J.D. Overdrive – Wendigo

Wendigo non conquisterà il mondo ma si fa ascoltare che è un piacere, quindi preparate le borracce ed addentratevi nel deserto virtuale dei J.D. Overdrive, ma solo se sapete cosa vi aspetta dal genere in questione.

Lo stoner non è più ormai da anni un genere solo americano, perché il successo dei gruppi della Sky Valley tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio ha portato la sabbia del deserto sulle sponde atlantiche della vecchia Europa e da lì a posarsi sui muri degli edifici delle metropoli, dalla penisola iberica fino ai paesi dell’est.

E proprio dalla Polonia arrivano i J.D. Overdrive, quartetto attivissimo sul mercato con ben quattro lavori sulla lunga distanza, un ep ed uno split in nove anni: Wendigo è dunque il nuovo lavoro del quartetto, una dimostrazione di stoner che piacerà non poco agli amanti dei suoni desertici, rafforzati dalla band con dosi massicce di metal e sfumature southern, per una proposta alquanto dinamitarda.
Il basso pulsante, le chitarre ribassate e la voce rabbiosa sono le prime avvisaglie di una battaglia a colpi di hard rock, con cui la band trasforma le fredde strade dell’Europa dell’est in interminabili pianure desertiche a sud degli States.
Monocorde quanto volete, ma pesante come il sole di mezzogiorno nel deserto e pericoloso come un crotalo risvegliato dai vostri lamenti mentre, Wendigo è un buon lavoro, magari legato a doppio filo con quelli dei gruppi storici, ma arcigno e massiccio quanto basta per farci male.
New Blood, la seguente Burn Those Bridges, il southern metal malatissimo di Hold That Thought, l’irresistibile Witches & Spies sono i brani migliori dell’album, e Kyuss, Down, Corrosion Of Conformity e Black Label Society appaiono quali band di riferimento per i rockers polacchi.
Wendigo non conquisterà il mondo ma si fa ascoltare che è un piacere, quindi preparate le borracce ed addentratevi nel deserto virtuale dei J.D. Overdrive, ma solo se sapete cosa vi aspetta dal genere in questione.

Tracklist
1.The Creature is Alive
2.Protectors of All That is Evil
3.Hangman’s Cove
4.New Blood
5.Burn Those Bridges
6.Wasting Daylight
7.Hold That Thought
8.Witches & Spies
9.Every Day is a New Hole to Dig
10.Flesh You Call Your Own

Line-up
Wojtek ‘Suseł’ Kałuża – Vocals
Michał ‘Stempel’ Stemplowski – Guitars
Łukasz ‘Jooras’ Jurewicz – Drums
Marcin ‘Stasiu’ Łyźniak – Bass

J.D. OVERDRIVE – Facebook

Nortt – Endeligt

Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.

Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.

Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano.
Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!

Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt

Line-up
Nortt Everything

NORTT – Facebook

Graveyard Of Souls – Mental Landscapes

Chicote dimostra ampiamente d’essere un musicista rispettabile e ciò rende sicuramente gradevole un disco che potrebbe rappresentare, in qualche modo, un punto di svolta per i Graveyard Of Souls, fino ad oggi interpreti onesti ma non di di primissimo piano della materia death doom.

I Graveyard Of Souls sono una band attiva da inizio decennio e con alle spalle già un buon numero di full length.

Questa volta Angel Chicote decide di fare tutto da solo rinunciando al consueto apporto del vocalist Raul Weaver, il quale è sempre stato presente nei precedenti lavori: il risultato è un album interamente strumentale come Mental Landscapes, la cui uscita segue di circa sei mesi quella del precedente Pequeños fragmentos de tiempo congelado.
Tale scelta condiziona inevitabilmente lo sviluppo del sound, che perde per strada le ruvidezze del death doom, non solo per l’assenza del growl, orientandosi verso sonorità più ariose e di buon impatto melodico: ne scaturisce un lavoro senz’altro gradevole, per molti aspetti più riuscito dei suoi predecessori dalla configurazione più canonica, anche se la soluzione integralmente strumentale finisce per favorire una certa ripetitività.
D’altronde, parlando proprio di Pequeños … rimarcavo il fatto che a mio avviso i Graveyard Of Souls offrivano il meglio appunto nelle parti melodiche, mentre la maggior parte dei dubbi sorgeva allorché il duo si spingeva verso sonorità più robuste o ritmate: in effetti, con questa configurazione l’album si mostra più morbido e scorrevole, esibendo alcuni brani davvero molto belli (uno tra tutti il trascinante Eclipse)
Essendoci stata fornita l’occasione di ascoltare i Graveyard of Souls in un’altra veste, non si può fare a meno di apprezzare quest’ultima incarnazione, anche se la soluzione ideale, in futuro, potrebbe essere proprio quella di proseguire su questa linea tornando ad inserire le parti vocali, magari modulandole rispetto ad un’espressione musicale meno estrema.
Chicote dimostra ampiamente d’essere un musicista rispettabile e ciò rende sicuramente gradevole un disco che potrebbe rappresentare, in qualche modo, un punto di svolta per i Graveyard Of Souls, fino ad oggi interpreti onesti ma non di di primissimo piano della materia death doom.

Tracklist:
1.Cloud fields
2.En la oscuridad está nuestro hogar
3.The last dawn of mankind
4.Où sont passés ces jours?
5.Eclipse
6.Way of hell
7.Floating in the amniotic Eden
8.Farvel

Line-up:
Angel Chicote

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

My Silent Wake – There Was Death

Tutta la vostra attenzione dovrà andare al puro ascolto per questo nuovo album. Non c’è tempo per discutere, i My Silent Wake, come sempre, pensano solo a produrre sensazioni, riuscendoci nuovamente.

C’è del marcio, ma non solo, in There Was Death dei My Silent Wake. Ebbene sì, perché questa band inglese dalla fama sempre maggiore, che ha fatto parlare di sé soprattutto con il riuscitissimo album del 2007, The Anatomy of Melancholy, non si chiude mai ad una sola via stilistica.

Anche in questo nuovo lavoro, l’impatto sonoro che ci viene restituito è molto difficile da etichettare con una definizione ben precisa. Gran punto a favore, certamente, perché l’unica cosa che ci resta da fare è semplicemente aprire le orecchie ed ascoltare. Per tutta la durata dell’album, così come è sempre stato nelle loro corde, c’è una fondamentale vena malinconica, a tratti disperata. Stavolta però, a differenza di tante produzioni precedenti, la malinconia è accompagnata dal vigore e dalla forza sonora a tutti gli effetti. Ma non illudetevi, perché anche quest’ultima è perfettamente in sintonia con l’animo di questa band, ed anzi accentua gli aspetti più crudi della tristezza.
Ascoltando brani come la traccia di apertura A Dying Man’s Wish o Ghost of Parlous Lives, è inevitabile avvertire la sensazione di un vuoto totale che si espande sempre di più. I My Silent Wake riescono ancora una volta a restituirci quest’immaginario al meglio possibile. C’è una grande componente eterea, inafferrabile, che scorre per tutta la durata dell’album.
In questo sta, ancora una volta, la grande forza espressiva oltre che tecnica di questa band.

Tracklist
1. A Dying Man’s Wish
2. Damnatio Memoriae
3. Killing Flaw
4. Ghosts of Parlous Lives
5. Mourning the Loss of the Living
6. There Was Death
7. Walls Within Walls
8. No End to Sorrow
9. An End to Suffering

Line-up
Ian Arkley: Guitar, Vox
Addam Westlake: Bass
Gareth Arlett: Drums
Mike Hitchen: Live guitar and Vox
Simon Bibby: Keys, Vox

MY SILENT WAKE – Facebook

Lorelei – Teni Oktyabrya (Shadows Of October)

I Lorelei ripropongono un gothic doom di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente loro di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.

I russi Lorelei avevano dato alle stampe una delle opere migliori in ambito gothic doom del 2013 con Ugrjumye Volny Studenogo Morja, e dopo oltre quattro anni ritornano finalmente con il suo successore intitolato Teni Oktyabrya (Shadows Of October).

Anche se quattro anni non sono pochi, tutto sommato le coordinate del sound sono rimaste le stesse, il che non è poi un male, vista l’alta qualità esibita in passato: le variazioni fondamentali riguardano l’ingresso in pianta stabile di un vocalist dedito al growl, nella persona di Alexey Kuznetsov (Locus Titanic Funus), quando invece nel precedente lavoro queste parti erano state affidate in qualità di ospite ad uno dei personaggi più influenti della scena doom moscovita quale è Evander Sinque, e la quasi totale rinuncia all’apporto della voce femminile, relegata ad uno sporadico ruolo di mero accompagnamento.
Nello scambio i Lorelei non ci rimettono e non ci guadagnano, perché tutto sommato Kuznetsov si rivela un ottimo interprete, mentre il venir meno del consueto fraseggio tra la bella e la bestia rende per certi versi meno scontato il tutto, rendendo il tutto però leggermente meno vario.
La band guidata da Alex Ignatovich ripropone un gothic comunque di matrice fortemente “draconiana” e con un notevole gusto melodico, il che consente di offrire con buona continuità brani intensi, intrisi di un sentore malinconico e marchiati con forza dall’imprinting di quella che, ormai, si può definire una scuola vera a propria in ambito doom come quella russa.
Come per il suo predecessore, ai fini di un potenziale sbocco commerciale al di fuori dei confini dell’ex-Urss, Teni Oktyabrya potrebbe soffrire la scelta dei Lorelei di proseguire con la loro autarchia lirica, continuando a sciorinare il tutto in lingua madre, cosa che inevitabilmente qualcosina lascia per strada a livello di immediata fruibilità.
Personalmente ritengo la cosa men che veniale, per cui invito caldamente ogni appassionato ad ascoltare questo bellissimo lavoro, che a mio avviso è un autentico esempio di come debba essere trattata la materia, andando dritti all’obiettivo senza divagazioni di sorta, mantenendo quell’aura tragicamente romantica che magari non sarà una novità ma che, nel contempo, non ci stanca mai di ascoltare: i Lorelei gratificano l’ascoltatore con una serie di brani fluidi e convincenti come Ya – Severniy Veter, la title track, Temnaya Voda e la superba e conclusiva Canticum Angelorum, suggello di un lavoro di notevole qualità.

Tracklist:
1. Into…
2. Ya – Severniy Veter
3. Morskaya
4. Sentyabr
5. I Tiho Vetly Shelestyat
6. Teni Oktyabrya
7. Severniy Bereg
8. Temnaya Voda
9. Noyabr
10. Canticum Angelorum

Line-up:
Alexey Ignatovich – Guitars, Vocals (additional), Songwriting, Lyrics
Marina Ignatovich – Keyboards, Songwriting
Alexander Grischenko – Bass
Egor Loktev – Guitars, Vocals (additional)
Maria Kiverina – Vocals
Alexey Kuznetsov – Vocals

LORELEI – Facebook

Nordlumo – Embraced by Eternal Night

Come spesso accade, la musica che ci giunge dalla Siberia non delude e il misterioso Nordmad riesce nell’intento di produrre un bellissimo lavoro, tramite l’esibizione di un funeral doom melodico ma al contempo molto essenziale.

Nordlumo è il nome di questa nuova one man band proveniente dalla Siberia e dedita al funeral doom.

Come spesso accade, la musica che ci giunge da quelle fredde e lontane lande non delude e il misterioso Nordmad riesce nell’intento di produrre un bellissimo lavoro, tramite un’esibizione del genere melodica ma al contempo molto essenziale.
Sono pochi gli inserti vocali mentre risultano invece pressoché nulli i momenti in cui il sound viene diluito con passaggi ambient o sperimentali: qui tutto è finalizzato alla creazione di una melodia dolente ma d’immediato impatto e, in tal senso, si rivela emblematica la prima traccia, interamente strumentale, The Autumn Fall, la quale prepara il terreno a quello che sarà il fulcro dell’album, la meravigliosa Devotion, oltre 23 minuti di sofferenza pura oltre che sicuro nutrimento per i soli adepti del genere.
E’ sempre un profondo senso di malinconia ad aleggiare per quasi la metà del brano, nel corso del quale il musicista russo mostra anche una certa eleganza nel pizzicare gli strumenti a corde, prima che l’interminabile finale ci scaraventi in un vortice di inalienabile dolore, con la reiterazione di accordi rallentati all’inverosimile.
Altro picco del lavoro è il quarto d’ora intitolato Dreamwalker, brano di chiara impronta Ea che si apre negli ultimi cinque minuti in un meraviglioso crescendo emotivo; non da meno comunque è anche il resto del lavoro, che oltre alla già citata The Autumn Fall, propone la nervosa e più cangiante Scripts e la stupenda cover di Weathered dei Colosseum, sentito e doveroso omaggio al genio musicale del compianto Juhani Palomäki.
Nordmad dimostra d’essere un musicista di grande spessore, regalando un esordio inattaccabile sotto ogni aspetto e dotato di tutti i crismi per lasciare il segno negli appassionati di funeral doom.

Tracklist:
1. The Autumn Fall
2. Devotion
3. Scripts
4. Dreamwalker
5. Millenium Snowfall
6. Weathered (Colosseum cover)

Line-up:
Nordmad – Everything

Slow – V-Oceans

Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà.

In occasione della riedizione in vinile e cd da parte della code666 di questo splendido album, riproponiamo la recensione pubblicata nella scorsa estate con la speranza di catturare l’attenzione di qualche nuovo estimatore della musica targata Slow.

Quinto atto per uno dei mille progetti del multiforme Déhà, un artista che non teme rivali stante l’elevatissimo rapporto tra la debordante quantità della musica proposta e la sua sempre stupefacente qualità.
Oceans non viene meno alle aspettative, stavolta, però, facendo esattamente quanto un estimatore del musicista belga si sarebbe aspettato, ovvero dare alle stampe con il monicker Slow qualcosa di molto vicino al disco funeral doom atmosferico definitivo, tramite il quale obbligare ciascuno ad esibire senza alcuna maschera il proprio turbamento ed il dolore sordo e latente che accompagna anche l’esistenza più spensierata.
Senza farsi aiutare in questa occasione dal suo grande amico Daniel Neagoe (ma i due hanno in serbo perle irrinunciabili delle quali parleremo prossimamente), Déhà mette in scena quasi un’ora di note in cui il genere viene sviscerato nella sua veste più toccante, con la lenta e costante reiterazione delle linee melodiche che vanno man mano a modificarsi in maniera impercettibile, per poi arricchirsi di nuovi apporti, strumentali e vocali, prima di esplodere in autentiche tempeste emozionali.
Se in Mythologiae il sound, a tratti, risultava più etereo e, di conseguenza, meno intenso, Oceans ritorna alle sonorità più drammatiche e, se vogliamo, più dirette di Gaia, toccando le vette melodiche alle quali Déhà ci ha abituato nel corso di questi anni.
Il concept verte sull’elemento acquatico per il quale, altra novità in tal senso, Déhà ha delegato la composizione delle liriche alla giovane connazionale Lore Boeykens; l’album scorre appunto fluido come un liquido e privo di interruzioni tra i cinque lunghi brani, portandosi appresso dalla prima all’ultima nota quel marchio musicale che accomuna, al di là delle differenze di genere, progetti come Imber Luminis, Yhdarl, We All Die (Laughing), Deos, Vaer e Maladie, solo per citare quelli dal maggiore potenziale evocativo.
Appare così inutile parlare dei singoli brani, anche se non si può ugualmente fare a meno di notare come nei tredici minuti intitolati Déluge si raggiungano vertici di lirismo inimmaginabili per potenza e drammaticità, amplificati da un growl che non viene mai abbandonato nel corso del lavoro, conducendo l’ascoltatore tra lo stupore provocato da atmosfere basate su tastiere e chitarra e e percosse da una base ritmica tutt’altro che appiattita solo su ritmi bradicardici.
Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà, unico nel suo saper trasformare il dolore e lo sgomento in una forma superiore di arte musicale.

Tracklist:
1.Aurore
2.Ténèbres
3.Déluge
4.Néant
5.Mort

Line up:
Déhà – All instruments, Vocals

SLOW – Facebook

Uruk – I Leave A Silver Trail Through Blackness

Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale, questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Cosa succede nel momento in cui si compenetrano due stili musicali diversi, due cammini effettuati con mezzi differenti ma con lo stesso imperativo di ricercare sempre e comunque ?

Succede che nasce un’entità musicale dalla ben difficile collocazione come gli Uruk, figlia dell’incontro tra Massimo Pupillo, l’immenso bassista degli Zu e nei Triple Sun, e Thighpaulsandra, epica figura già nei Coil, poi con Julian Cope e eminente membro di quell’esoterismo inglese, non solo musicale, che vive da molto tempo. I due si sono sempre ammirati, e questo disco, una suite di circa trentanove minuti, è qualcosa di più di una semplice collaborazione. Il disco è un qualcosa di esoterico, una commistione di ambient e di drone, un ricollegarsi alle nostre origini più ancestrali, come indicato dal nome del gruppo. Uruk era una città della civiltà sumera, narrata nell’epopea di Gilgamesh, ed uno dei maggiori insediamenti della nostra antichità. Gruppi come Zu e i Coil attraverso la loro musica hanno sempre ricercato e smosso qualcosa di antico dentro di noi, scavalcando la nostra modernità e parlando a qualcosa che tentiamo di negare. Proprio come questo disco, che ci mostra un’antichissima storia messa in musica, ovvero la capacità umana di dare un senso differente e personale a dei suoni, semplici come il rumore primordiale. I Leave A Silver Trail Through Blackness fa scaturire dentro ognuno di noi una propria personale interpretazione, ma più di tutto è un portale, un codice di vibrazioni per portarci da qualche altra parte in uno stato alterato di coscienza, obiettivo anche dei live del duo, davvero molto coinvolgenti. Non ci si può approcciare a questo disco aspettandosi della musica come la intendiamo comunemente, perché questo è il senso ancestrale di tale arte. Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale. Questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Tracklist
1. I Leave A Silver Trail
2. Through Blackness

Line-up
Massimo Pupillo
Thighpaulsandra

COUNSULING SOUNDS – Facebook

Aporya – Dead Men Do Not Suffer

Dead Men Do Not Suffer, grazie al lavoro chitarristico di grande classe fornito da Cristiano Costa, pur essendo catalogabile alla voce death doom potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.

Il Brasile non sembrerebbe essere terreno fertile per il doom come per i generi più estremi o il metal classico, almeno a livello quantitativo; la qualità, invece, non può essere messa in discussione se pensiamo ad una scena capace di offrire nomi già consolidati come HellLight eMythological Cold Tower, o di più recente affermazione come i Jupiterian.

A provare ad inserirsi in tale novero provano gli Aporya, band nata solo scorso anno per l’impulso del chitarrista Cristiano Costa che ha poi trovato il suo ideale completamento nel vocalist Tiago Monteiro: Dead Men Do Not Suffer è il titolo del loro interessante esordio, all’insegna di un death doom melodico che a tratti ricorda i Tiamat epoca Clouds, specialmente in un brano come One More Day, forse anche a di un’impostazione vocale a tratti simile a quella utilizzata ai tempi da Edlund, con un growl non troppo profondo e a tratti quasi sussurrato.
Al di là di questo, si capisce che gli Aporya sono un progetto nato dalla mente di un chitarrista proveniente dal metal classico, visto l’abbondante quanto appropriato ricorso ad assoli dolenti e melodici che prendono piede, soprattutto, nella seconda metà dell’album, invero ingannevole al suo avvio con un brano death tout court (ma notevolissimo) come Cry of the Butterfly, che va a spezzare l’iniziale incantesimo creato dalla tenue intro Blood Rain.
Da The Sad Tragedy (I’m Crushed Down) in poi il lavoro comincia ad assumere le coordinate promesse, ovvero quelle di un death doom melodico, elegante ma dall’impatto emotivo che si mantiene sempre apprezzabile, grazie al connubio tra le linee chitarristiche, il soffuso supporto delle tastiere ed un’interpretazione vocale che non va a sovrapporsi in maniera eccessiva alle tessiture strumentali.
Dead Men Do Not Suffer prende quota ancora più nella sua parte finale, in coincidenza con quei brani nei quali Costa sfoga tutto il suo sentire melodico abbinato ad un tocco chitarristico di grande classe; anche per questo l’album, pur essendo catalogabile alla voce death doom, potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.
In definitiva gli Aporya si rivelano una gradita sorpresa e l’approdo alla configurazione di band vera propria, finalizzata alla riproposizione dal vivo dei brani contenuti nell’album, non potrà che rivelarsi un valore aggiunto nell’ambito di un percorso iniziato nel migliore dei modi.

Tracklist:
1. Blood Rain
2. Cry of the Butterfly
3. The Sad Tragedy (I’m Crushed Down)
4. Little Child in the Grave
5. One More Day
6. Pain and Loneliness
7. Dead Men Do Not Suffer

Line-up:
Cristiano Costa – Guitars (lead), Songwriting
Tiago Monteiro – Vocals, Lyrics

APORYA – Facebook

Druid Lord – Grotesque Offerings

Un lavoro che saggiamente mantiene la sua natura underground, rendendo i Druid Lord un gruppo da seguire, almeno per chi ama il genere ed il death metal rallentato e appesantito da cascate di watt che si trasformano in magma infernale.

Quando si avvicina la fine dell’anno succede spesso di ritrovarsi al cospetto di band notevoli, che in Zona Cesarini (come si dice in gergo calcistico), piazzano i loro splendidi lavori come un goal all’ultimo secondo di un’avvincente partita.

Quest’anno, parlando di death metal dalle chiare influenze doom, la plastica rovesciata che vale un campionato la fanno gli statunitensi Druid Lord con questo Grotesque Offerings, monumentale esempio di musica del destino potenziata da sua maestà il death e resa ancora più estrema ed affascinante da un concept horror preso in prestito dalla cultura cinematografica e fumettistica degli anni settanta.
Il quartetto nasce in Florida nel 2010 e di quell’anno è l’esordio sulla lunga distanza Hymns for the Wicked, seguito da una serie di ep e split che accompagnano la band fino al mastodontico Grotesque Offerings, che nasce e prende forma in qualche profondità infernale e torna in superficie a trasformare questo fine 2017 in una marcia inesorabile verso la perdizione ed il puro terrore.
Il lavoro saggiamente mantiene la sua natura underground, rendendo i Druid Lord un gruppo da seguire, almeno per chi ama il genere ed il death metal rallentato e appesantito da cascate di watt che si trasformano in magma infernale.
Composto da una serie di brani atmosfericamente perfetti per notti da incubi (l’opener House Of Dripping Gore, Night Gallery, il capolavoro doom/horror Evil That Haunts This Ground e la discesa nel pozzo delle anime dannate intitolata Last Drop Of Blood) l’album è una notevole opera estrema, lenta ed inesorabile e composta da attimi davvero suggestivi.
Immaginate gli Asphyx, i primi Cathedral e i primi Paradise Lost amalgamati con il doom classico di Pentagram e Candlemass, ed ispirati dai film della Hammer (la nota casa di produzione britannica, molto attiva negli anni settanta): ecco gli ingredienti che rendono Grotesque Offerings imperdibile.

Tracklist
1.House of Dripping Gore
2.Night Gallery
3.Spells of the Necromancer
4.Evil That Haunts This Ground
5.Black Candle Seance
6.Creature Feature
7.Into the Crypts
8.Murderous Mr. Hyde
9.Last Drop of Blood
10.Final Resting Place

Line-up
Pete Slate- Lead & Rhythm Guitar
Tony Blakk- Vocals & Bass
Ben Ross- Rhythm & Lead Guitar
Elden Santos – Drums

DRUIUD LORD – Facebook

Æsthetica – Sonorus Æon

Sicuramente una band che rappresenta una gradevolissima novità, direttamente dalla tundra norvegese. Energia, impegno grande qualità sono le parole chiave.

Gli Æsthetica si distinguono ancora una volta, nel vastissimo e intricato panorama doom, per la loro evidente versatilità e apertura mentale nel trattare questo genere. Non occorrono comunque eccessivi ornamenti per potersi differenziare, e questo non è sicuramente il loro intento.

Sonorus Æon è un album che si presenta senza troppe formalità, giusto per far capire a chi non conoscesse questi ragazzi norvegesi di che pasta sono fatti. Infatti, già dal brano di apertura dell’album Haze si ha l’impressione, poi confermata, che il sound della band abbia come punto di forza quello dell’energia, della vitalità e di un doom pulito.
Come sappiamo, però, la cosiddetta pulizia può essere un limite per chi si approccia a questo genere, nel quale sporcarsi le mani è quasi un battesimo. Gran parte di questo limite è la voce, che in molti frangenti non è abbastanza “malata” per stare al passo di una parte strumentale, soprattutto rispetto all’ottima chitarra, che invece ci dà un immaginario diverso e quasi perfetto.
Ma dato che anche la parte vocale ha delle qualità indubbie, ecco che vengono fuori al 100% nel brano Worshipper, forse il più riuscito di tutto il disco. Qui tutto è esattamente in simbiosi e ci vengono restituiti i tratti sacrali ed anche un po’ immortali dei primi Black Sabbath. Un pezzo di cui sicuramente i fan del genere potranno godere a pieno, e nel quale la band trova la quadratura del cerchio.
In chiusura, sicuramente un lavoro di alto livello per questa band scandinava, pur essendo ancora in chiara fase di sperimentazione.

Tracklist
1. Haze
2. Todesfuge
3. La Paz
4. Gates
5. Worshipper
6. Ekstasis

Line-up
Tobias Brynildsbakken Huse
Simon Dahl Okoniweski
Vetle Bråten Rian
Petter Rosendahl Moland

AESTHETICA – Facebook

Twingiant – Blood Feud

La progressione è incessante e senza scadimenti o cedimenti, anzi più ci si addentra dentro il disco più si viene ammaliati da questo suono, che renderà felice chi ama la musica pesante e pensante.

Devastazione completa operata mediante un uso massiccio di sludge e stoner all’ennesima potenza.

I Twingiant vengono dalla calda Phoenix, Arizona, sono attivi dal 2010 e questo è il loro terzo album sulla lunga durata. Il loro suono è molto pesante, un riuscito connubio fra potenza, lentezza ed una maestosità tipica di quei gruppi che hanno un passo differente rispetto alla maggior parte degli altri. Ascoltandoli si può percepire nettamente la grande capacità compositiva, che li porta a scrivere ed a suonare canzoni di ampio respiro, che ampliano la mente dell’ascoltatore mediante un potente rumore. Blood Feud è il racconto di un massacro, che procede ora lento ora veloce, ma che inesorabilmente spezza tendini e mette fine a molte vite. La progressione è incessante e senza scadimenti o cedimenti, anzi più ci si addentra dentro il disco più si viene ammaliati da questo suono, che renderà felice chi ama la musica pesante e pensante. I Twingiant hanno un tocco personale e riconoscibile, essendo uno dei migliori gruppi del genere, e il loro disco sarà una gioia per molte tormentati sonori. Le tracce si susseguono in maniera mirabile, costruendo un filo narrativo che le unisce in modo ben strutturato e complesso, granitico e terribile. Ci sono vari livelli in questo disco, e pur apprezzandolo fin dal primo ascolto, si riesce a cogliere sempre qualcosa di diverso ad ogni passaggio successivo. Alcuni momenti sono epici, come se ci trovassimo davvero nel Giappone medioevale, e la vita fosse solo una questione di affilatura della spada.

Tracklist
1.Throttled
2.Poison Control Party Line
3.Ride The Gun
4.Re-fossilized
5.Shadow of South Mountain
6.Formerly Known As
7.Last Man Standing
8.Kaishakunin

Line-up
Jarrod – Bass/Vocals
Nikos – Lead/Rhythm Guitar/Backup Vocals
Tony- Lead/Rhythm Guitar/Backup Vocals
Jeff – Drums

TWINGIANT – Facebook

Professor Emeritus – Take Me To The Gallows

Take Me To The Gallows è un buon lavoro incentrato su un heavy/doom classico tra Dio, Black Sabbath e Candlemass, un album dallo spirito underground ma sicuramente da non perdere per gli amanti del genere.

Sicuramente avari di informazioni ma non di buona musica, i Professor Emeritus sono una band di Chicago che, tramite la No Remorse Records, licenzia questo esempio riuscito di heavy metal classico dalle forte tinte epic doom, sulla falsariga di superstar del genere come Dio e Candlemass.

Ed in effetti queste sono le maggiori influenze del gruppo statunitense, ovviamente con i sempre presenti Black Sabbath nella versione con al microfono il grande e compianto Ronnie James, al quale il bravissimo singer MP Papai fa riferimento.
Così tra brani più classicamente heavy come l’opener Burning Grave o Chaos Bearer, ed altri rallentati e nobilitati da un’epicità tradizionalmente doom metal come le bellissime He Will Be Undone e la conclusiva Decius, davvero ispirata, Take Me To The Gallows risulta un ottimo prodotto per gli amanti del doom classico degli anni ottanta, arricchito dal tocco epico del Dio d’annata, il cui spirito rivive grazie ad un vocalist che con bravura ne segue il percorso artistico.
L’album, che arriva dall’underground e da esso trova vigore, è assolutamente consigliato a chi non si ferma ai soliti storici nomi.

Tracklist
1. Burning Grave
2. He Will Be Undone
3. Chaos Bearer
4. Take Me to the Gallows
5. Rats in the Walls
6. Rosamund
7. Decius

Line-up
MP Papai – Vocals
Lee Smith – Guitar, Bass
Tyler Herring – Guitar
Rüsty Glöckle – Drums

PROFESSOR EMERITUS – Facebook

Fister & Chrch – Split

La Crown and Throne Ltd pubblica questo notevole split album a tutto sludge, che vede quali protagoniste due band statunitensi, i Fister ed i Chrch.

La Crown and Throne Ltd, label di Denver, pubblica questo notevole split album a tutto sludge, che vede quali protagoniste due band statunitensi, i Fister ed i Chrch.

I Fister sono in circolazione già da diverso tempo ed hanno una discografia molto ricca con all’attivo tre full length ed almeno una decina di uscite più brevi; in questo brano intitolato The Ditch, il trio di St.Louis inizia senza fare sconti sparando un primo terzo piuttosto feroce ed ossessivo, per poi aprirsi leggermente e placarsi ulteriormente indulgendo in rarefatti arpeggi: la combinazione appare efficace, nonostante lo schema sia ripetuto nell’arco della durata della traccia (venti minuti) con una certa puntualità, in virtù di un’intensità che, specialmente nei momenti più robusti, appare in grado di fare la differenza.
I Chrch (non ci siamo dimenticati una u, ma è la band che ha deciso di eliminarla dal proprio monicker da un paio d’anni) arrivano da Sacramento e rispetto ai compagni di split sono decisamente meno prolifici ma anche autori di uno sludge che propende molto più verso il funeral, riuscendo a colpire in virtù di un sound maggiormente elaborato ed impattante emotivamente; i sedici minuti di un brano come Temples costituiscono una prova di forza notevole ed il suo incedere a tratti dolente, a volte colmo di cupa e rabbiosa disperazione, punteggiato da uno screaming femminile lacerante, ci offre la sensazione d’essere al cospetto di una realtà di livello potenzialmente superiore alla media e, a tale proposito, questo occasione si rivela un buon pretesto per recuperare quanto prima il full length Unanswered Hymns, uscito nel 2015.
Lo split album in questione assolve alla perfezione al proprio compito, quello di portare alla luce gruppi di sicuro spessore ma che, a causa dell’affollamento che ormai è comune ad ogni genere, anche quelli dai connotati maggiormente underground, faticano a mettersi in evidenza al di fuori di delle aree geografiche d’appartenenza.

Tracklist:
1. Chrch – Temples
2. Fister – The Ditch

Line-up:
Fister
Kirk Gatterer – Drums
Marcus Newstead – Vocals (additional), Guitars
Kenny Snarzyk – Vocals (lead), Bass

Chrch
Ben – Bass
Shann – Guitars
Chris – Guitars, Vocals (backing)
Eva – Vocals
Adam – Drums

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