Luna – On the Other Side of Life

Dopo aver sperimentato qualcosa di diverso in occasione del recente Epi, DeMort ripropone le sonorità dedite ad un funeral atmosferico devoto in maniera financo eccessiva agli Ea.

Secondo album per la one man band ucraina Luna, della quale abbiamo già parlato in occasione sia del full length d’esordio sia dell’Ep uscito non troppo tempo fa.

Dopo aver sperimentato qualcosa di diverso in quell’occasione con buoni risultati, DeMort è tornato in toto alle sonorità dedite ad un funeral atmosferico devoto in maniera financo eccessiva agli Ea.
Come in quel frangente, infatti, il nuovo lavoro vive delle stesse contraddizioni: atmosfere evocative guidate per lo più dalle tastiere che ricalcano in maniera fedele, pur se con la dovuta competenza, quel tipo di sound.
Due soli brani, interamente strumentali, per circa un’ora complessiva di durata, che costituiscono pur sempre un’esperienza gradevole per chi ama queste sonorità, lasciano in eredità, purtroppo, la sensazione d’avere ascoltato un buon surrogato di una delle band più particolari dell’intera scena doom, piaccia o meno.
Tutto ciò, quindi, mi costringe a replicare a grandi linee il giudizio fornito in occasione di “Ashes To Ashes” anche se, dal raffronto, emergono sensibili passi avanti sia sotto l’aspetto esecutivo sia per quanto riguarda quello compositivo, che appare decisamente meno essenziale.
Credo che DeMort, se vorrà provare a ritagliarsi uno spazio più importante, dovrà cercare di personalizzare ulteriormente il sound, magari provando ad inserire anche le parti vocali, altro elemento in grado di apportare a sua volta una certa varietà, quand’anche dovesse essere utilizzato con parsimonia.

Tracklist:
1. Grey Heaven Fall
2. On the Other Side of Life

Line-up:
DeMort – All Instruments

Dryom – 2

Un buon disco consigliato agli estimatori della scuola funeral russa.

Secondo album per questo progetto funeral doom russo denominato Dryom (Дрём), piuttosto misterioso come spesso accade per le proposte musicali provenienti da quelle lande.

Questo 2 è, invero, una versione molto ortodossa quanto ben eseguita del genere: un growl gorgogliante sovrasta un tessuto musicale dai tratti piuttosto atmosferici tanto che i territori calcati qui appaiono vicini a quegli degli Ea, pur con una minore varietà per quanto riguarda l’uso della chitarra solista ed una presenza meno massiccia delle tastiere.
Il probabile unico musicista dietro al progetto conosce alla perfezione la materia e regala a chi ama il genere un’ora di funeral che non delude, avvolgendo con i suoi ritmi pachidermici che sorreggono una afflato melodico comunque sempre ben presente.
Le quattro lunghe tracce appaiono piuttosto uniformi, aspetto che va inteso più come una caratteristica peculiare di questo stile musicale piuttosto che un difetto, per cui è difficile scegliere un brano oppure un altro, anche se la conclusiva She (i titoli dei brani e lo stesso nome della band sono stati traslitterati dal cirillico all’inglese per agevolarne la lettura) mostra qualcosa in più quanto a dolente drammaticità.
Un buon disco consigliato agli estimatori della scuola funeral russa.

Tracklist:
1. Dead City
2. Drawing
3. Blizzard
4. She

In Lacrimaes Et Dolor / The Blessed Hellbrigade / Aphonic Threnody / Y’ha-nthlei – Of Poison and Grief (Four Litanies for the Deceased)

Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.

Altra uscita da parte dell’etichetta russa GS Productions, evidentemente specializzata in split album, questa volta con un lavoro che vede all’opera quattro diverse band, tre delle quali italiane più gli inglesi Aphonic Threnody, anch’essi dotati comunque di una cospicua componente tricolore.

A poche settimane di distanza da “In Memoriam” ritroviamo gli i In Lacrimaes Et Dolor i quali, ancora una volta, convincono con un funeral death doom che, rispetto alla precedente uscita, ritorna a calcare sentieri più classici, andando a lambire più volte con Of Poison and Deceit umori e suoni degli Skepticism. L’uso dell’organo agevola indubbiamente questo accostamento, e del resto l’ottimo growl di Francesco Torresi non è da meno rispetto a quello di Matti Tilaeus. Ancora un’ottima prova quindi per il musicista di Macerata Dany Noctis, in attesa di un nuovo full length che, viste le basi poste in questi ultimi anni, potrebbe rappresentare una folgorazione per molti.
Il secondo brano vede all’opera i novaresi The Blessed Hellbrigade i quali, rispetto ai più giovani colleghi marchigiani, propongono un doom dai tratti più epici che funerei, spesso sporcato da ritmiche di matrice black; la cosa non sorprende visto che i due musicisti impegnati, M. e Mayhem, sono due vecchie conoscenze della scena black del norditalia. Il brano, Maudit et Superieur, è decisamente intrigante, mostrando per di più una certa discontinuità rispetto a quanto proposto dalle altre tre band.
Gli Aphonic Threnody sono la band più conosciuta del lotto, oltre ad essere l’unica sulla carta non italiana, nonostante il vocalist Roberto ed il batterista Marco siano due musicisti sardi ben conosciuti per essere i motori di band come Urna ed Arcana Coelestia ed il nuovo chitarrista Zack provenga anch’egli dalla nostra penisola. Il gruppo guidato dal londinese Riccardo (chitarra e basso) e che presenta alle il neo-entrato Juan, tastierista cileno ex Mar De Grises, dopo altri due split, un Ep ed un magnifico album come “When Death Comes”, continua a proporre ottima musica con questo brano, Bury Them Deep, che esplora un versante meno funeral e più evocativo rispetto a quanto esibito di recente.
Chiude il lavoro il brano offerto da un altro duo, quello formato dai Y’ha-nthlei dei musicisti lombardi Sadomaster ed Omrachk, i quali, con The Tomb’s Penumbra offrono una traccia all’insegna di un funeral più ostico e scarno rispetto al resto della compagnia. Il sound lascia poco spazio ad aperture melodiche privilegiando un andamento dall’impatto decisamente più disturbante per quanto ugualmente efficace.
Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.

Tracklist:
1. In Lacrimaes Et Dolor – Of Poison and Deceit
2. The Blessed Hellbrigade – Maudit et Superieur
3. Aphonic Threnody – Bury Them Deep
4. Y’ha-nthlei – The Tomb’s Penumbra

Line-up:
In Lacrimaes Et Dolor
Francesco Torresi – Vocals
Dany Noctis – Keyboards
Mauro Ulag – Bass
Francesco Castricini – Guitars
Alina Lilith – Songwriting

The Blessed Hellbrigade
Mayhem – Drums
M. – Vocals, Guitars, Bass

Aphonic Threnody
Juan – Keyboards, Piano
Zack – Guitars
Marco – Drums
Roberto – Vocals
Riccardo – Guitars, Bass

Y’ha-nthlei
Sadomaster Guitars, Bass
Omrachk Vocals, Guitars, Drum programming, Effects

Frowning – Funeral Impressions

“Funeral Impressions” si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale viene esibita un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.

Dopo il riuscito split con gli Aphonic Threnody ritroviamo i Frowning, ovvero il progetto solista del musicista tedesco Val Atra Niteris, alle prese con la prima prova su lunga distanza.

Dopo aver ottenuto un deal prestigioso con quella che è ormai la casa madre del doom europeo, la label russa Solitude Productions, ed aver testato il responso degli appassionati con l’uscita in coabitazione con la band inglese autrice del recente “When Death Comes”, c’erano tutte le condizioni favorevoli perché questa opera prima potesse rivelarsi un nuovo importante tassello in ambito funeral.
Ebbene, si può affermare con certezza che le premesse sono state abbondantemente mantenute, visto che Funeral Impressions si dimostra una prova di grande spessore qualitativo nel corso della quale Val sciorina un’ora abbondante di suoni dolenti ma arricchiti da una connotazione melodica sempre in bella evidenza.
Se la traccia strumentale Day In Black é un episodio meraviglioso quanto parzialmente atipico, nel corso del quale il musicista tedesco esibisce le proprie pregevoli doti di chitarrista, il resto del lavoro si snoda sui ritmi rallentati allo spasimo che il genere impone, raccogliendo svariate influenze, quali soprattutto Mournful Congregation ed Evoken tra quelle dichiarate, oltre ad Ea e Eye Of Solitude per quanto concerne la ricerca della melodia all’interno di partiture gonfie di una malinconica oppressione.
Emblematico in tal senso un brano come Sleep Eternally, che brilla per una parte centrale realmente da brividi, con una chitarra che esprime un dolore quasi lancinante nel suo splendido sviluppo melodico.
E, in effetti, il lavoro prende ulteriormente quota da questo brano fino alla sua conclusione, con le più lunghe ed altrettanto valide Murdered by Grief e A Way into Relief, evidenziando una piacevole progressione che consente al’ascoltatore di mantenere sempre viva l’attenzione.
Frowning si conferma così un altro nome certo sul quale contare negli anni a venire: alla creatura di Val Atra Niteris non manca proprio nessuna delle peculiarità che rendono il funeral doom una delle più efficaci rappresentazioni artistiche del dolore e dell’angoscia destinate ad attanagliare, prima o poi, ogni essere umano.

Tracklist:
1. Intro
2. Obsessed
3. Receive my Tears
4. Day in Black
5. Sleep Eternally
6. Murdered by Grief
7. A Way into Relief

Line-up:
Val Atra Niteris Everything

FROWNING – Facebook

Abysmal Growls of Despair / In Lacrimaes Et Dolor / Until My Funerals Began – In Memoriam

Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.

Molto interessante questo split album, che vede all’opera tre diverse realtà dedite al funeral doom, unitesi con l’intento di dedicare la loro musica alle vittime del conflitto che sta lacerando da mesi l’Ucraina.

Abysmal Growls Of Despair, In Lacrimaes Et Dolor e Until My Funerals Began sono tre progetti solisti rispettivamente provenienti da Francia, Italia e Ucraina e l’opera di assemblaggio è avvenuta grazie all’operato dell’attiva label russa GS Productions, che abbiamo imparato a conoscere grazie ad altri split album con protagonisti di livello quali, tra gli altri Aphonic Threnody, Ennui e Frowning.
La peculiarità di questo lavoro è, intanto, quella di mostrare tre maniere differenti di approcciarsi alla materia, anche se, ovviamente. per saper cogliere tali sfumature è necessario avere una certa dimestichezza con il genere.
L’apertura è affidata alle due tracce degli Abysmal Growls Of Despair, progetto dell’iperattivo musicista di Tolosa, Hangvart: ben quattro, infatti, sono gli album pubblicati negli ultimi due anni, tre dei quali solo nel 2014.
Rispetto ai compagni di split, il transalpino è quello che propone una versione decisamente meno accessibile del funeral, nonostante il primo dei due brani a sua disposizione, Nimis Sero, sia in effetti la pregevole rilettura di un tema arcinoto come quello della marcia funebre di Chopin: le atmosfere restano quasi sempre opprimenti, complici un growl che è soprattutto un rantolo e una scrittura pressoché priva di particolari aperture, benché in Quiet Moments faccia capolino una minima parvenza di melodia che attenua solo parzialmente il senso di soffocamento, sintomo di un dolore che implode letteralmente piuttosto che trovare uno sbocco verso l’esterno.
Superata questa fase di non facile decrittazione, le due tracce affidate agli In Lacrimaes Et Dolor di Dany Noctis, musicista residente a Macerata ma originario dell’est europeo, spostano gli scenari su terreni parzialmente più accessibili.
Dolor Aeternum e On Death’s Row sono le nuove testimonianze di un talento musicale al quale non manca davvero nulla per raggiungere i vertici qualitativi del genere: il suo funeral è decisamente melodico e atmosferico ma rifugge ogni banalità, arricchito com’è da una sensibilità artistica e personale che va a riversarsi in toto nelle composizioni. Se Dolor Aeternum è un bel brano, con l’uso delle clean vocals che ricorda parzialmente i Pantheist più recenti, On Death’s Row è una traccia magnifica che sfoggia una linea portante dal grande potenziale evocativo.
Ritroveremo tra breve gli In Lacrimaes et Dolor alle prese con un altro split, questa volta a quattro, con la presenza tra gli altri degli Aphonic Threnody, il cui cantante Roberto Mura (anche Arcana Coelestia e Urna) ha curato assieme a Dany stesso la parte grafica di In Memoriam, non facendo nulla per nascondere gli orrori della guerra e la stupida caducità del genere umano, anche attraverso immagini piuttosto crude.
Il compito di chiudere l’album è affidato agli Until My Funerals Began di Rumit, che è proprio di Donetsk, ovvero la città all’interno dei confini ucraini che più di altre è stata funestata da morti di civili derivanti dal conflitto. Luctus è un brano già edito, per l’esattezza nell’Ep “May 2, 2014”, ed è costituito principalmente da una musica carica di tensione emotiva che funge da accompagnamento a voci campionate connesse alla guerra in atto, mentre Burn My Flesh è un’altra traccia dall’elevato tasso di drammaticità che conferma quanto di buono era già emerso dal precedente full-length “False Horizon”.
E’ indubbio il fatto che Rumit, toccato molto da vicino dagli eventi che vengono trattati in questo lavoro, sia riuscito ad imprimere nelle proprie composizioni quel qualcosa in più in grado di far risaltare in maniera quasi fisica rabbia, dolore e disperazione.
Uno split album decisamente riuscito, quindi: per qualcuno magari potrebbe costituire lo spunto per informarsi meglio riguardo ad avvenimenti che superficialmente si tendono a sottovalutare in quanto lontani geograficamente ma che, in realtà, sono molto più vicini a noi di quanto vogliamo ammettere.
L’album può essere acquistato presso la GS Productions oppure contattando direttamente le band.

Tracklist:
1.Abysmal Growls Of Despair – Nimis Sero
2.Abysmal Growls Of Despair – Quiet Moments
3.In Lacrimaes Et Dolor – Dolor Aeternum
4.In Lacrimaes Et Dolor – On Death’s Row
5.Until My Funerals Began – Burn My Flesh
6.Until My Funerals Began – Luctus

GS PRODUCTIONS
ABYSMAL GROWLS OF DESPAIR – Facebook
IN LACRIMAES ET DOLOR – Facebook
UNTIL MY FUNERALS BEGAN – Facebook

Profetus – As All Seasons Die

Un disco splendido che se, da una parte, può soffrire del confronto con un nome pesante come quello degli Skepticism, dall’altra si dimostra ben più di un semplice lenitivo per il lungo protrarsi del silenzio discografico di questi maestri della scena funeral.

Per una serie di circostanze ti ritrovi, a sera inoltrata, a rimirare un nero specchio d’acqua, avendo dinnanzi le luci di lontane cittadine turistiche, alle spalle i rumori cacofonici dello pseudo-divertimento, e avvolto dall’umore di chi, a tratti, dubita di riuscire a sistemare un solo tassello della propria intricata esistenza, il tutto con in cuffia l’ultimo disco dei Profetus.

Chi non conosce o sottovaluta l’enorme potenza del doom, penserà istintivamente che questa combinazione di fattori sfavorevoli sarebbe potuta risultare decisiva per annullare quel metro e mezzo di distanza dall’acqua lasciando che l’oblio giungesse provvidenzialmente a risolvere ogni problema. Al contrario, l’effetto catartico del funeral, quando viene espresso in maniera alta come nel caso dei Profetus, è in grado di fornire impulsi diametralmente opposti in chi tende a lasciarsi andare all’autocommiserazione, alla faccia di chi considera questo genere noioso o, ancor peggio, il parto di menti depresse per individui che si trovano in analoghe condizioni. As All Seasons Die è il terzo album per i finlandesi, per i quali inevitabilmente il primo termine di paragone che viene in mente sono i connazionali Skepticism, non fosse altro che per l’uso frequente dell’organo, anche se il suono qui appare ancor più dilatato e minimale, con variazioni spesso impercettibili che portano ugualmente verso un lento ed avvolgente e crescendo emotivo; di fatto, lo stile dei nostri si colloca a metà strada tra la seminale band di Riihimäki ed i meno noti Tyranny (nei quali non a caso una delle menti musicali è il qui presente Matti Mäkelä), autori di un solo monumentale disco, “Tides Of Awakening”, e ciò si avverte proprio in questa esasperata dilatazione e nella ripetitività talvolta ossessiva dei temi. Peraltro i Profetus escono abilmente da questi schemi compositivi regalandoci un brano, Dead Are Our Leaves of Autumn, nel quale la chitarra solista prende per una volta in mano le redini delle operazioni tessendo melodie evocative poggiate sulla consueta base ritmica bradicardica. Probabile mattonata sui denti per chi non apprezza il genere (lecito, per carità, ma io per onestà intellettuale non scriverei mai una riga di commento a proposito un disco di street metal o aor, generi che non sono nelle mie corde, proprio perché nutro il massimo rispetto per chi li suona e per chi li ascolta), As All Seasons Die è in realtà un vero godimento per chi di queste sonorità si nutre e non ne ha mai abbastanza. Un disco splendido, in definitiva, che se, da una parte, può soffrire del confronto con un nome pesante come quello degli Skepticism, dall’altra si dimostra ben più di un semplice lenitivo per il lungo protrarsi del silenzio discografico di questi maestri della scena funeral.

Tracklist:
1. The Rebirth of Sorrow
2. A Reverie (Midsummer’s Dying)
3. Dead Are Our Leaves of Autumn
4. The Dire Womb of Winter

Line-up:
V. Kujansuu – Drums
A. Mäkinen – Guitars, Vocals (lead)
M. Nieminen – Keyboards
D. Lowndes – Guitars
M. Mäkelä – Guitars, Vocals (backing)

PROFETUS – Facebook

Monolithe – Monolithe Zero

Gradita riedizione in un unico formato dei due EP pubblicati in passato dai Monolithe.

“Monolithe III” e “IV”, usciti ad un anno di distanza tra loro, hanno ribadito l’ingresso in pianta stabile della band parigina nel gotha del funeral doom.

Rispetto ai pur buoni lavori precedenti, gli ultimi due album evidenziano un’evoluzione del sound in senso lato, facendo sì che, mantenendo i tratti distintivi del genere, venisse scongiurato un suo eccessivo ripiegamento su sé stesso. Monolithe Zero del quale parleremo in questo frangente, non è invece un album di inediti (come si evince dalla numerazione), bensì racchiude i due EP “Interlude Premier” e “Interlude Second”, usciti a distanza di 5 anni l’uno dall’altro e che, in qualche modo, sono emblematici delle due fasi della carriera dei doomsters francesi. Se “Interlude Premier” era infatti ancora legato alle sonorità di “II”, risalente a due anni prima, “Interlude Second” anticipava di qualche mese la pubblicazione di “III” che, a mio avviso, è il punto più alto finora raggiunto dai Monolithe (superiore, sia pure a livello di sfumature, anche all’ottimo “IV”). Aperto dalla rivisitazione del tema Also Sprach Zarathustra, i due EP si susseguono mettendo in luce le peculiarità di un sound ostico, spesso ossessivo nel suo insistere su pochi accordi eppure dannatamente efficace, almeno per chi apprezza queste sonorità. Indubbiamente la parte del leone la fa un brano terrificante come Harmony of Null Matter, che originariamente appariva nel secondo EP suddiviso in due parti,vero monumento all’incomunicabilità ed autentica prova del nove alla quale sottoporre chi si considera a parole un fan del funeral. Da notare anche la presenza in tracklist della riuscita cover di Edges, brano tratto da un album monumentale come “Lead And Aether” degli Skepticism, band che sicuramente ha fornito più di uno spunto a Sylvain Bégot e soci, per quanto costoro oggi possano vantare una cifra stilistica del tutto personale. Evidentemente questo lavoro nulla aggiunge allo status raggiunto dai Monolithe ma, oltre a rivelarsi un utile indicatore di quanto il sound dei nostri si sia evoluto nel corso del tempo, costituisce la ghiotta occasione di far propri i due EP in un sol colpo. Peraltro, quasi in contemporanea, la Debemur Morti pubblica anche la riedizione rimasterizzata di “Monolithe II”: ecco, che nessuno si sogni di parlare di operazioni commerciali in relazione a band che suonano funeral doom, potrei riderne fino a rischiare di morire …

Tracklist:
1. Also Sprach Zarathustra
2. Monolithic Pillars
3. Edges
4. Harmony of Null Matter

Line-up:
Benoît Blin – Bass, Guitars
Sébastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Bégot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Mournful Congregation – Concrescence of the Sophia

“Concrescence of the Sophia” è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

A quasi tre anni dall’uscita di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation si rifanno vivi con del materiale inedito grazie a questo EP nel quale propongono, è quasi superfluo dirlo, mezz’ora di magnifico funeral doom.

La vena compositiva mostrata nell’ultimo full-length è ampiamente confermata in quest’occasione, del resto lo stile della band australiana non prevede ampie concessioni melodiche ma neppure una totale chiusura o spunti sperimentali portati alle estreme conseguenze: come avevo avuto occasione di scrivere, parlando proprio di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation appartengono al filone dei discepoli più credibili nonché legittimi dei Thergothon, pur affinandone le ruvidezze alla luce di capacità tecniche di altissimo livello. Concrescence of the Sophia consta di due soli brani: la title-track, splendida dimostrazione di classe, capace di protrarsi per oltre venti minuti senza cali di tensione grazie ad un lavoro chitarristico esemplare per pulizia e contemporanea capacità evocativa, mentre la più breve Silence of the Passed appare come un ideale prosecuzione della traccia precedente pur non eguagliandola, probabilmente, in quanto a coinvolgimento emotivo. Ammesso che ne esista per qualcuno una simile versione, il funeral dei Mournful Congregation non può essere considerato di facile ascolto e si colloca quale perfetta sintesi tra la corrente orientata verso tonalità più malinconiche ed immediate e quella nella quale si fa più esplicito il senso di incomunicabilità e di estraniamento dalla vita reale. A chi magari si attendeva un nuovo album, resta sicuramente la consapevolezza che una delle band simbolo del movimento non ha perso un’oncia della propria dolente vena compositiva, il che rende questo lavoro molto più di una momentanea panacea od un semplice assaggio di qualcosa ancora di là da venire: Concrescence of the Sophia è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

Tracklist:
1. Concrescence of the Sophia
2. Silence of the Passed

Line-up:
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars
Ben Newsome – Bass

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook

Aphonic Threnody & Frowning – Of Graves, of Worms, and Epitaphs

Questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tempo di split album per gli Aphonic Threnody, i quali, dopo l’ottimo “Immortal In Death”, in coppia con i georgiani Ennui, sempre sotto l’egida della GS Production ci regalano altre due splendide tracce, questa volta condividendo gli spazi con la meno conosciuta one man band tedesca Frowning.

Rispetto a “Ruins”, contenuta nella predente uscita, spicca l’assenza di Kostas sicchè anche le tastiere vengono curate da Riccardo Veronese, il che rende il sound decisamente molto più guitar oriented e, a mio avviso, ancor più efficace rispetto alla già rimarchevole precedente uscita.
Scorched Earth è un brano dall’elevato tasso drammatico, nel quale la band, supportata dall’illustre ospite Jarno Salomaa (Shape Of Despair) rallenta ulteriormente il passo creando atmosfere avvolgenti grazie a riff che combinano impatto e melodia, il tutto esaltato da una magnifica prestazione vocale di Roberto Mura.
La successiva The Last Stand Against the Gloom non si rivela affatto inferiore, esaltando ancor più se possibile l’ispirato trademark classico del death-doom d’oltemanica, tanto che viene spontaneo chiedersi come mai gli Aphonic Threnody non abbiano fatto uscire un intero lavoro a proprio nome, mettendo assieme questi tre eccellenti brani per un minutaggio complessivo di quasi tre quarti d’ora, invece di spalmarli su due split album.
Poco male, comunque, quando la musica è di questo livello, la maniera scelta per veicolarla passa necessariamente in secondo piano.
Come detto, la seconda parte dello split è affidata ad un nome nuovo, Frowning, progetto solista funeral di Val Atra Niteris, musicista tedesco di estrazione black che ha all’attivo un album con gli Heimleiden.
Portandosi inevitabilmente appresso alcune delle caratteristiche tipiche delle one man band, il suono in questo caso è più minimale rispetto a quello di una band vera e propria come gli Aphonic Threnody, ma il risultato non è affatto disprezzabile, anzi: Funeral March è un brano decisamente in linea con gli standard del genere, esibendo una struttura compositiva capace di evocare il giusto pathos, mentre più composita appare In Solitude, dotata com’è di una toccante intro pianistica, e mostrando nel complesso il lato più riflessivo di Val.
Due brani piuttosto convincenti che costituiscono la maniera ottimale per presentarsi agli appassionati in attesa del full-length di prossima uscita .
In definitiva, questo split conferma il momento di grazia degli Aphonic Threnody, dai i quali invochiamo a gran voce al più presto un nuovo album, e ci offre un nuova realtà come Frowning che attendiamo con curiosità all’esordio su lunga distanza.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Scorched Earth
2. Aphonic Threnody – The Last Stand Against the Gloom
3. Frowning – In Solitude
4. Frowning – Funeral March

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo – Guitars, Bass, Keyboards
Roberto – Vocals, Lyrics
Abel – Cello
Marco – Drums

Frowning
Val Atra Niteris – Everything

APHONIC THRENODY – Facebook

Aphonic Threnody & Ennui – Immortal In Death

Per entrambe le band ci troviamo probabilmente di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Chi pensa che gli split album siano tutto sommato operazioni trascurabili nel complesso della discografia di una band, pur non avendo del tutto torto a livello di principio, viene nell’occasione smentito da questo Immortal In Death, che vede alle prese, con un brano ciascuno, una sorta di internazionale del doom come gli Aphonic Threnody e gli emergenti georgiani Ennui.

Del resto, tre quarti d’ora di musica racchiusa in sole due tracce testimoniano quanta carne al fuoco ci sia all’interno di questo ottimo lavoro all’insegna del funeral-death doom più cupo e malinconico.
Lo split si apre con i venti minuti di Ruins, ad opera degli Aphonic Threnody, band che racchiude musicisti piuttosto noti nella scena quali l’inglese Riccardo V. (Dea Marica, Gallow God), gli italiani Roberto M. e Marco Z. (Dea Marica, Urna), il belga Kostas P. (Pantheist, Wijlen Wij) e l’ungherese Abel L..
Mai come in questo caso, l’unione di queste ottime individualità produce una somma di valori adeguata alle attese, regalando un brano eccellente che va a collocarsi oltre il livello standard raggiunto con le già quotate band di provenienza: Ruins risulta una vera e propria summa di tali esperienze con la quale, aderendo in toto ai dettami della scuola britannica, gli Aphonic Threnody fanno propria la lezione intrisa di decadente lirismo impartita un ventennio fa dai My Dying Bride, rielaborandola con la necessaria competenza ed ottenendo un risultato per certi versi inatteso, tale è il coinvolgimento prodotto da questo brano, capace di crescere in maniera esponenziale fino ad esaltare le caratteristiche peculiari del genere in un finale magnifico.
La traccia proposto dagli Ennui, Hopeless, ci consente di mettere a confronto una scuola più consolidata con quella di recente tradizione dell’area ex-sovietica: il duo georgiano composto da David Unsaved e Serj Shengelia ha all’attivo due album di recente uscita, “Mze Ukunisa” del 2012 e “The Last Way” del 2013, entrambi di ottima fattura e capaci di imporli immediatamente all’attenzione degli appassionati.
Rispetto ai compagni di avventura gli Ennui accentuano maggiormente l’aspetto malinconico della composizione, lasciando che il costante connubio tra la chitarra solista ed il growl profondo di David dipinga uno scenario di immane disperazione; il risultato è brano lungo quanto intenso e in grado di sprigionare emozioni a getto continuo, ale quale è pressoché impossibile restare indifferenti.
Ecco spiegato il motivo per il quale vale la pena di attribuire a questo split, pubblicato dall’etichetta russa GS Production, la stessa dignità di un full-length, non solo per la sua ragguardevole durata complessiva ma soprattutto per la qualità immessa da Aphonic Threnody e Ennui nei due brani spingendomi ad affermare che, per entrambe le band, ci troviamo di fronte al vertice qualitativo raggiunto nel corso delle rispettive discografie.

Tracklist:
1. Aphonic Threnody – Ruins
2. Ennui – Hopeless

Line-up :
Aphonic Threnody
Riccardo V. – Guitars, Bass
Roberto M. – Vocals, Lyrics
Abel L. – Cello
Marco Z. – Drums
Kostas P. – Keyboards

Ennui
Serj Shengelia – Guitars, Bass, Drums
David Unsaved – Guitars, Vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

ENNUI – Facebook

Abbotoir – Reclaim

Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.

I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.

Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.

Tracklist:
1. Descension

Line-up :
_ – Bass
J – Guitars
D – Vocals

ABBOTOIR – Facebook

Bosque – Nowhere

Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.

Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.

Tracklist:
1. Lethargy
2. Crawling
3. Metamorphosis
4. Nothing

Line-up :
DM – all instruments

Ea – A Etilla

Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.

Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.

Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere  certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla

Eye Of Solitude – Canto III

Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.

La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.

Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora.
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.

Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast

Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards

EYE OF SOLITUDE – Facebook

Slow – III Gaia

Un disco nel quale vengono sviluppate armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione.

Quando un musicista decide di chiamare la sua band Slow  difficilmente il genere che proporrà sarà speed o power metal, mentre è molto più probabile che un monicker simile si adatti alla perfezione al doom, meglio ancora se funeral, come avviene in questo caso.

Dietro al nome Slow in realtà troviamo il solo Dehà, musicista belga nel quale ci siamo già imbattuti qualche mese fa nel recensire il lavoro dei Deos; la sua avventura solista, pur restando nell’ambito dell’area death-funeral, si discosta parzialmente da quanto fatto in coabitazione con Daniel N., soprattutto perché il lavoro ha delle caratteristiche meno orientate verso il death e molto più spinte verso l’ambient-drone. III-Gaia consta di due soli brani, il primo dei quali dura ben quaranta minuti mentre il secondo si esaurisce in “solo” mezz’ora; già da questo appare piuttosto evidente quanto Dehà se ne possa infischiare di rendere più fruibile il proprio sound, e lo conferma il fatto che Gaia – Part 1 viene introdotta da oltre dieci minuti di suoni dronici, prima che la componente melodica si impadronisca del sound conducendolo con la dovuta lentezza ad un finale oggettivamente splendido. La Part 2 di fatto pare un ideale proseguimento della traccia precedente, sviluppando armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione, sulla falsariga degli Ea che, in questo momento, rappresentano decisamente un punto di riferimento condiviso per il funeral più melodico. III-Gaia è un album splendido che, purtroppo, come gran parte delle uscite relative a quest’ambito stilistico, finirà per essere ignorato dai più restando ugualmente e doverosamente consigliato a tutti coloro che, avendo dimestichezza con il genere proposto, ne sapranno trarre le dovute gratificazioni.

Tracklist:
1. Gaia – Part 1
2. Gaia – Part 2

Line-up:
Dehà – all instruments, vocals

SLOW – Facebook

Monolithe – IV

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena.

Il quarto atto su lunga distanza dei Monolithe consolida lo status invidiabile di una band incapace di fallire un colpo dal momento della sua apparizione sulla scena funeral doom, risalente ormai ad un decennio fa, con “I”.

La carriera della band transalpina può esser suddivisa a grandi linee in due fasi disinte: la prima con “I”, “II” e l’Ep “Interlude Premiere”, usciti tra il 2003 e il 2007, e quella attuale, con “Interlude Second” e III pubblicati l’anno scorso ed l’ultimo IV. I Monolithe del primo periodo, benché non fossero del tutto assimilabili al funeral tradizionale, operavano comunque in un ambito ad esso contiguo segnalandosi particolarmente per il ricorso ad un unico brano, normalmente tarato sui cinquanta minuti di durata, nel corso del quale venivano diluite le cupe partiture; “III”, in questo senso, ha segnato una svolta portando la band di Sylvain Begot ad avventurarsi in uno stile contrassegnato da un maggiore dinamismo, staccandosi in parte dagli stilemi tipici del funeral e mostrando apprezzabili variazioni all’interno della consueta lunghissima suite. Alla luce di questo, anche se era lecito pensare che nell’immaginario musicale della band parigina quel barlume di luce che si iniziava a scorgere stesse per trasformarsi in qualcosa in più di un’incerta fiammella, IV riporta nuovamente il suono ad immergersi nella più totale oscurità e non basta qualche sporadico coro femminile o alcuni passaggi dal tono quasi solenne a risollevare l’ascoltatore dall’abisso nel quale i nostri lo hanno fatto nuovamente sprofondare. I Monolithe in quest’occasione abbattono il primato personale di durata, spingendosi fino a ben cinquantasette minuti, contraddistinti da un’ossessivo quanto affascinante tema che, in pratica, si dipana tra l’adeguato growl di Richard Loudin e chitarre distorte e diluite fino all’inverosimile, in un quadro che talvolta assume toni apocalittici ma capace di stemperarsi in passaggi dal grande coinvolgimento emotivo. Se “III” non era certo un lavoro di agevole ascolto, IV si spinge anche oltre fino a lambire i confini dell’incomunicabilità: penetrarne l’essenza è una prova che, se superata, regala come ambito premio un’ora di rara intensità emotiva. Con questi ultimi due lavori, i Monolithe hanno di fatto creato un sound del tutto riconoscibile e mai come in questo momento il loro monicker si sposa alla perfezione con la sensazione di una musica di rara compattezza, sviluppata da una band giunta probabilmente al punto più elevato della propria parabola artistica.

Tracklist:
1. Monolithe IV

Line-up:
Benoît Blin: Bass, Guitars
Sébastien Latour: Keyboards, Programming
Sylvain Bégot: Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin : Vocals

MONOLITHE – Facebook

Deos – Fortitude, Pain, Suffering

Con questo loro riuscito esordio, i Deos si vanno ad aggiungere alla lista delle band da seguire per quel manipolo di appassionati in grado di apprezzare la dolorosa bellezza del funeral doom.

Ascoltare funeral doom è qualcosa che va oltre la semplice fruizione di un genere musicale ma rappresenta l’appartenenza a una ristretta cerchia di persone le quali, tra note volte a tratteggiare la caducità e l’ineluttabile approssimarsi della fine dell’esistenza, trovano paradossalmente l’impulso per vivere in maniera più serena e consapevole il tempo che il fato ha deciso di concedere loro, poco o tanto che sia.

Per lo stesso motivo, ha un che di miracoloso scoprire che, periodicamente, emergono nuovi musicisti dediti ad un genere dagli sbocchi commerciali pressoché nulli e difficilmente esportabile in sede live. I Deos sono una band di stanza a Londra ma costituita dal rumeno Daniel N. e dal belga Dehà; entrambi hanno avuto esperienze all’interno di gruppi alle prese con diversi generi ma, nonostante questo, a giudicare dall’esito di Fortitude, Pain, Suffering, sembra proprio che il funeral sia parte integrante del loro DNA, tanto questo lavoro si avvicina alla perfezione. Al di là della traccia introduttiva (che, a scanso di equivoci sulle tematiche trattate, si intitola Introducing Suffering … ) i quattro lunghi brani che compongono il disco d’esordio dei Deos sono altrettante dolenti peregrinazioni verso un luogo imprecisato ad di fuori dei confini del tempo e dello spazio. Il sound dei nostri trae linfa dagli imprescindibili Thergothon per avvicinarsi poi, a livello di struttura dei brani, a realtà più recenti come i Comatose Vigil e gli Ea, con le tastiere a svolgere un ruolo predominante rispetto alle chitarre. Se, come da copione, un disco di questo tipo non sbriga certo le pratiche in una mezz’oretta o poco più, a maggior ragione il suo ascolto necessita di una particolare dedizione oltre che familiarità con il genere, visto che il suo apice emotivo viene raggiunto proprio nei due brani conclusivi: Neverending Grief, soffusa marcia funebre esclusivamente strumentale e il capolavoro The Corruption Of Virtue, autentica quintessenza del funeral con i suoi riff sospesi sull’abisso mentre una tastiera dai toni tragici e solenni accompagna la gorgogliante sofferenza di una voce che ha perso ogni sembianza umana. Con questo loro riuscito esordio, i Deos si vanno ad aggiungere alla lista delle band da seguire per quel manipolo di appassionati in grado di apprezzare la dolorosa bellezza del funeral doom.

Tracklist:
1. Introducing Suffering
2. Abandoned
3. Embalmed in Tears of Sorrow
4. Neverending Grief
5. The Corruption of Virtue

Line-up :
Daniel N. – All instruments
Déhà – All instruments, Vocals

DEOS – Facebook

Ataraxie – L’Etre et La Nausée

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

L’Etre et La Nausée, ultima fatica discografica del quartetto transalpino, dovrebbe essere portato ad emblema della capacità di esibire sfumature diverse da parte di un genere musicale che, essenzialmente per comodità ma talvolta in maniera semplicistica, viene definito funeral doom. Infatti, appiccicare tale etichetta a quest’album appare assai riduttivo perché, se è vero che non mancano rallentamenti ai limiti dell’asfissia, passaggi talmente densi ed opprimenti che il sangue quasi fatica a trasportare ossigeno al cervello, dall’altra abbiamo momenti nei quali viene sprigionata una rabbia quasi ferina e dagli accenti disperati, ma capace di stemperarsi un attimo dopo in delicati quanto instabili ricami acustici. Per una volta, in questo genere di lavori, l’elemento in più, quello capace di evocare i differenti stati d’animo, è proprio la voce di Jonathan Thery, in grado di interpretare (nel senso vero del termine) le liriche contenute nei brani, passando con eccellente versatilità dal growl più profondo ad un lancinante screaming ai confini del depressive, oppure modulando la voce in una sorta di punto d’incontro tra questi due stili senza dimenticare i passaggi quasi sussurrati che accompagnano i momenti più rarefatti del lavoro. L’Etre et La Nausée consta di quattro lunghi brani più un breve strumentale, suddivisi in due cd per un totale di un’ora e venti di musica al contempo avvolgente e straniante, che rappresentano l’ennesimo travagliato viaggio nei meandri della nostra psiche, un luogo dove in ogni individuo si nasconde il mostro in grado di generare debolezze, paure e rimpianti, in definitiva tutte le sensazioni che ci assalgono nel preciso momento in cui proviamo a porci qualche quesito appena più profondo rispetto alla routine del nostro vivere quotidiano. “La Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza” scrive Sartre in quello che è il suo romanzo più noto, e gli Ataraxie, che fin dal titolo dell’album citano il loro illustre compatriota, rappresentano come meglio non potrebbero, tramite la loro musica, lo sgomento che si impadronisce di un individuo allorché realizza quanto il suo passaggio terreno non solo sia effimero ma addirittura insignificante, se valutato da un punto di vista universale. Per una volta preferirei evitare di affrontare quest’opera “track by track” in maniera tradizionale: L’Etre et La Nausée va vissuto dall’ascoltatore nella sua interezza e con l’opportuna dedizione; gli Ataraxie indulgono in ben poche concessioni o aperture melodiche e proprio per questo, quando ciò accade, assumono ancor più valore all’interno dell’album. Ma se avrete la pazienza e la tenacia di dedicare all’ascolto diverse ore del vostro tempo, scoprirete che il brano preferito in prima battuta, la volta successiva verrà soppiantato da un altro; così, se la prima volta amerete l’opener Procession Of The Insane Ones per la sua capacità d’essere terribilmente “pesante” anche nelle sue fasi acustiche, successivamente sarà Face The Loss Of Your Sanity ad incantarvi per la sua anima profondamente death, poi sarà il turno di Dread The Villains, che in ”soli” undici minuti si rivela un’ideale sintesi delle doti del quartetto di Rouen, finendo poi per godere appieno della sfibrante bellezza dell’infinita Nausee. Come i connazionali Monolithe, anche gli Ataraxie, svincolandosi parzialmente dai consueti schemi compositivi, hanno impresso alla loro carriera una svolta decisiva che consentirà loro d’entrare di diritto nel gotha del doom metal.

Tracklist:
1. Procession Of The Insane Ones
2. Face The Loss Of Your Sanity
3. Etats d’Âme
4. Dread The Villains
5. Nausée

Line-up :
Jonathan Théry – vocals, bass
Frédéric Patte-Brasseur – guitars
Sylvain Esteve – guitars
Pierre Sénécal – drums

ATARAXIE – Facebook

Who Dies In Siberian Slush – We Have Been Dead Since Long Ago

Secondo uscita su lunga distanza per i moscoviti Who Dies In Siberian Slush, dopo il buon esordio “Bitterness Of The Years That Are Lost” datato 2010.

Il nuovo parto della band guidata da E.S. (Evander Sinque) si colloca nella scia del suo predecessore senza rappresentarne, di fatto, un’evoluzione vera e propria: We Have Been Dead Since Long Ago è il classico nero monolite dalle sembianze funeral death doom che, volendo fornire un indirizzo di massima a chi intenda approcciarlo, si colloca più sulla scia dei tedeschi Worship che non su quelle dei concittadini Comatose Vigil o Abstract Spirit.

Infatti, non aspettatevi le dolenti aperture melodiche caratteristiche del funeral doom russo, visto che i WDISS badano maggiormente ad un impatto di matrice death, accentuato dalla rinuncia all’uso delle tastiere. Non per questo il lavoro è trascurabile, brani lunghi e avvolgenti come, per esempio, In A Jar e The Spring possiedono più di un momento degno di nota, ma ciò avviene, guarda caso, proprio quanto le chitarre tracciano linee melodiche che spiccano proprio perché normalmente sacrificate all’interno del disco a favore di riff più rocciosi. Come detto, We Have Been Dead Since Long Ago paga forse il confronto con il suo predecessore che, senza dubbio, aveva dalla sua una superiore freschezza compositiva, oltre a una maggiore linearità di fondo. Discorso a parte lo merita un brano come Funeral March n°14, sicuramente affascinante pure nel suo incedere grottesco, ma oggettivamente un pò fuori contesto a livello stilistico; provate a immaginare una banda che, nell’accompagnare il defunto nel corso del suo ultimo viaggio, suoni una marcia funebre come se fosse un brano funeral doom: esperimento apprezzabile ma solo parzialmente riuscito Complessivamente questo lavoro merita senz’altro l’attenzione da parte degli appassionati delle frange più estreme del doom, ma la sensazione che resta è quella di un’opera incompiuta, dove passaggi di grande impatto emotivo si confondono con altri più manieristici. L’impressione finale è quindi, quella di un disco di passaggio: gli Who Dies In Siberian Slush hanno le potenzialità per fare molto meglio e non ho dubbi che ci riusciranno in futuro; per ora solo una sufficienza piena, ma con la certezza che si può fare senz’altro meglio di così.

Tracklist:
1. The Day of Marvin Heemeyer
2. Refinement of the Mould
3. In a Jar
4. The Spring
5. Funeral March №14
6. Of Immortality

Line-up:
E.S. – Guitars, Vocals
Flint – Guitars (lead)
A.S. – Drums
Tragisk – Bass

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Ennui – Mze Ukunisa

Un esordio che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Ennui è un progetto funeral doom dalla recente genesi proveniente da Tbilisi; David Unsaved e Serj Shengelia, a pochi mesi dall’inizio della loro collaborazione, hanno dato alle stampe questo Mze Ukunisa che si rivela un prodotto piacevolmente sorprendente per il livello compositivo raggiunto dai nostri.

Non è infrequente, del resto, imbattersi in esordi dai tratti approssimativi, sia dal punto di vista compositivo sia da quello esecutivo, ma ciò non avviene fortunatamente in questo caso: il lavoro dei due musicisti georgiani si rivela all’altezza della situazione in ogni frangente, pur nel suo sviluppo dalla durata ben superiore all’ora, potendosi avvalere peraltro di una produzione del tutto adeguata.
Il funeral degli Ennui è prevalentemente di stampo atmosferico, anche se la tastiera svolge essenzialmente una sapiente opera di raccordo, lasciando alla chitarra il compito di tratteggiare le malinconiche melodie che caratterizzano ogni brano del disco.
Le sei lunghe tracce possiedono un andamento piuttosto lineare, con una prima fase spesso dalle tonalità più cupe che lentamente conducono alle ampie ed azzeccate aperture melodiche collocate nella parte finale.
Così Dead Desires, Maybe The Time Will Come e Frozen Candle si rivelano ottimi esempi di songwriting di stampo funereo, anche se il picco viene raggiunto dal duo nella splendida The Way Of My Life’s End, con le sue dolenti note di chitarra screziate dal cavernoso growl di David.
Un esordio quindi, che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Track list :
1. Flowers Of Silence
2. Dead Desires
3. Maybe The Time Will Come
4. The Way Of My Life’s End
5. Frozen Candle
6. Memento Mori

Line-up :
Serj Shengelia – Bass, Drums, Guitars, Keyboards
David Unsaved – Guitars, Keyboards, Vocals

ENNUI – Facebook