Enslaved – E

E è uno dei capolavori del genere musicale chiamato metal, è un avanzamento della specie, un immenso universo fatto di note, tenebre, colori e gusti, che va gustato ad occhi rigorosamente chiusi per poter viaggiare nella sua interezza.

Attesissimo ritorno degli Enslaved, uno dei più interessanti gruppi metal degli ultimi anni e non solo, un combo che sta cambiando dalle fondamenta la musica pesante: E è la migliore testimonianza di ciò.

Non sembra, ma sono già passati venticinque anni dal loro esordio Vikingligr Veldi, black metal puro e norvegese, per poi arrivare al secondo Frost, un inno all’orgoglio di essere norvegesi e pagani. Da quel momento gli Enslaved hanno cominciato ad esplorare un orizzonte musicale più vasto di quello originario, che era comunque splendido, arrivando a toccare vette molto alte, mantenendo un percorso artistico molto originale e personale. Tutti i tredici album precedenti degli Enslaved sono meritevoli di attenzione ma, dal disco del 2015, In Times, le cose sono cambiate ulteriormente, poiché per loro quello è stato uno spartiacque, nel senso che può essere considerato un punto di rottura importante, una pietra miliare che ha segnato un prima ed un dopo. In Times è un album di metal estremo progressivo, se si dovesse dare una definizione, nato dall’esigenza di dover chiudere una parte della carriera, unendo il vecchio ed il nuovo per dare poi vita a qualcosa di ancora diverso. E quel qualcosa di nuovo si intitola E: il quattordicesimo disco della più che ventennale carriera di questi musicisti di Bergen può essere considerato quello della libertà totale, nel quale si sono espressi senza aver aver nessun obbligo, se non quello di fare ciò che volevano. Si è parlato e scritto molto intorno alla genesi di questo disco, al cambio operato con In Times che ha fatto perdere parte dei propri fans, dei lunghissimi tour, ma di fronte a questo lavoro tutto viene spazzato. E è uno dei capolavori del genere musicale chiamato metal, è un avanzamento della specie, un immenso universo fatto di note, tenebre, colori e gusti, che va gustato ad occhi rigorosamente chiusi per poter viaggiare nella sua interezza. Fin dalla prima lunga suite Storm Son si rimane affascinati dalla costruzione sonora, pura psichedelia tenebrosa, sempre pienamente e fieramente nordica, come se i vichinghi avessero suonato con i Pink Floyd e Syd Barrett, perché di quest’ultimo qui c’è l’assolutezza di certe soluzioni sonore, un gusto per il surrealismo ed una grazia davvero fuori dal comune. Non volendo assolutamente fare nessuna polemica, posso affermare che avevo apprezzato il precedente In Times solo dopo un po’ di tempo, avendo bisogno di qualche indizio in più per poter assaporare ciò che vi era contenuto. Qui invece è stato amore a prima vista, folgorazione totale, si scappa da Midgard per arrivare direttamente a sentir suonare gli Enslaved in Asgard. La ricchezza strutturale di questo disco è scioccante, in sei pezzi si viene catapultati in quella che a tutti gli effetti un’opera teatrale che travalica la musica, un inno all’unione tra natura e uomo, che è un po’ il sotto testo di tutta la poetica degli Enslaved. E ha al suo interno momenti black metal, cavalcate death, tanta psichedelia, incredibili momenti di organo e sax, in una ricerca totale di un suono altro. Ogni canzone contiene un mondo di generi e sottogeneri al suo interno, tutti legati da un’opera immane di cesellatura perfettamente compiuta. Ascoltando E si apprezza la compiutezza di una visione musicale inedita, perché questo è un disco più estremo anche dei loro esordi black metal, nel quale si osa dalla prima all’ultima nota spingendo la musica estrema in un futuro ancora tutto da costruire, ma che prima non c’era. Magnificenza assoluta per un capolavoro del metal, che potrà non piacere a chi è rimasto tenacemente ancorato alla prima parte della carriera del gruppo di Bergen, e sui gusti non si può davvero discutere, anche perché uno dei motivi della grandezza degli Enslaved è che la loro discografia copre tutta la gamma del metal estremo ed oltre, per cui ognuno può scegliere ciò che gli aggrada maggiormente.
Set the controls for the heart of the sun.

Tracklist
1. Storm Son
2. The River’s Mouth
3. Sacred Horse
4. Axis Of The Worlds
5. Feathers Of Eolh
6. Hiindsiight

Line-up
Ivar Bjørnson | guitars.
Grutle Kjellson | vocals & bass.
Håkon Vinje | vocals & keys.
Cato Bekkevold |drums.
Ice Dale | lead guitar.

ENSLAVED – Facebook

Rancho Bizzarro – Rancho Bizzarro

I Rancho Bizzarro arrivano da Livorno con due chitarre, un basso e una batteria e fanno un desert stoner rock strumentale molto efficace e molto desertico.

Izio Orsini, bassista e fondatore dei Rancho Bizzarro, è un uomo che ha un gran talento musicale, ama visceralmente un certo tipo di suono e appena può sperimenta, facendo dischi bellissimi come Weedooism, sempre per Argonauta Records sotto lo pseudonimo Bantoriak, e ora torna con questo progetto di musica strumentale.

I Rancho Bizzarro arrivano da Livorno con due chitarre, un basso e una batteria e fanno un desert stoner rock strumentale molto efficace e molto desertico. La lezione dei Kyuss, di Brant Bjork solista e di quel filone nato fra le sabbie del deserto è la maggiore fonte d’ispirazione per questo gruppo, ma non certamente l’unica. La jam in sala prove è il fondamento di questo gruppo, entrano, suonano e si crea la magia, poi in studio si edita e si dà quel tocco in più. Essendo un gruppo strumentale non c’è il supporto della voce che a volte può mascherare qualche deficit musicale e viceversa, ma qui la ricchezza musicale renderebbe eventuali parti cantate quasi fastidiose. L’atmosfera è molto western e desertica, i riff precisi, il basso di Izio scava tortuosità dentro le linee melodiche, e la produzione è ricca, fa risaltare bene i suoni, mentre a volte in questo genere si tende ad alzare troppo gli alti. E poi ovviamente l’influenza sabbathiana è presente, ma anche perché quei ragazzi da Birmingham hanno fatto dei paradigmi a cui devi rifarti se vuoi musica pesante, poi devi essere bravo a rielaborare il tutto per conto tuo, e i Rancho Bizzarro lo sono.
Questo gran bel disco strumentale, strutturato e suonato molto bene, sarà una sorpresa per chi non conosceva ancora Izio Orsini, che qui raccoglie dei magnifici musicisti e solleva molta polvere del deserto.

Tracklist
1 Five Hermanos
2 Garage Part Two
3 Incredible Bongo
4 Mood Brant
5 Yo Man
6 Katching
7 Mr Aloba

Line-up
Izio – bass
Matt – guitar
Mark – guitar
El Meloso – drums

RANCHO BIZZARRO – Facebook

Dead Woman’s Ditch – Seo Mere Saetan

Folklore albionico, horror, doom, sludge e black: ecco la ricetta per un buonissimo esordio da una band con grandi potenzialità.

Una cupa cover, opera dell’artista rumena Luciana Nedelea, già autrice nel 2017 delle copertine di Digir Gidim, Ghost Bath e Scath na Deithe, ci introduce all’opera prima sulla lunga distanza dei Dead Woman’s Ditch, quartetto albionico attivo dal 2014 con tre demo disponibili in digital download.

La band, originaria del Somerset, prende il suo peculiare nome dal folklore della zona ricco di storie oscure e orrorifiche: il ditch si trova nelle Quantock Hills e ha contenuto il corpo senza sepoltura, per un anno e un giorno, di Sarah Walford uccisa dal marito John nel 1789. Questa insana storia rappresenta l’immaginario di questo side project creato dal chitarrista Glenn Charman, noto per aver suonato il basso nei grandi Electric Wizard dal 2012 al 2014; gli altri musicisti presenti, pur non avendo ugual notorietà, accompagnano con competenza il percorso musicale. Il suono creato è intrigante e miscela con buone capacità compositive doom, sludge, black e intensi aromi psichedelici. I brani sono intensi e insinuanti, entrano lentamente sottopelle e lasciano un’atmosfera che non si dimentica facilmente, marcando in modo indelebile i nostri sensi. Fin dal primo brano, The Ugly Truths, la band colpisce con linee melodiche sinistre e colme di di visioni orrorifiche, potenziando il tutto con uno sgraziato scream, alternato a un ruvido clean; i tempi sono lenti e dilatati e si sfibrano in parti elettroacustiche che accentuano la tensione del brano. Anche gli altri cinque brani ammantano l’atmosfera di insano orrore, avvolgendoci in una brumosa attesa colma di sinistri presagi; l’andamento profondamente doom e le vocals salmodianti sfregiate da influssi black di We Are Forgiven sono la rappresentazione di una lenta ascesa verso un patibolo ricolmo di indicibili sofferenze. Break The Mind e Mr.Ripper, con i loro influssi marcatamente sludge, si attorcigliano addosso impedendoci di muoverci e respirare e le chitarre marcano il territorio con pregevoli linee melodiche acide e visionarie. L’ultimo brano Crusade, ben oltre gli undici minuti di durata, rincara la dose rielaborando tutti gli ingredienti fin qui usati e offrendoci un lento, desolato viaggio dove le chitarre riempiono l’aria con note intense, inquiete e acide, soprattutto nella parte finale nella quale registrazioni audio sovrapposte chiudono il cerchio di un orrore senza fine. Buonissimo esordio per una band dalle grandi potenzialità.

Tracklist
1. The Ugly Truths
2. Failed to Rot
3. We Are Forgiven
4. Break the Mind
5. Mr. Kipper
6. Crusade

Line-up
Glenn Charman – vocals,guitar,noise
George Rhone – vocals,guitar
Chris Rust – bass
Robin Corbet – drums

DEAD WOMAN’S DITCH – Facebook

Brume – Rooster

Album di nicchia per un genere già di per sé ad uso e consumo di pochi fans, ma consigliato se siete amanti delle trame pesanti di Revelation, Sleep e St. Vitus.

Doom metal pesante come una pioggia di incudini in caduta libera sulle nostre teste, o una colata lavica che inesorabilmente travolge e liquefa ogni cosa al suo passaggio.

Una liturgia musicale che fa dell’ esasperante lentezza l’ arma per colpire e diffondere il suo messaggio stordente e che non lascia speranza di vedere la luce fuori dal tunnel in cui ci relegano i doomsters statunitensi Brume.
Il trio originario di San Francisco, composto dalla sacerdotessa Susie Mcmullan (voce e basso), Jordan Perkins-Lewis (batteria) e Jamie McCathie(chitarra), è il creatore di Rooster, debutto sulla lunga distanza dopo l’ep Donkey uscito due anni fa, monolite metallico che non può non scandire il tempo agli amanti del genere, un rituale in cui la singer intona canti su pachidermici riff, doom/psichedelici e, a tratti, dal retrogusto fok/blues.
Sei brani per cinquanta minuti di musica agonizzante, minutaggi altissimi ed incedere inesorabile con l’opener Grit And Pearls, Call The Serpent’s Bluff e la conclusiva Tradewind a creare incantesimi dai quali si viene sopraffatti.
Album di nicchia per un genere già di per sé ad uso e consumo di pochi fans, ma consigliato se siete amanti delle trame pesanti di Revelation, Sleep e St. Vitus.

Tracklist
1. Grit and Pearls
2. Harold
3. Reckon
4. Call the Serpent’s Bluff
5. Welter
6. Tradewind

Line-up
Susie McMullan -Bass, Vocals
Jordan Perkins-Lewis – Drums
Jamie McCathie – Guitars

BRUME – Facebook

Lento – Fourth

I Lento sono un magnifico vortice che ti attrae al suo interno, un’ipnosi musicale che non vorresti finisse mai, rompono i confini dei generi e fluttuano inesorabilmente attraverso dimensioni diverse, mondi persi dentro al nostro io.

Fourth è un disco da ascoltare e riascoltare all’infinito per poterne conoscere almeno la maggior parte dei sentieri, delle vie battute da questo gruppo italiano che sta facendo una poetica musicale unica, con una traiettoria che mi ricorda quella dei Neurosis, dato che la loro epica è simile. Abbiamo imparato a conoscere il suono dei Lento in questi anni grazie agli ottimi dischi precedenti, ed è proprio il suono la caratteristica principale, il motore primo e il fine ultimo di Fourth. Giri, droni, riffs, momenti di tempesta e momenti di calma ieratica, fluidi e pietre che cadono dal cielo. Fourth è un gioiello che arriva dopo altri gioielli, ma forse è il più luminosamente tenebroso e visionario di tutti i sei dischi del gruppo romano. La durezza viene mitigata da pezzi di ambient davvero ben fatto, che ci trasportano in un’altra dimensione. Ci sono ovviamente le parti più dure e veloci e sono titaniche, ma il cielo è un obiettivo troppo basso per questo gruppo, che ha fatto della ricerca sonora per creare una certa atmosfera una ragione di vita. Tutto viene trasfigurato e cambiato, si gira, si vola e si va sotto terra per cercare un qualcosa che è nascosto ai nostri occhi perché non abbiamo la chiave giusta per cercarlo. Fourth è strutturato benissimo a cerchi concentrici e i Lento ci accompagnano come fece Virgilio per Dante in questo viaggio pesantemente lisergico. Il gruppo romano è uno dei migliori esempi di musica pesante e pensante al mondo, rilasciano magia musicale che cola in mille rivoli, diventa gas e sale fino al cielo. Questo disco può generare infiniti ascolti, e ogni ascolto sarà diverso, perché muta come mutiamo noi.

Tracklist
1. Persistency
2. Disinterested Pleasures
3. Or A Hostile Levity
4. Resentment
5. Before The Crack
6. Compromise
7. Or Belief
8. Bygones (A Grievence)
9. Urgency

Line-up
Emanuele Massa – Bass
Federico Colella – Drums and live samples
Donato Loia – Guitars
Giuseppe Caputo – Guitars
Lorenzo Stecconi – Guitars

LENTO – Facebook

Old Night – Pale Cold Irrelevance

Questo disco d’esordio degli Old Night si presenta come una delle più belle sorprese dell’anno in ambito doom.

Questo disco d’esordio degli Old Night si presenta come una delle più belle sorprese dell’anno in ambito doom.

La band istriana, guidata da Luka Petrović, membro di una band storica della scena croata come gli Ashes You Leave, imprime da subito la propria interpretazione del genere, con l’intento piuttosto evidente di proporre un doom tradizionale ma con ampie sfumature che riportano al grunge più evocativo, e in primis agli Alice in Chains
Autori di una prova superba su tutta la linea, gli Old Night si avvalgono della notevole prestazione vocale di Matej Hanžek, raro esempio di equilibrio laddove molti eccedono in tonalità troppo stentoree oppure scelgono soluzioni opinabili.
Il substrato sonoro è robusto e rallentato come da copione ma la differenza viene fatta appunto da quella componente che trasporta i ragazzi di Rjieka direttamente all’estremo nord della West Coast senza che il tutto appaia affatto forzato e derivativo.
Pale Cold Irrelevance cresce con gli ascolti oltre che con lo scorrere della tracklist, avviandosi con brani più vicini al doom classico, pur se parzialmente intrisi di una componente alternative, per poi approdare ad una seconda metà davvero splendida, con una Architects of Doom degna dei miglior brani cadenzati degli Alice In Chains, per arrivare alle conclusive Something is Broken e Contemptus Mundi, quest’ultima splendente gioiello che si avvale di uno dei tanti ottimi assoli di Bojan Frlan, fotografando al meglio il talento e la maturità di questi ragazzi croati.
Da non sottovalutare neppure una evocativa Thieves of Innocence, altra testimonianza di una rara freschezza nella scrittura, nonostante le sonorità esibite affondino saldamente le loro radici nei fertili anni novanta; Pale Cold Irrelevance si colloca senza dubbio tra i migliori esordi di quest’anno, presentandoci nella maniera più sfolgorante una nuova band come gli Old Night, in grado di emozionare riproponendo in maniera personale sonorità immortali, in barba ai molti che frettolosamente le ritengono già archiviate.

Tracklist:
1. The Last Child of Doom
2. Mother of all Sorrows
3. Thieves of Innocence
4. Architects of Doom
5. Something is Broken
6. Contemptus Mundi

Line up:
Matej Hanžek – Vocals (lead), Guitar
Luka Petrović – Bass, Vocals
Nikola Jovanovic – Drums
Bojan Frlan – Guitars (lead)
Ivan Hanžek – Guitars (lead), Vocals

OLD NIGHT – Facebook

Bluedawn – Edge Of Chaos

Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.

Misteri, leggende, storie tramadate per secoli in una città che fu repubblica e crocevia di razze, ombre che le strette strade dei vicoli trasformano in oscure creature che ci inseguono fino al mare.

Una Genova alternativa fuori dagli sguardi superficiali dei turisti o di chi vive la città senza fermarsi un attimo a condividerne l’anima e la sua totale devozione alla musica rock, fin dai tempi dell’esplosione progressiva negli anni settanta, dei cantautori e del sottobosco musicale che ha dato i natali a straordinarie realtà metal.
In questo contesto si colloca la Black Widow Records e di conseguenza i Bluedawn, band heavy/prog doom metal capitanata dal bassista e cantante Enrico Lanciaprima, attiva dal 2009 ed arrivata con questo Edge Of Chaos al terzo capitolo di una discografia che si completa con il primo album omonimo e Cycle Of Pain, licenziato quattro anni fa.
Con l’aiuto di una serie di ospit,i tra cui spicca Freddy Delirio (Death SS), la band genovese esplora in lungo e in largo il mondo oscuro del doom/dark progressivo, ed Edge Of Chaos risulta così un lavoro affascinante anche se pesante e dipinto di nero, cantato a due voci da Lanciaprima e da Monica Santo, interprete perfettamente calata nel sound disperatamente oscuro e malato dell’album.
E sin dalle prime note dell’intro The Presence la tensione e la soffocante atmosfera dell’album sono ben evidenziate, con un’aura occulta ed evocativa a permeare tutti i brani dell’opera che sono valorizzati dai vari ospiti e da un uso molto suggestivo delle voci, uno dei punti di forza di un brano come Dancing On The Edge Of Chaos.
Il sax di Roberto Nunzio Trabona conferisce ad alcune tracce un tocco crimsoniano e l’anima progressiva del gruppo si fa tremendamente mistica ed occulta, con accenni atmosferici a Devil Doll ed al dark rock dei Fields Of The Nephilim, mentre la parte elettronica spinge la splendida The Serpent’s Tongue verso il podio virtuale all’interno della tracklist di Edge Of Chaos.
Sofferto, pesante ma tutt’altro di ascolto farraginoso, il pregio di questo lavoro è proprio quello di tenere l’ascoltatore con le cuffie ben salde alle orecchie: le sorprese del primo passaggio nel lettore diventano conferme dello stato di salute dei Bluedawn che, al terzo album, centrano il bersaglio, come confermato dalla notevole Baal’s Demise, nella quale tornano protagonista il sax, e di conseguenza, le sfumature crimsoniane.
Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.

Tracklist
1.The Presence
2.Sex (Under A Shell)
3.The Perfect me
4.Serpent’s Tongue
5.Dancing On The Edge Of Chaos
6.Wandering Mist
7.Black Trees
8.Burst Of Life
9.Sorrows Of The Moon
10.Baal’s demise
11.Unwanted Love

Line-up
Monica Santo – Vocals
Enrico Lanciaprima – Bass, Vocals
Andrea “Marty” Martino – Guitars
Andrea Di Martino – Drums

James Maximilian Jason – Keyboards, Synth, Vocals
Caesar Remain – Guitars
Roberto Nunzio trabona – Saxophone
Marcella Di Marco – Vocals
Freddy delirio – Keyboard, Synth
Matteo Ricci – Guitars

BLUE DAWN – Facebook

71TonMan – Earthwreck

Chiaramente sconsigliato a chi nella musica ricerca ricami e svenevolezze assortite, questo monolite firmato 71TonMan è esattamente ciò che si vorrebbe sempre ascoltare da una band sludge.

Il secondo full length dei polacchi 71TonMan è uno di quei lavori la cui pesantezza potrebbe far crollare il pavimento sul quale sta appoggiato il mobiletto con lo stereo e le casse.

Del resto, la band di Wroclaw tiene fede al proprio monicker, per cui queste 71 tonnellate di sludge doom si riversano come una cascata di fango sull’ascoltatore, seppellendolo definitivamente a colpi di riff densi e rallentati come da copione.
Non è solo pachidermico il sound dei nostri, però: benché una certa ossessività stia alla base della proposta, sottotraccia si celano linee che attribuiscono una precisa definizione ai diversi brani, anche se la resistenza uditiva viene messa a dura prova da quest’ora scarsa di sludge d’autore.
Messa così, a qualcuno potrebbe sembrare che Earthwreck sia essenzialmente un susseguirsi di riff senza arte né parte: invece qui di arte musicale ce n’è da vendere, perché non è affatto banale far coincidere una potenza di fuoco inarrestabile ad una (sempre relativa, naturalmente) fruibilità di fondo.
Chiaramente sconsigliato a chi nella musica ricerca ricami e svenevolezze assortite, questo monolite firmato 71TonMan per quanto mi riguarda è esattamente ciò che vorrei sempre ascoltare da una band sludge: forza, compattezza e idee chiare, che consentono di piazzare, dopo quasi venti minuti di randellate inferte senza soluzione di continuità, un arioso assolo di chitarra, oppure spingersi a lambire il funeral nella seconda parte di brani come Phobia e Torment, senza che il tutto vada ad attenuare o travalicare il senso di un impatto di rara efficacia.
Earthwreck è molto vicino ad un ipotetico stato dell’arte dello sludge, nel suo versante più vicino al death doom e al funeral piuttosto che a quello dello stoner e della psichedelia e, francamente, credo sia davvero molto difficile rendere questo genere in maniera più efficace.

Tracklist:
01. Lifeless
02. Negative
03. Phobia
04. Zero
05. Torment
06. Spiral

Line up:
K.K. vocals
M.Z. guitar
T.G.guitar
J.W. bass
J.K drums

71TONMAN – Facebook

Crimson Altar – Clairvoyance

Buoni riff che denotano la devozione per il sound ottantiano, interessanti e auspicabilmente incrementabili interventi del flauto, che conferiscono al tutto un’aura particolare, ed una sincera attitudine per il genere, rendono Clairvoyance una prova interessante soprattutto in prospettiva.

Un anno dopo la sua uscita come demo su musicassetta, il primo atto discografico dei Crimson Altar, Clairvoyance, viene pubblicato in versione cd dalla Loneravn Records.

La band proviene da Portland ed è dedita ad un doom di concezione piuttosto antica, dai richiami occulti e psichedelici, caratterizzato dalla voce femminile e dall’uso del flauto, sempre da parte della stessa Alexis Kralicek.
Trattandosi di un esordio assoluto non è il caso d’essere troppo esigenti, per cui si può perdonare qualche imperfezione perché musicalmente il lavoro scorre via bene ed ha decisamente un suo fascino; quindi si può passare sopra al fatto che l’interpretazione vocale non sia sempre impeccabile, complice anche una produzione minimale che impedisce di dare una minima sistematina dove ce ne sarebbe stato bisogno: nel complesso la timbrica di Alexis è intrigante ma nei passaggi più rallentati emergono dei limiti che invece vengono superati allorché i ritmi accelerano.
Chiaramente tutto ciò intacca solo in parte l’esito di un ep che mostra diversi spunti notevoli, con il brano di apertura Soul Seer che si rivela piuttosto emblematico di come potrà svilupparsi il sound dei Crimson Altar nel momento in cui riusciranno a curare al meglio ogni dettaglio.
Buoni riff che denotano la devozione per il sound ottantiano, interessanti e auspicabilmente incrementabili interventi del flauto, che conferiscono al tutto un’aura particolare, ed una sincera attitudine per il genere, rendono Clairvoyance una prova interessante soprattutto in prospettiva, anche se al netto delle imperfezioni il lavoro si rivela fin d’ora meritevole di un ascolto.

Tracklist:
01. Soul Seer
02. Break Free
03. Dead Winter
04. Clairvoyance

Line up:
Rob Turman – Bass
Jesse Fernandez – Drums
Mat Madani – Guitars
Alexis Kralicek – Vocals, Flute

CRIMSON ALTAR – Facebook

Kroh – Altars

Altars è il secondo full length dei doomsters britannici Kroh, ottimi cultori del verbo sabbathiano portato ad un livello di misticismo occulto affascinante e ricco di sfumature oniriche.

Liturgie doom in arrivo dalle strade bagnate dall’umidità del Regno Unito, sabbatiche litanie, lenti e monolitici cammini pregni di musica del destino e metal d’annata, tradizionalmente fermo tra gli anni settanta e i primi passi nel decennio successivo.

I Kroh non sono una band al debutto, il primo album omonimo risale al 2011, poi seguito da una manciata di split e singoli, fino alla creazione di questo ultimo lavoro intitolato Altars, una lunga e sacrale litania doom metal, che una voce femminea rende ancora più sabbatica.
Un album che mette in ombra la pura tecnica e pulizia del suono, per un approccio da messa occulta, con l’atmosfera che ad ogni passaggio si fa sempre più intensa, come l’aria irrespirabile dal profumo d’incenso che la sacerdotessa Oliwia Sobieszek elargisce sull’altare dove rimangono i poveri resti umani di quello che una volta era un dio, votato al male e maledetto.
Altars rievoca antichi costumi e riti, celebrati ancora una volta intonando note doom metal con la chitarra satura di watt che crea riff mastodontici su tempi lenti e dilatati.
Mother Serpent, il mid tempo psichedelico Living Water, l’ipnotica Malady e la conclusiva, lentissima e rituale Precious Bones segnano il tempo trascorso imprigionati nell’incantesimo creato dal gruppo di Birmingham, ottimo cultori del verbo sabbathiano portato ad un livello di misticismo occulto affascinante e ricco di sfumature oniriche.

Tracklist
1.Krzyżu święty
2.Mother Serpent
3.Living Water
4.Feed the Brain
5.Malady
6.Break the Bread
7.Stone into Flesh
8.Cold
9.Precious Bones

Line-up
Oliwia Sobieszek – Vocals
Paul Kenney – Guitar
Paul Harrington – Guitar
Darren Donovan – Bass
Rychard Stanton – Drums

KROH – Facebook

Descrizione Breve

Three Eyes Left – The Cult Of Astaroth

Chitarre ribassate, basso che schiaccia per terra, mentre la batteria ci percuote i neuroni e la voce di un caprone che ci comanda: tutto ciò è pesante, bellissimo e sta in questo disco.

I Three Eyes Left sono un rumoroso ensemble bolognese attivo dal 2004, con la loro miscela di stoner, doom, fuzz e psichedelia pesante.

Dopo alcuni demo ed ep approdano su Go Down Records con due dischi che li mettono sulla cartina delle migliori band del genere. Grazie a queste due uscite suonano molto in giro con gruppi di grosso calibro, riuscendo sempre a farsi notare. Ascoltando The Cult Of Astaroth si intuisce presto il perché: il disco è un concentrato astrale di musica pesante in varie forme, da momenti doom alla Candlemass, allo stoner più marcio, passando per iniezioni di sludge in vena, il tutto fatto con grande equilibrio. Non ci si annoia mai, sia grazie a riff che vengono sparati nell’etere fino a pianeti molto lontani, e con il contributo della sezione ritmica si produce un connubio potente e ritualistico, anche perché l’intero disco parla di culti che per fortuna non si sposano molto bene con le religioni dominanti. The Cult Of Astaroth è un invito ad aprire la mente e a togliere il velo che abbiamo davanti a gli occhi, ascoltare musica pesante che ci può portare a captare la nostra vera essenza carnale. Uno dei pregi maggiori del gruppo bolognese è quello di comporre e suonare canzoni di lunga durata mai noiose, poiché dentro ad esse vi sono momenti, stili e generi diversi. Chitarre ribassate, basso che schiaccia per terra, mentre la batteria ci percuote i neuroni e la voce di un caprone che ci comanda: tutto ciò è pesante, bellissimo e sta in questo disco.

Tracklist
1. Sons of Aries
2. You Suffer… I, the Evil Dead
3. Spiritic Signals Through the Beyond
4. Chants into the Grave
5. The Satanist
6. Demon Cult
7. De Umbrarum Regni
8. Funeral of an Exorcist
9 … And Then God Will Die…

Line-up
Maic Evil – voice-guitar
Andrew Molten – bass
K. Luther Stern – drum

THREE EYES LEFT – Facebook

Grand Delusion – Supreme Machine

Supreme Machine è un lavoro sufficiente, nel quale non manca qualche difetto ma che nel suo insieme può sicuramente dire la sua, specialmente al cospetto degli amanti dei suoni doom/stoner e vintage

Da poco entrati nelle grazie della Minotauro, gli hard rockers svedesi Grand Delusion tornano con un nuovo lavoro intitolato Supreme Machine.

Hard rock stonerizzato e vintage è quello che ci propina il quartetto scandinavo, attivo dal 2011 e con alle spalle un ep di debutto seguito dal primo lavoro sulla lunga distanza uscito un paio di anni fa (The Last Ray of the Dying Sun).
La band di Umeå bada al sodo e spara sei cannonate heavy/doom/stoner metal senza risparmiarsi, con le chitarre che urlano riffoni metallici e le ritmiche che, senza mai affondare completamente negli abissi del doom, si fanno grosse di mid tempo heavy stoner.
Non mancano accenni alla psichedelia (Trail Of The Seven Scorpions) e quel tocco desertico tanto cool di questi tempi a mietere vittime tra gli amanti del genere.
La declamatoria Imperator si piazza sul gradino più alto del podio nelle preferenze del sottoscritto, mentre avrei lasciato l’onore di aprire l’album ad un brano più convincente che non la debole Just Revolution, ma sono dettagli, mentre a seguire l’atmosfera soffocante di Infinite ci pensa la conclusiva Ghost Of The Widow McCain, brano che attinge sia a Black Sabbath che ai Pink Floyd.
Supreme Machine è un lavoro sufficiente, nel quale non manca qualche difetto ma che nel suo insieme può sicuramente dire la sua, specialmente al cospetto degli amanti dei suoni doom/stoner e vintage, ai quali è rivolto l’invito ad ascoltare questi rockers svedesi e la loro musica.

Tracklist
1. Just Revolution
2. Mangrove Blues
3. Trail of the Seven Scorpions
4. Imperator
5. Infinite
6. Ghost of the Widow Mccain

Line-up
Mikael Olsson – Bass, Keyboards, Vocals (backing)
Magnus Rehnman – Drums
Per Clevfors – Guitars
Björn Wahlberg – Guitars, Vocals

GRAND DELUSION – Facebook

Celesterre – The Wild

Il sound dei Celesterre convince soprattutto nei momenti in cui il sound si fa più epico ed evocativo, un po’ meno negli altri frangenti: resta comunque apprezzabile l’approccio non convenzionale della band olandese, che ha il merito di provare a svincolarsi dagli schemi consolidati.

Primo full length per questa band olandese denominata Celesterre, che si cimenta con un heavy doom dai tratti epici uscendo parzialmente dagli schemi stilistici più cupi ed estremi ai quali ci hanno abituato la Naturmacht e la sua sub-label Rain Without End.

Il sound della band di Den Haag è abbastanza arioso, pur conservando la cadenza tipica del classic doom, complice anche un’interpretazione sentita e stentorea del cantante/chitarrista/bassista Wouter Klinkenberg e di una serie non così scontata di assoli dallo splendido impatto melodico.
The Wild è un album strano, nel senso che il più delle volte sembra intraprendere strade imprevedibili per poi riportarsi in un alveo più tradizionale, lasciando però sempre la sensazione che queste divagazioni siano funzionali nel rendere più efficace il cammino all’interno dei sentieri sicuri e conosciuti.
Complessivamente il lavoro gode di una prima parte davvero brillante, grazie ad un pugno di brani intensi, melodici e venati di un’epicità che costituisce un deciso valore aggiunto: in Burst Into Life e Ramfight At Sundown, soprattutto, tali schemi compositivi vengono eseguiti in maniera brillante, mentre la più pacata ed acustica Endure The Cold è una piacevole oasi prima che l’istrionica (e forse un po’ fuori contesto) title track inauguri una fase del lavoro meno ispirata, pur mantenendosi su livelli più che accettabili, fino alla conclusiva e nuovamente efficace A Celebration Of Decay.
Di collocazione non semplice ma sicuramente dotato di una sua impronta personale, il sound dei Celesterre convince soprattutto nei momenti in cui il sound si fa più epico ed evocativo, un po’ meno negli altri frangenti: resta comunque apprezzabile l’approccio non convenzionale della band olandese, che ha il merito di provare a svincolarsi dagli schemi consolidati dimostrando una vis compositiva foriera di sviluppi interessanti nel presente e, ancor più, in futuro.

Tracklist:
1. Burst Into Life
2. Instinct
3. Ramfight At Sundown
4. Endure The Cold
5. The Wild
6. Hunger
7. The Pecking Order
8. A Celebration Of Decay

Line up:
Tim Zuidema – Drums
M. – Vocals (female)
Wouter Klinkenberg – Vocals, Guitars, Bass
Floris Kerkhoff – Guitars

CELESTERRE – Facebook

The Father Of Serpents – Age Of Damnation

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i The Father Of Serpents riescono senza dubbio nella non facile impresa e, laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta, si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.

Gothic death doom di buona fattura è quello che ci arriva da Belgrado grazie ai The Father Of Serpents.

Cercando di mettere contemporaneamente sul piatto gli influssi provenienti soprattutto da giganti del genere come Moonspell, My Dying Bride e Paradise Lost, i nostri riescono senza dubbio nella non facile impresa e laddove viene sacrificata in parte la freschezza della proposta si riceve in cambio un’interpretazione pulita e ricca di buoni spunti melodici.
In effetti, l’unica critica attribuibile alla band serba è proprio quella di sembrare ogni tanto una congrega di bravissimi assemblatori delle intuizioni altrui, sensazione che prende piede, per esempio, fin dal secondo brano The Flesh Altar, con il suo riff portante simile a quello di Lesbian Show dei Nightfall, e che si protrae sino al termine, con l’appassionato più esperto che si diletterà nel rinvenire passaggi che rievocano, in maniera comunque mai troppo marcata, il meglio offerto dal genere negli ultimi vent’anni.
Detto ciò, veniamo ai lati positivi, che poi sono nettamente prevalenti su qualsiasi altra considerazione: i The Father Of Serpents, con Age Of Damnation mettono assieme un’opera dal notevole spessore qualitativo, con una decina di brani caratterizzati da un invidiabile equilibrio tra ruvidezza e melodia, esprimendo un gothic doom spesso elegante nel quale l’utilizzo appropriato del violino (ad opera di Pavle Sovilj, che si occupa anche delle clean vocals) conferisce in più di un frangente un decisivo tocco malinconico.
Il sestetto slavo fornisce una prova priva di sbavature, i suoni sono ottimi così come gli arrangiamenti, l’uso della doppia voce risulta inattaccabile (l’ottimo growl è opera di Tamerlan, il quale però ha da poco abbandonato la band) e si fatica davvero a trovare un brano che non sia all’altezza della situazione, con menzione d’obbligo per la notevole Tainted Blood e non solo per la citazione dantesca (“lasciate ogni speranza voi che entrate”, declamata con una dizione invero rivedibile).
Questo quadro complessivo ci suggerisce che Age Of Damnation è un album rimarchevole, prodotto da una band dal sicuro potenziale che deve fare, però, solo un piccolo sforzo per imprimere un marchio personale alla propria musica, pena la permanenza nel confortevole limbo delle realtà di buon livello ma nulla più.

Tracklist:
1. The Walls of No Salvation
2. The Flesh Altar
3. Tale of Prophet
4. The Grave for Universe
5. Tainted Blood
6. The Afterlife Symphony
7. The Quiet Ones
8. The God Will Weep for You
9. The Last Encore
10. Viral

Line-up:
Tamerlan – Vocals (growls/screams/narrations)
Pavle Sovilj – Vocals (clean) & Violin
Igor Lončar – Guitars
Željko Zec – Guitars
Milan Šuput – Bass
Aleksandar Maksimović – Drums

THE FATHER OF SERPENTS – Facebook

Mesmur – S

S è un’opera magnifica, che si propone come la migliore per distacco del 2017 in ambito funeral.

Attendevo da tempo un nome nuovo che andasse ad arricchire con la propria presenza la scena funeral doom, stante il prolungato fermo negli ultimi anni di gran parte delle band storiche.

I Mesmur giungono a colmare questo momentaneo vuoto con un’opera monumentale come S, non solo confermando quanto di buono avevano già fatto con l’omonimo album d’esordio ma addirittura perfezionando e focalizzando al meglio le caratteristiche del genere.
Il questo d’ora di Singularity profuma già di capolavoro, con il funeral che ascende alle vette sulle quali stanno assise band come Esoteric, Evoken, Ea, Mournful Congregation, Monolithe e Worship, dalle quali i Mesmur attingono il meglio per tessere il loro dolente disegno musicale.
Il fondatore e compositore principale della band, lo statunitense Jeremy Lewis, con il suo lavoro alla chitarra e alle tastiere delinea un incedere sofferto ma carico di emotività, almeno nella traccia d’apertura e nell’altrettanto lunga e successiva Exile: qui la sei corde produce un lamento lancinante prima che il growl dell’australiano Chris G, vocalist anche degli ottimi Orphans Of Dusk, prenda il sopravvento scaraventando il sound in un abisso di oscurità.
Il gruppo è completato da una coppia ritmica decisamente incisiva ed altrettanto dinamica (se rapportata al genere, ovviamente) formata dal batterista John Devos (assieme a Lewis nei blacksters DallaNebbia) e dal bassista italiano Michele Mura (ex Lightless Moor): un’internazionalità che conferma per i Mesmur lo status di progetto (almeno per ora) esclusivamente da studio (del resto anche nel precedente album il basso era affidato ad un musicista residente nel vecchio continente, nella persona del norvegese Aslak Karlsen Hauglid).
Distension, terza traccia che viaggia sempre sul quarto d’ora abbondante di durata, mostra maggiori dissonanze e, se possibile, si trascina in maniera ancor più sofferta rispetto ai precedenti brani, ritrovando uno struggente barlume melodico nella sua part finale.
S = k ln Ω chiude questo splendido lavoro con sei minuti strumentali in cui l’ambient drone iniziale si stempera in note intrise di una malinconia cosmica, tratto preponderante di un’opera magnifica che si propone come la migliore per distacco del 2017 in ambito funeral, salvo auspicabili smentite in questi ultimi mesi.

Tracklist:
1. Singularity
2. Exile
3. Distension
4. S = k ln Ω

Line up:
Jeremy Lewis – Guitars/Synth
John Devos – Drums
Michele Mura – Bass
Chris G – Vocals

MESMUR – Facebook

Usnea – Portals into Futility

Magnifico disco degli statunitensi che raggiungono il loro apice creativo: funeral, sludge e death fusi in modo magistrale.

A tre anni da un ottimo lavoro come Random Cosmic Violence la band statunitense di Portland si ripresenta con una magnifica opera, sempre su Relapse Records.

La band raggiunge, forse, il suo apice creativo, mantenendo il proprio trademark improntato su un suono dove si mescolano funeral-doom, death, sludge e aromi black: gli Usnea non sono i primi a cimentarvisi, ma  lo fanno con grande passione e importante conoscenza della materia; il songwriting è di alto livello e la capacità della band di creare suggestive atmosfere e melodie sempre su una base molto heavy, li fanno primeggiare. I cinque brani, tutti di lungo minutaggio, com’è giusto per il genere proposto, non sono particolarmente complessi ma sono ricchi di idee compositive sempre adeguate e la band si permette di suggerire la lettura di alcune opere distopiche e sci-fi, per meglio metabolizzare la struttura dei brani: ad esempio il brano Demon haunted world, disperato, cupo e opprimente è legato strettamente all’ omonimo libro di Carl Sagan del 1996. Altri scrittori noti e importanti come Frank Herbert (Dune) e Philip Dick (Valis) rappresentano suggestioni importanti per addentrarsi in cangianti brani come Pyrrhic Victory e A crown of desolation: nel primo la pesantezza del suono, l’alternarsi di vocals in scream e growl e l’atmosfera disperata si sfalda lentamente, nella parte centrale, in note cosmiche dove oscure dimensioni creano incubi in cui si smarrisce la memoria di sé. Nel brano finale A crown of desolation, mostro di abbondanti sedici minuti, si sublima la profondità emotiva della band, la devastante disperazione prende il sopravvento e un “io” travolto da minacce arcane perde completamente la speranza di ritrovare fragili equilibri; le vocals urlate, sgraziate accompagnate da un oscuro coro delineano scenari in cui la mente si spegne ed esplode come un nero cristallo impazzito.
Veramente un lavoro magnifico da assaporare lentamente, nota per nota, lasciandosi coinvolgere dalla notevole arte degli Usnea.

Tracklist
1. Eidolons and the Increate
2. Lathe of Heaven
3. Demon Haunted World
4. Pyrrhic Victory
5. A Crown of Desolation

Line-up
Joel Williams Bass, Vocals
Zeke Rogers Drums
Johnny Lovingood Guitars
Justin Cory Guitars, Vocals, Piano

USNEA – Facebook

Nephilim’s Howl – Through The Marrow Of Human Suffering

I Nephilim’s Howl risultano credibili nel proporre ognuna delle diverse sfumature stilistiche immesse nell’album, dimostrando una buona varietà compositiva e nel contempo chiarezza di intenti su come sviluppare la propria idea di black doom.

Dal sempre ricco scrigno della I,Voidhanger ecco sbucare una nuova gemma intitolata Through The Marrow Of Human Suffering, opera prima dei finlandesi Nephilm’s Howl.

Il trio presenta un black doom che, se assimila per forza di cose le linee guida basilari fornite dai seminali Bathory, si sposta maggiormente verso un’interpretazione più aspra e nel contempo evocativa in stile Primordial. La splendida seconda traccia, Of Ordeals And Triumph, è abbastanza emblematica in tal senso, andando a lambire in maniera convinta le sonorità tipiche della band irlandese.
Questo accostamento serve sostanzialmente ad inquadrare il sound offerto dai Nephilim’s Howl, perché poi ogni entità dotata di un minimo di personalità fa storia a sé, immettendo nel proprio sound elementi di discontinuità rispetto ai propri modelli: i nostri, infatti, prendendo la mossa dalle basi citate, si muovono obliquamente tra pulsioni post metal (Hate Revelations) o sludge (Against The Worlds That Bind Us), per poi far confluire il tutto in una traccia più complessa ma dannatamente intrigante come la conclusiva Through The Marrow Of Human Suffering I, II & III.
L’album si snoda inizialmente esibendo il proprio lato più intenso ed epico per poi progressivamente incupirsi fino, appunto, ad un finale dagli accenni talvolta claustrofobici: il bello è che i Nephilim’s Howl risultano credibili nell’esibizione di ognuna di queste sfumature, dimostrando una buona varietà compositiva e nel contempo chiarezza di intenti su come sviluppare la propria idea di black doom.
L’interpretazione vocale di Reavhan è efficace in ogni sua veste mentre VJR tesse con sapienza tutte le trame strumentali ben coadiuvato dal lavoro percussivo di AEK, e tutto questo rende Through The Marrow Of Human Suffering un album ineccepibile sotto ogni aspetto, capace di offrire peraltro spunti stilistici molto meno inflazionati di altri: direi che gli elementi per tenere nella dovuta considerazione questo debutto dei Nephilim’s Howl ci sono davvero tutti.

Tracklist:
1. Void Reflections I – Remembrance
2. Of Ordeals And Triumph
3. Hate Revelations
4. Against The Worlds That Bind Us
5. Through The Marrow Of Human Suffering I, II & III

Line-up:
Reavhan – Vocals
AEK – Drums & percussions
VJR – Guitars, bass & synth

NEPHILIM’S HOWL – Facebook

I, Forlorn – My Kingdom Eclipsed

Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.

Il primo full length del progetto solista denominato I, Forlorn, dietro al quale troviamo il musicista olandese Jurre Timmer, si propone come uno dei debutti su lunga distanza più riusciti in ambito death doom melodico negli ultimi tempi.

My Kingdom Eclipsed è un album nel quale viene sviluppato al meglio il potenziale atmosferico ed evocativo del genere, e ciò avviene attraverso un’interpretazione magistrale sia a livello vocale che strumentale, in aggiunta a doti compositive di primo livello.
Timmer, che in quest’occasione si firma con il nickname I, non è uno sconosciuto nell’ambiente, in quanto attivo già da qualche anno con un altro progetto solista denominato Algos, mentre dalle nostri parti ha collaborato in veste di vocalist alla riuscita del primo album de Il Vuoto, ma non c’è dubbio che quanto fatto con il monicker I, Forlorn lo ponga ancor di più all’attenzione generale.
Il death doom offerto in My Kingdom Eclipsed, pur con qualche sconfinamento nel funeral, è focalizzato al 100% al richiamo di impulsi emotivi ammantati di malinconia ma non di drammaticità o disperazione, il tutto grazie ad un sempre solido impianto esecutivo che demanda soprattutto alla chitarra solista il compito di delineare le migliori melodie.
Chiaramente I, Forlorn non apre un nuovo fronte nel genere ma raccoglie il meglio delle istanze già espresse in passato da Saturnus, Officium Triste, Doom Vs. e When Nothing Remains, mettendo sul piatto un’ora abbondante di musica dolente e coinvolgente che trova il suo picco, come è giusto che sia, nella title track, un monumento di depressiva bellezza che si sublima in un finale davvero toccante.
My Kingdom Eclipsed è un album inattaccabile per qualità e potenziale evocativo, composto da una musicista come Jurre Timmer dotato di quella innata sensibilità che è poi la dote in comune con la fascia di ascoltatori ai quali la sua opera è rivolta.

Tracklist:
1. Behind the Sun
2. House of Glass
3. My Kingdom Eclipsed
4. Hysteria
5. Spiral’s End
6. Through Her Eyes
7. The Fragile Beast
8. Embers

Line up:
I – All instruments, Vocals

I, FORLORN – Facebook