainen – Bass

RED MOON ARCHITECT – Facebook

Hexer – Cosmic Doom Ritual

Titolo immaginifico per un’opera estremamente atmosferica che proietta verso l’ignoto.

La fertile scena tedesca genera un’ altra piccola gemma di arte nera: gli Hexer, band di Dortmund di recente nascita (2014), dopo un EP (Holodeck Sessions) del 2015, esplode letteralmente con il full Cosmic Doom Ritual, dal suggestivo e grandioso titolo in cui esplora la propria idea della materia doom ammantandola di visioni psichedeliche, stoner e creando un’atmosfera insana, surreale, proiettata in uno vuoto cosmico sempre affascinante da esplorare.

Il loro suono cresce lentamente, senza fretta, increspato da note di cupo synth, creando un mood ritualistico con melodie sempre evocative come nel primo brano, Merkaba, dove millenarie tempeste di sabbia si abbattono su rovine perdute di mondi antichi immersi in deserti roventi: gli Hexer possono ricordare gli Esoteric per il loro incedere ipnotico anche se non raggiungono la loro pesantezza
Il secondo brano Pearl Snake profuma di intensa essenza orientale iniziando come un “raga” indiano, per poi incendiarsi in note stoner e doom che planano su templi abbandonati dove antichi culti sono stati celebrati: un brano veramente particolare denotante una visione personale della materia; l’ ultima traccia Black Lava Flow, dopo un inizio funeral, prosegue con note heavy doom ipnotiche e incessanti, per poi planare ancora su suggestioni orientali e, infine, come nuovi Hawkwind proiettarsi verso il cosmo. Decisamente una bella scoperta, con un buon guitar sound sempre ispirato, le melodie create dal synth e le influenze orientali a dare un tocco personale ed originale. Da seguire con attenzione.

TRACKLIST
1.Merkaba
2.Pearl Snake
3.Black Lava Flow

LINE-UP
L Synth, Samples
D Bass, Vocals
J Drums
M Guitars, Vocals

HEXER – Facebook

Funeral Tears – Beyond The Horizon

In quasi un’ora, Nikolay Seredov riesce a convogliare con grande proprietà compositiva le varie fonti di ispirazione che vanno a comporre questo bel monolite sonoro di puro e melanconico dolore.

E’ da circa un decennio che il musicista russo Nikolay Seredov è sulla scena con questo suo progetto solista denominato Funeral Tears.

Ovviamente, un simile monicker lascia ben pochi dubbi sul genere prescelto, che altro non può essere se non un dolente e malinconico funeral/death doom, e in questi casi l’unica discriminante rispetto a molte altre realtà dello stesso tenore è la competenza nell’approccio al genere.
Beyond The Horizon è il terzo fulll length che, dopo prove buone ma ancora leggermente acerbe come Your Life My Death (2010) e The World We Lost (2014), eleva la creatura di Nikolay ad uno status decisamente superiore: nell’album, infatti, tutto funziona per il meglio, a partire da un’ottima resa sonora, base ideale sulla quale erigere un sound che oscilla tra il funeral ed il death doom melodico, con qualche puntata nell’ambient.
In quasi un’ora, il musicista di Tomsk riesce a convogliare con grande proprietà compositiva le varie fonti di ispirazione che vanno a comporre questo bel monolite sonoro di puro e melanconico dolore: chiaramente il tutto è rivolto a quella nicchia di ascoltatori che si nutre avidamente di queste sonorità e che verranno ampiamente ripagati, per esempio, da due tracce magnifiche come Breathe e la conclusiva e struggente Eternal Tranquillity.
In Beyond The Horizon sono ottime le vocals, costituite di norma da un growl profondo che, ogni tanto però, sconfina in un aspro screaming, ed appaiono convincenti anche le trame chitarristiche, lineari ma dal necessario impatto emotivo: i Funeral Tears offrono tutti gli ingredienti capaci di rendere un disco di tale caratteristiche qualcosa di molto simile ad una vertiginosa discesa, senza possibilità di ritorno, nei gorghi della psiche umana.

Tracklist:
1. Close My Eyes
2. Breathe
3. Dehiscing Emptiness
4. I Suffocate
5. Beyond The Horizon
6. Eternal Tranquillity

Line-up:
Nikolay Seredov

FUNERAL TEARS – Facebook

Funeralium – Of Throes And Blight

Un disco magnifico, ma da maneggiare con estrema cura anche da parte di chi frequenta lidi sonori contigui al funeral doom.

Nati da una costola degli Ataraxie, i Funeralium perseguono con buon successo da oltre un decennio una forma di estremizzazione del funeral doom.

La band francese fa di un approccio del tutto negativo il proprio punto di forza, rinunciando a spunti melodici o atmosferici per calcare la mano sul senso di ineluttabile che ci attanaglia .
La voce utilizzata più spesso, non a caso, è uno screaming di matrice quasi depressive piuttosto che il consueto growl, a rimarcare un inquietudine più rabbiosa o ancor meglio intrisa di un rancore non circoscrivibile. Quando termina la prima discesa negli inferi dell’umana psiche, Slowly We Crawl Towards Crumb, è trascorsa quasi mezz’ora di funeral soffocante all’ennesima potenza, solo un po’ inasprito da tracce di black, e ci attende ancora un’altra ora di sonorità che lacerano, ora lasciandoci in uno stato di angosciosa sospensione, ora evocando il pianto e stridore di denti di apocalittica memoria.
Of Throes And Blight è un’agonia resa interminabile da una durata complessiva che nessuna persona sana di mente potrebbe ritenere ragionevole, ma alla categoria certo non appartengono né i Funeralium né chi decide di abbandonarsi al deliquio provocato da questi quattro monoliti eretti alla follia.
Un disco magnifico, ma da maneggiare con estrema cura anche da parte di chi frequenta lidi sonori contigui al funeral doom.

Tracklist:
1.Slowly We Crawl Towards Crumb
2.Spit At My Face, I Will Pluck Your Tongue Out
3.Vermin
4.Vanishing Once And For All

Line-up:
Berserk – Guitars
Marquis – Vocals, Guitars
Asmael LeBouc – Bass, Vocals
A.D. K’shon – Drums
Charles Ward – Bass

FUNERALIUM – Facebook

Imindain – The Enemy of Fetters and Dwellers in the Woods

Per gli Imindain un ritorno gradito e tutt’altro che superfluo, con la ragionevole speranza che questo ep sia il logico antipasto di un nuovo lavoro su lunga distanza dal quale, oggettivamente, ci si aspetta molto.

Gli inglesi Imindain si erano palesati all’attenzione degli appassionati di doom alla metà dello scorso decennio con due demo, seguiti dal full length And the Living Shall Envy the Dead…

Due split album nel 2009 sembravano aver chiuso l’avventura della band che, invece, dopo otto anni di silenzio si ripresenta con questo lungo ep, fatto di un’intro, due brani inediti ed una cover dei Disembowelment.
Il death doom del trio di Stoke On Trent è ostico ma non privo di spunti melodici, oscillando tra ruvidezze death e il malinconico abbandono del funeral, delineato da una dolente chitarra solista che, sicuramente, aumenta il potenziale evocativo del lavoro.
A livello di riferimenti vengono citati in sede di presentazione quasi tutti i numi tutelari del settore, dai quali gli Imindain attingono con giudizio e mettendoci molto della loro ineccepibile attitudine.
Così, tra accenni all’imprescindibile scuola funeral finlandese (il chitarrista D.L., peraltro, ha fatto parte dei Profetus fino a pochi anni fa), e a quella australiana, omaggiata appunto con la cover dei seminali Disembowelment, The Enemy of Fetters and Dwellers in the Woods scorre in maniera tutt’altro che indolore, lasciando sul campo la giusta dose di fosca mestizia con i due inediti The Final Godhead e A Paean to the Vermin, entrambi caratterizzati da suoni più aspri  nella prima parte per poi aprirsi alle emozioni destate da un sapiente uso delle sei corde nella fase discendente.
La stupenda cover di Cerulean Transience of All My Imagined Shores è la ciliegina sulla torta piazzata al termine di un opera convincente: la traccia è resa ottimamente dal terzetto senza snaturarne l’essenza e anzi, mantenendo pressoché intatte le caratteristiche di un pezzo di storia del doom composto quasi un quarto di di secolo fa.
Un ritorno gradito e tutt’altro che superfluo, quindi, per gli Imindain, con la concreta speranza che questo ep sia il logico antipasto di un nuovo lavoro su lunga distanza dal quale, oggettivamente, ci si aspetta molto.

Tracklist:
1. To Meditate upon the Face of Forgotten Death
2. The Final Godhead
3. A Paean to the Vermin
4. Cerulean Transience of All My Imagined Shores (Disembowelment cover)

Line up:
M.W. – Guitars (formerly Bass)
D.L. – Guitars, Vocals
L.B. – Vocals

IMINDAIN – Facebook

Frowning – Extinct

Un’ora di ottima musica che arriva a consolidare le posizioni del nome Frowning tra le realtà di spicco del funeral doom del nuovo secolo.

Tre anni dopo l’ottimo Funeral Impressions ritorna Val Atra Niteris con il suo progetto funeral doom Frowning.

Il nuovo parto si intitola Extinct ed appare quale naturale sviluppo di quel cammino intrapreso dal musicista tedesco all’inizio del decennio, attraverso alcuni singoli prima di affacciarsi con decisione sulla scena con lo split album del 2014 in compagnia degli Aphonic Threnody.
Se parlare di evoluzione nel funeral potrebbe essere improprio, non lo è invece utilizzare quale parola chiave “focalizzazione”, ovvero l’ideale passo verso il raggiungimento della perfezione formale e compositiva del genere.
Extinct rappresenta questo passaggio nel percorso dei Frowning: il funeral qui è interpretato in maniera quanto mai ortodossa ma non calligrafica e se l’opener Nocturnal Void è il brano che offre i maggiori spunti dal punto di vista melodico, nelle successive e più ripiegate su sé stesse Encumbered By Vermin e Veiled In Fog il sound mantiene il suo incedere dai ritmi bradicardici, trovando poi la sua quintessenza in Buried Deep, traccia di venti minuti che si pone quale manifesto musicale del musicista della Sassonia.
Le influenze nei Frowning sono molteplici, ma nessuna di esse appare particolarmente marcata: la lentezza portata talvolta alle estreme conseguenze è senz’altro riconducibile ai connazionali Worship, mentre il senso melodico ed atmosferico, più che a fonti di ispirazioni dichiarate e ben presenti quali Mournful Congregation ed Evoken, paiono essere assimilabili a campioni del funeral emotivo quali Ea o Eye Of Solitude; la bontà del lavoro di Val Atra Niteris risiede appunto nel sapere fondere con maestria tutto il vissuto del genere, per poi riversarlo in un modus compositivo che si trasforma in un’esibizione pressoché perfetta del genere (con il raggiungimento, appunto, di quell’obiettivo di ci si diceva in precedenza).
A livello soprattutto di curiosità va citata la versione della celeberrima Marcia Funebre di Chopin (volendo, lo si potrebbe considerare “il primo brano funeral della storia”, ma qualcuno più ferrato di me nella musica classica magari mi confuterà scovando qualcosa di anteriore…) anche se, personalmente, l’avrei omessa lasciando che l’album si chiudesse con le ultime note della splendida Buried Deep.
Poco male, quando resta quasi un’ora di ottima musica che arriva a consolidare le posizioni del nome Frowning tra le realtà di spicco del funeral doom del nuovo secolo.

Tracklist:
1.Nocturnal Void
2.Ecumbered By Vermin
3.Veiled In Fog
4.Buried Deep
5.Frederic Chopin’s Marche Funebre

Line-up:
Val Atra Niteris

FROWNING – Facebook

Until Death Overtakes Me – Antemortem

Le atmosfere che troviamo in Antemortem sono plumbee ma non soffocanti e anche i momenti più vicini all’ambient mantengono un incedere più dolente che apocalittico, confacendosi al tema di fondo trattato nel lavoro.

Until Death Overtakes Me è uno dei diversi progetti che vede protagonista il musicista belga Stijn Van Cauter, e tra questi e senz’altro il più aderente alle coordinate tipiche del funeral doom.

Le atmosfere che troviamo in Antemortem sono plumbee ma non soffocanti e anche i momenti più vicini all’ambient mantengono un incedere più dolente che apocalittico, confacendosi al tema di fondo trattato nel lavoro, che mette sempre in primo piano la morte ma, questa volta, non tanto come una mostruosità incombente bensì quale naturale approdo di un percorso che conduce ad una sorta di accettazione della sua ineluttabilità.
Van Cauter, per descrivere questo, utilizza due tracce risalenti allo scorso decennio (Antemortem e Days Without Hope) e due di produzione di poco precedente all’uscita dell’album: Antemortem non risente del possibile stacco stilistico derivante dal logico evolversi del musicista belga a livello compositivo ma anzi, lo rende un punto di forza che consente all’ascoltatore di entrare maggiormente in simbiosi con l’autore ed il suo approccio alla materia.
I ventiquattro minuti di Before e gli undici di di Days Without Hope sono fondamentalmente complentari, con il loro penoso incedere, laddove sonorità avvolgenti vengono percosse dai regolari e violenti spasmi provocati dall’unisono e bradicardico palesarsi di riff e percussioni.
The Wait, altra traccia che supera i venti minuti, rappresenta con il suo crescendo il picco dello stato emotivo, evocando la tensione spasmodica che precede una consapevole rassegnazione, ben rappresentata dalla conclusiva Inevitability, nella quale le strutture tratteggiano atmosfere solennemente consolatorie.
Arrivato a sette anni di distanza dal precedente full length, sesto ed ultimo di una prima fase di carriera molto prolifica per il progetto Until Death Overtakes Me, e inframmezzato da una serie di singoli (poi raccolti nella compilation Well Of Dreams, risalente alla primavera scorsa), Antemortem è il lavoro che suggella il valore assoluto della creatura di Stijn Van Cauter, solitario cantore di quelle sensazioni che solo chi suona funeral doom ha il coraggio di affrontare ed esibire senza alcuna ritrosia.

Tracklist:
1.Before
2.Days Without Hope
3.The Wait
4.Inevitability

Line-up:
Stijn Van Cauter

UNTIL DEATH OVERTAKES ME – Facebook

Illimitable Dolor – Illimitable Dolor

Una band ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Greg Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Gli Illimitable Dolor sono una band australiana che, con questo suo album d’esordio, omaggia la memoria di Greg Williamson, cantante dei The Slow Death scomparso nel 2014.

Non a caso del progetto in questione fanno parte, infatti, tre ex compagni di Williamson, Stuart Prickett, John McLaughlin e Dan Garcia, oltre a Peter O’Donohue che si è occupato del mastering di Ark, album della band di Springwood uscito postumo rispetto alla morte del vocalist.
Come non di rado accade, l’ispirazione derivante da un lutto reale e non virtuale sembra fare la differenza (anche se ovviamente si spera sempre che ciò non sia necessario), specialmente in un genere che già di suo ha il compito di evocare un dolore incontenibile, come da ragione sociale scelta dal gruppo.
Quest’album è una prova magnifica che, a mio avviso, è anche superiore rispetto al valore degli album degli stessi The Slow Death: il funeral death doom degli Illimitable Dolor è tragico, melodico e fortemente evocativo, va diritto al cuore senza perdersi in troppi preamboli, prendendo il meglio di quanto negli anni il genere ha offerto, anche nel continente australe dove, oltre agli ovvi riferimenti alla band madre, non è possibile fare a meno di rapportarsi con i grandi Mournful Congregation, senza però dimenticare i Cryptal Darkness, autori a cavallo del nuovo millennio di due lavori magnifici (prima di trasformarsi nei più gotici e meno incisivi The Eternal) benché fortemente debitori dei My Dying Bride. E, quasi a chiudere un ideale cerchio, proprio la band di Stainthorpe viene omaggiata dagli Illimitable Dolor con un richiamo a Your River (da Turn Loose The Swans), nella parte centrale di quello che è il brano più drammatico ed intenso di questo splendido album, Salt of Brazen Seas.
La prova di Stuart Prickett dietro il microfono è convincente così come quella della band, realmente ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Tracklist:
1. Rail of Moon, A Stone
2. Comet Dies or Shines
3. Salt of Brazen Seas
4. Abandoned Cuts of River

Line up:
Stuart Prickett – Guitar, Vocals, Keys
Dan Garcia – Guitar
John McLaughlin – Drums
Guy Moore – Keyboards
Peter O’Donohue – Guitar
Daniel Finney – Bass

ILLIMITABLE DOLOR – Facebook

Suffer Yourself – Ectoplasm

Ottima seconda prova di funeral doom da una band in costante evoluzione

Fin dalla cover alcuni dischi accendono l’ interesse di noi ascoltatori, di noi ” cercatori d’oro”; mi sbilancio ma questa mi è piaciuta tantissimo e anche il particolare titolo “Ectoplasm” mi ha spinto ad ascoltare il 2° full dei Suffer Yourself, già autori di un ottimo full nel 2014 (Inner Sanctum).

Nati come one man band di Stanislav Govorukha già EX AUTO DA FE (funeral death), CORAM DEO (melodic death), ILLUMINANDI (folk-gothic) si sono evoluti nella attuale band, locata in Svezia, che comprende altri tre musicisti che aiutano il leader a creare un grande disco di funeral death doom in cui si miscelano artigianalmente, con cura certosina, molte influenze per creare un opera che come sempre data la lunghezza, cinque brani per un ora di splendida musica, ha bisogno di numerosi ascolti per “entrare”. Il suono, come il titolo esplica, appare come una “sostanza mobile ectoplasmica” e può essere morbido, sinuoso, vaporoso, fluido, non ben definito, ma in ogni caso sempre emozionante e di infinita tristezza, come nel magnifico brano “The Core\Nika Turbina” in ricordo del trentennale del disastro di Chernobyl (…i’ll paint my name on the abandoned walls to come back in thirty years). Due brani anche per la loro lunghezza, Abysmal Emptiness di sedici minuti e Dead Visions di diciannove minuti sono l’ esempio migliore di come sono intersecate anche in modo inaspettato tutte le influenze del leader, da grandi muri di suono (come i grandi Esoteric) in perenne movimento a momenti più direttamente death (metà di Abysmal) che scivolano in parti più morbide, “melodiche”, in modo da rendere questa opera maestosa, misteriosa e cangiante; le vocals del leader passano da un lento salmodiare a un ottimo growl, con parti anche cantate in russo\ucraino. E’ sempre un piacere poter seguire ed ascoltare bravi musicisti che suonando con passione e idee, ci affascinano nel loro percorso musicale.

TRACKLIST
1. Ectoplasm
2. Abysmal Emptiness
3. The Core
4. Dead Visions
5. Transcend the Void

LINE-UP
Malcolm Sohlen – Bass
Kateryna Osmuk – Drums
Lars Abrahamsson – Guitars
Stanislav Govorukha – Guitars, vocals, programming

SUFFER YOURSELF – Facebook

Monolithe – Zeta Reticuli

Zeta Reticuli rafforza le tendenze emerse dal nuovo corso dei Monolithe, i quali, pur continuando a perseguire il proprio concept cosmico, hanno decisamente reso più ariose le proprie composizioni.

A poco più di sei mesi dall’uscita di Epsilon Aurigae, ecco l’arrivo di Zeta Reticuli a completare questa opera discografica dei Monolithe, che non a caso viene pubblicata anche in una sola confezione contenente entrambi i lavori, sempre a cura della Debemur Morti.

Quest’album conferma e rafforza le tendenze emerse dal nuovo corso della band francese che, pur continuando a perseguire il proprio concept cosmico, ha decisamente reso più ariose le proprie composizioni svincolandosi del tutto da un funeral ortodosso per approdare ad una forma di doom molto più atmosferica, in cui aumentano esponenzialmente gli splendidi assoli dì chitarra di Sylvain Begot e giungendo, infine, a chiudere il lavoro con l’intera The Barren Depths interpretata dall’ospite Guyom Pavesi (cantante dei Devianz, band in cui suona l’altro chitarrista Benoit Blin) con la sua particolare e stentorea voce pulita.
Insomma, la galassia Monolithe continua a fluttuare negli spazi interminabili dell’universo e lo fa speditamente fin dal 2012, quando, dopo un quinquennio di silenzio, è iniziato un periodo di grande prolificità coincisa con la pubblicazione di ben quattro full-length.
Ciò che, fin da Monolithe III, è apparso subito evidente, è stata la maggiore dinamicità di un sound che, nel corso dei lavori successivi, si è sempre più aperto a soluzioni melodiche sublimatesi, infine, in un refrain come quello presente in The Barren Depths, dove si sconfina in mondi musicali paralleli abitati da Mastodon e co.
Cosmic atmospheric doom è una definizione ad hoc per i Monolithe, i quali, con un lavoro di questa portata, potrebbero ampliare non poco la base dei propri fedeli estimatori, pur restando per attitudine e capacità evocative una doom band a tutti gli effetti; impossibile resistere a queste colonna sonore che riportano la mente ad un immaginario kubrickiano, il che, a ben vedere, trasmette un senso di sgomento non inferiore rispetto agli scenari luttuosi che costituiscono normalmente il tema portante del genere.
Al di là della splendida anomalia costituita dall’ultima traccia (di 15 minuti esatti, come avviene anche per gli altri brani di questo disco e del suo predecessore), Ecumenopolis è un episodio magnifico, nel quale Richard Loudin declama foschi scenari futuristici su schemi compositivi che ormai sono un marchio di fabbrica: il crescendo nella parte centrale, il pulsare del basso in conclusione, lasciano spazio ad uno strumentale (TMA-1, omologo del TMA-0 di Epsilon Aurigae) in cui regala il suo tassello chitarristico anche Jari Lindholm degli ottimi Enshine.
Proprio la riconoscibilità del sound è, come sempre, uno dei sintomi più evidenti del raggiungimento di uno status ragguardevole: quello dei Monolithe resta comunque di culto, perché tale è il destino di chi suona questo genere anche ai massimi livelli, ma se oggi dovessi puntare un euro su una band di matrice funeral capace di abbattere le barriere di genere per approdare ad una popolarità (relativamente ) più vasta, me lo giocherei su questi parigini con la testa ben oltre le nuvole …

Tracklist:
1. Ecumenopolis
2. TMA-1
3. The Barren Depths

Line-up:
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums

Guests:
Guyom Pavesi – Vocals (track 3)
Jari Lindholm – Guitars (lead) (track 2)

MONOLITHE – Facebook

Bosque – Beyond

Beyond è un lavoro valido, in grado d’essere apprezzato dagli amanti del funeral anche se forse, rispetto a Nowhere, viene meno una certa peculiarità.

Il primo incontro con i Bosque risale alla fine del 2013, quando mi trovai a palare di Nowhere, secondo full-length pubblicato dalla one man band portoghese.

Quel lavoro mi colpì per l’atmosfera soffocante che lo contraddistingueva, rinunciando quasi del tutto ad alleviare le sofferenze provocate dal funeral doom grazie a qualche prolungato accenno melodico; a quasi tre anni di distanza, DM torna a far parlare di sé con Beyond, lavoro che appare fin da subito decisamente diverso dal predecessore.
Infatti, l’opener Calling the Rain mostra una propensione ad un sound nel quale la melodia, come detto pressoché bandita in Nowhere, diviene preponderante nella costruzione dei brani, tramite lenti e sempre sofferti riff chitarristici, sempre e comunque legati da uno sviluppo armonico ben definito.
La chitarra regala anche passaggi solisti, ovviamente privi di virtuosismi bensì volti essenzialmente a rimarcare il dolente incedere di un lavoro nel quale anche la voce, utilizzata con una range clean anche se leggermente filtrata, appare un vero e proprio lamento che asseconda in pieno l’umore dell’album.
I tre lunghi brani sono tutti di buon livello, anche se il ricorso a sonorità più definite a livello melodico mostra qualche imperfezione, a partire proprio dalla voce che, sicuramente, è l’aspetto sul quale sarebbe auspicabile intervenire in futuro; il tutto viene comunque compensato da un’attitudine ed una capacità compositiva che rendono Beyond un lavoro valido, in grado d’essere apprezzato dagli amanti del funeral anche se forse, rispetto a Nowhere, viene meno una certa peculiarità.

Tracklist:
1.Calling the Rain
2.Paradox
3.Enter

Line-up:
DM – all music and words
DA – session drums

BOSQUE – Facebook

Hyponic – 前行者

Un buon ritorno che si spera sia propedeutico ad altre future uscite

Gli Hyponic sono una realtà proveniente da Hong Kong e dedita ad un funeral doom davvero stimolante.

Presi sotto l’ala protettiva della Weird Truth Productions, la label giapponese specializzata in doom e gestita, non a caso, da Makoto Fujishima, massimo esponente del genere nel paese del Sol Levante, gli Hyponic infatti si rifanno vivi con il loro terzo full length dopo oltre un decennio di silenzio discografico.
Il titolo dell’album, così come quelli dei brani (ad eccezione della cover dei Virus, Intro), sono tutti composti da ideogrammi per noi indecifrabili per cui identificherò le tracce con l’ordine di posizionamento nella tracklist.
Il funeral doom degli Hyponic è decisamente interessante, proprio in quanto di difficile collocazione stilistica, e denota, pertanto, una buona dose di personalità e di predisposizione ad una sperimentazione tutt’altro che velleitaria; infatti, nonostante la musica di provenienza asiatica, talvolta viva di una luce riflessa rispetto alle proprie fonti di ispirazione, siano esse di matrice europea od americana, si può dire che la proposta in questo caso ha una sua spiccata peculiarità, nel senso che le influenze vengono elaborate ed espresse in maniera non calligrafica, come avviene con le aperture drammatiche in stile primi Monolithe, e con passaggi di matrice ambient e rarefazioni acustiche che possono ricondurre a grandi linee agli Esoteric o anche agli stessi Funeral Moth di Fujishima.
In sostanza, quest’album degli Hyponic è di egregia fattura, anche se di non semplice ascolto: è fuor di dubbio che aiutano non poco, a livello di fruizione, le ottime aperture chitarristiche in versione solista che troviamo sia nella traccia d’apertura sia, in una più disturbante veste, nell’eccellente quarto brano; come già detto, però, più spesso è una componente ambient a prendere il sopravvento, rendendo l’album non meno interessante e, per quanto elaborato, tutt’altro che tedioso, offrendo la possibilità di godere di una band in grado di tenere alto il vessillo del doom estremo di matrice asiatica, grazie ad un buon ritorno che si spera sia propedeutico ad altre future uscite.

Tracklist:
1. 前行者
2. 誅滅零八
3. 最後陳述
4. 寧劈不回
5. 飄流
6. Intro (Virus cover)

Line-up:
Roy – Drums
Wah – Vocals, Guitars
Mei Fun – Bass

HYPONIC – Facebook

Eye Of Solitude – Cenotaph

L’ennesimo grande disco di una band che non finisce mai di regalare emozioni.

Gli Eye Of Solitude, rispetto alla maggior parte delle doom band, si distinguono per una produzione più cospicua che, quasi magicamente, non va affatto a discapito della qualità.

Infatti, a fronte di chi fa trascorrere diversi anni tra un uscita e l’altra, il gruppo guidato da Daniel Neagoe solletica con una certa frequenza il palato dei numerosi estimatori, guadagnati grazie alla pubblicazione di un capolavoro come Canto III (2013) ed ad altri due lavori magnifici come Sui Caedere (2012) ed Dear Insanity (2014).
Nel 2015 il nome del gruppo londinese è balzato agli onori della cronaca, prima grazie allo split con gli olandesi Faal, poi, anche per la valenza benefica dell’operazione, con la pubblicazione on-line del singolo Lugubrious Valedictory, volto alla raccolta di fondi da devolvere a favore dei familiari di coloro che persero la vita nella tragedia del Colectiv Club di Bucarest, risalente allo scorso ottobre.
Fatte le debite premesse, veniamo a parlare del nuovo album Cenotaph, la cui uscita è prevista per il 1 settembre e che, al momento, non vede alcuna etichetta assumersi l’onere (ma soprattutto l’onore) della sua pubblicazione.
Se, come detto, Canto III costituiva la quintessenza del sentire musicale degli Eye Of Solitude potendosi considerare, per certi versi, un qualcosa di irripetibile grazie alla sua perfetta espressione di un deathdoom melodico e parossistico per intensità, Dear Insanity si spostava maggiormente verso un funeral dagli ampi tratti ambient; Cenotaph riesce nella non facile impresa di assimilare il meglio da entrambi i lavori, restando sicuramente su posizioni più vicine all’ep precedente ma arricchendole con quei crescendo emotivi che sono il marchio di fabbrica di Neagoe e soci.
Rispetto all’opera di matrice dantesca, Cenotaph appare sicuramente meno immediato, evidenziando, come già notato in Dear Insanity, un’attitudine chitarristica più propensa ad accompagnare il sound piuttosto che ad ergersi quale protagonista, facendo sì che, alla fine, il vero “strumento” chiave del lavoro divenga proprio l’inimitabile growl di Daniel.
Proviamo per assurdo ad azzerare gli interventi del vocalist rumeno: ne resterebbe comunque un superlativo album strumentale al quale, però, verrebbe meno l’elemento cardine in grado rendere “fisico” il tormento e lo smarrimento evocato dalla musica.
Infatti, la commozione che oggi pochi come gli Eye Of Solitude sono capaci di indurre, nasce da un lavoro d’insieme, dall’afflato compositivo di una band che si muove all’unisono, preparando il terreno, tramite passaggi rarefatti ed atmosfere quasi cullanti, alla deflagrazione di un pathos che assume le sembianze di un crescendo vorticoso e dall’intensità insostenibile.
Questa è, a grandi linee, la descrizione di un brano come A Somber Guest, uno dei picchi assoluti della carriera di una band unica, oggi, per la propria particolare opera di sbriciolamento di ogni barriera psichica che l’inconscio provi ad erigere.
Il dolore, la paura dell’ignoto, l’ineluttabilità della morte: tutto ciò viene rovesciato sull’ascoltatore, prima sgomento ed indifeso di fronte ad una tale offensiva, poi gradualmente capace di compenetrarsi con la musica facendosi consapevolmente travolgere da una marea emotiva che, ritirandosi, lascia quale preziosa traccia del suo passaggio un catartico stupore.
La title track prima, e This Goodbye. The Goodbye, poi, sono esempi di quella rarefazione del suono che, se non raggiunge l’intensità esibita in altri passaggi dell’album, costituisce il magnifico preludio ad aperture melodiche che inducono senza remissione alle lacrime, come avviene in maniera esemplare e definitiva nella seconda parte dell’altro brano capolavoro Loss, a suggello dell’ennesima opera monumentale targata Eye Of Solitude.
Cenotaph è tappa obbligata per chi vuole affrontare privo di preconcetti una forma d’arte che, invece di occultare le miserie dell’esistenza rivestendole grottescamente di una gioia artefatta , le esibisce senza pudori per poi trasformarle in un’esperienza liberatoria, facendo vibrare le corde più profonde dell’animo umano.

Tracklist:
1. Cenotaph
2. A Somber Guest
3. This Goodbye. The Goodbye
4. Loss

Line-up:
Daniel Neagoe – Vocals
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Steffan Gough – Guitars

EYE OF SOLITUDE – Facebook

Bell Witch – Four Phantoms

I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati del doom più estremo.

Se qualcuno pensa erroneamente che a Seattle si suoni solo e sempre giunge, o comunque rock alternativo, provi ad ascoltare questo terrificante monolite sonoro eretto dal duo denominato Bell Witch.

Dylan Desmond e Adrian Guerra (quest’ultimo già live drummer dei formidabili Shadow of the Torturer) impiegano oltre un’ora per srotolare quattro brani dalla lentezza quasi esasperante, proponendosi come una sorta di versione d’oltreoceano dei tedeschi Worship.
Questo almeno avviene nella traccia cardine del lavoro, l’iniziale Suffocation, A Burial: I – Awoken, che si dipana in maniera appunto soffocante per oltre venti minuti segnati da uno sbocco melodico davvero lacerante nella sua parte finale.
A parte le più rarefatte sembianze di Judgement, In Fire: I – Garden, il resto dell’album vive sulle precedenti coordinate, anche se in Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy qualche minima variazione, sotto forma di clean vocals dai toni evocativi, la si riscontra, spazzata via bellamente, comunque, dal growl belluino che sovrasta di nuovo il bradicardico incedere della conclusiva Judgement, In Air: II – Felled.
In sintesi, i due musicisti statunitensi con Four Phantoms hanno prodotto un’ottima opera che necessita inevitabilmente, però, di molta familiarità con il versante più opprimente e meno atmosferico del funeral.
I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati: se in futuro riusciranno anche a ripulire un pizzico il loro sound (anche se tutto sommato una produzione non proprio cristallina si confà al genere) e a ricreare con più continuità quel senso di dolore ottundente che dimostrano a tratti d’avere nelle corde, il prossimo lavoro potrebbe rivelarsi qualcosa di memorabile.

Tracklist:
1. Suffocation, A Burial: I – Awoken (Breathing Teeth)
2. Judgement, In Fire: I – Garden (Of Blooming Ash)
3. Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy (The Distance of Forever)
4. Judgement, In Air: II – Felled (In Howling Wind)

Line-up:
Dylan Desmond – Bass, Vocals
Adrian Guerra – Drums, Vocals

BELL WITCH – Facebook

Fallen – Fallen

Riedizione dell’unico album pubblicato dai Fallen con l’aggiunta di due tracce inedite.

È tempo di riedizioni per le creature musicali di Anders Eek, uno dei protagonisti principali della scena doom norvegese.

I Fallen erano una band parallela dei più noti Funeral (dei quali parleremo appunto nei prossimi giorni trattando la ristampa del loro secondo album) e, nel corso della loro breve esistenza artistica, hanno lasciato una sola testimonianza su lunga distanza, A Tragedy’s Bitter End, un lavoro uscito nel 2004 che ottenne buoni riscontri a livello di critica.
Purtroppo, la prematura morte del chitarrista Christian Loos decretò l’interruzione dell’attività per i Fallen, con Eek che passò a dedicarsi a tempo pieno al suo principale progetto.
La Solitude offre oggi questa riedizione, che viene definita impropriamente una compilation, visto che si tratta di fatto della riproposizione dell’unico album con l’aggiunta di due brani registrati prima della scomparsa di Loos.
Musicalmente, A Tragedy’s Bitter End contiene una forma di funeral piuttosto scarna ma indubbiamente coinvolgente anche se non sempre del tutto a fuoco; la possibilità di parlare di questo vecchio album mi fornisce lo spunto per chiarire un personalissimo punto di vista sulla materia trattata: per quanto mi riguarda, l’unica forma vocale possibile per un disco funeral è il growl, punto, e “tutto il resto è noia” (nel vero senso della parola), come qualcuno cantava molti anni fa …
Il tono profondo e forzato di Kjetil Ottersen è piuttosto simile a quello utilizzato da Kostas Panagiotu nei Pantheist, il che tende sicuramente a fornire al sound un’aura più decadente (oltre all’indubbio vantaggio di poter cogliere il contenuto lirico senza l’ausilio di un testo scritto), ma con lo sgradevole effetto collaterale di dover ascoltare una sorta di Andrew Eldritch afflitto da adenoidi.
Per contro, l’attitudine e la competenza nel trattare il genere da parte di Eek e compagni è al di sopra di ogni sospetto, e si percepisce chiaramente quanto il tragico e ineluttabile sentore di morte che aleggia costantemente lungo ogni singola nota dell’album non sia frutto di un’esibizione manieristica.
Un brano splendido come Now that I Die, con i suoi diciassette minuti ed oltre di dolore che si fa musica, è emblematico della bontà intrinseca di un lavoro che è giustamente rimasto ben impresso nella memoria degli appassionati più incalliti.
Le due composizioni che vanno ad integrare la scaletta di A Tragedy’s Bitter End sono Drink Deep My Wounds, che si muove sulla falsariga dei brani precedenti pur rivelandosi in certi frangenti più arioso, e la cover di Persephone dei Dead Can Dance, piuttosto stravolta rispetto all’originale ma non per questo meno efficace (anche grazie al ricorso ad un timbro vocale meglio tarato da parte di Ottersen).
I motivi per far propria questa uscita quindi non mancano, inclusa la possibilità di avere per le mani un album che, all’epoca, venne stampato in un numero limitato di copie e che, oggi, viene oltretutto riproposto con una nuova e più soddisfacente veste grafica.

Tracklist:
1. Gravdans
2. Weary and Wretched
3. To the Fallen
4. Morphia
5. Now that I Die
6. The Funeral
7. Drink Deep My Wounds
8. Persephone – A Gathering of Flowers (Dead Can Dance cover)

Line-up:
Anders Eek – Drums
Christian Loos – Guitars
Kjetil Ottersen – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Ataraxie – Slow Transcending Agony

Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

A dieci anni esatti dalla sua pubblicazione, Slow Transcending Agony, album d’esordio dei francesi Ataraxie, viene nuovamente immesso sul mercato in una veste rinnovata e con l’aggiunta di una bonus track come The Tree of Life and Death, cover dei seminali Disembowelment.

La band normanna è senza ombra di dubbio uno dei nomi di punta della scena funeral death doom europea, benché la sua produzione non sia ricchissima a livello di full length pubblicati, ma qui a fare la differenza è la qualità immensa di ognuna delle tre uscite (oltre al disco in oggetto, “Anhedonie” del 2008 e “L’être et la Nausée” del 2013).
Proprio parlando di quest’ultimo lavoro, circa due anni fa, mi spinsi ad affermare che gli Ataraxie avevano finalmente raggiunto il gotha della scena, e tale sensazione viene ampiamente suffragata da quest’esame retrospettivo che ci consente di vericare l’evoluzione della band e, nel contempo, di constatare quanto il sound fosse evoluto e di un livello abbondantemente al sopra della media già allora.
Dopo la lunga introduzione affidata al mortifero strumentale Astep Into The Gloom, Funeral Hymn scaraventa l’ascoltatore negli abissi più reconditi, lo immerge in una cupa disperazione rivelandosi una vera e propria marcia funebre che accompagna l’interminabile percorso lastricato di un dolore senza fine.
L’Ataraxie, se possibile, aumenta ancor di più il pathos drammatico del lavoro; se il brano precedente risentiva ancora, parzialmente, dell’inevitabile influsso della “sposa morente”, il pezzo autointitolato è invece un magnifico e monolitico esempio di funeral doom che non ammette dubbi né repliche: lo si ama, e basta.
La title track si snoderebbe nel buio più totale se non intervenisse qualche accenno acustico ad illuminare di luce fioca uno scenario non dissimile a quelli consoni ai Mournful Congregation (che nello stesso anno, è bene ricordarlo, diedero alla luce quel capolavoro intitolato “The Monad Of Creation”).
Another Day Of Despondency lascia sfogare una controllata furia death prima che i rallentamenti mozzafiato vadano a lambire, nelle rare aperture melodiche, gli umori seminali della scuola albionica dei primi anni novanta.
The Tree of Life and Death, infine, è l’omaggio doverso agli australiani Disembowelment, band di culto che con un solo album, pubblicato nel 1993, è stata comunque capace di lasciare il segno nella scena death doom; da rimarcare che il brano in questione è stato registrato dagli Ataraxie con la nuova formazione che vede la presenza di ben tre chitarristi.
Senza nulla togliere ai suoi compagni , Jonathan Thery domina Slow Transcending Agony grazie alla sua capacità di unire un growl dalla timbrica inumana, eguagliato oggi dal solo Daniel Neagoe, a sfuriate in uno screaming di matrice quasi depressive, senza che il potenziale evocativo dei brani venga minimamente scalfito.
Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

Tracklist:
1. Astep Into The Gloom
2. Funeral Hymn
3. L’Ataraxie
4. Slow Transcending Agony
5. Another Day Of Despondency
6. The Tree of Life and Death

Line-up:
Jonathan – Vocals, Bass
Fred – Guitars
Sylvain – Guitars
Pierre – Drums

ATARAXIE – Facebook

Shape Of Despair – Monotony Fields

Il sound dei Shape Of Despair non respinge ma avvolge, non trasporta un sentore di morte cavalcando sonorità ostiche e dissonanti, bensì accompagna misericordiosamente gli ultimi ansiti vitali rendendo sopportabile ma non meno drammatico l’imminente distacco.

All’inizio del secolo i finlandesi Shape Of Despair si imposero come una delle realtà più fulgide della scena funeral doom, grazie ad un trittico di album (“Shades Of …”, “Angels Of Distress” ed “Illusion’s Play”) di eccellente livello medio.

In particolare il secondo viene ricordato come uno dei capolavori assoluti del genere e, in una mia ipotetica graduatoria, occupa saldamente una delle prime cinque posizioni all time.
Dopo “Illusion’s Play”, la band creata da Jarno Salomaa e Tomi Ullgrén si prese una lunga pausa, interrotta solo dall’ep “Written In Scars” del 2011 e dallo split album con i portoghesi Before The Rain l’anno dopo.
La partecipazione di Salomaa al meraviglioso progetto Clouds di Daniel Neagoe faceva in effetti sperare in una prossima ripresa dell’attività degli Shape Of Despair, e così è stato: ottenuto un nuovo deal con la Season Of Mist e rimpiazzato alla voce lo storico vocalist Pasi Koskinen con l’ottimo Henri Koivula dei Throes Of Dawn, eccoci quindi a parlare di questo Monotony Fields, album che si prospetta come una sorta di evento per chi ama il funeral.
Chiedere di raggiungere i livelli di “Angel Of Distress” sarebbe stato forse troppo, eppure i nostri vi si avvicinano non poco, superando ampiamente per valore il buono ma non eccezionale “Illusion’s Play”.
L’interpretazione del genere dei finnici possiede un mood atmosferico che rende peculiari tutti i brani: il particolare tocco chitarristico di Salomaa e le sue linee tastieristiche fanno precipitare l’ascoltatore in un vortice di malinconia che il contributo vocale della sempre brava Natalie Koskinen rende più sopportabile, senza riuscire a cancellare la disperazione ed il senso di ineluttabile tragedia che aleggia sull’esistenza di ognuno.
Il sound dei Shape Of Despair non respinge ma avvolge, non trasporta un sentore di morte cavalcando sonorità ostiche e dissonanti o sfruttando essenzialmente un growl impietoso e riff granitici, bensì accompagna misericordiosamente gli ultimi ansiti vitali rendendo sopportabile ma non meno drammatico l’imminente distacco.
Un’ora e un quarto di languida e mortale poesia, con brani che crescono dopo ogni ascolto, rendono Monotony Fields un virus che si insinua sottopelle: la title track, Withdrawn e In Longing sono le gemme più fulgide di un lavoro privo di punti deboli, se non quello prettamente commerciale, contenendo sei tracce di funeral doom, un genere che anche nelle sue espressioni più elevate rimane pur sempre rivolto ad un numero limitato di anime sensibili.
La riedizione di Written Of Scars chiude questo meraviglioso monumento al dolore: non temetelo e non ritraetevi, il suo effetto catartico potrebbe sorprendervi al di là di ogni aspettativa.

Tracklist:
1. Reaching the Innermost
2. Monotony Fields
3. Descending Inner Night
4. The Distant Dream of Life
5. Withdrawn
6. In Longing
7. The Blank Journey
8. Written in My Scars

Line-up:
Tomi Ullgrén – Guitars
Henri Koivula – Vocals
Sami Uusitalo – Bass
Samu Ruotsalainen – Drums
Natalie Koskinen – Vocals (female)
Jarno Salomaa – Guitars, Keyboards

SHAPE OF DESPAIR – Facebook