Quicksand Dream – Beheading Tyrants

Si perde nella notte dei tempi il sound dei Quicksand Dream, ricordando sogni viziati dal folk zeppeliniano, un’altra delle tante virtù del famoso dirigibile britannico.

I Quicksand Dream sono un duo svedese composto da Patrick Backlund (basso e chiatarra) e Göran Jacobson (voce) aiutati su questo lavoro da Henrik Högl alle pelli e Beheading Tyrants è il loro secondo album, dopo l’esordio Aelin – A Story About Destiny, uscito addirittura sedici anni fa.

Un ritorno quindi per il gruppo di old school rocker scandinavi, troppo frettolosamente descritto come band epic metal, mentre nella sua musica si accende la fiamma dell’hard rock, a tratti evocativo, magari lanciato in cavalcate dove la chitarra, timida, sceglie vie metallare, ma sempre con lo spartito ben piantato nell’hard rock classico.
Vero è che l’aura che emanano i brani odora di cime innevate, o pianure perse nel freddo autunno scandinavo, qualche accenno folk elettrico e mid tempo più vicini al doom che al metal, fanno da contorno a questa raccolta di brani che mantengono un’atmosfera sognante anche per il cantato evocativo di Backlund.
Si perde nella notte dei tempi il sound dei Quicksand Dream, ricordando sogni viziati dal folk zeppeliniano, un’altra delle tante virtù del famoso dirigibile britannico.
E così veniamo immersi in questo sogno che rimane sempre in bilico tra l’hard rock ed il doom, ben assemblato senza raggiungere particolari picchi dal duo, ormai diventato un trio, e che preclude ogni tipo di modernità nel proprio sound rimanendo legato al cordone ombelicale del decennio più famoso della storia del rock.
Il difetto maggiore di questo lavoro è la mancanza di qualche brano trainante, quello che fa la differenza tra un ottimo lavoro e un album ordinario, ma sono sicuro che ,come il sottoscritto, c’è chi apprezzerà con la dovuta cautela Daughters of Eve, The Shadow That Bleeds e To Kill Beneath the Sun, brani dal flavour settantiano e piacevolmente old school.

TRACKLIST
01. Daughters of Eve
02. Cloud of Screams
03. The Shadow That Bleeds
04. The Girl from the Island
05. White Flames on Black Water
06. To Kill Beneath the Sun

LINE-UP
Göran Jacobson – Vocals
Patrick Backlund – Guitars, Bass
Henrik Högl – Drums

QUICKSAND DREAM

Lucifer’s Fall – Fuck You We’re Lucifer’s Fall

Le tracce del demo non sono male, peccato per la deficitaria produzione che non permette di assaporare le prolungate armonie metal doom dark del gruppo.

Si presentano a noi i doomsters australiani Lucifer’s Fall con questo ep di tre brani, integrato dal demo Dungeon Demos II, uscito lo scorso anno.

Il gruppo di Adelaide si forma solo tra anni fa, ma ha già licenziato un primo lavoro omonimo sulla lunga distanza: il loro doom metal old school si rifà alla tradizione e segue le orme dei maestri settantiani ed i loro discepoli discesi dal Monte Fato nel decennio successivo.
Dunque l’approccio è del più classico e l’ep che dà nome al lavoro parte con due lunghi brani, che non lasciano ombra di dubbio sulla proposta del quintetto.
Molto suggestiva Lost, tredici minuti di sound sabbathiano , ma che lascia intravedere le molteplici influenze della band, dai Pentagram, ai Candlemass, fino ai Reverende Bizarre.
Con la traccia che da titolo all’ep (Fuck You We’re Lucifer’s Fall) le acque si smuovono di un bel po’ e l’heavy metal fa capolino nel sound, così da entrare negli anni ottanta.
Le tracce del demo non sono male, specialmente la cavalcata The Summoning e la lenta marcia Unknown Unnamed, che si trasforma anch’essa in un metal song,peccato per la deficitaria produzione che non permette di assaporare le prolungate armonie metal doom dark del gruppo, che ha buone potenzialità e potrebbe riservare qualche sorpresa in futuro, specialmente per chi ricerca nomi nuovi nel doom classico.

TRACKLIST
1.Lost
2.Salvation
3.Fuck You We’re Lucifer’s Fall
4.Fuck You We’re Lucifer’s Fall (demo)
5.Mother Superior (demo)
6.The Summoning (demo)
7.Unknown Unnamed (demo)

LINE-UP
Deceiver – Vocals
Unknown Unnamed- Drums
Heretic – Rhythm Guitar
The Invocator – Lead Guitar
Cursed Priestess – Bass

LUCIFER’S FALL – Facebook

Mojuba – Astral Sand

Dimenticatevi lo stoner da classifica, in Astral Sand si picchia duro e si viaggia in un’atmosfera sabbatica

Da un’idea di Francesco Mascitti nel 2014 si formano i Mojuba, che arrivano all’esordio con Astral Sand tramite Red Sound Records.

La band, oltre al chitarrista e fondatore, vede Pierpaolo Cistola dietro al microfono e la sezione ritmica composta da Alfonso Bentivoglio alle pelli e Fabrizio Rosati al basso.
Un richiamo alle origini del blues nel nome (il “Mojuba” è una preghiera africana di lode e ringraziamento, da cui deriva il termine Mojo, l’amuleto magico che accompagnava i bluesman delle origini) ed una voglia matta di jammare sulle ali dello stoner rock, pescando ispirazioni dalle varie scene che si sono succedute nei decenni prima della fine del secolo scorso e lasciandole fluire in un sound dal clima psichedelico e rituale.
Dimenticatevi lo stoner da classifica dunque, in Astral Sand si picchia duro e si viaggia in un atmosfera sabbatica, in una lunga e messianica jam dove, nella coltre di nebbia causata da fumi illegali, hard rock settantiano, doom psichedelico e stoner rock si alleano per farvi perdere nei meandri di note che formano questo intrigante rito.
Atmosfere dilatate si alternano a bordate elettriche pesanti come incudini, la voce grezza ci accompagna tra le note che prendono forma nella nostra mente come fantasmi o spiriti danzanti, mentre la chitarra disegna riff di scuola Rise Above e di quei gruppi che si unirono alla famiglia di Lee Dorrian.
Un album che va assaporato fino all’ultima nota, in un crescendo che ha il suo picco proprio nell’ultimo brano, La Morte Nera: quattordici minuti di stoner doom che ipnotizza, destabilizza e porta all’inevitabile debacle psichica. Da avere.

TRACKLIST
1. Wawa Aba Tree
2. Drowning Slowly
3. Musuyidee
4. Lost in the Sky
5. Adobe Santann
6. Astral Sand
7. Sesa Woruban
8. La Morte Nera

LINE-UP
Francesco Mascitti – Guitars
Pierpaolo Cistola – Vocals
Alfonso Bentivoglio – Drums
Fabrizio Rosati – Bass

MOJUBA – Facebook

Cardinal Wyrm – Cast Away Souls

La band dice: ”We walked till dawn to find the doorway to the stars”, proseguiamo con loro…

Magnifica la Svart Records, label finnica che in questi ultimi anni ci ha permesso di conoscere alcune grandi band, come ad esempio Oransii Pazuzu, Katla, Domovoyd, che elaborano un loro suono, assolutamente fuori da schemi prefissati.

Dagli Stati Uniti, dalla zona della Bay Area, provengono i Cardinal Wyrm che con Cast Away Souls producono il loro terzo full length, il secondo per Svart dopo Black Hole Gods del 2014; sono in tre, con la particolarità di avere il batterista, Panjal Tiwari, che si occupa anche delle vocals che passano da un tono declamatorio dai rimandi a Peter Steele  ad un growl “schizzato”.
Il loro sound, denso, bizzarro e teatrale, parte da basi doom, ma incontra variazioni heavy, acide e psichedeliche soprattutto nelle parti soliste di chitarra, creando un ponte tra passato e presente, cercando di trovare una strada per apparire personale.
Questo atteggiamento si avverte già nel primo brano (Silver Eminence) che parte doom, ai confini del funeral con un organo pesante come un macigno, per poi dopo un paio di minuti esplodere in un riff heavy vicino al trash, proseguendo poi con densità sludge e riflessi addirittura simil-voivodiani.
Gli altri cinque brani, sei in tutto per circa quarantasei minuti di puro godimento, sono sempre dello stesso alto livello, pieni di variazioni che possono essere colte da ascoltatori attenti (esempio l’intro spettrale di Grave Passages o le vocals darkwave all’inizio di The Resonant Dead); ulteriore nota di merito per Lost Orison, delicato brano aperto e punteggiato da una tromba immaginifica e dalle voci della bassista, Leila Abdul-Rauf (Vastum) e del batterista.
Cover particolare virata su colori viola e nero e testi, scritti dal batterista, declamanti storie di occultismo, depressione e realtà alternative invitano, come al solito, a ripetuti ascolti per scoprire un modo diverso di pensare e suonare doom “mutante”.

TRACKLIST
1. Silver Eminence
2. The Resonant Dead
3. Grave Passage
4. Lost Orison
5. Soul Devouring Fog
6. After the Dry Years

LINE-UP
Nathan Verrill – Guitars,Organ,Bass
Pranjal Tiwari – Drums, Vocals
Leila Abdul-Rauf – Live Bass, Trumpet, Vocals

CARDINAL WYRM – Facebook

Wolf Counsel – Ironclad

Ironclad si rivela un lavoro soddisfacente anche se privo di quella scintilla in grado di ergerlo ad di sopra della soglia della normale attenzione da parte dei potenziali ascoltatori.

Da Zurigo arrivano i Wolf Counsel, gruppo dedito ad un doom metal piuttosto canonico, fatto salvo qualche sporadico elemento stoner presente nei brani più dinamici.

La materia viene ben trattata ed Ironclad, full length che segue l’esordio dell’anno scorso Vol.I, alla fine si rivela un lavoro soddisfacente, anche se privo di quella scintilla in grado di ergerlo ad di sopra della soglia della normale attenzione da parte dei potenziali ascoltatori.
Infatti, ascoltate Pure as the Driven Snow, brano doom dall’andamento indolente ma piuttosto evocativo, e la più stonerizzata e psichedelica title track, il resto dell’album si snoda dignitosamente verso la sua fine, dove ritroviamo comunque una buona Wolf Mountain, senza che il tutto provochi ulteriori sussulti.
I Wolf Counsel eseguono bene il compito, anche da punto di vista prettamente strumentale, ma qualche dubbio lo lascia la voce del leader Ralf Winzer Garcia, al quale manca un po’ di personalità per riuscire ad incidere maggiormente.
Nel complesso, quindi, Ironclad non può essere considerato un disco non riuscito, ma sicuramente fatica a fare breccia in chi, come me, del doom apprezza maggiormente le derivazioni più estreme od atmosferiche, mentre è probabile che l’accoglienza possa essere migliore da parte di chi è legato alla matrice più tradizionale del genere: resta il fatto che, anche in questo caso, l’eccellenza sta altrove, per cui un ascolto è senz’altro doveroso, ma con il serio rischio che non abbia alcun seguito.
Forse, spingere con maggiore convinzione sul versante psichedelico del sound potrebbe aiutare i Wolf Counsel a scongiurare il rischio di restare confinati nell’affollato limbo delle band di discreto livello ma destinate, a lungo andare, ad un inevitabile oblio.

Tracklist:
1. Pure as the Driven Snow
2. Ironclad
3. Shield Wall
4. The Everlasting Ride
5. Days Like Lost Dogs
6. When Steel Rains
7. Wolf Mountain

Line-up:
Ralf Winzer Garcia – Bass, Vocals
Reto Crola – Drums
André Mathieu – Guitars
Ralph Huber – Guitars

WOLF COUNSEL – Facebook

Era Decay – Inritum

Gli Era Decay sono autori di una prestazione convincente, compatta e priva di particolari sbavature anche se, almeno per ora, incapace di scalare lo spesso gradino che separa l’album bello da quello imprescindibile.

I rumeni Era Decay, nonostante siano attivi solo dal 2008, con Inritum arrivano già al loro quinto full length, una produzione quindi già corposa rispetto alla media.

Anche se sovente viene sottovalutato, questo è un aspetto del quale bisogna tenere conto nel momento in cui si devono esprimere delle valutazioni dopo l’ascolto di un album: ne deriva, pertanto che, da band al primo o secondo disco si tollererà maggiormente una mancanza di originalità, ricercando piuttosto la freschezza compositiva, mentre, al contrario, a chi ha già una discografia abbastanza cospicua alle spalle verrà richiesta con più rigore una manifestazione di personalità.
Gli Era Decay si trovano in una situazione un po’ spuria, in tal senso, visto che se il loro fatturato discografico è già pari a certe band di ultraquarantenni, sono ancora piuttosto giovani e quindi con intatte possibilità di sviluppare ulteriormente il proprio percorso musicale.
La peculiarità della band rumena è quella di muoversi in uno spazio stilistico che sta a metà strada tra il melodic death ed il death/doom, e non sempre l’equilibrio è perfetto anche se, indubbiamente, ciò evita loro di apparire fotocopie sbiadite di gruppi più famosi appartenenti all’una o all’altra scena.
A mio avviso, rispetto a quanto mi sarei atteso, la componente doom non è così marcata ed è proprio quando ciò avviene che ne vengono fuori i colpi migliori (splendide sia Sharp Words che Restlessness), facendo pensare che, spingendo un po’ di più su quel versante, un disco già buono sarebbe potuto diventare eccellente.
Penso sia sostanzialmente una questione di gusti, perché di certo chi predilige il melodic death la penserà diversamente da me, con più di una buona ragione, dato che i ragazzi rumeni sono autori di una prestazione convincente, compatta e priva di sbavature anche se, almeno per il mio metro di giudizio, incapace di scalare lo spesso gradino che separa l’album bello da quello imprescindibile.
A mio avviso, gli aspetti sui quali gli Era Decay possono sicuramente migliorare (e l’avere dei margini di miglioramento quando si è già piuttosto bravi va visto solo in un’ottica positiva) sono due: il primo è la riduzione della forbice esistente tra i due brani citati, ottimi esempi di death doom, ed altri come Ferocious e Syncope, episodi molto più diretti e di matrice death nel vero senso del termine, mentre il secondo potrebbe essere un ricorso ragionato alle tastiere con il compito di legare il sound nei brani più melodici, perché talvolta il risultato che ne scaturisce è un po’ troppo asciutto ed essenziale.
Detto questo, Inritum è un lavoro che merita d’essere ascoltato a prescindere dal genere assegnatogli in sede di presentazione, anche perché etichettarlo come death/doom rischia d’essere fuorviante, andando a discapito degli stessi Era Decay.

Tracklist:
01 – Intro
02 – Beyond Delirium
03 – Ferocious
04 – Perfidious
05 – Sharp Words
06 – Repugnance
07 – Restlessness
08 – Syncope
09 – The Past is Mine to Bear
10 – Faker
11 – Becoming Unstoppable
12 – Coming for You (The day I die)

Line-up:
Sandru Serban – vocals
Calin Colo – lead guitars
Adrian Galbau – drums
Alexandru Tipa – bass
Frij Vladimir Petrut – rythm guitars

ERA DECAY – Facebook

Trees Of Eternity – Hour Of The Nightingale

Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Occuparsi di un disco come questo, ben sapendo tutto ciò che accaduto prima della sua uscita, rende dannatamente difficile mantenere il giusto distacco, fondamentale per evitare che il coinvolgimento emotivo finisca per deformare sensazioni ed impressioni.
Quindi proverò a parlare, almeno a livello descrittivo, di Hour Of The Nightingale come se fosse il “normale” disco d’esordio di una “normale” band.

I Trees Of Eternity nascono come progetto parallelo di Juha Raivio, chitarrista e compositore principale degli immensi Swallow The Sun, che ha chiamato a sé, oltre al suo vecchio compagno di band Kai Hahto alla batteria, la splendida vocalist sudafricana Aleah Stanbridge ed i fratelli Fredrik e Mattias Norrman, noti soprattutto per esser stati a lungo due travi portanti dei Katatonia.
Da una simile configurazione non poteva che venirne fuori una band dedita ad un sound oscuro ma, ovviamente, rispetto al robusto death doom melodico dei Swallow The Sun, viene esplorato il lato più intimista e soffuso, favorito dal timbro vocale di Aleah, delicato, a tratti quasi un sussurro lontano anni luce da gorgheggi o tentazioni operistiche e, forse anche per questo, del tutto adeguato alle intenzioni di Raivio.
Hour Of The Nightingale si rivela, fondamentalmente, uno scrigno di emozioni dal primo all’ultimo minuto, e non potevano esserci dubbi al riguardo, perché il musicista finnico ha dimostrato in tutti questi anni d’essere un compositore dotato di una sensibilità fuori dal comune, capace con il suo inconfondibile tocco chitarristico di indurre alla commozione gli innumerevoli fan della sua band principale.
Nei Trees Of Eternity, ovviamente, le coordinate sono ben diverse: la chitarra tesse sempre melodie struggenti, ma il tutto viene asservito alla voce carezzevole della Stanbridge piuttosto che a quella ben più ruvida di Kotamaki, e l’andamento dell’album procede di conseguenza, per oltre un’ora di poesia e bellezza che si fanno talvolta tangibili, quasi fisiche.
Dieci gemme musicali si susseguono senza che una pesante cappa di malinconia cessi di aleggiare sulle note prodotte da un gruppo in grado di offrire, a chi adora queste sonorità, un’esperienza unica per coinvolgimento emotivo …

Oh, al diavolo! Come si fa a continuare a parlare di questo disco senza tenere conto che Aleah non è più tra noi da quasi sei mesi? Come si può evitare d’esser trascinati in un gorgo di tristezza e disperazione nell’ascoltare le struggenti trame musicali e le laceranti e profetiche liriche che lei stessa ha scritto?
A partire da My Requiem, brano che apre l’album, dove Aleah canta “Too late you’re calling out my name /
To raise me up out of my grave / Alive in memory I’ll stay” fino ad arrivare alla strofa conclusiva di Gallows Bird (“As the last ray of hope is lost / fight and resistance / Nothing remains to hold / me to this existence”), non viene mai meno un costante groppo alla gola, che costringe ad un impari battaglia con la propria sensibilità per provare a ricacciare indietro le lacrime.
Quest’ultima, lunghissima traccia, che arriva dopo lo splendore acustico di Sinking Ships, ha davvero il sapore del commiato, con le sue atmosfere drammatiche nella fase iniziale, che riportano il sound al doom più dolente: la chitarra tesse melodie di incommensurabile bellezza mentre Aleah ci dona il privilegio di ascoltarla per l’ultima volta regalandoci, dopo l’intervento di un Nick Holmes mai così cupo, un’ultima parte in cui prevale, invece, un rabbrividente senso di pace e di consapevolezza.
Hour Of The Nightingale sarebbe stato lo stesso un disco stupendo, ma non si può negare che gli eventi nefasti precedenti l’uscita abbiano moltiplicato all’ennesima potenza un impatto emotivo già di suo oltre la norma.
Però, ripensandoci, l’idea di parlare di Aleah al presente non è stata affatto sbagliata: voglio credere che il suo spirito sia sempre accanto al suo compagno di vita Juha, aiutandolo a superare la sua perdita fornendogli l’ispirazione per elargirci altre impagabili emozioni.
E, in fondo, è proprio grazie all’immortalità conferita dall’arte che Aleah Stanbridge occuperà per sempre un posto di rilievo anche nel nostro cuore di semplici appassionati ed umili cronisti di tanta bellezza: Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Tracklist:
1.My Requiem
2.Eye Of Night
3.Condemned To Silence (feat. Mick Moss)
4.A Million Tears
5.Hour Of The Nightingale
6.The Passage
7.Broken Mirror
8.Black Ocean
9.Sinking Ships
10.Gallows Bird (feat. Nick Holmes)

Line-up:
Aleah Stanbridge – Vocals, Lyrics, Songwriting
Juha Raivio – Guitars, Songwriting
Kai Hahto – Drums
Fredrik Norrman – Guitars
Mattias Norrman – Bass

TREES OF ETERNITY – Facebook

Grodek – Downfall Of Time

Il disegno artistico dei Grodek trova già una propria parziale concretizzazione, esibendo in maniera convincente la robustezza delle trame death ed il senso di drammatica ineluttabilità del doom.

Secondo Ep per gli abruzzesi Grodek , band davvero interessante che si muove in bilico tra death melodico e doom in maniera, mantenendo sempre un invidiabile equilibro tra le varie componenti del sound.

Questa breve prova, intitolata Downfall Of Time (che si avvale, in copertina, di una splendida fotografia di Francesco Delli Benedetti), si lega in maniera ancora più esplicita al concept che sta alla base dell’opera dei quattro ragazzi di Vasto, ovvero quello di “cantare la decadenza, il vuoto ed il fango della nostra realtà, trasformando l’ansia e l’orrore in esperienza estetica”.
Un modo di definire la propria musica intrigante e sicuramente impegnativo, ma va detto che il sound dei Grodek non smentisce tale dichiarazione di intenti; i quattro brani, infatti, sono piuttosto nervosi e pervasi da una certa inquietudine e, dovendo trovare un possibile riferimento per inquadrare le sfumature musicali proposte, direi che, specialmente in From The Fog I Rose e Time And Black Tides, il primo nome che viene in mente sono i Novembers Doom.
Da sempre ritengo la band di Paul Kuhr piuttosto sottovalutata, pur essendo fautrice di un sound piuttosto peculiare e riconoscibile: il fatto che i Grodek in qualche modo li richiamino alla memoria, nello stile vocale di Matteo Colantonio e in diverse soluzioni sonore, è senz’altro un fattore positivo che non deve far pensare al contenuto di Downfall Of Time come un qualcosa di derivativo, semplicemente è normale per un gruppo alle prime uscite ricordarne, anche inconsciamente, altri già conosciuti.
Resta il fatto che, in questi 25 minuti, il disegno artistico dei Grodek trova già una propria parziale concretizzazione, perché oltre ai due brani citati, anche Naiade e The Pale Dame esibiscono in maniera convincente la robustezza delle trame death ed il tocco di drammatica ineluttabilità del doom.
Un’ottima prova per un gruppo che sembra già avere tutte le carte in regola per provare l’avventura su lunga distanza, proprio perché è netta la sensazione che questo sia solo l’inizio di un percorso musicale tutt’altro che banale.

Tracklist:
1. From The Fog I Rose
2. Naiade
3. The Pale Dame
4. Time And Black Tides

Line-up:
Matteo Colantonio – Vocals, Guitars
Tiziano De Cristofaro – Guitars
Alessandro Leone – Drums
Matteo Sputore – Bass

GRODEK – Facebook

Sorrowful Land – Of Ruins …

Con questo suo progetto solista, il musicista ucraino può dare sfogo ad un’indole che lo porta ad avvicinare il death doom di matrice svedese.

Avevamo già potuto apprezzare il talento compositivo di Max Molodtsov in occasione delle due uscite del 2014 targate Edenian, dove con il nickname di Eternal Tom si cimentava in un gothic doom con tanto di voce femminile, sulla scia dei Draconian.

Con questo suo progetto solista, il musicista ucraino può dare sfogo ad un’indole che lo porta ad avvicinare il death doom di matrice svedese, in scia ai When Nothing Remains (non a caso Peter Laustsen fa capolino in On Another’s Sorrow) e i Doom Vs. di quel Johan Ericson che, per Molodtsov, costituisce sicuramente un modello dal punto di vista chitarristico, vista la notevole affinità di tocco già evidenziata nei lavori degli Edenian.
Con questi riferimenti e le già riconosciute doti tecniche di prim’ordine da mettere sul piatto, era fin troppo facile prevedere la riuscita di quest’esordio dei Sorrowful Land: grandi melodie, splendido lavoro chitarristico, vocals convincenti ed atmosfere pregne di dolente malinconia, nulla che non vada, insomma.
Se proprio vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo, Of Ruins … in certi tratti potrebbe davvero essere scambiato per un nuovo album dei When Nothing Remains, ma alla fine chi se ne importa, quando nel lettore scorrono cinquanta minuti di death doom melodico di prima qualità: noi appassionati del genere chiediamo essenzialmente ai musicisti di emozionarci, e lasciamo volentieri la ricerca della pietra filosofale (sotto forma di originalità) a chi possiede menti meno semplici e lineari delle nostre …
Con gli indizi che ho fornito mi pare superfluo spiegare ulteriormente i contenuti del lavoro: chi ama le band citate si immerga senza indugio nell’ascolto dei brani grondanti emozioni contenuti in Of Ruins …

Tracklist:
1. A Reminiscence
2. Requiescat
3. On Another’s Sorrow
4. Of Ruins
5. In The Tyme Of Tyrants
6. Echoes Of Endless Silence

Line-up:
Max Molodtsov

SORROWFUL LAND – Facebook

Stone Ship – The Eye

Un bel lavoro, che probabilmente rappresenterà la prima ed ultima testimonianza discografica degli Stone Ship

Dei finlandesi Stone Ship non si può certo dire che in occasione del disco d’esordio abbiano attuato una politica dei piccoli passi.

The Eye, infatti, consta di due sole tracce per un totale di oltre tre quarti d’ora di musica, strano e forse audace, ma nemmeno tanto se si pensa alla matrice doom della band finnica.
Prendendo le mosse dai numi tutelari del genere quali Candlemass e Pentagram, gli Stone Ship riescono a giustificare la lunghezza delle due tracce con un’impostazione coerente con un’indole che li porta a sviluppare lunghe jam in sede compositiva.
Il risultato è senz’altro i linea con le aspettative di chi ama un genere che quelli della “nave di pietra” dimostrano di conoscere molto bene: passaggi in linea con la tradizione del genere si alternano a sprazzi di psichedelia, nel corso dei quali i musicisti lasciano libero sfogo all’istinto e alla creatività.
Nonostante questo, i due brani, benché lunghissimi, non sono particolarmente dispersivi, mantenendo ben salda l’impronta doom senza apprire audacemente sperimentali: merito di soluzioni sonore, queste sì, in linea con i dettami conosciuti, con accordature ribassate e voce stentorea e molto comunicativa.
Tra la coppia di lunghi brani, The Crooked Tree, il secondo dei due monoliti scagliati sul pianeta dalla band proveniente da Lahti (tempio degli sport invernali), gode di una line melodica molto ben definita , nonostante diversi cambi di passo, risultando più coinvolgente rispetto alla comunque buona The Ship Of Stone.
The Eye è stato pubblicato in formato musicassetta nel 2015 e solo quest’anno è stato edito su supporto digitale: questo sicuramente avrebbe potuto consentire agli Stone Ship di aumentare non poco i numeri dei propri estimatori, ma ci risulta che la band sia di fatto in stand by da circa due anni, da quando, purtroppo, il batterista e fondatore A. Lehto è tragicamente deceduto. I restanti tre ragazzi hanno dichiarato di non voler cercare un nuovo batterista, decidendo di dedicarsi alle altre band nelle quali sono coinvolti, il che fa presumere che The Eye possa, alla fine, costituire la prima e l’ultima testimonianza discografica degli Stone Ship.
Un vero peccato, perché questo gruppo aveva tutti i numeri per ritagliarsi un posticino tra le varie realtà di culto che la scena doom annovera, in virtù di un approccio molto settantiano in cui i suoni scorrono come un flusso lisergico e venefico.

Tracklist:
1. The Ship of Stone
2. The Crooked Tree

Line-up:
A. Lehto – Drums, Keyboards, Vocals (backing)
R. Pesonen – Bass, Guitars (acoustic), Narration
M. Heinonen – Vocals
J. Kuosmanen – Guitars

STONE SHIP – Facebook

Zaum – Eidolon

Una musica non per tutti ma estremamente affascinante, ricca ed assolutamente fuori dal comune.

Immaginate di partire per un viaggio onirico ed astrale, passeggiare tra epoche millenarie mentre intorno a voi figure mitologiche appaiono e scompaiono o, semplicemente accompagnano il vostro peregrinare in mondi dimenticati dal tempo: questo è ciò che suscita l’ascolto di Eidolon, monumentale lavoro del duo canadese Zaum, parola che indica un linguaggio che un gruppo di poeti futuristi russi provò a creare nello scorso secolo.

Attraverso la musica di questa coppia di sciamani del nuovo millennio, Kyle Alexander McDonald (basso, sitar, synth e voce) e Christopher Lewis (batteria), verrete ancora una volta, dopo il debutto Oracles uscito due anni fa, trasportati fuori dal vostro corpo, in un’esperienza che trascende il reale per l’astrale, due brani di una ventina di minuti ciascuno, lenti e psichedelici, stonerizzati e messianici, un trip lunghissimo, da perdersi in un mondo lontano anni luce dal nostro vivere quotidiano.
Le due tracce partono lente, ipnotizzanti, per poi esplodere in attimi di doom/stoner potentissimo e ritornare subito dopo alle atmosfere sulfuree e spirituali.
Un doom mantra, come lo chiamano loro, e mai etichetta è stata più azzeccata per descrivere il sound prodotto nelle due lunghissime suite Influence Of The Magi e The Enlightenment.
Esperienze meditative, magari con qualche aiutino illegale, sfumature orientaleggianti, atmosfere magiche e profonde che necessitano di un ascolto attento e concentrato, musica per chi non si fa distrarre ed entra dalla porta principale nel mondo parallelo sognato dagli Zaum.
Una musica non per tutti ma estremamente affascinante, ricca ed assolutamente fuori dal comune.

TRACKLIST
1.Influence of the Magi
2.The Enlightenment

LINE-UP
Kyle Alexander McDonald – Vocals, Bass, Sitar, Synth
Christopher Lewis – Drums

ZAUM – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard – Y Proffwyd Dwyll

La band sostiene d’essere “la colonna sonora ideale per il nostro prossimo viaggio intergalattico”. Da sentire.

Dal Nord del Galles (Wrexham) discende questo immane flusso di energia doom con flavour psichedelico e cosmico; sono in quattro con stellare voce feminile (Jessica Ball) e sono emersi nel 2015 con un monolite nero (Nachthexen) di trenta minuti, replicato nello stesso anno con il full “Noeth ac Anoeth” che continua a definire il “loro” doom aggiungendo due ulteriori lunghe tracce ipnotiche e stordenti.

E ora nel settembre 2016 esplode, è proprio il caso di dirlo, questo nuovo lavoro con sei brani dal minutaggio più contenuto (in media 8-9 minuti) rispetto al precedente; il loro sound di una pesantezza trascendentale si alimenta di pachidermici riff accompagnati, sovrastati dalla ultraterrena voce della bassista e vocalist Jessica; il synth suonato un po’ da tutti i musicisti proietta il suono verso orizzonti cosmici sconfinati ed inesplorati, avvolgendo il tutto in spire scure e profonde.
A differenza della prima opera, dove spiccava il suddetto monolite nero di trenta minuti, qui i brani, tutti di simile alto valore, appaiono come una “massa” cangiante, inarrestabile nel suo scorrere che può ricordare il kraut rock degli anni 70′, con gocce ben udibili di suoni hawkindiani in alcuni tratti., il tutto sempre con spiccata sensibilità doom.
La band in questi 2 anni ha elaborato il suo suono, con diversi concerti in terra albionica e oltre mare suonando con gruppi come Monolord, Ramesses, All Them Witches, tutte realtà che profumano di doom “mutante”, non disdegnando di misurarsi anche con enormità come gli immensi Napalm Death e i polacchi Behemoth.
Accompagnato anche da un bella confezione apribile a formare una croce, il consiglio è quello di “assaggiare” il disco più e più volte per assaporare a fondo il viaggio intrapreso da questi ragazzi che, spero, decidano di farsi ascoltare “live” anche nelle nostre terre !

TRACKLIST
1. Valmasque
2. Y Proffwyd Dwyll
3. Gallego
4. Testudo
5. Osirian
6. Cithuula

LINE-UP
Paul M.Davies – lead guitar, moog synth, sampletron
Jessica Ball – bass,vocals, cello, sampletron
Wes Leon – rhythm guitar, moog synth
James Carrington – drums, moog synth

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

Doomcult – End All Life

End All Life rappresenta una bella novità che lascia una certa dose di curiosità nel vedere quali saranno le prossime mosse dei Doomcult.

Doomcult è il nome del progetto solsita di J.G. Arts, musicista olandese conosciuto in precedenza per la sua militanza nelle vesti di bassista e cantante dei thrashers Bulldozer Breed.

Trattandosi di una prima uscita, peraltro da parte di qualcuno che, almeno per quanto se ne possa sapere, non aveva avuto a che fare con il doom prima d’ora, End All Life è davvero un lavoro sorprendente.
Il pregio dell’album è quello di racchiudere una forma di doom piuttosto dinamica e con una buona dose di melodia, il che lo rende piuttosto ascoltabile anche se, ovviamente, quando ci si trova alle prese con questo genere, parlare di semplice fruibilità appare quasi una bestemmia.
In realtà, Arts riesce brillantemente a sfuggire alle tentazione di accodarsi alla florida scena gothic doom del suo paese, optando per una versione del genere molto naif, a partire dalla voce, un ringhio un po’ sgraziato, che può ricordare a grandi linee quello di Mister Curse dei grandi A Forest of Stars ed anche, a tratti, quello di Patrick Harreman dei connazionali Moon Of Sorrow.
Proprio questi ultimi, band capace di dare alle stampe alcuni album formidabili quanto sottovalutati all’inizio degli anni novanta, potrebbero essere audacemente considerati un possibile quanto inconscio punto di riferimento, soprattutto per l’aspetto melodico, anche perché i Doomcult sono comunque fedeli alla propria ragione sociale per cui i ritmi sono ovviamente più rallentati, ma una traccia come Ravens ne ricorda non poco le gesta, al netto di un sound più ruvido e privo dell’apporto delle tastiere.
Il musicista dei Paesi Bassi convince con il suo doom non così scontato, nonostante in sede di presentazione si citi l’immancabile triade albionica quale fonte di ispirazione, cosa che non mi trova affatto d’accordo dovendo basarmi su ciò che End All Life restituisce (forse qualcosa dei Paradise Lost, ma di primi Anathema e My Dying Bride non c’è alcuna traccia, direi); al di là di questo, che non è poi così importante, a fare molta della differenza sono le brillanti intuizioni chitarristiche che Arts dissemina in ogni brano, tenendosi alla larga da tentazioni sperimentali: qui il doom vien proposto in una forma ruvida, diretta e dannatamente efficace e, appunto, parzialmente inattesa visto il background musicale di Arts.
Non è un caso però, se i brani più efficaci sono anche i più movimentati, come Ravens e Wrath, ma nel complesso funziona tutto piuttosto bene all’interno di questi tre quarti d’ora di musica di grande sostanza.
End All Life rappresenta una bella novità che lascia una certa dose di curiosità nel vedere quali saranno le prossime mosse dei Doomcult.

Tracklist:
1. Angel
2. Master
3. Ravens
4. Wrath
5. Hammer
6. Dawn
7. End All Life

Line-up:
J.G. Arts Vocals, All instruments

DOOMCULT – Facebook

Clouds – Departe

Departe è uno dei capolavori dell’anno, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom.

Quando qualche anno fa Daniel Neagoe, tra un capolavoro e l’altro dei suoi Eye Of Solitude, mise in piedi il progetto denominato Clouds, c’era la sensazione che potesse trattarsi di un progetto estemporaneo, per quanto splendido, alla luce di una line-up composita dal punto di vista logistico.

Oggi, anche se le redini compositive sono sempre ben salde nelle mani del musicista rumeno, con il secondo full length intitolato Departe, i Clouds fanno quel definitivo salto di qualità che conferma e rafforza il valore espresso con il precedente Doliu, facendolo apparire ancor più frutto del lavoro di una vera e propria band, e che band …
La definizione di supergruppo del funeral/death doom qui ci sta tutta e nessuno la può contestare: possiamo definire altrimenti un combo che presenta, oltre al proprio mastermind, il suo storico sodale Déhà (Deos, Slow, Imber Luminis, Yhdarl, We Al Die Laughing, e altri mille), Mark Antoniades (Eye Of Solitude), Jón Aldará (Hamferd, Barren Earth) Pim Blankenstein (Officium Triste), Natalie Koskinen e Jarno Salomaa (Shape Of Despair), Kostas Panagiotou (Pantheist, Wijlen Wij) e Shaun MacGowan (My Dying Bride)?
Non sempre la somma dei valori in campo corrisponde al prodotto finale, ed è proprio su questo punto che Departe ribalta le carte in tavola, riuscendo paradossalmente a spingersi anche oltre.
Clouds nasce come un progetto dedicato a chi non è più tra noi e questo, dal lato compositivo, si percepisce in ogni singola nota tramite la quale l’ascoltatore viene sommerso dalla commozione, il dolore ed il rimpianto, tutti sentimenti espressi da brani di bellezza irreale.
How Can I Be There è la prima gemma che si palesa alle nostre fortunate orecchie: una lunga e soffusa introduzione prepara il terreno al climax, che sopraggiungerà al momento dell’esplosione del growl di Daniel all’unisono con gli strumenti in sottofondo, seguendo un modus operandi non dissimile da quello degli Eye Of Soitude: nulla di strano, quando la mente compositiva è la stessa, ma nel sound dei Clouds è la malinconia, che questa traccia riesce a produrre a profusione, a prevalere sulla disperazione.
Migration è semplicemente uno dei brani più belli e toccanti mai ascoltati nella mia già abbastanza lunga vita di musicofilo: la voce spettacolare di Jón Aldará è il valore aggiunto, grazie a superlative clean vocals  che fungono da contrappeso ad un growl catacombale e a una struttura musicale che non lacera con il suo penoso incedere, bensì penetra e si insinua sottopelle con tutto il suo carico di nostalgico rammarico.
In The Ocean Of My Tears, interpretata da Natalie Koskinen, è un altro esempio di poesia musicale, introdotta da atmosfere dal sapore folk: ciò che nel brano si perde in drammaticità, si acquisisce in levità grazie alla voce della cantante finlandese e, in fondo, si rivela un mezzo diverso per evocare ugualmente quel senso di abbandono che nell’album non viene mai meno.
In All This Dark è uno dei sempre più frequenti brani in cui le clean vocals sono utilizzate in maniera consistente da Daniel Neagoe in alternativa al growl, a conferma di una crescita esponenziale negli ultimi anni della sua tecnica vocale, il che lo ha portato ad essere una delle migliori voci del metal odierno, non solo del genere specifico: anche quest’episodio conserva un livello di pathos non comune, pur mantenendo caratteristiche quanto mai atmosferiche.
E’ uno dei decani della scena, Pim Blankestein, storica voce degli Officium Triste, a prendere la scena nella magnifica Driftwood, assieme all’inconfondibile tocco chitarristico di Salomaa, che tesse nel finale una tela di passaggi indimenticabili.
La chiusura è affidata a I Gave My Heart Away, ed è inutile sottolineare quanto si tratti dell’ennesima gemma musicale, regalata a chi ne sa godere, contenuta in quest’album: chitarra, tastiere e violino producono un insieme che va a creare un contrasto esaltante con il growl, a sua volta appoggiato su un tappeto sonoro che, per quanto toccante, mostra fiochi barlumi di luce.
I Clouds rappresentano l’altra faccia della medaglia degli Eye Of Solitude, a ben vedere: se questi ultimi raffigurano in maniera tragica ed aspra il malessere esistenziale e la conseguente reazione all’ineluttabilità di un destino già scritto, i primi prefigurano una sorta di rassegnata accettazione di tutto questo, esprimendola con un sound più atmosferico e soffuso, dai toni consolatori.
Se vogliamo, anche il passaggio dal lutto (Doliu) alla lontananza (Departe) porta su un piano differente l’elaborazione del dolore: nel primo caso si descrivono la fase del distacco e le inevitabili lacerazioni che esso provoca, mentre nel secondo chi è scomparso fisicamente viene idealizzato spiritualmente in un non-luogo, il che consente di conservarne con nitidezza il ricordo, finendo per esacerbare ancor più il rimpianto .
Departe è uno dei capolavori dell’anno, e questo sia chiaro, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom. Qui siamo di fronte ad un’opera d’arte musicale che travalica generi e mode, peccato per chi pensa che la musica debba essere solo allegra, con la finalità di far muovere le membra umane in una grottesca e plastificata simulazione di felicità; i Clouds, al contrario, conducono ad un’estasi raggiungibile necessariamente tramite una catarsi emotiva indotta dalla tristezza.
Qualcuno ha scritto che un essere umano incapace di emozionarsi fa paura: sottoscrivo in pieno.

Tracklist:
1. How Can I Be There
2. Migration
3. In the Ocean of My Tears
4. In All This Dark
5. Driftwood
6. I Gave My Heart Away

Line-up:
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Jarno Salomaa – Guitars
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Pim Blankenstein – Vocals
Eek – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Natalie Koskinen – Vocals
Shaun MacGowan – Violin

CLOUDS – Facebook

The Burning Dogma – No Shores Of Hope

No Shores Of Hope è un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.

Uno pensa: chi te lo fa fare di passare gran parte del tempo libero a tenere in piedi, assieme a qualche altro malato di mente, una webzine dalla quale non ci si guadagna nulla ?

La risposa sta, come il veleno, nella coda: chi l’ha detto che non ci si guadagna? Per esempio, se non fossero stati gli stessi The Burning Dogma ad inviarmi il promo del loro disco ai fini di una recensione, quante probabilità avrei avuto di ascoltarlo? Diciamo ben poche.
Ecco, la vera ricompensa di chi si dedica ad un (non) lavoro come questo è proprio quella di scoprire e godersi realtà ai più sconosciute ma capaci di produrre musica del tutto all’altezza di nomi ben più pubblicizzati.
No Shores Of Hope è il primo full length di questa band bolognese che, già da qualche anno, prova ad agitare i sonni dell’apparentemente placida Emilia con un death metal dai tratti progressivi e sinfonici e, probabilmente, l‘essere giunti alla prova della lunga distanza senza aver affrettato i tempi deve aver giovato non poco alla resa finale del lavoro.
Il sound dei The Burning Dogma è nervoso, oscuro e cangiante, a volte quasi in maniera eccessiva a causa di fulminei cambi di tempo che possono disorientare l’ascoltatore meno scafato o, comunque, meno propenso ad approfondire i contenuti di un album complesso ma dotato di grande fascino.
Un umore disturbante che si addice a No Shores Of Hope, un concept che affronta temi magari non nuovissimi ma sempre attuali, come il degrado dell’umanità e la necessità di lottare affinché tale deriva si arresti, in modo da poter trascorrere al meglio un esistenza destinata prima o poi ad una fine ineluttabile: la rappresentazione di tutto questo avviene tramite un death metal tecnico, che si sviluppa tra pulsioni melodico/sinfoniche e rallentamenti di matrice doom, arricchito da inserti elettronici presenti per lo più nei brevi intermezzi strumentali.
Lo screaming quasi di matrice black esibito da Andrea Montefiori viene talvolta alternato ad un più canonico robusto growl, ed anche questa varietà vocale finisce per costituire un ulteriore elemento di discontinuità in un album che è ricco di sorprese e di spunti eccellenti, oltre che di una serie di brani la cui pesantezza è stemperata sia dalla tecnica, che i musicisti mettono al servizio del songrwriting (e non viceversa), sia dagli spunti melodici che segnano un po’ tutti brani.
Spiccano, in una tracklist priva di punti deboli, la più catchy Skies Of Grey, ammorbidita da una bella voce femminile, la spigolosa Nemesis e No Heroes Dawn, parte centrale della trilogia Dawn Yet To Come, dove viene riproposto un frammento tratto da Inpropagation, traccia d’apertura della pietra miliare Necroticism …, quale doveroso omaggio ad una band come i Carcass alla quale sicuramente i The Burning Down si ispirano, specie nelle piuttosto ricercate evoluzioni chitarristiche.
No Shores Of Hope, quindi, si rivela un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.

Tracklist:
01. Waves Of Solitude
02. The Breach
03. Enigma Of The Unknown
04. Skies Of Grey
05. Feast For Crows
06. Burning Times
7. Distant Echoes
08. Hopeless
09. Dying Sun
10. Nemesis
11. Dawn Yet To Come – 1. Drowning
12. Dawn Yet To Come – 2. No Heroes Dawn
13. Dawn Yet To Come – 3. Uscimmo A Riveder Le Stelle

Line-up:
Maurizio Cremonini – Lead Guitar
Diego Luccarini – Rhythm Guitar
Giovanni Esposito – Keys
Antero Villaverde – Drums
Simone Esperti – Bass
Andrea Montefiori – Vocals

THE BURNING DOGMA – Facebook

Riti Occulti – Tetragrammaton

La prestazione dei Riti Occulti è superba e mi costringe a ripetere (anche a chi non vuole sentire) che in Italia l’arte gravitante attorno alla scena metal è più che mai viva e ricca di musicisti ricchi di ispirazione e piglio innovativo.

Il terzo album dei Riti Occulti è la dimostrazione, per la band romana, di un’impressionante coerenza nei confronti del monicker prescelto, cosa non sempre scontata.

Chi si avvicinasse all’opera del gruppo laziale, infatti, si sorprenderebbe solo per la qualità musicale esibita, perché le sonorità non lasciano spazio a dubbi riguardo alla sincerità e alla competenza con la quale la materia occulta viene maneggiata.
E’ altresì vero che l’approccio dei Riti Occulti non possiede le connotazioni orrorifiche di molti che si cimentano in territori contigui e, del resto, anche la conformazione strumentale prescelta fornisce indizi di grande discontinuità: la rinuncia alla chitarra e l’utilizzo di due voci femminili, una affidata alle tonalità stentoree di Elisabetta Marchetti e l’altra allo spietato growl di Serena Mastracco (che ben conosciamo per la sua militanza nei Consummatum Est e nei Vidharr), costituiscono un indizio eloquente su quanto la band si muova con traiettorie oblique che attraversano le diverse sfumature della musica più oscura.
Non a caso mi trovo in seria difficoltà nel definire od avvicinare Tetragrammaton ad uno stile musicale ben preciso: probabilmente la base predominante è il doom, ma l’indole progressive e l’elemento psichedelico mescolano costantemente le carte in tavola, sicché l’album finisce per essere, come desiderato dai propri autori, un costante flusso sonoro in cui il basso martellante diviene un minaccioso rombo che, assieme a tastiere dal sapore antico e ad un drumming molto asciutto, funge da sottofondo alle evoluzioni delle due cantanti.
Tetragrammaton trova il suo fulcro nella quarta parte di Adonai, dove in avvio il basso di Niccolò Tricarico ricorda non poco quello di Waters nel finale di Echoes, e nell’intensità spasmodica della conclusiva Yetzirah, essendo i due brani che maggiormente colpiscono, pur essendo tutt’altro che di semplice fruibilità.
Il lavoro, infatti, costringe l’ascoltatore a non abbassare mai la soglia dell’attenzione, perché anche nei rari momenti in cui l’album pare assumere uno schema compositivo più tradizionale, avvicinandosi al doom con voce femminile in stile Jex Thoth, aleggia sempre un sottofondo sonoro che non lascia respiro, tra dissonanze ritmiche e atmosfere cariche di tensione che trova sublimazione nell’efferato growl della Mastracco.
La prestazione dei Riti Occulti è superba e mi costringe a ripetere (non che mi dispiaccia, ma ho sempre più netta la sensazione che sia fatica sprecata) che in Italia l’arte che gravita attorno alla scena metal è più che mai viva e ricca di musicisti ricchi di ispirazione e piglio innovativo. Poi sarò smentito, e ne sarò felice, ma sono sicuro che fuori dai nostri confini una band come questa si è già guadagnata una buona fetta di estimatori, mentre dalle nostre parti lo si può solo sperare .…

Tracklist:
01 – Invocation of the Protective Angels
02 – Adonai I
03 – Adonai II
04 – Adonai III
05 – Adonai IV
06 – Atziluth
07 – Beri’Ah
08 – Yetzirah
09 – Assiah

Line-up:
Serena Mastracco: Harsh Vocals
Elisabetta Marchetti: Clean Vocals
Niccolò Tricarico: Bass
Francesco Romano: Drums
Giulio Valeri: Synthesizers

RITI OCCULTI – Facebook

Cóndor – Sangreal

I ragazzi colombiani offrono un’interpretazione della materia così genuina che pare arrivare da altri tempi, ed è proprio questo che rende ben più che degno di un ascolto il loro sforzo compositivo.

E’ il nome del volatile andino per eccellenza il monicker scelto dai colombiani Condor, autori di un doom dai tratti epici.

Sangreal è il terzo full length della band di Bogotá, che si disimpegna piuttosto bene offrendo una cinquantina di minuti di musica intensa, in molti tratti evocativa, nonché piuttosto vintage per approccio e scelta dei suoni.
Proprio tale aspetto costituisce croce e delizia di un lavoro che, se guadagna senz’altro in spontaneità ed immediatezza, perde molto però per ciò che riguarda esecuzione e produzione.
L’arrangiamento minimale e l’inserimento di vocals pulite sicuramente rivedibili (in particolare nella title track) sono le pecche maggiori di Sangreal, che resta comunque un opera di un certo valore, proprio per il suo distanziarsi anche stilisticamente dalla maggior parte delle produzioni odierne.
I ragazzi colombiani offrono, in fondo, un’interpretazione della materia così genuina che pare arrivare da altri tempi, ed è proprio questo che rende ben più che degno di un ascolto il loro sforzo compositivo.
La parte centrale, contraddistinta da due brani molto intensi come Viejo Jabalí e Outremer, è quella che offre il meglio, ma nel complesso l’operato dei Condor è apprezzabile nel suo insieme, a patto di non soffermarsi troppo sugli aspetti meramente formali e chiudendo un occhio su qualche ingenuità che fa capolino qua e là all’interno della tracklist: questo è un bel doom, suonato e composto con passione, e di solito chi apprezza il genere non è ossessionato dalle raffinatezze stilistiche, o sbaglio ?

Tracklist:
1. Sangreal
2. Se extienden las sombras
3. Viejo jabalí
4. Outremer
5. Sainte-Terre
6. El árbol de la muerte
7. Roncesvalles

Line-up:
Andrés Vergara – Drums
Antonio Espinosa – Guitars, Vocals
Jorge Corredor – Guitars
Francisco López – Guitars
Alejandro Madiedo – Bass

CONDOR – Facebook

Abysmal Grief – Reveal Nothing…

Una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.

Sono già passati vent’anni da quando, in qualche anfratto di Genova, qualcuno decideva di mettere in musica la rappresentazione della morte, rendendo la materia doom un qualcosa di profondamente liturgico e sviscerando tutto quanto sia connesso con il momento del trapasso, senza lasciare da parte, però, una sottile vena di humor nero.

Gli Abysmal Grief sarebbero diventati in seguito i veri sacerdoti dell’horror/occult metal tricolore nel nuovo millennio, acquisendo uno status di culto riconosciuto anche fuori dai confini, in virtù di un sound peculiare che unisce il gothic alla Fields of the Nephilim alle ritmiche cadenzate del doom, con la decisiva immissione di quella gustosa componente horror che in Italia non ha eguali grazie a nomi quali Death SS e Antonius Rex, tra gli altri.
La ricorrenza viene così festeggiata con la pubblicazione (il 2 novembre …) di un box a forma di bara, contenente il cd Reveal Nothing… e la cassetta Mors Te Audit, contenente il secondo demo realizzato all’epoca in versione limitata di 13 copie.
L’operazione si rivela quanto mai esaustiva, in quanto il cd contiene di fatto tutti i brani incisi dagli Abysmal Grief che non sono mai stati inseriti in un loro full length: troviamo, quindi, una spettacolare sequela di tracce riconducibili alla miriade di singoli e split album che i nostri non hanno mai lesinato in tutti questi anni.
Un vero godimento per chi ama questa particolare forma musicale ed è irresistibilmente attratto da quanto, normalmente, nelle persone comuni provoca terrore o repulsione; e, in fondo, il trucco sta tutto qui: giocare con la morte per esorcizzarne il naturale timore e in qualche modo rendere più accettabile il suo incombere.
Detto questo, non resta che rendere onore a questa band facendo proprio questo prezioso prodotto che, oltre all’originale confezione, consente di godere dell’ascolto di una serie di brani magnifici, a partire dall’inedito Cursed Be The Rite, perfettamente in linea con la produzione recente, dai ritmi più incalzanti e meno doom nella sua impronta, una differenza che si coglie peraltro, in maniera evidente, ascoltando subito dopo Exsequia Occulta, alla superba traccia risalente al 2000, passando per il climax orrorifico corrispondente a Creatures Fron The Grave (tratta dallo split del 2004 con Tony Tears).
Insomma, una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.

Tracklist:
1. Cursed Be The Rite (Bonus Track – recorded in 2016)
2. Exsequia Occulta (2000 – Exsequia Occulta MCD)
3. Sepulchre Of Misfotune(2000 – Exsequia Occulta MCD)
4. Hearse (2002 – Hearse 7”EP)
5. Borgo Pass (2002 – Hearse 7”EP)
6. Creatures From The Grave (2004 – Split W/Tony Tears 7”EP)
7. Brides Of The Goat (2009 – Split W/Denial Of God 7”EP)
8. The Samhain Feast (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
9. Grimorium Verum (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
10. Celebrate What They Fear (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)
11. Chains Of Death (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)

Tape
1. Intro
2. Open Sepulchre
3. Ignis Fatuus
4. Hearse
5. Grimorium Verum

Line-up:
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Revelations Of Rain – Akrasia

L’ennesimo magnifico parto di una scena russa composta da una moltitudine di band in grado di elevare il funeral/death doom ai suoi massimi livelli.

Giunti al loro quinto full length, i russi Revelations Of Rain (o Otkroveniya Dozhdya, come sono conosciuti nella loro lingua) regalano agli appassionati di death doom un lavoro di elevato spessore, in grado di racchiudere quanto di meglio la scenda estrema della musica del destino ha offerto in questi ultimi anni.

Rispetto al precedente Deceptive Virtue, che già si segnalava come un magnifico disco, la band proveniente da Podolsk inasprisce non poco un sound che trovava le sue fondamenta nell’essenza più melodica del genere (My Dying Bride, Saturnus, Swallow The Sun, Ea) attingendo ad elementi di dissonanza che rimandano agli Esoteric, a certe aperture riconducibili ai Monolithe, oltre che alla cupa indole nichilista dei Comatose Vigil.
Certo, del funeral qui c’è più un’attitudine che la forma vera e propria, visto che i ritmi non sono quasi mai soffocanti ma semmai lo sono le strutture dei brani, che restano arcigni pur se pervasi da splendide melodie.
Proprio questo suo essere algido e nel contempo emozionale è il punto di forza di Akrasia, un lavoro che al primo impatto lascia più di una perplessità e al quale, pertanto, bisogna assolutamente dare il tempo di crescere, ascolto dopo ascolto, giorno dopo giorno.
Poi, sarà anche perché dopo tre anni ci abbiamo ormai fatto l’abitudine ad album cantati un po’ in tutte le lingue, il fatto che i Revelations Of Rain continuino ad utilizzare il loro idioma natio non costituisce più un problema, anzi, forse consente loro di aumentare l’impatto e la convinzione con cui si propongono anche al pubblico straniero.
Come in Deceptive Virtue, l’elemento predominante è la chitarra solista di Yuriy Ryzhov, capace di sfornare quasi a getto continuo melodie splendide e dolenti, supportato al meglio dal growl massiccio del fondatore (nonché chitarrista) Ilya Remizov e, fatto salvo l’ordinario strumentale Instead Of A Thousand Words, Akrasia è uno scrigno colmo di gioielli preziosi, tra i quali i più splendenti sono una magistrale In Joy And Sorrow e l’accoppiata finale Root Of All Evil e On Snow Wings.
Più ombroso rispetto al predecessore, l’ultimo album dei Revelations of Rain appare però più profondo e capace di reggere in maniera prolungata gli ascolti, mostrandosi, in ogni caso, l’ennesimo magnifico parto di una scena russa composta da una moltitudine di band in grado di elevare il funeral/death doom ai suoi massimi livelli.

Tracklist:
1. Altar’ Bludnic – Altar Of Whores
2. Skvoz’ Noch’ Fobetora – Through Phobetor’s Night
3. Jeshafot – Scaffold
4. V Grusti I Radosti – In Joy And Sorrow
5. Vmesto Tysjachi Slov – Instead Of A Thousand Words
6. Demony Miloserdija – Demons Of Mercy
7. Koren’ Vseh Bed – Root Of All Evil
8. Na Snezhnyh Kryl’jah – On Snow Wings

Line-up:
Olesya Muromskaya – Bass
Ilya Remizov – Vocals, Guitars
Denis Demenkov – Drums
Yuriy Ryzhov – Guitars

REVELATIONS OF RAIN – Facebook