Artemisia – Rito Apotropaico

Un album molto bello ed intenso, un passo avanti importante per gli Artemisia ed uno dei migliori esempi di metal cantato in italiano degli ultimi tempi.

Tornano gli Artemisia con il quarto album della loro carriera, a conferma dello stato di grazia raggiunto dal precedente lavoro, Stati Alterati Di Coscienza, uscito tre anni fa ed applaudito da fans e addetti ai lavori.

La band della splendida interprete Anna Ballarin e del chitarrista Vito Flebus, ormai da dieci anni nella scena metal nazionale, propone il suo disco più oscuro e dark, potenziato da scariche metalliche classic doom ed una vena psichedelica che spunta tra i brani come ipnotici occhi di un serpente pronto a colpire.
Sempre valorizzato da testi d’autore, questa nuova quarta opera dal titolo Rito Apotropaico (termine riferito a oggetto, atto, animale o formula che allontana o annulla un’influenza maligna) porta con sé una voglia di cambiamento da parte del quartetto, che potenzia la vena sabbatica del proprio sound, lasciando le sfumature alternative dei precedenti lavori e proponendosi come band metal a tutti gli effetti.
Oscuro e potente dicevamo, proprio come un rito che deve allontanare le forze oscure, con una Ballarin espressiva e a tutti gli effetti sacerdotessa di questi trentacinque minuti di metal cantato in italiano.
Leggende, magia, l’aldilà ed il sempre aberrante lato oscuro dell’uomo sono i temi trattati in questi otto brani ,con l’opener Apotropaico che, senza indugi, ci invita al sabba creato dagli Artemisia e che continua ipnotico con Il Giardino Violato, traccia dedicata al tema scottante della pedofilia.
Stupenda Tavola Antica, con in evidenza il basso di Ivano Bello, mentre la tensione metallica rimane altissima, con la protagonista che tramite una tavola ouija cerca di evocare uno spirito guida.
Doom stoner di alta qualità nella rituale Iside e atmosfera che si rilassa con le ariose armonie acustiche di La Guida, prima che il gran finale venga assicurato dalle sfuriate metalliche del trittico La Preda, Regina Guerriera e Senza Scampo.
Un album molto bello ed intenso, un passo avanti importante per gli Artemisia ed uno dei migliori esempi di metal cantato in italiano degli ultimi tempi.

TRACKLIST
1.Apotropaico
2.Il giardino violato
3.Tavola antica
4.Iside
5.La guida
6.La preda
7.Regina guerriera
8.Senza scampo

LINE-UP
Anna Ballarin – Voce
Vito Flebus – Chitarra
Ivano Bello – Basso
Gabriele “Gus” Gustin – Batteria

ARTEMISIA – Facebook

Clouds Of Dementia – Seventh Seal

Black Sabbath, Pentagram e Candlemass, nè più ne meno il sound del gruppo è ispirato a queste icone del genere, perciò un ascolto è consigliato a chi ama le band citate ed i loro figli sparsi per il mondo musicale.

Nel doom di stampo classico non sono poche le buone realtà che ci arrivano da tutto il mondo, ed in questa sede vi presentiamo il quartetto transalpino dei Clouds Of Dementia, all’esordio autoprodotto e promosso dalla Solstice Promotions, con Seventh Seal, ep di cinque brani ricchi di atmosfere heavy/doom classiche.

Tempi medi, rallentamenti e riff di granitico heavy metal si scagliano su ritmiche e sfumature messianiche in orge temporali dove vengono chiamate in causa i migliori act della musica del destino.
Dagli anni settanta passando per i vari decenni, la scena del doom classico ha vissuto una vita parallela mentre piano piano passavano le mode, continuando a proporre  litanie e riti di questa magica variante della musica heavy: i Clouds Of Dementia tutto questo lo fanno assaporare agli amanti del genere, con brani forgiati nello spartito dei mostri sacri del genere, con tutti i tasselli al loro posto e forti di una manciata di brani che da Welcome, passando per la title track e la notevole My Friend, non ci fanno risparmiare i complimenti per Jujux (voce) e soci.
Black Sabbath, Pentagram e Candlemass, ne più ne meno il sound del gruppo è ispirato a queste icone del genere, perciò un ascolto è consigliato a chi ama le band citate ed i loro figli sparsi per il mondo musicale.

TRACKLIST
1.Welcome
2.All My Prayers
3.Seventh Seal
4.Love Song
5.My Friends

LINE-UP
Jujux – Vocals
Ben – Lead Guitar
Chérubin – Rhythm Guitar
Cécile – Bass
Azra – Drums

CLOUDS OF DEMENTIA – Facebook

Psychedelic Witchcraft – Magick Rites and Spells

Al di là del buon valore della musica contenuta, sfugge l’utilità di un’uscita retrospettiva per una band che all’attivo ha solo un Ep ed un full length.

Autori di due lavori già trattati all’epoca dal nostro Massimo Argo sulle pagine di In Your Eyes, i Psychedelic Witchcraft cercano di mantenere elevata l’attenzione nei loro confronti con l’uscita di questa raccolta che presenta, di fatto, la riedizione dell’intero Ep Black Magic Man (a sua volta già oggetto di una precedente riedizione), un brano inedito, due cover e due altre canzoni ri-registrate che erano già uscite come singolo.

In buona sostanza, i motivi di interesse reale non sono moltissimi, a meno che non si sia dei fan sfegatati della band, alla luce anche di una produzione ancora troppo scarna (oltre all’Ep, il full length The Vision del 2015) per condividere del tutto l’immissione di un simile prodotto su un mercato già abbastanza saturo.
Questo non perché la musica ivi contenuta non sia meritevole di attenzione, visto che il rock psichedelico dalle sfumature doom della band fiorentina è senz’altro avvincente, nonostante personalmente la voce di Virginia Monti non mi convinca sempre del tutto, specialmente nelle tracce iniziali. Non a caso, resta piuttosto marcata la differenza qualitativa tra la seconda metà della raccolta, ovvero quella corrispondente a Black Magic Man, e la prima composta, al netto delle cover, dall’inedito Come A Little Closer e dalle riproposizioni nella nuova veste di Wicked Dream e Set Me Free, nonostante la vena blues di quest’ultimo brano sia tutt’altro che disprezzabile.
La sensazione è che la Monti indulga troppo, in queste tracce, su toni alti che non le si addicono, al contrario di quanto avveniva in ottimi brani quali Angela, Lying On Iron, Black Magic Man e Slave Of Grief, dove l’interpretazione era talvolta più grintosa ma nel contempo maggiormente controllata.
Ma al di là di questo, che è un parere derivante da gusti personali che, come tali, possono essere del tutto opinabili, quella che non si riesce a rinvenire è la reale utilità di un’operazione che aggiunge davvero poco a quanto già si sapeva dei Psychedelic Witchcraft, una band che comunque prosegue meritoriamente la sua strada a ritroso rivolta verso un rock che sarà pure vintage ma non per questo meno affascinante.

Tracklist:
1. Come A Little Closer (exclusive to this release)
2. Godzilla (Blue Öyster Cult cover, exclusive to this release)
3. Set Me Free (Re-recording, exclusive to this release)
4. Wicked Dream (Re-recording, exclusive to this release)
5. The Dark Lord (originally performed by Sam Gopal with Lemmy)
6. Angela (taken from the Black Magic Man EP)
7. Lying On Iron (taken from the Black Magic Man EP)
8. Black Magic Man (taken from the Black Magic Man EP)
9. Slave Of Grief (taken from the Black Magic Man EP)

Line-up:
Virginia Monti – Singer
Riccardo Giuffrè – Bass
Jacopo Fallai – Guitar
Mirko Buia – Drums

PSYCHEDELIC WITCHCRAFT – >Facebook

Dread Sovereign – For Doom The Bell Tolls

Un ep convincente, a conferma del fatto che i Dread Sovereign non sono solo un diversivo per Alan Averill.

A quasi tre anni dall’ottimo All Hell’ Martyrs ritroviamo i Dread Sovereign, quella che pare essere diventata l’attuale priorità musicale di Alan Averill alias Nemtheanga, visto il prolungarsi del silenzio discografico dei Primordial.

For Doom The Bell Tolls esce in formato 12 pollici e di fatto consta di tre brani veri e propri, più due strumentali e la cover di Live Like An Angel, Die Like A Devil dei Venom.
Il contenuto del lavoro, per quanto possa avere un carattere estemporaneo vista la sua relativa brevità, parrebbe propendere verso forme di heavy doom più in linea con la tradizione, per quanto reso sempre inquieto dal timbro vocale non comune di Averill, senza farsi mancare accelerazioni che nel precedente full length non venivano esibite in maniera così convinta.
Ritengo però che, come spesso accade negli Ep, vi sia un brano portante con tutti gli altri che gli fanno da corollario, è non c’è dubbio che questo corrisponda a Twelve Bells Toll In Salem, lungo episodio che a mio avviso rappresenta al meglio la vera natura dei Dread Sovereign, con il suo pesante carico psichedelico che si fa spazio nella seconda parte rispetto ad una prima metà in cui, invece, spadroneggia la solita debordante interpretazione di Nemtheanga su un magnifico tappeto doom.
Sarebbe facile liquidare i Dread Sovereign come una sorta di versione a 16 giri dei Primordial, alla luce anche della presenza del drummer Sol Dubh che, con il vocalist, compone la rocciosa base ritmica: in realtà le cose non stanno così perché, come già ampiamente dimostrato in All Hell’s Martyrs, Bones si dimostra ancora una volta chitarrista versatile e capace di spostare il sound della band su piani stilistici differenti, passando dai toni classici del genere a sfumature gothic, che in questo caso si manifestano maggiormente in una traccia a tratti dai sentori nefiliani come The Spines Of Saturn.
Per il resto, buona anche This World Is Doomed, specie nella sua seconda parte, quando è il doom psichedelico a prendere la scena rispetto ad una più movimentata fase iniziale, mentre la cover dei Venom è il classico elemento che nulla aggiunge e nulla toglie al valore di un lavoro che offre almeno una mezzora di musica convincente, a conferma, soprattutto, del fatto che i Dread Sovereign non sono solo un diversivo per Alan Averill, il che fa presagire buone nuove anche per il futuro.

Tracklist:
1. For Doom The Bell Tolls
2. Twelve Bells Toll In Salem
3. This World Is Doomed
4. Draped In Sepulchral Fog
5. The Spines Of Saturn
6. Live Like An Angel, Die Like A Devil (Venom Cover)

Line-up:
Nemtheanga – vocals, bass
Dubh Sol – drums
Bones – guitar

DREAD SOVEREIGN – Facebook

Faces Of The Bog – Ego Death

Ego Death scorre via intenso e soprattutto vario, ciò che, alla fine, si manifesta come il suo vero punto di forza assieme ad una scrittura che si tiene a costante distanza di sicurezza da soluzioni cervellotiche.

I Faces Of The Bog provengono da Chicago ed offrono, con questo loro esordio intitolato Ego Death, uno sludge doom dai tratti piuttosto orecchiabili, almeno se raffrontati alle uscite più frequenti nel genere.

Infatti, il quartetto immette nel proprio sound una buona dose di psichedelia e, inoltre, a tratti pare di ascoltare una sorta di grunge dai toni molto più minacciosi (Slow Burn) conferiti dalle chitarre ultra ribassate e da una voce aspra.
Tutto questo consente ai Faces Of The Bog di differenziarsi sufficientemente dai canoni del genere, proprio in virtù di un indole progressiva che porta l’album su piani differenti, e in tal senso risultano emblematiche le ultime due tracce: The Weaver, che dopo una sua prima metà tooliana fino al midollo si apre in un più tradizionale e coinvolgente doom, e Blue Lotus, lungo viaggio psichedelico in cui sono nuovamente le chitarre, come sul brano precedente, a condurre le danze nella part conclusiva.
In effetti lo sludge, nel complesso del lavoro, rappresenta più una solida base su cui edificare il sound che non la sua vera essenza, ma non bisogna neppure pensare che Ego Death risulti poco profondo od ancor peggio leggero: la differenza qui la fa la capacità dei ragazzi dell’Illinois nello scovare sempre e comunque degli efficaci sbocchi melodici anche quando i brani paiono avviati ineluttabilmente avvolgersi su stessi.
Se l’obiettivo dei Faces Of The Bog era quello di comporre un album brillante e non troppo ostico all’ascolto, pur senza rinunciare ad andarci giù pesante, direi che ci sono riusciti in pieno: dal magnifico strumentale d’apertura Precipice alla già citata chiusura affidata a Blue Lotus, Ego Death scorre via intenso e soprattutto vario, ciò che, alla fine, si manifesta come il suo vero punto di forza assieme ad una scrittura che si tiene a costante distanza di sicurezza da soluzioni cervellotiche.
Un primo passo decisamente brillante.

Tracklist:
1.Precipice
2.Drifter in the Abyss
3.Slow Burn
4.The Serpent & The Dagger
5.Ego Death
6.The Weaver
7.Blue Lotus

Line-up:
Paul Bradfield – Bass
DannyGarcia – Drums/Percussion
Mark Stephen Gizewski – Guitars/Vocals
Trey Wedgeworth – Guitars/Vocals

Additional Credits:
Sanford Parker – Synth/FX

FACES OF THE BOG – Facebook

Illimitable Dolor – Illimitable Dolor

Una band ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Greg Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Gli Illimitable Dolor sono una band australiana che, con questo suo album d’esordio, omaggia la memoria di Greg Williamson, cantante dei The Slow Death scomparso nel 2014.

Non a caso del progetto in questione fanno parte, infatti, tre ex compagni di Williamson, Stuart Prickett, John McLaughlin e Dan Garcia, oltre a Peter O’Donohue che si è occupato del mastering di Ark, album della band di Springwood uscito postumo rispetto alla morte del vocalist.
Come non di rado accade, l’ispirazione derivante da un lutto reale e non virtuale sembra fare la differenza (anche se ovviamente si spera sempre che ciò non sia necessario), specialmente in un genere che già di suo ha il compito di evocare un dolore incontenibile, come da ragione sociale scelta dal gruppo.
Quest’album è una prova magnifica che, a mio avviso, è anche superiore rispetto al valore degli album degli stessi The Slow Death: il funeral death doom degli Illimitable Dolor è tragico, melodico e fortemente evocativo, va diritto al cuore senza perdersi in troppi preamboli, prendendo il meglio di quanto negli anni il genere ha offerto, anche nel continente australe dove, oltre agli ovvi riferimenti alla band madre, non è possibile fare a meno di rapportarsi con i grandi Mournful Congregation, senza però dimenticare i Cryptal Darkness, autori a cavallo del nuovo millennio di due lavori magnifici (prima di trasformarsi nei più gotici e meno incisivi The Eternal) benché fortemente debitori dei My Dying Bride. E, quasi a chiudere un ideale cerchio, proprio la band di Stainthorpe viene omaggiata dagli Illimitable Dolor con un richiamo a Your River (da Turn Loose The Swans), nella parte centrale di quello che è il brano più drammatico ed intenso di questo splendido album, Salt of Brazen Seas.
La prova di Stuart Prickett dietro il microfono è convincente così come quella della band, realmente ispirata e coinvolta nella riuscita di un progetto che onora nel migliore dei modi la memoria di Williamson e che fornisce, nel contempo, un altro sicuro approdo a chi ama questa malinconica ed inimitabile espressione musicale.

Tracklist:
1. Rail of Moon, A Stone
2. Comet Dies or Shines
3. Salt of Brazen Seas
4. Abandoned Cuts of River

Line up:
Stuart Prickett – Guitar, Vocals, Keys
Dan Garcia – Guitar
John McLaughlin – Drums
Guy Moore – Keyboards
Peter O’Donohue – Guitar
Daniel Finney – Bass

ILLIMITABLE DOLOR – Facebook

VV.AA. – Transcending Obscurity Label Sampler 2016

Cliccando il link che troverete in calce all’articolo, avrete la ghiotta opportunità di fare un bel giro metallico del globo, gentilmente offerto da Kunal Choksi e dalla sua Transcending Obscurity.

La Transcending Obscurity è un’etichetta alla quale noi di MetalEyes siamo particolarmente affezionati: intanto perché, quando abbiamo iniziato ad occuparci di metal qualche anno fa, ancora all’interno di In Your Eyes, la label indiana è stata una delle prime a darci credito senza farsi troppe domande su chi fossimo o quanti contatti facessimo, e poi, soprattutto, perché colui che ne regge fila, Kunal Choksi, è uno di quei personaggi che dovrebbero essere clonati per tutto quello che ha fatto e sta facendo per la diffusione del verbo metallico in Asia.

Dopo questo doveroso panerigico nei confronti del dinamico discografico di Mumbai, non resta che invitare ogni appassionato di metal che si rispetti a fare propria questa esaustiva compilation contenente un brano di ciascuna delle band appartenenti alla scuderia delle Transcending Obscurity, tanto più che il tutto è scaricabile gratuitamente dal bandcamp.
Lì troviamo cinquantacinque tracce che offrono contributi provenienti da nomi già noti ed altri ancora da scoprire, abbracciando tutti i generi estremi, a partire soprattutto dal death metal, spesso rappresentato nella sua versione old schol, passando per il black ed il doom, con qualche sconfinamento nel thrash, nello stoner/sludge e nel più tradizionale heavy metal.
Molti di questi brani fanno parte di album che abbiamo avuto il piacere di recensire, quasi tutti accompagnati da valutazioni lusinghiere, segno di un roster dal livello medio molto elevato, benché composto per lo più da realtà dalla notorietà confinata all’underground.
Quasi superfluo segnalare uno o l’altro brano, si può solo aggiungere che per chi ama il death c’è da sbizzarrirsi, tra i Paganizer dell’onnipresente Rogga Johnasson, i Sepulchral Curse e gli storici Warlord UK, per i death/doomsters le icone Officium Triste e Mythological Cold Towers e i più recenti Chalice of Suffering e Illimitable Dolor, mentre per chi predilige sonorità più distorte e stonate ci sono gli Altar Of Betelgeuze, gli Algoma e i The Whorehouse Massacre e per i blacksters realtà stimolanti come i Norse, i Seedna ed i Somnium Nox, tutto questo senza voler fare alcun torto a chi non è stato citato.
Infine, questa compilation offre la possibilità anche ai più scettici di farsi un’idea di quale sia il livello raggiunto dalle band asiatiche, autrici spesso di opere di livello pari, se non superiori, a quelle dei corrispettivi europei od americani: cito tra queste i “vedic metallers” Rudra, i Grossty, i Dormant Inferno ed i Darkrypt (da notare che la sezione asiatica è facilmente individuabile essendo stata racchiusa negli ultimi quindici brani).
Quindi, cliccando il link che troverete in calce all’articolo, avrete la ghiotta opportunità di fare un bel giro metallico del globo, gentilmente offerto da Kunal Choksi e dalla sua Transcending Obscurity.

Tracklist:
1. Officium Triste (Netherlands) – Your Heaven, My Underworld (Death/Doom Metal)
2. Mythological Cold Towers (Brazil) – Vetustus (Death/Doom Metal)
3. Paganizer (Sweden) – Adjacent to Purgatory (Old School Death Metal)
4. Ursinne (International) – Talons (Old School Death Metal)
5. Echelon (International) – Lex Talionis (Classic Death Metal)
6. Henry Kane (Sweden) – Skuld Och Begar (Death Metal/Crust)
7. Stench Price (International) – Living Fumes ft. Dan Lilker (Experimental Grindcore)
8. Sepulchral Curse (Finland) – Envisioned In Scars (Blackened Death Metal)
9. Fetid Zombie (US) – Devour the Virtuous (Old School Death Metal)
10. Infinitum Obscure (Mexico) – Towards the Eternal Dark (Dark Death Metal)
11. Altar of Betelgeuze (Finland) – Among the Ruins (Stoner Death Metal)
12. Illimitable Dolor (Australia) – Comet Dies or Shines (Atmospheric Doom/Death)
13. The Furor (Australia) – Cavalries of the Occult (Black/Death Metal)
14. Warlord UK (United Kingdom) – Maximum Carnage (Old School Death Metal)
15. Norse (Australia) – Drowned By Hope (Dissonant Black Metal)
16. Soothsayer (Ireland) – Of Locust and Moths (Atmospheric Doom/Sludge)
17. Swampcult (Netherlands) – Chapter I: The Village (Lovecraftian Black/Doom Metal)
18. Seedna (Sweden) – Wander (Atmospheric Black Metal)
19. The Slow Death (Australia) – Adrift (Atmospheric Doom Metal)
20. Arkheth (Australia) – Your Swamp My Wretched Queen (Experimental Black Metal)
21. Mindkult (US) – Howling Witch (Doom/Stoner Metal)
22. Warcrab (UK) – Destroyer of Worlds (Death Metal/Sludge)
23. Isgherurd Morth (International) – Lucir Stormalah (Avant-garde Black Metal)
24. Lurk (Finland) – Ostrakismos (Atmospheric Doom/Sludge Metal)
25. Come Back From The Dead (Spain) – Better Morbid Than Slaves (Old School Death Metal)
26. Somnium Nox (Australia) – Apocrypha (Atmospheric Black Metal)
27. MRTVI (UK) – This Shell Is A Mess (Experimental Black Metal)
28. Veilburner (US) – Necroquantum Plague Asylum (Experimental Black/Death Metal)
29. Jupiterian (Brazil) – Permanent Grey (Doom/Sludge Metal)
30. Exordium Mors (New Zealand) – As Vultures Descend (Black/Thrash Metal)
31. Embalmed (US) – Brutal Delivery of Vengeance (Brutal Death Metal)
32. Gloom (Spain) – Erik Zann (Blackened Brutal Death Metal)
33. Marasmus (US) – Conjuring Enormity (Death Metal)
34. Algoma (Canada) – Reclaimed By The Forest (Sludge/Doom Metal)
35. Cemetery Winds (Finland) – Realm of the Open Tombs (Blackened Death Metal)
36. Marginal (Belgium) – Sign of the Times (Crust/Grind)
37. Chalice of Suffering (US) – Who Will Cry (Death/Doom Metal)
38. Briargh (Spain) – Sword of Woe (Pagan Black Metal)
39. Ashen Horde (US) – Desecration of the Sanctuary (Progressive Black Metal)
40. The Whorehouse Massacre (Canada) – Intergalactic Hell (Atmospheric Sludge)
41. Rudra (Singapore) – Ancient Fourth (Vedic Metal)
42. Dusk (Pakistan) – For Majestic Nights (Death/Doom Metal)
43. Ilemauzar (Singapore) – The Dissolute Assumption (Black/Death Metal)
44. Severe Dementia (Bangladesh) – The Tormentor (Old School Death Metal)
45. Warhound (Bangladesh) – Flesh Decay (Old School Death Metal)
46. Assault (Singapore) – Ghettos (Death/Thrash Metal)
47. Gutslit (India) – Scaphism (Brutal Death/Grind)
48. Plague Throat (India) – Inherited Failure (Death Metal)
49. Darkrypt (India) – Dark Crypt (Dark Death Metal)
50. Against Evil (India) – Stand Up and Fight! (Heavy Metal)
51. Grossty (India) – Gounder Grind (Grindcore/Crust)
52. Dormant Inferno (India) – Embers of You (Death/Doom Metal)
53. Carnage Inc. (India) – Defiled (Thrash Metal)
54. Lucidreams (India) – Ballox (Heavy Metal)
55. Nightgrave (India) – Augment (Experimental Black Metal/Shoegaze)

TRANSCENDING OBSCURITY – Facebook

Ursa – The Yerba Buena Session

Gli Ursa riescono a mantenere un’ottima tensione per tutto il disco, e queste sessioni assumono il carattere di jam composte molto bene.

Gli Ursa sono la dimostrazione che con talento e passione si può fare un ottimo doom stoner metal, pur provenendo da un ambito diverso dell’universo metal.

I tre provengono da Petaluma in California, stato fresco della legalizzazione dell’erba, e questo disco è appunto un lungo viaggio in cinque canzoni in download libero.
La nascita degli Ursa si deve ad un progetto parallelo di tre quarti dei Cormorant, un buon gruppo black metal. I tre si staccano momentaneamente dal gruppo madre per fare del doom stoner di alta qualità.
Il loro suono parte dalle coordinate classiche del genere, con un passo arioso ma che non tralascia momenti maggiormente veloci, anche con l’ottimo ausilio di un organo. Gli Ursa riescono a mantenere un’ottima tensione per tutto il disco, e queste sessioni assumono il carattere di jam composte molto bene. Una delle grandi protagoniste in questo disco è l’epicità delle canzoni, e anche i testi riflettono un amore per il fantasy e per il fantastico in genere. A volte spunta il loro amore per il black metal in alcune energiche tirate, che non sono di fatto black ma che lasciano trasparire ciò. Ci si deve addentrare in The Yerba Buena Sessions per carpirne il forte carattere e la gran classe, e per gustare a fondo questo ottimo ed epico doom stoner.
In definitiva un disco che vi stupirà e che conferma l’ottima via americana al doom epico.

TRACKLIST
1.Wizard’s Path
2.Frost Giantess
3.Thirteen Witches
4.Scourge of Uraeus
5.Dragon’s Beard

LINE-UP
Brennan – Drums & Synth
Matt – Bass & Vocals
Nick – Guitars & Synth

Yith – Dread

Yith sforna un disco cthulhiano dai nobili e orrorifici propositi che, pur non potendo dirsi un capolavoro, vale il prezzo del biglietto

Dread – un dischetto ibrido black / doom che non si lascia andare ad eccessi avanguardisti – è il debutto di Yith, one-man band statunitense che negli anni scorsi ci aveva deliziati con svariati demo che lasciavano ben sperare per il futuro. Prodotto, questo, confezionato con cura maniacale fin dalle copertine: la prima è un bellissimo olio di G. Illness – uno dei maggiori paesaggisti della pittura americana moderna – mentre la seconda riporta Le Prisonnier di Odilon Redon, oggi conservato al Musée des Beaux Arts di Nantes.

Dread è un’opera lovecraftiana fin dai titoli (Centuries of Horror, ad esempio, fa sicuramente venire in mente l’epica e l’universo dello scrittore statunitense) che si propone di narrare in musica l’odissea esistenziale degli umani che vengono a contatto con l’orrore del malevolo Cthulhu, Yuggoth e consoci: il ché – ammetteranno gli appassionati – non è certo compito facile visto la portata del genio letterario di cui stiamo parlando. Se il concetto che vi sta dietro è interessante e complesso, il lavoro finito è più solido che brillante. L’album si apre con Time and Loss: arpeggi acustici, di tentazione (trattenuta) quasi neo-folk, che esplodono prestissimo in un dapprima monolitico e veloce black metal ortodosso che rallenta a tratti per farsi doom. Ma è dalla seconda traccia che l’album svolta: Resentment è forse il brano più rappresentativo del disco. Brano compatto che si apre, verso la fine, ad un pattern di interessantissimi riff astrali alternati a momenti più funerei, a simboleggiare la “doppia dimensione” lovecraftiana, divisa tra gli spazi cosmici e multidimensionali – comunque sempre cupi e spaventosi – in cui vivono le forze e l’entità del suo universo e il mistero, tutto terreno, che suscita agli involontari umani e agli adepti che vengono a contatto con rimandi, culti, sette iniziatiche, tracce che tali entità hanno sparso nel mondo: soluzione interessantissima questa ai fini di tradurre in musica il concept dell’album, che sarebbe potuta esser sfruttata in maniera maggiormente coraggiosa, azzardando qualcosina di più. Successivamente, mentre Remembrance funziona da intermezzo acustico (piuttosto inutile e superficiale), Upon Dark Shores sorprende per il suo dividersi equamente – a frazioni – tra un black tanto oscuro quanto canonico e certi raffinati citazionismi a quella scuola doom anni ’90, sulla falsa riga dei primi Thergothon di Fhtagn-nagh Yog-Sothoth – a loro volta affascinati dallo scrittore statunitense -. Infine, la breve e inaspettata Immurement – con tastiere, synth eterei e lugubri, certe sonorità alla Lustre in versione più funeral – chiude il lavoro in maniera azzeccata: misterica e ambienteggiante.

Se il concept che sottostà a questo disco – patrizio nelle intenzioni – è indubbiamente notevole, il prodotto finito purtroppo non è sempre all’altezza dei propositi. Le vocalità non sono mai particolarmente originali o incisive, ma la fase di produzione è attenta e curata. Il tutto vanta comunque la ripresa di un mondo letterario nobilissimo, oltre a momenti e cavalcate talvolta avvincenti e interessanti. Purtroppo è un album che, vista la sovrabbondanza di dischi simili e/o di superiore livello, rischia di finire presto risucchiato e dimenticato in quel gigantesco maelstrom da fast-food che è il metal attuale: merita invece a nostro giudizio almeno un ascolto, perlomeno da quella nobilissima frangia di cultori più attenta, colta e fanatica. E poi, diciamocelo, il binomio Lovecraft / black-doom è sempre sfiziosissimo.

TRACKLIST:
1. Time and Loss
2. Resentment
3. Remembrance
4. Dread
5. Centuries of Horror
6. Upon Dark Shores
7. Immurement

LINE-UP:
Yith – All instruments

YITH – Facebook

Sonus Mortis – Hail The Tragedies Of Man

Ogni ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.

Il progetto solista del dublinese Kevin Byrne, denominato Sonus Mortis, era stato nel 2014 una di quelle piacevoli scoperte capaci di cambiare in meglio l’umore di ogni appassionati di musica a 360 gradi.

Propaganda Dream Sequence aveva evidenziato un approccio fresco e personale alla materia estrema nel suo abbinare elementi sinfonici, pulsioni industriali e una base death doom, anche se, ovviamente, per sua natura il sound dei Sonus Mortis risultava rallentato solo a tratti, prediligendo spesso ritmi più martellanti.

Il successivo War Prophecy ha poi consolidato il livello raggiunto con il full length d’esordio e, mantenendo la cadenza di in un’uscita all’anno, Kevin nel 2016 ha puntualmente offerto ai propri estimatori questo Hail The Tragedies Of Man.
Se vogliamo, l’unico aspetto negativo del fare centro al primo colpo con un lavori di livello superiore alla media, rende più complessa la progressione con i lavori successivi, ma non è neppure facile mantenere comunque uno standard ugualmente elevato: il musicista irlandese ci riesce anche stavolta in virtù di una capacità di scrittura sempre efficace e in grado di integrare un sound aspro con notevoli spunti melodici.
Non resta che ribadire, ad uso e consumo di chi si volesse avvicinare all’operato del bravo Byrne, gli accostamenti naturali con gli ultimi Samael e soprattutto con i Mechina (e di conseguenza Fear Factory): in particolare il parallelismo con la creatura di Joe Tiberi (che puntualmente ha pubblicato il suo probabile nuovo capolavoro nel primo giorno dell’anno) appare il più interessante proprio per un percorso simile ma che diverge in maniera sostanziale per il diverso background musicale dei musicisti counvolti.
Se dall’altra parte dell’oceano quella che giunge fino a noi è una tempesta di suoni futuristici, solenni e spaziali, nel senso più autentico del temine, i Sonus Mortis mettono in scena il lato più atmosferico e, non a caso, gran parte dei brani si avvalgono di incipit rallentati che preludono a altrettante esplosioni sonore, alternate a brillanti aperture atmosferiche; inoltre, va segnalato un più ampio ricorso a clean vocals che si rivelano del tutto efficaci nella sua alternanza al più consueto screaming growl filtrato, pur non possendo il buon Kevin un estensione vocale particolarmente ampia.
Hail The Tragedies Of Man mostra una serie di variazioni sul tema che rendono interessante il lavoro in ogni frangente, in barba alla sua ora e passa di durata: a tale riguardo, basti l’ascolto di due brani contigui per collocazione in scaletta ma ben diversi per approccio, come The Great Catholic Collapse, dalle magnifiche progressioni chitarrstiche ed un andamento più rallentato, e I See Humans But No Humanity, furiosa per la prima metà nel suo snodarsi per oltre otto minuti (seconda per durata solo all’opener Chant Demigod) per poi adagiarsi su un assolo prolungato e vibrante.
Non è parlando di ogni brano che si rende il servizio migliore ai Sonus Mortis: l’ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.
Come per i già citati Mechina, continuo a meravigliarmi del fatto che nessuna label di spessore internazionale non abbia ancora gettato il suo sguardo sui Sonus Mortis: un peccato, soprattutto perché la conoscenza di realtà di tale spessore meriterebbe d’essere estesa ad un’audience infinitamente più ampia di quanto possa produrre un volenteroso passaparola sul web.

Tracklist:
1.Chant Demigod
2.Null And Void
3.Subproject 54
4.No Escape
5.And So We Became Slaves Forever
6.End Of Days
7.The Great Catholic Collapse
8.I See Humans But No Humanity
9.Chaos Reigns
10.Wretched Flesh, I Embrace
11.Hail The Tragedies Of Man

Line-up:
Kevin Byrne

SONUS MORTIS – Facebook

Mangog – Awakens

L’effetto di insieme è notevole e questo Awakens è un disco gigantesco, con pesanti giri di chitarra ed un’interpretazione canora affatto comune: la bestia avanza lentamente.

Ci sono luoghi dove certe cose vengono fatte meglio rispetto al resto del mondo, per esempio nel Maryland il doom classico lo fanno meglio, e il nuovo disco dei Mangog ne è la dimostrazione.

Questa nuova bestia che porta riff e cattiveria è formata da membri di altri notevoli gruppi del Maryland, come Beelzefuzz, Iron Man e Revelation. Tutti questi gruppi hanno in comune una visione classica del doom metal, fatta di grassi e lenti giri di chitarra, un basso ben piazzato e batteria piuttosto sabbathiana. L’effetto di insieme è notevole e questo Awakens è un disco gigantesco, con pesanti giri di chitarra ed un’interpretazione canora affatto comune: la bestia avanza lentamente.
Questo è un disco di doom underground al 100 % e ogni canzone scava a fondo, rompendo tutto ciò che incontra. Il suono della chitarra ha vari registri, e non ci sono solo giri lenti, ma anche canzoni più veloci, che testimoniano la versatilità del gruppo che rende di altro livello tutte le canzoni. In alcuni momenti ci sono anche offerte a dei di altri generi, tanto che la voce di Myke Wells sembra quasi heavy metal, e il gruppo offre sempre ottimi spunti.
Nell’insieme questa seconda prova dei Mangog, dopo l’ep del 2015 Daydreams Within Nightmares, è un disco meravigliosamente pesante, che farà la gioia di chi ama il doom classico, ma molti elementi musicali vanno ben oltre la classicità. I Mangog uniscono vari stili pera arrivare ad un risultato notevole, e Awakens sta riscuotendo già ottime accoglienze, sia per il peso dei nomi coinvolti sia per la sua qualità. Tutte le canzoni sono ottime, e la produzione minimale aggiunge ancora maggior peso al disco. Da Baltimora la musica del destino.

TRACKLIST
1. Time Is a Prison
2. Meld
3. Ab Intra
4. Of Your Deceit
5. Into Infamy
6. Modern Day Concubine
7. A Tongue Full of Lies
8. Daydreams Within Nightmares
9. Eyes Wide Shut

LINE-UP
Myke Wells – Vocals
Bert Hall, Jr. – Guitars, vocals, devices
Darby Cox – Basses
Mike Rix – Drums

MANGOG – Facebook

Ephedra – Can’ – Ka No Rey

Gli Ephedra vanno in profondità nello scrivere le loro canzoni e fanno provare all’ascoltatore un’esperienza nuova, ampliando le possibilità della musica strumentale, con la loro miscela di stoner doom ed heavy metal.

Le miscele se equilibrate e fatte bene sono irresistibili.

E’ questo il caso degli Ephedra, da Zofingen nel cantone Argovia, quartetto svizzero che propone un suono davvero particolare, a cavallo di molti generi, tra i quali lo stoner, il doom, ma con un fortissimo substrato di heavy metal, più che altro un sentire. In questo disco d’esordio gli Ephedra fanno sfoggio di un suono che non è facile da sentire, possiamo prendere come punto di partenza la musica pesante strumentale dei Karma To Burn. ad esempio, anche se qui la filigrana è più sottile, ma giusto per far capire all’ascoltatore cosa lo aspetta. Partendo da queste coordinate gli Ephedra viaggiano fra i generi, e nella stessa canzone possiamo ascoltare post rock, post metal ed altro. Ancora più in profondità la struttura della maggior parte delle canzoni è composta da un’epicità e classicità metal davvero peculiare. Gli Ephedra vanno in profondità nello scrivere le loro canzoni e fanno provare all’ascoltatore un’esperienza nuova, ampliando le possibilità della musica strumentale, rendendo Can’- Ka No Rey un disco molto particolare. Il titolo del disco deriva dal nome di un luogo nella saga della Torre Nera di Stephen King, e questo già rende bene l’idea dell’epicità fantasy insita in questo disco, che è davvero piacevole alle orecchie di chi lo sente, perché è strutturato davvero bene. Gli svizzeri fanno venire voglia di sentirli molte volte, e sarà interessante testarli dal vivo, anche perché il loro suono è stato costruito sui palchi delle loro numerose esibizioni di fronte al pubblico. Un album di esordio molto positivo, ma che soprattutto si distacca dalla media dei lavori di altre band a loro affini.

TRACKLIST
1.Vicious Circle
2.Bad Hair Day
3.Mother Stone
4.Cornfield Disaster
5.Monday Morning
6.Metamorphosis Calypso
7.Coco Mango Soup
8.Happy Threesome
9.Road Trip
10.Barstool Philosophy
11.Moonshiner
12.Southern Love

LINE-UP
Roman Hüsler -Guitar
Andy Brunner – Guitar
Kilian Tellenbach – Bass
Tomi Roth – Drums

EPHEDRA – Facebook

Hazzard’s Cure – Smoke Iron Plunder

Ogni traccia fa storia a sé nell’economia di Smoke Iron Plunder, ed è facile perdere la bussola in una scaletta così terogenea stilisticamente.

Gli Hazzard’s Cure sono un quartetto proveniente da San Francisco, il cui sound pesca più o meno da tutti i generi che formano il mondo del metal classico.

Smoke Iron Plunder è il nuovo parto, uscito per Lummox Records, un variopinto e violento quadro di heavy metal old school in cui la varietà di generi non viene supportata da una produzione di adeguato livello, pecca che inficia non poco la riuscita dell’album.
Il quartetto californiano passa con disinvoltura dall’heavy metal al doom, passando per violente ripartenze speed, sfuriate dai rimandi black e lenti passaggi al limite dello sludge.
Ogni traccia fa storia a sé nell’economia di Smoke Iron Plunder, e per molti può rivelarsi un difetto visto che è facile perdere la bussola tra le varie Master of Heathens, No Hope e via discorrendo.
L’ inizio dell’album è tutto incentrato su brani ispirati agli anni ottanta, poi, col passare dei minuti, la band vira verso un heavy metal stoner dai molti passaggi sludge (Siren’s Wail) confondendo non poco le idee all’ascoltatore di turno.
Si fanno apprezzare le tracce orientate sulle sonorità classiche (An Offering), mentre gli Hazzard’s Cure pagano dazio quando la loro musica prende strade stonate e desertiche, che poco hanno a che vedere con il mood di gran parte dei brani presenti.
Un album tra molti bassi e pochi alti, insufficienti ad elevarlo oltre la mediocrità.

TRACKLIST
1. Master of Heathens
2. An Offering
3. Hewn In Sunder
4. No Hope
5. Sirens’ Wail
6. War Pipe
7. Gracious Host
8. This Is Hell

LINE-UP
Chris Corona – Guitar, Vocals
Leo Buckley – Guitar Vocals
Shane Bergman – Bass, Vocals
Clint Baechle – Drums

HAZZARD’S CURE – Facebook

The Ruins Of Beverast – Takitum Tootem!

Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

The Ruins Of Beverast è un progetto solista di Alexander Von Meilenwald, il quale agita i sonni degli appassionati di metal estremo da quasi una quindicina d’anni.

Il black doom del musicista tedesco è sempre stato caratterizzato dalla sua non omologazione ai canoni dei generi di riferimento, collocandosi costantemente un passo avanti rispetto alle posizioni consolidate.
Non fa eccezione questo Ep intitolato Takitum Tootem!, con il quale il nostro si concede un’esplorazione più approfondita di territori ancor più sperimentali, lasciando che la propria musica si faccia avvolgere da un flusso rituale e psichedelico.
Il primo dei due brani raffigura, come il titolo stesso fa intuire, una sorta di rito sciamanico che si protrae nella fase iniziale per poi sfociare in una traccia che presenta sfumatura industrial, in virtù di un mood ossessivo (che potrebbe ricordare alla lontana certe cose dei migliori Ministry), ideale prosecuzione dell’invocazione/preghiera ascoltata in precedenza: questi otto minuti abbondanti costituiscono un’espressione musicale di grande spessore e profondità, tanto che quando il flusso sonoro improvvisamente si arresta provoca una sorta di scompenso alla mente oramai assuefatta a quell’insidioso martellamento.
Il vuoto viene ben presto riempito dalla magistrale cover di una pietra miliare della psichedelia, la pinkfloydiana Set The Controls For The Heart Of The Sun, che viene resa in maniera in maniera del tutto personale pur mantenendone l’impronta di base, ma conferendole ovviamente una struttura maggiormente aspra e, se, possibile, ancor più ossessiva; l’idea di farla sfumare nella stessa invocazione rituale che costituiva l’incipit del primo brano conferisce al tutto un‘andamento circolare, creando così una sorta di loop se si imposta il lettore in modalità “repeat all”.
Un’operazione sicuramente valida, per la quale andrà poi verificato l‘eventuale impatto sulla futura produzione dei The Ruins Of Beverast: di certo questo ep appare tutt’altro che un riempitivo, in quanto dimostra appieno il valore e le potenzialità di un musicista di livello superiore alla media.

Tracklist:
1. Takitum Tootem (Wardance)
2. Set The Controls For The Heart Of The Sun

Line-up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=vbvvbokHtaw

Chronic Hangover – Nero Inferno Italiano

Nero Inferno Italiano è un disco composto e suonato benissimo, pieno di novità e di carattere, originale dall’inizio alla fine, e diverte moltissimo, se solo ci fosse qualcosa da ridere.

Vizio, perdizione ed inutili giustificazioni, insomma la vita nel bel paese, o è solo il nero inferno italiano ?

Tornano i romani Chronic Hangover, con il loro ottimo stoner doom metal, con molto groove e canzoni composte molto bene. I ragazzi hanno ascoltato ed assorbito molte cose per poter fare un disco così, completato poi da ottimi testi in inglese. Questo è il loro debutto su lunga distanza, dopo l’ottimo ep del 2014 “Logicamente il Signore ci punirà per questo”, e a quanto pare non li ha puniti, o almeno non nel modo canonico. Il suono dei Chronic Hangover è un misto di elementi classici del metal, ma la loro rielaborazione è talmente buona che ne esce un qualcosa di davvero originale. La voce di Jacopo è il noi narrante del disastro dell’italica vita, e ci accompagna per mano in una galleria di quadri che descrivono la nostra vita, si è proprio la nostra vita, senza senso e deprimente. Ma non piangiamoci addosso, facciamo schifo perché lo vogliamo fare e questo splendido disco è qui per ricordarcelo. Ci sono tante cose qui dentro, dallo stoner al doom, dal groove metal all’heavy, ma è tutto Chronic Hangover, qualcosa di completamente nuovo. Nero Inferno Italiano è un disco composto e suonato benissimo, pieno di novità e di carattere, originale dall’inizio alla fine, e diverte moltissimo, se solo ci fosse qualcosa da ridere. La soluzione è quella della copertina, in più però al bar fate mettere questo gran disco.

TRACKLIST
1. Vituperio
2. Homunculus
3. Sociopatia
4. Regretudo
5. Tossine
6. Villa Triste
7. Alamut 2112
8. Nero Inferno Italiano
9. Lucifer In The Sky With Diamonds

LINE-UP
Jacopo: Vocals
Rutto: Bass
Charlo: Drums
Zorro: Guitars

CHRONIC HANGOVER – Facebook

Dantalion – …And All Will Be Ashes

La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera.

Nell’ascoltare questo disco mi sono reso conto all’improvviso che, nel parlare della scena doom death spagnola, ho sempre omesso di citare i Dantalion ma, a ben vedere, un buon motivo c’era: la band galiziana, infatti, nella prima parte della sua carriera era dedita ad una black oscuro, a tratti persino avvicinabile al depressive (ho apprezzato molto, all’epoca, All Roads Lead To Death), prima di approdare in maniera totale alla musica del destino, nelle sue forme più estreme e dolorose, con Where Fear Is Born, risalente al 2014.

E’ molto probabile che il cambiamento  sia giunto anche in seguito al pesante rimpasto della line-up avvenuto dopo Return To Deep Lethargy (2010), ma quella che non è cambiata è la realtà di una band capace sempre di maneggiare in maniera efficace la materia oscura, indipendentemente dal genere prescelto.
Oggi le coordinate stilistiche spingono in direzione decisa verso una band seminale come i Novembers Doom, senza ovviamente dimenticare la naturale “dipendenza” dai My Dying Bride e non disdegnando di guardare alle splendide e consolidate band connazionali come Evadne ed Helevorn: quello che ne esce fuori è un gran bel disco, specialmente quando la band di Vigo lascia sfogare la propria vena più melodica e malinconica (Crimson Tide) .
…And All Will Be Ashes parte molto bene, con i primi tre brani (oltre a quello già citato, la bellissima ed evocativa Fleshly Sin e A River Of Depravation, che ossequia a tratti i primi Paradise Lost) efficaci e intensi come si richiede al genere, per poi scemare leggermente nella fase centrale: Desperation Nights viene risollevata, dopo un inizio piuttosto opaco, da un bel lavoro chitarristico nella seconda parte, Shadows Doomed To Die ne ricalca a grandi linee gli aspetti, mentre Tears Of Ash, posizionata nel mezzo, è un breve ed interlocutorio strumentale.
Ci pensa la conclusiva No Place For Faith, contraddistinta come il resto del lavoro dal pregevole lavoro della chitarra solista, a riporta l’album al livello della sua prima metà, lasciando così soprattutto buone sensazioni.
La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera: a chi volesse approfondire proprio questo periodo consiglio di ascoltare l’esaustiva compilation The Ravens Fly Again, uscita nel 2014,che raccoglie il meglio dei primi quattro full length, mentre agli altri non resta che seguire il gruppo spagnolo in questa sua nuova incarnazione, senz’altro allo stesso modo convincente.

Tracklist:
1. Fleshly Sin
2. A River Of Depravation
3. Crimson Tide
4. Desperation Nights
5. Tears Of Ash
6. Shadows Doomed To Die
7. No Place For Faith

Line-up:
Villa – Drums
Brais – Guitars
Rober – Bass
Andres – Guitars
Diego – Vocals

DANTALION – Facebook

Raj – Raj

La prova dei Raj è di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Ep d’esordio per i Raj, band lombardo/veneta dedita ad uno sludge/stoner doom davvero intrigante.

La prima cosa che balza all’occhio è la durata dei brani, imprevedibilmente brevi per gli standard del genere, mentre appare molto più in linea con le abitudini il sound, piacevolmente retrò nel suo unire pulsioni sabbathiane, a partire dalla voce (spesso filtrata) di Francecsco Menghi, con le atmosfere diluite dello sludge e la psichedelia dello stoner.

Chitarra e base ritmica contribuiscono ad erigere un muro sonoro che non stravolge i canoni stilistici conosciuti, puntando su un impatto ossessivo che il riffing dai toni ribassati rende efficace e gradevole a chi è avvezzo al genere; interessante anche il break ambient costituito dalla quarta traccia Black Mumbai, indicatore di una propensione sperimentale che forse meriterebbe d’essere maggiormente distribuita all’interno del disco.
Come detto, il suo essere rivolto al passato, a volte in maniera ostentata, non si rivela affatto una nota di demerito per il gruppo: chi suona questo genere è una sorta di medium, capace di rendere del tutto vive ed attuali sfumature sonore che a molti possono apparire datate; i Raj lo fanno con competenza e convinzione, andando a fondere talvolta il sound più psichedelico dei Doomraiser con certo doom sciamanico in voga negli anni scorsi (Omegagame ne è forse l’esempio migliore ) oppure richiamando in maniera più esplicita, ma comunque non calligrafica, il marchio di fabbrica sabbathiano (Kaluza).
Dovendo cercare il pelo nell’uovo, al netto delle citata traccia ambient, questo ep autointitolato mostra a tratti un’eccessiva uniformità compositiva e, inoltre, non sempre convince la scelta di deformare il timbro vocale; resta il fatto che la prova dei Raj è senz’altro di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Tracklist:
1. Omegagame
2. Eurasia
3. Magic Wand
4. Black Mumbai
5. Kaluza
6. Iron Matrix

Line-up:
Marco Ziggiotti – guitars
Daniel Piccoli – drums
Francesco Menghi – vocals
Davide Ratti – bass

RAJ – Facebook

Haan – Sing Praises

Meno di venti minuti non sono mai esaustivi ma possono fornire ben più di una fugace impressione sul valore di una band: non resta, quindi, che attendere gli Haan ad una risposta di durata più consistente, ma sul fatto che facciano molto male credo non sussistano dubbi.

Arie Haan era il mio calciatore preferito nell’Olanda anni ’70 dei fenomeni guidati da Johan Cruijff, quella nazionale capace di giocare un calcio stupefacente e sfrontatamente moderno senza riuscire, purtroppo, a vincere quel mondiale che avrebbe meritato.

Haan era il classico centrocampista di lotta e di governo, in grado di spezzare le trame avversarie ma anche di ricucire il gioco con piedi educati che erano capaci, soprattutto, di scagliare autentici missili verso la porta avversaria.
Non so se la band americana che porta come monicker il suo cognome ne conosca l’esistenza, mi piace però l’idea di accomunare il quartetto di Broooklyn a quel calciatore per  la maniera naif di interpretare un genere come lo sludge punk/noise che, se fosse già esistito negli anni ’70, sono convinto che sarebbe potuto essere una perfetta colonna sonora per il “soccer” giocato dai capelloni che vestivano la maglia arancione.
Così gli Haan ondeggiano tra corse furibonde (The Cutting, Shake the Meat), guidati dalla voce abrasiva di Chuck Berrett, ad aperture sotto forma di rallentamenti preparatori alle bordate rappresentate da riff ribassati e pesanti come macigni (War Dance).
I primi tre brani vengono esauriti in circa nove minuti, più o meno la durata equivalente della conclusiva Pasture/Abuela, titolo sghembo come una traccia che non fornisce punti di riferimento certi, se non un’immersione totale in una psichedelia capace di dilatare i suoni così come certe sostanze fanno con le pupille: questo è un pezzo che rappresenta il biglietto da vista perfetto per gli Haan, mettendone in luce tutto il notevole potenziale.
Del resto i ragazzi si sono guadagnati spazio da qualche anno nella scena newyorchese, ottenendo l’apprezzamento di gentaglia della risma di Eyehategod, Whores., Cancer Bats, e Black Tusk, per citare solo i nomi più conosciuti, e direi che il tutto non può essere affatto casuale.
Meno di venti minuti non sono mai esaustivi ma possono fornire ben più di una fugace impressione sul valore di una band: non resta, quindi, che attendere gli Haan ad una risposta di durata più consistente, ma sul fatto che facciano molto male credo non sussistano dubbi.

Tracklist:
A1.The Cutting
A2.Shake the Meat
A3.War Dance
B1.Pasture / Abuela

Line-up:
Chuck Berrett – vocals
Jordan Melkin – guitar
Dave Maffei – bass
Christopher Enriquez – drums

HAAN – Facebook

Akasava – Nothing At Dawn

Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album vario e godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere

Stoner, classico, death e psichedelico sono solo alcune delle varianti con cui il doom si è affacciato nel nuovo millennio.

I transalpini Akasava, per esempio suonano doom classico, che pesca a suo modo dagli anni settanta (Black Sabbath) ma che non si ferma ad una mera trasposizione di quel verbo, aggiungendovi dosi letali di psichedelia ed epico heavy rock.
Formatosi in Normandia un paio di anni fa, e con l’ep Strange Aeons dello scorso anno come apripista, il gruppo francese ci presenta il suo primo full length, Nothing at Dawn, un monolite occulto e psichedelico dai buoni spunti e dall’ottimo songwriting.
Niente di così nuovo o originale, solo doom epico, che non manca però di far viaggiare l’ascoltatore tra le onde lisergiche di uno spartito che il gruppo maneggia con sufficiente disinvoltura.
Si passa quindi da brani più diretti (The Devil’s Tide), a jam liquide perse nel rock progressivo e psichedelico di una quarantina d’ anni fa (Pyramid’s Eyes), lenti e soffocanti episodi atmosfericamente a metà strada tra Pink Floyd e Sabbath (Zora The Traveller) e piccoli gioiellini stoner che tornano a far risplendere il sole nella Sky Valley (Solitude Of The Goat).
Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere, anche se non mancano spunti d’interesse anche per chi ne preferisce la parte più moderna e stoner.

TRACKLIST
1.Season of the Poet
2.The Devil’s Tide
3.Assembly of Fools
4.Pyramid’s Eyes
5.Zora the Traveller
6.Solitude of the Goat
7.Astral Truth
8.Nothing at Dawn

LINE-UP
Amélie Gavalda – Bass
David Touroul – Drums
Arnold Lucas – Guitars, Organ
Louis Hauguel – Vocals

AKASAVA – Facebook