Fuoco Fatuo – Backwater

Un meraviglioso, oscuro opus di grande arte funeral senza eguali in Italia: una grande crescita artistica di questa band che ha prodotto uno dei migliori dischi del 2017.

Impenetrabile dai raggi del sole, ma proiettato costantemente verso il nero vuoto cosmico, verso le nostre più ataviche angosce e paure!

I Fuoco Fatuo, band varesina attiva dal 2012, stupiscono con una seconda opera di funeral doom di altissimo livello; nel roster della famosa etichetta canadese Profound Lore, dopo essersi fatti scoprire nel 2014 con The Viper Slithers in the Ashes of What Remains, più ancorato su lidi death/doom, con l’attuale opera Backwater esprimono veramente un colossale suono funeral, opprimente, angosciante che prende alla gola e non ti fa respirare dall’inizio alla fine dei suoi 62 minuti.
Non vi è una sola nota, nei quattro lunghissimi brani, che non crei un’atmosfera ammorbante, come un magma lavico denso, viscoso che ricopre ogni cosa, che si muove lentamente e ti soffoca; forse l’ unica possibilità di fuga è verso il vuoto cosmico, dove però le nostre paure non sono affatto lenite ma saranno ulteriormente accresciute: brani con titoli suggestivi come la meravigliosa Sulphureous Hazes, in cui la componente death, rimane legata solo alla parte vocale, mentre il suono può in parte ricordare i finnici Tyranny o gli Swallowed di Lunarterial, con in aggiunta una componente lisergica e visionaria molto particolare.
La misteriosa cover virata su colori nero e viola, la masterizzazione del suono da parte di un grande musicista come James Plotkin (Scorn, Khanate solo per nominare alcune collaborazioni) arricchiscono un’opera che non ha, al momento, molti eguali nel nostro territorio; come ha detto un amico, bisogna lasciarsi intercettare dalla buona musica e in questo caso, una volta entrati nell’inferno, non va opposta resistenza e si deve imparare a convivere con le nostre paure.
Dall’ascolto di quest’opera si esce lacerati nel profondo dell’anima: brani come Perpetual Apochaos e Nemesis, nel loro mastodontico svolgersi, non possono lasciare indifferenti chi si nutre di funeral doom. Non per molti, ma forse neanche per pochi … tra i migliori dischi del 2017.

TRACKLIST
1. Sulphureous Hazes
2. Rainfalls of Debris
3. Perpetual Apochaos
4. Nemesis

LINE-UP
G. Guitars, Bass
M. Vocals, Guitars
F. Drums

FUOCO FATUO – Facebook

Soijl – As The Sun Sets On Life

As The Sun Sets On Life si sviluppa per poco più di un’ora, offrendo un death doom nel quale vengono rielaborati nel migliore dei modi gli influssi delle principali scuole, restituendoli impeccabilmente con personalità e brillantezza.

Il ritorno dopo due anni dei Soijl, band fondata dall’ex chitarrista dei Saturnus Mattias Svensson, non può che costituire una buona notizia per tutti gli amanti del death doom melodico.

Così come scritto all’epoca, in relazione all’album d’esordio Endless Elysian Fields, chi è stato parte in causa nella realizzazione di un capolavoro come Saturn In Ascension non può certamente ignorarne o ripudiarne i contenuti, per cui quella dei Soijl è un’interpretazione del genere che si avvicina per modalità a quella dei maestri danesi, pur senza aderirvi pedissequamente.
Infatti, il sound che il chitarrista svedese continua ad offrire è, in qualche modo, meno immediato rispetto a quello dei Saturnus, in virtù di un incedere a tratti più arcigno e che, comunque, non fa venire meno anche certe influenze provenienti dalla scena d’oltreoceano.
Proprio per questo As The Sun Sets On Life è un album che lascia qualche dubbio nel corso dei primi due-tre ascolti, per poi mostrare finalmente le sue vere sembianze, quelle di ottimo esempio di musica dolente ed emozionante. Rispetto al precedente full length Svensson non si è occupato di tutti gli strumenti, affidando la batteria al giovane Malphas e confermando, invece, alla voce l’ottimo Henrik Kindvall: in buona sostanza poco cambia, sia nelle caratteristiche di un sound che possiede coordinate chiare ed inequivocabili, sia nella qualità con la quale queste vengono seguite.
As The Sun Sets On Life si sviluppa per poco più di un’ora, offrendo un death doom nel quale vengono rielaborati nel migliore dei modi gli influssi delle principali scuole, restituendoli impeccabilmente con personalità e brillantezza, con una menzione speciale per la terna Weapon Of Primordial Chaos, Salvation, Deception e Spiritual Asphyxiation, brani che uno dopo l’altro dimostrano senza lasciare dubbi la bontà del lavoro compositivo di Svensson.
Forse non si rinviene un progresso netto rispetto al precedente lavoro, anche perché la base di partenza era già comunque consistente, ma siamo senz’altro in presenza di una prova notevole, in grado di riaffermare una posizione di rilievo dei Soijl nella scala dei valori della scena, e non è poco.

Tracklist:
1. Death Do Us Part
2. Weapon Of Primordial Chaos
3. Salvation, Deception
4. Spiritual Asphyxiation
5. On Antediluvian Shores
6. Alive In A Sea Of Dying Flowers
7. The Abyss, My Tomb

Line-up:
Henrik Kindvall – Vocals & lyrics
Mattias Svensson – Guitars, bass, keyboards & music
Johan Mathisson – Drums

SOIJL – Facebook

Bretus – … From The Twilight Zone

I Bretus con questo disco si confermano un ottimo gruppo doom che non sbaglia un disco.

Ritornano i calabresi Bretus, una delle migliori band italiane in ambito doom.

La loro proposta musicale è un doom classico, cantato con timbro chiaro e possente, e poche distorsioni strumentali, seguendo la lezione di St.Vitus e Pentagram.
Per fare questo genere minimale e renderlo interessante devi avere delle specifiche caratteristiche che non sono alla portata di tutti. I Bretus tengono incollato l’ascoltatore alla poltrona dall’inizio alla fine, non lasciando mai scendere la tensione, come nelle storie horror che loro adorano. Ispirati nella loro opera dal sommo vate di Providence, per questo nuovo disco esplorano i territori di …From The Twilight Zone, una serie televisiva americana del 1959 che esplorava in maniera incredibile la fantascienza e l’orrore, tenendosi sempre vicina alla sottile linea che divide il nostro mondo da altri mondi e multiversi. Il doom dei Bretus in questo disco si addolcisce leggermente e va a bagnare gli strumenti nei fiumi ottantiani del doom americano ed inglese, trovando una formula vincente, perché ogni canzone è interessante e godibile. Il disco è oscuro ma non è una tenebra fine a se stessa, bensì è una luce diversa per capire la realtà in un’altra maniera, o per cominciare a scorgere le altre che ci circondano. Ascoltare dischi come …From The Twilight Zone smuove qualcosa nel cuore di chi ama il doom e più in generale la musica oscura ma fatta bene. In alcuni momenti ritornano all’orecchio reminiscenze dei grandi del doom, come i Candlemass ad esempio, ma ascoltando il disco si comprende la via personale adottata dai Bretus, un modo originale di fare doom. Il disco può anche essere goduto come un film, poiché c’è un filo conduttore nella narrazione. I Bretus con questo disco si confermano un ottimo gruppo doom che non sbaglia un disco.

TRACKLIST
01. Terror behind the mirror
02. In the vault
03. Old dark house
04. Danza Macabra
05. The murder
06. The creeping flash
07. Lizard woman

LINE-UP
Ghenes – High/Low Guitars and Fx
Zagarus – Vox and Harmonica
Azog – Bass
Striges – Drum

BRETUS – Facebook

Martyrdoom – Grievous Psychosis

Per i Martyrdoom un gran bell’esordio, di quelli che magari non cambieranno la vita ma la miglioreranno senz’altro a chi si nutre di tali sonorità.

Dopo qualche anno di rodaggio contrassegnato da uscite dal minutaggio ridotto, i polacchi Martyrdoom giungono al full length d’esordio con il quale ci riportano bruscamente nell’ultimo decennio del secolo scorso, a colpi di feroce e malsano death doom.

Non siamo, quindi, dalle parti del versante più melodico e melanconico del genere, bensì su quello decisamente sbilanciato verso la prima delle due componenti, andando ad attingere principalmente, a livello di ispirazione, alle band autrici appunto di un death morboso e spesso rallentato.
Pertanto, più che alla vecchia Europa i ragazzi di Varsavia volgono il loro sguardo oltreoceano, focalizzandolo su capisaldi del genere quali Obituary, Incantation ed Immolation, tutti gruppi che cominciavano ad incidere pesantemente sulla scena quando i nostri, nella migliore delle ipotesi, erano ancora innocui bimbetti in età scolare.
Questa riscoperta dei suoni cosiddetti old school non deve apparire necessariamente uno stratagemma per sfuggire alla mancanza di spunti innovativi, e i Martyrdoom in tal senso dimostrano ampiamente che è possibile rileggere il passato facendolo in maniera ugualmente personale.
Per fare questo è necessario immettere nella propria musica una dose massiccia di convinzione e devozione alla causa, esattamente ciò che avviene in questo corrosivo ed oscuro Grievous Psychosis: la voce aspra, in stile John Tardy, di Sociak conduce nei meandri putridi di un sottobosco estremo che continua a lanciare segnali importanti che non possono esser ignorati.
Leggendo di titoli come Lucifer Rise, Oldshool Death, Corpsefuck e Bloody Incarnations non è difficile intuire dove si andrà a parare, ma che siano accelerazioni sempre abbastanza controllate o rallentamenti che lasciano spazio a qualche pregevole passaggio chitarristico, il bello di un album come questo è che non stanca e non annoia mai, anche se la varietà stilistica non può essere annoverata certo tra i suoi punti di forza.
Chi se ne importa, però, quanto tutto è suonato con l’onestà e la competenza di questo quintetto polacco che, in meno di quaranta minuti, completa la sua notevole opera regalando un brano dai tratti parzialmente diversi come Corpsefuck, più doom oriented rispetto al resto della tracklist, tanto per ricordare che la ragione sociale non è affatto campata per aria, nonostante una chiusura ritmicamente furiosa.
Per i Martyrdoom un gran bell’esordio, di quelli che magari non cambieranno la vita ma la miglioreranno senz’altro a chi si nutre di tali sonorità.

Tracklist:
1. Betrayed Trust
2. Bloody Incarnations
3. Oldschool Death
4. Lucifer Rise
5. Drowned in Void
6. Face Without a Person
7. Psychosis
8. Corpsefuck

Line-up:
Sociak – Vocals
Marol – Guitar
Młynar – Guitar/Vocals
Artur – Bass
Wasyl – Drums

MARTYRDOOM – Facebook

Red Moon Architect – Return of the Black Butterflies

Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte dei Red Moon Archiect, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del funeral death doom melodico.

Se può essere inutile rimarcare come la Finlandia sia, per distacco, la patria delle sonorità più oscure e melanconiche, non lo è affatto continuare ad esaltare la qualità che le diverse band provenienti dalla terra dei mille laghi, alle prese con la materia funeral death doom, offrono ad ogni uscita.

In questo caso il lavoro preso in esame è il terzo dei Red Moon Architect, nati nel 2011 come progetto solista del talentuoso Saku Moilanen e poi trasformatisi nel tempo in una band a tutti gli effetti: Concealed Silence (2012), infatti, vedeva accreditato il solo musicista di Koivolua con l’ausilio di diversi ospiti, tra i quali la sola vocalist Anni Viljanen è rimasta a costituire il tratto d’unione tra quel lavoro e quelli successivi della band, ovviamente assieme al suo mastermind.
Se Fail, uscito nel 2015, consolidava il valore e lo status dei Red Moon Architect, questo nuovo Return of the Black Butterflies ha tutte le carte i regola per innalzare ulteriormente il livello della band finlandese e portarla a riempire un certo vuoto lasciato dai Draconian, dopo la svolta verso sonorità più morbide attuata da questi ultimi nell’ultimo decennio.
Certo, rispetto alla band svedese i nostri si spingono con più frequenza verso lidi prossimi al funeral, ma il connubio tra la voce femminile della Viljanen ed il growl del nuovo arrivato Ville Rutanen riporta automaticamente in quell’ambito, avendo in comune lo stesso senso drammatico ed evocativo che contraddistingueva le prime opere della creatura di Johan Ericsson.
Saku Moilanen si conferma compositore di grande spessore, offrendo una cinquantina di minuti di sonorità plumbee ma intrise di melodie dolenti che, come da copione, assumono sembianze drammatiche in coincidenza con il growl per poi aprirsi malinconicamente con l’entrata in scena della voce femminile.
Questo fa capire che non c’è da aspettarsi proprio nulla di nuovo ma, paradossalmente, tale aspetto si rivela la pietra angolare sul quale i Red Moon Architect erigono il loro magnifico monumento al dolore che, comunque, non assume mai un aspetto monocorde perché, pur tra gli scostamenti ridotti consentiti dal genere, il funeral opprimente esibito in maniera magistrale in End of Days è, per esempio, ben diverso sia dal gothic di Tormented sia dall’atmospheric doom di NDE.
Return of the Black Butterflies segna un’altra prova magistrale da parte della band finlandese, oggi più che main a pieno titolo nel novero delle migliori realtà del genere.

Tracklist:
1. The Haunt
2. Tormented
3. Return of the Black Butterflies
4. Journey
5. End of Days
6. NDE

Line up:
Saku Moilanen – Schlagzeug & Keyboard
Ville Rutanen – Gesang
Matias Moilanen – Gitarre
Anni Viljanen – Gesang
Jukka Jauhiainen – Bass

RED MOON ARCHITECT – Facebook

Desolate Pathway – Of Gods and Heroes

Chi ama il genere non resterà affatto deluso, mentre chi volesse ricercare elementi di novità passi pure oltre: questo è “solo” buonissimo doom, suonato come le divinità marine comandano …‬

In occasione della sua riedizione nel corso dell’estate, dopo la firma con Wormholedeath, riproponiamo quanto scritto nello scorso dicembre a proposito di Of Gods and Heroes.

I Desolate Pathway vengono fondati da Vince Hempstead più o meno contestualmente alla sua uscita dai Pagan Altar, avvenuta nel 2014.
Rispetto alla band che fu del defunto Terry Jones, i Desolate Pathway spostano le coordinate del loro doom su un versante più epico non solo a livello compositivo ma anche lirico, cosa che ben si evince sia dalla notevole copertina sia dal titolo eloquente scelto per il lavoro (Of Gods and Heroes), proseguendo la strada intrapresa fin dal precedente Valley Of The Kings, risalente a due anni fa.
Quando viene maneggiata da musicisti esperti e competenti, la materia in questione ben difficilmente delude, e ciò vale anche per Hempstead, il quale, accompagnato dalla batterista Mags e da un quartetto di ospiti ad occuparsi delle parti di basso, offre tre quarti d’ora di doom fedele alla tradizione ma sicuramente godibilissimo.
Of Gods and Heroes si snoda secondo copione tra vocals stentoree e sufficientemente evocative ed un lavoro chitarristico apprezzabile per la sua spontaneità: volendo trovargli una collocazione meglio definita, il sound dei Desolate Pathway potrebbe essere inquadrabile a meta strada tra Doomsword e Capilla Ardiente, risultando sempre coinvolgente pur nella sua essenzialità.
Chi ama il genere non resterà affatto deluso, mentre chi volesse ricercare elementi di novità passi pure oltre: questo è “solo” buonissimo doom, suonato come le divinità marine comandano …‬

Tracklist:
1. Intro
2. The Old Ferryman
3. The Perilous Sea
4. Medusa’s Lair
5. Into the Realms of Poseidon
6. Enchanted Voices
7. Gods of the Deep
8. The Winged Divinity
9. Trojan War

Line-up:
Vince Hempstead – Vocals, Guitar
Mags – Drums, Backing Vocals

Guest Bassists:
Jonathan Seale (Iron Void)
Addam Westlake (My Silent Wake)
Santiago Osnaghi (Nippur)
Ron McGinnis (Thonian Horde)

DESOLATE PATHWAY – Facebook

My Silent Wake – Damnatio Memoriae

Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.

Non essendoci stata l’occasione di parlare di Damnatio Memoriae, ottavo album in studio degli inglesi My Silent Wake, all’epoca della sua uscita nel 2015, ne approfittiamo per farlo brevemente grazie alla riedizione in vinile appena licenziata dalla Minotauro Records.

La band fondata da Ian Arkley nel 2005 è una tra le più prolifiche in assoluto tra quelle dedite al death doom, genere dal quale hanno anche derogato più volte, andando ad esplorare lidi acustici o ambient, così come è avvenuto, del resto, nella loro recente release Invitation To Imperfection.
Damnatio Memoriae resta, quindi, in ordine temporale, l’ultima testimonianza del genere principalmente trattato con buoni risultati dai My Silent Wake; rispetto ai lavori del passato, l’album esibisce partiture più robuste e diversi brani nei quali, specie nella parte iniziale, il sound appare decisamente pesante e meno votato alla ricerca di melodie malinconiche e dolenti: quando ciò avviene, ne scaturisce una traccia magnifica come And So It Comes To An End, ma non è che le cose vadano male neppure allorché la spinta propulsiva pare giungere dai primi Paradise Lost e Anathema (con The Innocent a lambire gli suoni che furono di The Silent Enigma).
Ottima anche la lunga The Empty Unknown, che mostra coordinate più canonicamente doom, mentre si vira nuovamente su un gothic piuttosto andante con Chaos Enfolds Me, traccia che chiudeva la prima stesura del disco e che, invece, nella nuova, è seguita dalla riproposizione di And So It Comes To An End, Now It Destroys e Of Fury arricchite dalle tastiere di Simon Bibby: i brani in questione non cambiano volto più di tanto ma, specialmente gli ultimi due, vengono gradevolmente ammorbiditi in questa versione.
Una riedizione utile e curata di Damnatio Memoriae, album che con la sua uscita ha sicuramente consolidato lo status acquisito dai My Silent Wake in virtù di una carriera lunga, produttiva e, a tratti, piacevolmente imprevedibile.

Tracklist:
1. Of Fury
2. Highwire
3. Now it Destroys
4. Black Oil
5. And so it Comes to an End
6. The Innocent
7. The Empty Unknown
8. Chaos Enfolds Me
Bonus tracks on 2017 release:
9. And so it Comes to an End (with keys)
10. Of Fury (with keys)
11. Now it Destroys (with keys)

Line up:
Ian Arkley – vocals and guitar
Addam Westlake – bass
Gareth Arlett – drums
Mike Hitchen – live rhythm guitar

Guests:
Simon Bibby – keys
Greg Chandler – additional keys, vocals
Martin Bowes – synth

MY SILENT WAKE – Facebook

Obscura Amentia – The Art Of The Human Decadence

Gli Obscura Amentia riescono con la loro musica a trasmettere compiutamente un senso di inquietudine che prende forma man mano che si procede con gli ascolti, e questo più di altri è un indicatore affidabile della profondità compositiva che pervade The Art Of The Human Decadence.

A cinque anni da Ritual ritornano gli Obscura Amentia, duo italiano che all’epoca avevamo lasciato alle prese con una buona interpretazione di un black metal di matrice svedese.

In questo lasso di tempo le cose sono decisamente cambiate, e sicuramente in meglio, anche per quanto riguarda la maggiore peculiarità del sound proposto: oggi, infatti, gli Obscura Amentia sono una solida realtà dedita ad un doom ovviamente intriso di una massiccia componente black.
Gli stessi aspetti che non mi avevano convinto al 100% nel precedente lavoro hanno visto senz’altro un importante progresso: l’abrasivo screaming di Hel appare del tutto appropriato allo stile proposto e anche la produzione favorisce un maggiore equilibrio tra voce e strumenti.
Il lavoro di Black Charm con chitarra, basso e tastiere è lo specchio di un notevole sforzo compositivo, atto a rendere evocativo e malinconico il sound senza fargli perdere le sue ruvide connotazioni estreme. Volendo fare per forza un paragone, utile ad inquadrare meglio i contenuti di The Art Of The Human Decadence, si può azzardare a livello di umori una certa vicinanza all’ormai datato ultimo album dei Valkiria, anche per un lavoro chitarristico similmente volto alla ricerca di melodie di grande impatto ma con il tutto, come detto, maggiormente inserito all’interno di ritmiche dal passo più spedito.
Di quest’album non si può non apprezzare l’intensità che traspare da ogni singola nota e difficilmente chi predilige i due generi che ne costituiscono l’impalcatura potrà restare indifferente.
The Art Of The Human Decadence non è certo opera per puristi, capaci di godere solo della perfezione formale senza neppure provare a grattare una superficie la cui rugosità preserva, ad un ascolto distratto, una profondità non comune. Oltretutto il lavoro si snoda in costante crescendo, trovando i momenti più alti nella sua seconda metà a fronte di una prima che gli è comunque di poco inferiore: infatti, se Ocean, Entropy, la title track e Agony sono brani che già da soli riescono a comunicare quale sia il valore dell’album, dopo l’intermezzo strumentale Broken si susseguono tracce dal magnifico impatto melodico e drammatico allo stesso tempo, inaugurate da una eccellente Apathy, che lascia poi spazio allo struggente incedere della magnifica Sentenced e all’impatto apocalittico di King, episodio che, prima dello strumentale di chiusura Ananke, ben rappresenta gli umori di un lavoro che verte liricamente sulla decadenza inarrestabile di un’umanità impegnata in un’ottusa quanto inarrestabile corsa verso l’autodistruzione.
Gli Obscura Amentia riescono con la loro musica a trasmettere compiutamente un senso di inquietudine che prende forma man mano che si procede con gli ascolti, e questo più di altri è un indicatore affidabile della profondità compositiva che pervade The Art Of The Human Decadence.

Tracklist:
01. Ocean
02. Entropy
03. The Art Of The Human Decadence
04. Agony
05. Broken
06. Apathy
07. Sentenced
08. King
09. Ananke

Line up:
Hel – Vocals
Black Charm – All and drum programming

OBSCURA AMENTIA – Facebook

Hexer – Cosmic Doom Ritual

Titolo immaginifico per un’opera estremamente atmosferica che proietta verso l’ignoto.

La fertile scena tedesca genera un’ altra piccola gemma di arte nera: gli Hexer, band di Dortmund di recente nascita (2014), dopo un EP (Holodeck Sessions) del 2015, esplode letteralmente con il full Cosmic Doom Ritual, dal suggestivo e grandioso titolo in cui esplora la propria idea della materia doom ammantandola di visioni psichedeliche, stoner e creando un’atmosfera insana, surreale, proiettata in uno vuoto cosmico sempre affascinante da esplorare.

Il loro suono cresce lentamente, senza fretta, increspato da note di cupo synth, creando un mood ritualistico con melodie sempre evocative come nel primo brano, Merkaba, dove millenarie tempeste di sabbia si abbattono su rovine perdute di mondi antichi immersi in deserti roventi: gli Hexer possono ricordare gli Esoteric per il loro incedere ipnotico anche se non raggiungono la loro pesantezza
Il secondo brano Pearl Snake profuma di intensa essenza orientale iniziando come un “raga” indiano, per poi incendiarsi in note stoner e doom che planano su templi abbandonati dove antichi culti sono stati celebrati: un brano veramente particolare denotante una visione personale della materia; l’ ultima traccia Black Lava Flow, dopo un inizio funeral, prosegue con note heavy doom ipnotiche e incessanti, per poi planare ancora su suggestioni orientali e, infine, come nuovi Hawkwind proiettarsi verso il cosmo. Decisamente una bella scoperta, con un buon guitar sound sempre ispirato, le melodie create dal synth e le influenze orientali a dare un tocco personale ed originale. Da seguire con attenzione.

TRACKLIST
1.Merkaba
2.Pearl Snake
3.Black Lava Flow

LINE-UP
L Synth, Samples
D Bass, Vocals
J Drums
M Guitars, Vocals

HEXER – Facebook

Funeral Tears – Beyond The Horizon

In quasi un’ora, Nikolay Seredov riesce a convogliare con grande proprietà compositiva le varie fonti di ispirazione che vanno a comporre questo bel monolite sonoro di puro e melanconico dolore.

E’ da circa un decennio che il musicista russo Nikolay Seredov è sulla scena con questo suo progetto solista denominato Funeral Tears.

Ovviamente, un simile monicker lascia ben pochi dubbi sul genere prescelto, che altro non può essere se non un dolente e malinconico funeral/death doom, e in questi casi l’unica discriminante rispetto a molte altre realtà dello stesso tenore è la competenza nell’approccio al genere.
Beyond The Horizon è il terzo fulll length che, dopo prove buone ma ancora leggermente acerbe come Your Life My Death (2010) e The World We Lost (2014), eleva la creatura di Nikolay ad uno status decisamente superiore: nell’album, infatti, tutto funziona per il meglio, a partire da un’ottima resa sonora, base ideale sulla quale erigere un sound che oscilla tra il funeral ed il death doom melodico, con qualche puntata nell’ambient.
In quasi un’ora, il musicista di Tomsk riesce a convogliare con grande proprietà compositiva le varie fonti di ispirazione che vanno a comporre questo bel monolite sonoro di puro e melanconico dolore: chiaramente il tutto è rivolto a quella nicchia di ascoltatori che si nutre avidamente di queste sonorità e che verranno ampiamente ripagati, per esempio, da due tracce magnifiche come Breathe e la conclusiva e struggente Eternal Tranquillity.
In Beyond The Horizon sono ottime le vocals, costituite di norma da un growl profondo che, ogni tanto però, sconfina in un aspro screaming, ed appaiono convincenti anche le trame chitarristiche, lineari ma dal necessario impatto emotivo: i Funeral Tears offrono tutti gli ingredienti capaci di rendere un disco di tale caratteristiche qualcosa di molto simile ad una vertiginosa discesa, senza possibilità di ritorno, nei gorghi della psiche umana.

Tracklist:
1. Close My Eyes
2. Breathe
3. Dehiscing Emptiness
4. I Suffocate
5. Beyond The Horizon
6. Eternal Tranquillity

Line-up:
Nikolay Seredov

FUNERAL TEARS – Facebook

Gurt – Skullossus

La musica dei Gurt è quanto di più pesante, tossico e destabilizzante possiate trovare nel genere e non solo, una colonna sonora al male di vivere che si trasforma in misantropia ed inquietudine.

Le vie estreme del metal sono infinite e a ribadire questa verità non scritta ci pensano gli inglesi Gurt, dediti ad un grezzo, irriverente e pesantissimo stoner/sludge.

Il quartetto è in giro a fare danni da sette anni e si porta dietro una discografia lunghissima formata da lavori minori e due full length, Horrendosaurus del 2014 e quest’ultimo trip andato a male, intitolato Skullossus.
Il sound che va a formare questo pesantissimo ed estremo lavoro è composto da una vena stoner, fatta di blues sporco e doom apocalittico, il tutto sotto la sgualcita bandiera dello sludge metal.
La musica dei Gurt è quanto di più pesante, tossico e destabilizzante si possa trovare nel genere e non solo, una colonna sonora al male di vivere che si trasforma in misantropia ed inquietudine.
Ma attenzione,  non c’è niente che possa far pensare ad un qualcosa di romantico, la misantropia insita in Skullossus è fastidiosa, violenta e senza soluzione di continuità.
I brani sono pesantissimi e portano con loro la disperata rabbia di personaggi disadattati, protagonisti loro malgrado di un mondo sconcertante, senza speranza e volto all’autodistruzione.
Skullossus è una jam acida mastodontica e belligerante di disperazione tossica contenente almeno tre perle come Gimme The Night Any Day, The CrotchWobbler e John Gar See Ya Later, quest’ultima vero colpo fatale per la nostra mente.

TRACKLIST
1.Welcome to the Shit Show
2.Give Me the Night, Any Day
3.Battlepants
4.Double Barreled Shot-Pun
5.The Crotchwobbler
6.Existence Is Pain
7.Broken Heart Heroin Man
8.Meowing at the Fridge
9.Jon GarSeeYa Later
10.The Ballad of Tom Stones and Reg Montagne (Part 1)
11.The Ballad of Tom Stones

LINE-UP
Rich Williams – Sedulurt – Riffmonster
Dave Blakemore – Spice – Bassmaster
Bill Jacobs – The Scorpion – Bashing

Gareth Kelly – Vocals
Richard Williams – Guitars
Dave Blakemore – Bass
Bill Jacobs – Drums

GURT – Facebook

Danzig – Black Laden Crown

E’ apprezzabile da parte di Danzig la voglia di rimettersi in gioco con del materiale inedito, quando molti altri, alla sua stessa età, si limitano a vivacchiare sulle produzioni del passato, e qualche brano riuscito rende Black Laden Crown un album non del tutto superfluo, anche se purtroppo il confronto con i lavori composti nei primi anni novanta si rivela impietoso.

Glenn Danzig rappresenta un bel pezzo di storia del rock/metal contemporaneo e, in quanto tale, la gratitudine per quanto fatto con i Misfits prima e con la band che porta il suo nome in seguito, è doverosa ma non può influenzare le sensazioni derivanti dall’ascolto di questo nuovo album di inediti, pubblicato ben sette anni dopo l’ultimo Death Red Sabaoth.

Il tempo trascorre inesorabile per tutti, e se già un certo calo della voce di Danzig era emerso nei primi lavori del nuovo millennio, Black Laden Crown segna in questo senso un punto di probabile non ritorno.
Infatti, non sono stati pochi i vocalist che, ad un certo punto della loro carriera, non sembravano più in grado di ripetersi ai livelli del passato salvo poi riuscire a tornare su registri accettabili, ma questo non sembra proprio il caso del nostro che, quanto meno, pare accettare il tutto cercando di adeguare il sound alle sue attuali potenzialità, optando anche per una produzione ovattata che di certo, però, non aiuta a valorizzare il lavoro chitarristico del buon Tommy Victor.
Inevitabilmente tutto ciò finisce per penalizzare un album che a livello compositivo non dispiace nemmeno troppo, pur non avvicinandosi alle migliori opere del passato: la peculiare commistione tra heavy/doom metal e rock/blues che aveva reso sfolgoranti i primi quattro lavori usciti a nome Danzig, con due capolavori assoluti come Lucifuge e How The Gods Kill, ogni tanto fa capolino tra le atmosfere di Black Laden Crown, ma senza l’apporto decisivo di quella voce che riusciva ad essere sia profonda che stentorea.
Così qualche spunto brillante lo si riscontra ancora nella notevole But A Nightmare o nella blueseggiante Last Ride, mentre riguardo ad un brano come Devil On Hwy 9 non si può fare a meno di notare come il Danzig d’annata avrebbe potuto esaltarne al massimo il buon potenziale, anche commerciale, e lo stesso discorso lo si può fare anche per la conclusiva Pull the Sun.
Resta comunque apprezzabile, da parte del musicista americano, la voglia di rimettersi in gioco con del materiale inedito, quando molti altri, alla sua stessa età, si limitano a vivacchiare sulle produzioni del passato, ed i buoni episodi citati all’interno della tracklist rendono alla fine Black Laden Crown un album non del tutto superfluo, anche se purtroppo il confronto con i lavori composti nei primi anni novanta si rivela impietoso.

Tracklist:
1. Black Laden Crown
2. Eyes Ripping Fire
3. Devil On Hwy 9
4. Last Ride
5. The Witching Hour
6. But a Nightmare
7. Skulls & Daisies
8. Blackness Falls
9. Pull the Sun

Line-up:
Glenn Danzig – lead vocals, rhythm guitar
Tommy Victor – lead guitar, bass guitar
Joey Castillo – drums, percussion
Johnny Kelly – drums, percussion
Karl Rockfist – drums, percussion
Dirk Verbeuren – drums, percussion

DANZIG – Facebook

Decemberance – Conceiving Hell

Conceiving Hell per essere apprezzato pienamente va ascoltato diverse volte, dopo di che si manifesterà inesorabile in tutta la sua bellezza.

I greci Decemberance sono una band i cui primi passi risalgono addirittura a vent’anni fa, anche se, fino ad oggi, l’unico full lenght pubblicato era il buon Inside, del 2010.

Il gruppo guidato da Yiannis Fillipaios (voce, batteria) e Chris Markopoulos (chitarra) ritorna quindi dopo un lungo silenzio con il suo death doom arcigno e dalle frequenti propensioni funeral, nulla a che vedere perciò con i bravi Immensity, band dai toni ben più melodici nella quale i due militano, così come l’altro chitarrista Nikos Loukopoulos in veste live; a completare la stretta connessione dei Decemberance con la scena doom ateniese va ricordato anche come la sezione ritmica, formata dallo stesso Fillipaios e da Aggelos Malisovas, sia la stessa dei ben noti Daylight Misery.
Anche se il tempo scorre e la modernità spesso deforma in maniera determinante qualsiasi retaggio del passato, i Decemberance offrono un death doom saldamente ancorato agli anni novanta, quindi ai primordi del genere, risultando a tratti piacevolmente vicino ai primissimi Anathema.
Così, l’aspro growl del vocalist domina la scena stagliandosi su ruvidezze death che vengono intervallate da rarefazioni acustiche e, soprattutto, da rallentamenti ai confini del funeral nei quali la chitarra solista tesse splendide e dolenti trame melodiche.
Questa adesione fedele alle origini del death doom è manna del cielo per i suoi adoratori, almeno per quelli che ritengono ancora oggi brani come Under The Veil o Lovelorn Rhapsody tra i suoi capisaldi: i Decemberance dimostrano in ogni frangente una conoscenza della materia che consente loro di mettere in scena quasi un’ora e un quarto di musica, suddivisa in quattro brani, senza che il suo incedere risulti mai prolisso o ridondante.
Conceiving Hell offre un sound asciutto che trova i suoi punti più alti nei rallentamenti funeral di Departures e nello sviluppo piuttosto cangiante della magnifica The Blind Will Lead the Way, ma sempre mantenendo ben alto il livello anche dei restanti brani, grazie anche al misurato ma essenziale lavoro tastieristico di Alexandros Vlahos; il disco si muove fluttuando con disinvoltura tra il death asfissiante dei Morbid Angel di Covenant ed il doom della Sacra Triade albionica, con in più un pizzico di vena sperimentale che fa capolino in certi passaggi, come nel finale dominato dal basso della già citata The Blind Will Lead the Way.
L’opera dei Decemberance, a mio avviso, va anche ben oltre le aspettative, perché riavvolge il nastro riportandoci ai fast del death doom più verace, intriso di ottundente dolore e privo di sbocchi melodici consolatori; Conceiving Hell  per essere apprezzato pienamente va ascoltato diverse volte, dopo di che si manifesterà inesorabile in tutta la sua bellezza.

Tracklist:
1. The Scepter
2. Departures
3. The Blind Will Lead the Way
4. Sailing…

Line-up:
Chris Markopoulos – Guitars
Alexandros Vlahos – Keyboards, Samples
Yiannis Fillipaios – Vocals, Drums
Aggelos Malisovas – Bass
Nikos Loukopoulos – Guitars

DECEMBERANCE – Facebook

Where The Sun Comes Down – Welcome

Avvicinatevi con le dovute precauzioni a questo primo lavoro dei Where The Sun Comes Down, ci vuole la giusta esperienza per entrare nel buio della cantina dove si svolge la liturgia mistica che ancora una volta vede presente, in veste di sacerdoti mefistofelici, una buona fetta dell’heavy doom di scuola italiana, forse il genere non convenzionale in cui siamo più famosi.

Avvicinatevi con le dovute precauzioni a questo primo lavoro dei Where The Sun Comes Down, ci vuole la giusta esperienza per entrare nel buio della cantina dove si svolge la liturgia mistica che ancora una volta vede presente, in veste di sacerdoti mefistofelici, una buona fetta dell’heavy doom di scuola italiana, forse il genere non convenzionale in cui siamo più famosi.

D’altronde la nostra cultura è piena di leggende riguardanti il mondo dell’occulto e quella horror è sempre stata, sia nella musica che nel cinema, un passo avanti prima ancora che i blockbuster facessero scempio dei maestri italiani lodati in tutto il mondo.
Se non avete idea di chi siano Death SS, Violet Theatre ed ovviamente Paul Chain, chiudete il computer o cambiate ‘zine, stiamo parlando della storia del metal in Italia, o almeno di quello che dal doom/dark prese atmosfere e sfumature per regalare musica occulta di qualità superiore.
Thomas Hand Chaste, Alex Scardavian e Claud Galley fanno parte della storia di queste leggendarie icone e insieme a Sanctis Ghoram hanno dato vita all’ ennesimo tributo all’heavy doom/dark, che turba già dalla copertina, fuori dai soliti schemi del genere ma aperta a mille interpretazioni.
Dall’apertura, affidata a Mister Lie, si scende nell’abisso malato di un sound che scaturisce da un trip horror settantiano, la voce interpreta le varie liturgie con una teatralità unica, il doom metal lascivo e disturbante si accoppia con atmosfere che dal dark più oscuro e luciferino prendono vita; la chitarra urla dolore, il basso è un cuore che pulsa impazzito di paura e sollecitato dalle torture (A Snowin’ Day, Voyage), e la batteria tiene il passo, un lento cammino verso la perdita della ragione, quando le tastiere intonano melodie di puro terrore.
La dark wave dei primi anni ottanta è un genere importante per lo sviluppo del sound di Where The Sun Comes Down, messa come conclusione di questo terribile sabba che ha in Welcome una piccola parantesi ritmicamente doom/stoner alla Cathedral di Lee Dorrian, anche lui stregato dal sacerdote Chain nel capolavoro Alkahest (1995).
Dopo aver sentito questo lavoro, probabilmente non troverete nulla di più terrificante, a meno che non abbiate qualche anno in più e dai gruppi citati vi siete già fatti impossessare a suo tempo.

TRACKLIST
1.Mister Lie
2.A Snowin’ Day
3.Voyage
4.Myself
5.Welcome
6.Because We Were Fools
7.Where The Sun Comes Down

LINE-UP
Thomas Hand Chaste
Alexander Scardavian
Claud Galley
Sanctis Ghoram

Façade – Loathe

Sia pure con gli scostamenti minimi che il genere consente, i Façade riescono nell’intento di offrire un lavoro eccellente e dalla cifra stilistica piuttosto personale, finendo per non assomigliare in maniera particolare a nessuno tra i nomi di riferimento del settore.

Dalla fertile scena olandese ecco arrivare una nuova interessante band dedita al death doom.

In realtà i Façade non sono proprio di nuovo conio, essendo attivi già da diversi anni e con alle spalle un ep nel 2013, ma Loathe è il primo full length che, di fatto, ne va a collocare il nome tra le più stimolanti realtà europee.
Sia pure con gli scostamenti minimi che il genere consente, la band di Dordrecht riesce nell’intento di offrire un lavoro dalla cifra stilistica piuttosto personale, finendo per non assomigliare in maniera particolare a nessuno tra i nomi di riferimento del settore.
Loathe si muove tra le ritmiche rallentate come da copione ma agitate da sussulti ritmici capaci di catturare, anche se non si può fare a meno di rilevare una vena post metal innestata con buona fluidità nel sound: spesso, infatti, passaggi liquidi e più rarefatti costituiscono il contraltare alle ruvidezze intrise di dolente senso melodico, con l’interpretazione dell’ottimo Ben De Graaff (chiamato a prestare la sua voce anche nella nuova reincarnazione degli storici Phlebotomized) che, in compenso, non deroga quasi mai da un growl profondo ed incisivo.
L’album non mostra punti deboli, snodandosi lungo sei tracce ugualmente convincenti e valorizzate appieno dal non così consueto apporto di tre chitarre, le quali garantiscono sia un corposo apporto ritmico sia assoli di pregevole fattura, a costellare una tracklist fatta di sette lunghi brani tra i quali spiccano le drammatiche Insanity Restored e Departure, rilucenti vette emozionali di un lavoro eccellente sotto tutti gli aspetti.
I Façade sono un’altra notevole band che va ad aggiungere l’ennesimo tassello ad un genere come il funeral/death doom, appannaggio di pochi intimi qui in Italia ma capace invece, fuori dai nostri confini, di riscuotere un buon consenso di pubblico, dando vita ad un circolo virtuoso che vede la costante nascita di realtà in grado di affiancare con pari dignità i nomi storici della scena.

Tracklist:
1.Apostate
2.Veil of Deceit
3.Insanity Restored
4.Sleepless
5.Departure
6.Forlorn

Line-up:
Ben de Graaff – Vocals
Pim van Dijk – Bass
Berend Klein Haneveld – Guitar
Conrad Stroebel – Guitar
Chris Harmsen – Guitar
Korijn van Golen – Drums

Façade – Facebook

Sabbath Assembly – Rites Of Passage

Un disco dolcissimo e tremendo, un metal pop liberty che è concepito e suonato in maniera straordinaria, per un gruppo che continua a stupire facendo musica di qualità altissima.

I Sabbath Assembly sono da anni uno dei gruppi più interessanti nel panorama del metal occulto, e sono ovviamente molto altro.

Dopo qualche cambio di formazione, sempre sotto il comando illuminato della cantante Jamie Myers, ex Hammer of Misfortune, i Sabbath Assembly tornano con un disco molto interessante e differente rispetto alle loro altre opere. Ad ogni lavoro il gruppo progredisce e ci offre musica diversa, impreziosita dal fatto di essere scritta e suonata benissimo. Rites Of Passage è un disco maestoso, bellissimo e costruito per essere apprezzato su diversi livelli di lettura, come tutte le grandi opere. La loro magnificenza rituale e simbolistica è davvero grande, il disco ha un incedere epico e magnificente, scava dentro il nostro passato per provare a mettere a fuoco il nostro presente. La loro musica si può definire in molti modi, ma forse barocca è quello che le calza meglio. In questo caso, barocco non è un inclinazione verso gli orpelli, ma un istinto a leggere la storia umana e a rigettarla sotto forma di musica e di piacere. Gli album dei Sabbath Assembly sono sempre stati strutturati come rituali, sacrifici in forma di musica, e questo disco rappresenta vari riti di passaggio che possiamo incontrare nella nostra vita. La musica è un doom rock per l’ appunto barocco, con forti momenti di heavy pop anni settanta. I Sabbath Assembly, semplificando notevolmente sono simili ai Ghost, solo molto più interessanti, e poi vari musicalmente ed esteticamente più aderenti. In sede di scrittura è forte l’ impronta di King Diamond nei suoi dischi solisti, con quel timbro sontuoso e aperto ad influenze liberty. Rites Of Passage, come per i loro dischi precedenti, va poi oltre un significato meramente musicale. Qui c’è il dolore dei riti di passaggio che sigla ogni nostro cambiamento, ogni perdita o cambiamento importante, poiché in questa epoca di finto progresso abbiamo dato per scontato che il dolore possa essere escluso dalle nostre vite, invece è esso stesso un rito di passaggio. Un disco dolcissimo e tremendo, un metal pop liberty che è concepito e suonato in maniera straordinaria, per un gruppo che continua a stupire facendo musica di qualità altissima.

TRACKLIST
1. Shadows Revenge
2. Angels Trumpets
3. I Must Be Gone
4. Does Love Die
5. Twilight of God
6. Seven Sermons to the Dead
7. The Bride of Darkness

LINE-UP
Johnny DeBlase – Bass
Kevin Hufnagel – Guitars
Dave Nuss – Drums
Jamie Myers – Vocals
Ron Varod – Guitars

SABBATH ASSEMBLY – Facebook

Heavy Temple – Chassit

La musica racchiusa in Chassit, secondo ep degli Heavy Temple, trio nato da un sabba in qualche locale di Philadelphia cinque anni fa, la si può senz’altro descrivere come un trip di rock vintage alla massima potenza.

Doom metal e psichedelia: un connubio pericolosissimo se non viene usato con estrema cautela, se poi ci si aggiunge un pizzico di stoner ed una vena leggermente progressiva si ottiene un cocktail micidiale di musica rock dalle reminiscenze settantiane, fatte amoreggiare con sonorità pescate dai decenni successivi.

La musica racchiusa in Chassit, secondo ep delle Heavy Temple, trio nato da un sabba in qualche locale di Philadelphia cinque anni fa la si può senz’altro descrivere in questo modo, un trip di rock vintage alla massima potenza.
Siamo giunti quindi al secondo album (il primo ep omonimo è datato 2014) e la band formata da Saint Columbidae alle pelli, Arch Bishop Barghest alla sei corde e la sacerdotessa High Priestess NightHawk al basso e voce, continua la sua immersione nella musica dal puzzo di zolfo e la potenza di uno schiaccia sassi, ornata da ricami lisergici e cadenzate parti stonerizzate, mentre il rituale prende vita tra teschi ornati di serpi e pentoloni a bollire su fuochi che emanano esalazioni infernali.
Un accenno al prog con In The Court Of The Bastard King, titolo dallo spunto crimsoniano, e lente agonie liturgiche (Pink Glass), mentre il sole sorge ma noi si rimane imprigionati nel vortice di colori innaturali che sguazzano nella nostra mente, ormai in balia delle tre sacerdotesse americane.
Per chi i piace il genere le Heavy Temple possono rivelarsi un’autentica e gradita sorpresa.

TRACKLIST
1.Key and Bone
2.Ursa Machina
3.Pink Glass
4.In the Court of the Bastard King

LINE-UP
Saint Columbidae – Drums
Arch Bishop Barghest – Guitars
High Priestess NightHawk – Bass, Vocals

HEAVY TEMPLE – Facebook

Graveyard Of Souls – Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado

Il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il genere con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre convince meno il tentativo di rendere il sound più catchy nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic.

Degli spagnoli Graveyard Of Souls ci eravamo già occupati qualche anno fa, in occasione del loro primo full length Shadows Of Lifes.

Autori di un buon gothic death doom, all’epoca i nostri non erano apparsi in grado di elevarsi oltre un livello medio, comunque apprezzabile, e non è che l’impressione vada a modificarsi più di tanto con questo nuovo Pequeños Fragmentos De Tiempo Congelado, album che arriva dopo altre due opere su lunga distanza, Infinitum Nihil e Todos los caminos llevan a ninguna parte.
L’interpretazione del genere da parte di Raul e Angel non lascia spazio a particolari critiche né dal punto di vista esecutivo né da quello della produzione (anche se quest’ultimo aspetto è senz’altro migliorabile), perché in questo genere li ritengo elementi marginali rispetto al potenziale emotivo di un’opera: il problema è che, in buona sostanza, vengono meno quei guizzi capaci di rendere identificabile il sound.
Va detto, ad onore dei Graveyard Of Souls, che alcuni brani si dimostrano senz’altro all’altezza della situazione, specie quando questi possiedono un maggiore respiro atmosferico: non mancano così spunti melodici di buona fattura, come nelle buone Entre fragmentos de locura, Cementerio de ilusiones e Al atardecer, che contribuiscono a mantenere l’album al di sopra della linea di galleggiamento senza però che l’attenzione dell’ascoltatore venga catturata con la necessaria continuità.
Sicuramente il duo iberico mostra il suo volto migliore quando approccia il death doom con ritmi più ragionati e una maggiore ricerca dell’emotività, mentre le fasi contraddistinte dal tentativo di rendere il sound più catchy, nei passaggi prossimi al death melodico o al gothic, non convincono anche per l’apparente discrasia stilistica che si manifesta in alcuni momenti dell’album (piuttosto superfluo, per esempio, lo strumentale Across the Cygnus Loop).
Come per l’album d’esordio, non resta così che derubricare l’operato dei Graveyard Of Souls ad un’interpretazione gradevolmente retrò di queste sonorità, senza però che lo scorrere del tempo abbia portato all’auspicato salto di qualità.

Tracklist:
1. Todo se desvanece lentamente
2. Entre fragmentos de locura
3. Beyond the Black Rainbow
4. Cementerio de ilusiones
5. As Lightday Yields (Lake of Tears cover)
6. Al atardecer
7. Across the Cygnus Loop
8. Kristallnacht

Line-up:
Angel Chicote: Music & Lyrics
Raúl Weaver: Vocals

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook