Die Apokalyptischen Reiter – Der Rote Reiter

Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e all’insegna di una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.

I Die Apokalyptischen Reiter arrivano al loro decimo full length, un traguardo ragguardevole per una band dalla storia ultraventennale, tanto più se all’insegna dell’anticonvenzionalità unita ad un elevato livello medio.

Probabilmente l’effetto sorpresa che rendeva irrinunciabili lavori come Samurai e Riders Of The Storm è venuto un po’ meno, complice anche un progressivo indurimento del sound che ha portato i nostri in più di un frangente ad avvicinare stilisticamente i connazionali Rammstein, dai quali comunque divergono per un approccio più scanzonato e in generale più rock oriented.
In ogni caso Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e contraddistinto da una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
Come per le migliori band, quello che fa la differenza è un’impronta personale che resta a prescindere dal diverso approccio che si può riscontrare prendendo in esame i singoli album, e questo viene confermato fin dalle prime note di Wir sind zurück, brano DAR al 100%, furiosamente melodico ed accattivante, mentre la più violenta ed anche cupa title track rappresenta uno dei corrispettivi più metallici del lavoro.
Con Auf und nieder si torna a quelle melodie chitarristiche vagamente folk che fungono da prologo ad una struttura fortemente orecchiabile ed esibiscono in maniera più esplicita il trademark della band, che poi si lascia andare ad un’altra traccia fortemente rammsteiniana come Hört mich an, dove comunque sia l’utilizzo della chitarra in fase solista e la grande versatilità vocale di Fuchs mantengono il sound a distanza di sicurezza da quello tipico del gruppo berlinese.
Del resto se, in The Great Experience of Ecstasy, l’ingannevole punk hardcore iniziale prelude ad un finale altamente evocativo, con la magnifica Herz In Flamme si finisce addirittura dalle parti del death melodico, mentre la solennità del chorus all’interno del disturbato incedere di Ich nehm dir deine Welt prelude alla chiusura rappresentata dalla gradevole ballata Ich werd bleiben.
I Die Apokalyptischen Reiter fanno parte di quella categoria di band che non lasciano indifferenti, nel bene o nel male: personalmente, oltre ad amare in maniera illogica l’idioma tedesco applicato al rock ed al metal (pur non capendone una parola) ho sempre apprezzato questo bizzarro combo, considerandolo quale portatore di un’espressione fresca ed originale e, sicuramente, Der Rote Reiter non mi farà recedere da tale giudizio.

Tracklist:
1. Wir sind zurück
2. Der rote Reiter
3. Auf und nieder
4. Folgt uns
5. Hört mich an
6. The Great Experience of Ecstasy
7. Franz Weiss
8. Die Freiheit ist eine Pflicht
9. Herz in Flammen
10. Brüder auf Leben und Tod
11. Ich bin weg
12. Ich nehm dir deine Welt
13. Ich werd bleiben

Line up:
Volk-Man – Bass
Dr. Pest – Keyboards
Fuchs – Vocals, Guitars
Sir G. – Drums
Ady – Guitars

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – Facebook

Lascar – Saudade

Il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia.

Secondo full length in un breve lasso di tempo per il cileno Gabriel Hugo ed i suo progetto solista Lascar, dopo Abscence uscito all’inizio del 2016.

Saudade continua con lo stesso canovaccio, ovvero quella di un post black dalle terminazioni shoegaze e depressive, sulla falsariga di nomi come Ghost Bath ma, ovviamente molto meno curato a livello di produzione e sicuramente più genuino e sentito dal punto di vista compositivo.
Lo screaming di matrice DSBM del musicista di Santiago si staglia su un tessuto sonoro che sovrappone accelerazioni in blast beat a passaggi ariosamente malinconici leggermente affossati da un lavoro alla consolle non proprio impeccabile, senza che però il tutto vada a vanificare la buona propensione melodica dell’opera nel suo insieme.
Il modus operandi si ripete puntualmente in ognuna delle quattro tracce dalla lunghezza media di una decina di minuti, senza presentare quindi variazioni sul tema ma neppure smarrendo il pathos che Hugo riversa nelle proprie composizioni, capaci di restituire in maniera compiuta quel senso di perdita, fragilità e disperazione che viene opportunamente citato in sede di presentazione.
Allo stesso modo il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia, trovando a mio avviso i propri picchi nella seconda metà dell’album con Uneven Alignment e Bereavement.
Al netto dello schema compositivo forse un po’ troppo reiterato e di suoni non sempre limpidissimi, quest’opera nome Lascar dovrebbe trovare senz’altro i favori del pubblico di nicchia che ama questo particolare sottogenere del black.

Tracklist:
01) Tender Glow
02) Thin Air
03) Uneven Alignment
04) Bereavement

Line up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook

Demonic Death Judge – Seaweed

Un album che, nella sua tremenda forza, appaga, smobilita, appassiona, distrugge e crea, modellando montagne come un vento nato dall’impatto di un meteorite sul pianeta, in un delirio di note grasse portate al limite.

Una prova di forza esagerata quella messa in atto dai finlandesi Demonic Death Judge, monicker che potrebbe far pensare ad un gruppo death o black, ma che nasconde invece un combo di picchiatori slugde/stoner che si fermano solo quando sarete al tappeto in un lago di sangue.

Seaweed è il terzo album di questo mastodontico schiaccia sassi nordico, attivo dal 2009 e che aggiunge ai full lenght due split e un paio di ep.
Jaakko Heinonen, singer cattivissimo, guida questa macchina estrema, con la sei corde di Toni Raukola che intona riff pesanti come macigni, poi sgretolati dalla sezione ritmica, un mostro cannibale che fagocita tutto e tutti, pesante e senza pietà avanza incontrollabile, travolgendo e schiacciando sotto il peso di watt forgiati nel buio di una caverna inumidita da uno dei mille laghi della loro terra natia (Eetu Lehtinen al basso e Lauri Pikka alle pelli).
Il metal di questi anni non potrà essere descritto senza parlare di queste sonorità, a loro modo estreme, affascinanti quando racchiudono sfumature mistiche come nello strumentale Cavity o nelle divagazioni progressive della potentissima Saturday, doom metal/stoner/sludge ipnotico, durissimo ma perfettamente in grado di scavare dentro all’ascoltatore, che difficilmente resisterà nel tornare a farsi torturare dal combo finlandese al più presto.
Un album che, nella su tremenda forza, appaga, smobilita, appassiona, distrugge e crea, modellando montagne come un vento nato dall’impatto di un meteorite sul pianeta, in un delirio di note grasse portate al limite.
Per gli amanti del genere un album indispensabile per attraversare questa estate, tra mare e tormentoni radiofonici odiosi come una vipera nel cesto dei funghi.

TRACKLIST
01. Taxbear
02. Heavy Chase
03- Seaweed
04. Cavity
05. Backwoods
06 Pure Cold
07. Saturday
08. Peninkulma

LINE-UP
Jaakko Heinonen – Vocals
Toni Raukola – Guitars
Eetu Lehtinen – Bass
Lauri Pikka – Drums

DEMONIC DEATH JUDGE – Facebook

Nagaarum – Homo Maleficus

L’interpretazione del black metal da parte di Nagaarum è abbastanza personale senza essere cervellotica e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.

Eccoci al cospetto di un altro musicista connotato da una produttività apparente compulsiva: il suo nome é Nagaarum, proviene dall’Ungheria e Homo Maleficus è il suo quattordicesimo full length dal 2011.

Ho già detto la mia al riguardo, ma mi ripeto a scanso di equivoci: una certa iperattività è sempre benvenuta, specie viene asservita ad un talento cristallino, altrimenti è grande il rischio di disperdere il proprio potenziale in una forsennata iperattività.
Il musicista magiaro, del quale malgrado tutto scopro l’esistenza solo in questa occasione, non pare essere afflitto più di tanto da certi problemi: la sua interpretazione del black metal è abbastanza personale senza essere cervellotica (se si eccettuano gli schizofrenici cambi di tempo di Vassal Nevelt) e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.
In circa tre quarti d’ora Nagaarum esprime tramite la sua musica e in lingua madre il suo punto di vista sul disastro verificatosi nel 2010 in Ungheria, quando la rottura della diga di contenimento del materiale di scarto di una fabbrica di alluminio spinse una marea di fanghiglia rossa su 40 chilometri quadrati di terreni circostanti il villaggio di Kolontar, provocando diverse vittime, l’irrimediabile danno alle attività agricole locali e la sparizione di ogni forma di vita da almeno due corsi d’acqua facenti parte del bacino del Danubio.
La musica contenuta in Homo Maleficus è quindi cupa, priva di pulsioni melodiche e colma di una tensione che sovente si sfoga con violente sfuriate black (nella magnifica Dolgunk végeztével), ottundenti riffing post metal (Mens dominium) o di matrice doom (A befalazott) per stemperarsi nell’ambient della conclusiva Kolontar.
Non mi resta quindi che fare ammenda per aver sottostimato inizialmente le potenzialità di questo bravo e prolifico musicista, capace di produrre un album dai contenuti piuttosto profondi svincolandosi dalla secche di una ordinarietà che, per uno abituato a pubblicare mediamente più di due full length all’anno, sarebbe stata anche comprensibile.
Complimenti al bravo Nagaarum, del quale non resta che andare a riscoprire (nei limiti del possibile) la consistente discografia.

Tracklist:
1. A befalazott
2. Az elvhű
3. Vassal nevelt
4. Cipelők
5. Mens dominium
6. Dolgunk végeztével
7. Kolontár

Line up:
Nagaarum – All instruments, Vocals, Lyrics

NAGAARUM – Facebook

Crematory – Live Insurrection

Non è certo il primo live che gli storici gothic/deathsters Crematory immettono sul mercato, trattandosi di opere che una volta completavano e valorizzavano le discografie dei migliori act rock e metal, ora ad appannaggio dei fans più accaniti.

Il gruppo tedesco però rilascia un ottimo lavoro, licenziato in formato cd/dvd dalla SPV/Steamhammer, che vede i veterani del gothic /death alle prese con il pubblico del Bang Your Head Festival dello scorso anno, più quattro video clips di altrettanti brani tratti dall’ultimo full length Monument.
Pur avendo in parte lasciato il genere d’elezione a favore di un sound più dark ed elettronico, i Crematory si dimostrano una sicurezza, un gruppo solido che se da tempo non si avvicina ai picchi qualitativi dei primi album, mantiene un ottimo impatto, un approccio melodico dal buon appeal ed una forma canzone che permette di andare avanti senza grossi scossoni.
Quindi dopo ventisei anni di album e palchi solcati in giro per l’Europa, i Crematory si possono certamente considerare come un buon rifugio, quando la voglia di ascoltare gothic metal dal buon appeal e dalle facili melodie è forte ed i cd di …Just Dreaming, Illusions e Crematory sono troppo in alto sullo scaffale.
Ma come spesso accade, un album live, specialmente di una band che di buona musica negli anni ne ha scritta eccome, ha la funzione di rispolverare vecchi brani, oltre alle nuove produzioni, in una sorta di best of … anche se Felix, Markus e Katrin non rinnegano sicuramente le ultime produzioni, ampiamente sfruttate in Live Insurrection.
Infatti, il gruppo dà molto spazio ai brani più recenti, non dimenticando certo brani capolavoro come Tears Of Time, inno del gruppo fin dall’uscita del bellissimo Illusions (1995) e che non a caso chiude il concerto.
Felix non rinuncia al growl e in veste live il suono risulta potente e metallico il giusto per non deludere i fans raccolti sotto il palco del famoso festival: Misunderstood, la splendida Pray, Shadowmaker, Höllenbrand (da Klagebilder del 2006) e la già citata Tears Of Time offrono agli astanti una prova convincente.
I Crematory sono un gruppo che col tempo si è creato un meritato zoccolo duro di fans e, mentre gli anni passano, Tears Of Time fa scendere qualche lacrima di nostalgia, con il buon Felix che dimostra di saperci ancora fare.

Tracklist
CD
01. Misunderstood
02. Fly
03. Greed
04. Tick Tack
05. Instrumental
06. Haus mit Garten
07. Ravens Calling
08. Pray
09. Everything
10. Instrumental
11. Shadowmaker
12. The Fallen
13. Höllenbrand
14. Die So Soon
15. Kommt näher
16. Tears Of Time

DVD
Intro
01. Misunderstood
02. Fly
03. Greed
04. Tick Tack
05. Instrumental
06. Haus mit Garten
07. Ravens Calling
08. Pray
09. Everything
10. Instrumental
11. Shadowmaker
12. The Fallen
13. Höllenbrand
14. Die So Soon
15. Kommt näher
16. Tears Of Time
Monument videoclips
01. Misunderstood
02. Ravens Calling
03. Haus mit Garten
04. Everything

Line-up
Felix Stass – vocals
Rolf Munkes – guitar
Tosse Basler – guitar
Jason Mathias – bass
Markus Jüllich – drums
Katrin Jüllich – keyboards

CREMATORY – Facebook

Infinight – Fifteen

I tedeschi Infinight tornano con questo ep, Fifteen, composto da quattro brani che continuano ad amalgamare, questa volta con risultati migliori, U.S. Metal e power di scuola europea.

Gli Infinight sono il classico gruppo power metal tedesco che, partito leggermente in ritardo sulla seconda esplosione del power (seconda metà degli anni novanta), è rimasto intrappolato nell’underground anche se tre full length e tre ep non sono affatto poca cosa per un gruppo autoprodotto.

Vi avevamo parlato del quintetto un paio di anni fa, in occasione dell’uscita del loro terzo album Apex Predator, lavoro riuscito in parte, non decollando grazie ad una fastidiosa prolissità.
Tornano con questo ep, Fifteen, composto da quattro brani che continuano ad amalgamare, questa volta con risultati migliori, U.S. Metal e power di scuola europea.
Atmosfere oscure e drammatiche che ricordano gli Iced Earth, qualche fuga ritmica sul purosangue teutonico ed il gioco è fatto, confermando il gruppo come un buon gruppo minore, da seguire se siete fans accaniti dei suoni classici di scuola classicamente heavy/power.
Goodbye II (this cruel World) è l’ esempio perfetto del sound degli Infinight e, insieme a Through The Endless Night e For The Crown, seguono il canovaccio del precedente full length: dunque heavy/power, potente ma mai troppo veloce, oscurità che man mano si fa sempre più pressante e buoni chorus, maschi e drammatici.
La seconda traccia è un brano acustico, a mio parere anche molto bello (Here To Conquer), di fatto una ballata acustica dove la chitarra e la voce riescono a mantenere la tensione alta, non alleggerendo di un grammo l’atmosfera drammatica che si respira in Fifteen.
Un ep che probabilmente traghetterà il gruppo verso il suo quarto lavoro, me che non cambia quelle che sono le sorti degli Infinight: rimanere ai margini dell’underground heavy/power mondiale.

TRACKLIST
1. Goodbye II (this cruel World)
2. Here to Conquer (unplugged)
3. For the Crown
4. Through the Endless Night

LINE-UP
Kai Schmidt – Bass
Hendrik “Harry” Reimann – Drums
Dominique Raber – Guitars
Marco Grewenig – Guitars
Martin Klein – Vocals

INFINIGHT – Facebook

Amiensus – All Paths Lead To Death

All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro.

L’etichetta francese Apathia Records è caratterizzata da un roster in gran parte autoctono, oltre che composto complessivamente da band connotate da un’irrequietezza compositiva che spinge spesso i generi suonati su un piano avanguardista.

In qualche modo gli Amiensus, quindi, costituiscono un’anomalia, in primis perché statunitensi e, in secondo luogo, in quanto il loro black metal non presenta tratti particolarmente sperimentali; questo, però, non va in alcun modo ad intaccarne la qualità, visto che questi giovani americani, con questo nuovo ep, propongono il genere in maniera del tutto convincente, fondendo abilmente il filone scandinavo con quello nordamericano e ammantando il tutto di una misurata componente atmosferica.
All Paths Lead To Death giunge due anni dopo il full length Ascension: in quel caso gli Amiensus esibivano un black più frastagliato e integrato da una voce femminile, mentre oggi paiono più orientati ad un impatto diretto e privo di fronzoli, anche se comunque sempre progressivo nel suo incedere; indubbiamente i riferimenti a molte delle band che hanno fatto la storia del genere non sono difficili da cogliere, ma i nostri sfuggono alla tentazione di aderirvi in maniera calligrafica, mettendoci in eguale misura cattiveria, convinzione e anche tecnica.
In meno di mezz’ora gli Amiensus offrono cinque brani intrisi della medesima forza di penetrazione, sviscerando senza eccessivi scostamenti la materia black e lasciando qualche bagliore melodico ed epico alla conclusiva The River, dopo che nella precedente Desolating Sacrilege avevano provveduto a surriscaldare per bene i padiglioni auricolari degli ascoltatori.
All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro, perché personalmente questa strada intrapresa dagli Amiensus mi piace non poco.

Tracklist:
1.Gehenna
2.Mouth of the Abyss
3.Prophecy
4.Desolating Sacrilege
5. The River

Line-up:
James Benson : Harsh Vocals, Clean Vocals, Guitar
Alec Rozsa : Keyboards, Guitars, Vocals
D. Todd Farnham : Bass
Zack Morgenthaler : Lead Guitar, Keyboards
Chris Piette : Drums

AMIENSUS – Facebook

Tau Cross – Pillar of Fire

Secondo eccellente lavoro per questo supergruppo che, unendo ingredienti come darkwave,crust,trash, sforna un’opera intensa, coinvolgente e da non lasciarsi sfuggire.

Essenziale e potente! Con questi aggettivi si può definire la seconda prova offerta da questo supergruppo internazionale che affonda le radici in Canada, in U.S.A. e in United Kingdom.

Nel 2015 la prima opera omonima in cui grandi musicisti come Rob “The Baron” Miller alle vocals e Michael “Away” Langevin alla batteria, hanno dimostrato una volta di più il loro valore musicale; mi auguro che non ci sia bisogno di spiegare chi siano e da che band provengano! Con l’aiuto di altri quattro validi musicisti, dal passato meno importante e dopo due anni dal debutto, ci regalano altri cinquanta minuti di grande musica, dove le coordinate sonore sono similari al debutto e forse meglio messe a fuoco: l’unione tra post-punk, crust, darkwave (versante Killing Joke di Wardance e Requiem e in alcuni tratti ritmici i primi Red Lorry Yellow Lorry), trash e musica heavy genera, soprattutto nella prima parte del disco, una serie di brani potenti, trascinanti dove si erge in modo sontuoso il suono del basso, suonato da Tom Radio e dallo stesso Rob Miller (inizio di Deep State), che accompagna e crea muri sonori dove le chitarre intessono melodie semplici ma incisive; la voce rauca, ruvida, vissuta e spesso disperata di “The Baron” crea un contrasto efficace con la macchina da guerra precisa degli strumenti.
La prima parte, come si diceva, esprime la potenza e l’essenzialità di un suono (Raising Golem) seguendo derive trash, punk e post-punk, mentre la seconda parte rallenta i ritmi e da maggiore sfogo ad armonie darkwave e atmosferiche come nella splendida Killing the King, nella title track, dove si toccano vette dark-folk molto intense ricordanti le piccole gemme solistiche di Steve Von Till (Neurosis). Ultima nota di merito per il magnifico brano What Is a Man, che con suggestive note tastieristiche porta a compimento un lavoro che difficilmente lascerà il vostro lettore cd.

Tracklist
1. Raising Golem
2. Bread and Circuses
3. On the Water
4. Deep State
5. Pillar of Fire
6. Killing the King
7. A White Horse
8. The Big House
9. RFID
10. Seven Wheels
11. What Is a Man

Line-up
Rob (The Baron) Miller Bass, Vocals
Michel (Away) Langevin Drums
Andy Lefton Guitars
Jon Misery Guitars
Tom Radio Bass

TAU CROSS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=3gd3xYtars8

Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act I

Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.

Per uno che ha considerato Blessed He with Boils uno dei dischi più belli pubblicati in questi decennio, il ritorno al full length degli Xanthohchroid è stata senza dubbio una splendida notizia che nascondeva però anche un sottile filo di inquietudine.

Infatti, il timore che questi giovani e geniali musicisti americani potessero aver smarrito la loro ispirazione in questi lunghi cinque anni era un qualcosa che ha aleggiato fastidiosamente a lungo nei miei pensieri, spazzato via fortunatamente dalle prime note di Of Erthe and Axen Act I, nelle quali persiste quella stessa e unica vena melodica e sinfonica.
Per parlare di questo nuovo parto degli Xanthohchroid è fondamentale partire dal fondo, non del disco ma delle note di presentazione: infatti i nostri, in un una postilla che in un primo tempo mi ero anche perso, raccomandano ai recensori di valutare l’album quale effettiva prima parte di un’opera che vedrà uscire la sua prosecuzione ad ottobre, e, pertanto, il fatto che il sound possa apparire molto meno orientato al metal e più al folk è motivato da un disegno complessivo che prevede un notevole rinforzo delle sonorità in Of Erthe and Axen Act II.
Tutto ciò è molto importante, perché si sarebbe corso il rischio di accreditare la band di una sterzata dal punto di vista stilistico che, invece, dovrà essere eventualmente certificata come tale solo dopo l’ascolto del lavoro di prossima uscita; detto ciò, appare evidente come quelle audaci progressioni, che fondevano la furia del black metal con orchestrazioni di stampo epico/cinematografico, in Act I siano ridotte all’osso, lasciando spazio ad una componente folk e acustica dal livello che, comunque, resta una chimera per la quasi totalità di chiunque provi a cimentarvisi.
Infatti, i brani che riportano in maniera più marcata ai suoni di Blessed He with Boils sono una minoranza, rappresentata essenzialmente da To Higher Climes Where Few Might Stand, The Sound Which Has No Name, e parzialmente, The Sound of Hunger Rises, laddove si ritrova intatta quella potenza di fuoco drammatica e melodica che rende gli Xanthochroid immediatamente riconoscibili in virtù di una peculiarità che non può essere in alcun modo negata; per il resto, Of Erthe and Axen Act I si muove lungo i solchi di un folk sempre intriso di una malinconia palpabile e guidato dall’intreccio delle bellissime voci di Sam Meador (anche chitarra acustica e tastiere), della moglie Ali (importante novità rispetto al passato) e di Matthew Earl (batteria e flauto).
Detto così sembra può sembrare che questo disco sia di livello inferiore al precedente ma cosi non è: anche nella sua versione più pacata e di ampio respiro la musica degli Xanthochroid mantiene la stessa magia e, anzi, potrebbe persino attrarre nuovi e meritati consensi, rivelandosi per certi versi meno impegnativa da assimilare; quel che è certa ed immutabile è la maturità compositiva raggiunta da una band che si muove ad altezze consentite solo a pochi eletti, andando a surclassare per ispirazione persino quelli che potevano essere considerati inizialmente degli ideali punti di riferimento come gli Wintersun.
Of Erthe and Axen continua a raccontare le vicende che si susseguono in Etymos, mondo parallelo creato da Meador e che nel notevole booklet è illustrato con dovizia di particolari, con tanto di cartina geografica: la storia narrata in questo caso è un prequel rispetto a Blessed He with Boils, ma questi sono particolari, sebbene importanti, destinati a restare in secondo piano rispetto al superlativo aspetto musicale
La formazione odierna ridotta a quattro elementi (assieme ai tre c’è anche Brent Vallefuoco, che si occupa delle parti di chitarra elettrica infarcendo l’album di magnifici assoli) risulta un perfetto condensato di talento e creatività che trova sbocco sia nei già citati episodi più robusti, sia nelle perle acustiche rappresentate da To Lost and Ancient Gardens, In Deep and Wooded Forests of My Youth (per la quale è stato girato dallo stesso Vallefuoco un bellissimo video) e la stupefacente The Sound of a Glinting Blade, che vive di un crescendo emotivo e vocale destinato a confluire nel furente incipit sinfonico della conclusiva The Sound Which Has No Name, andando a creare uno dei passaggi più impressionanti del lavoro.
Se a un primo ascolto l’apparente tranquillità che pervade il sound poteva aver lasciato un minimo di perplessità, il ripetersi dei passaggi nel lettore conferma ampiamente che il valore degli Xanthochroid non è andato affatto disperso, anzi: Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Al riguardo, è auspicabile che l’uscita ravvicinata delle due parti di Of Erthe and Axen possa consentire di mantenere viva per più tempo l’attenzione sugli Xanthohchroid, rimediando a questa evidente stortura.

Tracklist:
01. Open The Gates O Forest Keeper
02. To Lost and Ancient Gardens
03. To Higher Climes Where Few Might Stand
04. To Souls Distant and Dreaming
05. In Deep and Wooded Forests of My Youth
06. The Sound of Hunger Rises
07. The Sound of a Glinting Blade
08. The Sound Which Has No Name

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl – Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead), Vocals
Ali Meador – Vocals

XANTHOCHROID – Facebook

Jagged Vision – Death Is This World

I watt arrivano al limite in più di un’occasione, violentando l’ispirazione melodica dei Jagged Vision con dosi letali di hardcore e sludge , mentre le urla si intensificano e l’atmosfera si scalda non poco.

Partita sette anni fa come band dal sound ispirato all’hardcore, la band metallica dei Jagged Vision si è trasformata in una potentissima macchina da guerra metal/stoner, dalle dai devastanti rallentamenti sludge ed una forte attitudine death ‘n’ roll.

Un ep, l’esordio sulla lunga distanza targato 2014 ed ora questo devastante lavoro, intitolato Death Is This World, potente e melodico il giusto per non farsi dimenticare troppo in fretta nel panorama del metal dalle reminiscenze stoner, genere che riesce ancora a fare breccia nei cuori dei metal rocker modiali.
L’attitudine hardcore non è stata abbandonata del tutto dal gruppo norvegese, così come non si fanno mancare ottimi inserti melodici di stampo death scandinavo, sempre in un contesto metallico furioso, dove il gruppo spinge a tavoletta e ricorda in più di una occasione gli In Flames non ancora ammaliati dalle soleggiate coste americane (Feeble Souls).
I watt arrivano al limite in più di un’occasione, violentando l’ispirazione melodica dei Jagged Vision con dosi letali di hardcore e sludge , mentre le urla si intensificano e l’atmosfera si scalda non poco (Euthanasia, Forlorn).
Il quintetto spara dieci cannonate metalliche che fanno seri danni, con una Serpents che sbaraglia la concorrenza, un’esplosione metal/stoner/hardcore di notevole pericolosità.
Buon lavoro di genere, cattivo, melodico e devastante quanto basta per piacere non poco agli amanti di queste sonorità.

TRACKLIST
1.Betrayer
2.Euthanasia
3.Death Is This World
4.I Am Death
5.Feeble Souls
6.Emperor Of
7.Seven Seals
8.Serpents
9.Forlorn
10.Palehorse

LINE-UP
Kato Austrått -Bass
Joakim Svela – Drums
Daniel Vier – Guitars
Harald Lid – Guitars
Ole Wik – Vocals

JAGGED VISION – Facebook

Clouds – Destin

I quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento di Daniel Neagoe, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

E’ passato davvero poco tempo da quando mi ritrovai ad esaltare quel capolavoro di malinconia fatta musica intitolato Departe ed eccomi nuovamente alle prese con una nuova uscita marchiata Clouds, frutto dell’instancabile creatività di Daniel Neagoe.

Mai tale prolificità fu più gradita, visto che il livello del pathos resta elevatissimo anche in questa uscita intitolata Destin che, trattandosi di un ep, non consta solo di brani inediti ma anche di riedizioni di altri già usciti in precedenza.
Quello che conta, ovviamente, sono le quattro nuove tracce, ognuna di esse incisa con l’apporto di un diverso ospite alla voce capace di rendere sempre più peculiare e nel contempo completo l’operato di questo supergruppo del doom atmosferico.
In The Wind Carried Your Soul troviamo la voce angelica di Ana Carolina dei cileni The Mourning Sun (dei quali raccomando vivamente, a chi non lo conoscesse, lo splendido Último Exhalario) duettare con Daniel, creando un’alchimia vocale magica ed esaltata da un substrato melodico di rara bellezza; la successiva Fields of Nothingness è interpretata da Mikko Kotamäki (Swallow The Sun, lo specifico per chi fosse capitato qui per sbaglio …), sempre in grado di restituire ogni brano che lo vede protagonista al massimo del suo potenziale evocativo, cosa che avviene anche con questa magnifica canzone che ricorda per struttura quella interpretata da Pim Blanckenstein in Departe (Driftwood).
In Nothing but a Name la parte vocale viene affidata a Mihu, frontman dei meno conosciuti rumeni Abigail, dalla timbrica abbastanza simile a quella di Daniel: qui a fare la differenza è una melodia dolente delineata dal pianoforte e da una chitarra che si ritaglia un maggior spazio solistico rispetto al solito; il quarto e ultimo brano inedito, In this Empty Room, è quello più soprendente, soprattutto perché ci consente di scoprire una grande interprete come la cantante greca Gogo Melone (Aeonian Sorrow), in possesso di una voce versatile e del tutto personale: il duetto con il growl di Neagoe porta il sound su lidi diversi rispetto a quelli più consueti dei Clouds, conferendogli un aspetto meno cupo, sebbene sempre intriso di malinconia.
Destin nella sua fasce discendente presenta le versioni acustiche di You Went so Silent ed Even If I Fall (entrambe tratte da Doliu), che in tale veste perdono parte del loro pathos drammatico ma evidenziano come Daniel sia diventato un magnifico interprete anche quando si trova alle prese con le sole clean vocals, e la riedizione del singolo Errata, uscito nel 2015 nell’intervallo tra i due full length, che si conferma episodio di buona levatura senza raggiungere i picchi di gran parte della produzione dei Clouds.
Nel complesso, i quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento del musicista rumeno, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. The Wind Carried Your Soul feat. Ana Carolina (Mourning Sun)
2. Fields of Nothingness feat. Mikko Kotamäki (Swallow the Sun)
3. Nothing but a Name feat. Mihu (Abigail)
4. In this Empty Room feat. Gogo Melone (Aeonian Sorrow)
5. You Went so Silent (acoustic Destin version)
6. Even if I fall (Destin version)
7. Errata (re-mixed)

Line up:
Daniel Neagoe – Vocals
Déhà – Bass
Steffan Gough – Guitars
Chris Davies – Violn
Anders Eek – Drums

CLOUDS – Facebook

Nicumo – Storms Arise

Storms Arise non sfigura nei confronti di End Of Silence, ma neppure fa compiere alla band quel passo in avanti a livello di personalità che sarebbe stato auspicabile dopo un lasso di tempo così dilatato.

I finlandesi Nicumo tonano con il loro secondo full length a quattro anni di distanza da quell’End Of Silence che mi aveva abbastanza ben impressionato: con Storms Arise le coordinate non mutano, nel senso che al suo interno continuiamo a trovare un rock piuttosto malinconico, ricco di melodia e con qualche accelerazione che sconfina talvolta nel metalcore.

Il fatto che, come detto, il nuovo lavoro non si discosti granché dal precedente può avere una doppia valenza, nel bene e nel male: per quanto mi riguarda credo che la verità stia nel mezzo, nel senso che Storms Arise non sfigura nei confronti di End Of Silence, ma neppure fa compiere alla band quel passo in avanti a livello di personalità che sarebbe stato auspicabile dopo un lasso di tempo così dilatato.
Nell’album, in apparenza, non c’è nulla che non vada: buone canzoni, melodie e chorus che fanno centro senza troppa fatica, ma in più di un frangente aleggia un che di posticcio che fa storcere il naso, in particolare ciò avviene quando la band finnica prova ad aumentare i giri del motore, finendo per battere in testa nel proporre alcuni brani anonimi e poco coesi con il resto della tracklist.
Esprimo un parere del tutto personale, ma credo che i fan di Sentenced ed Amorphis, due band che costituiscono gli inevitabili punti di riferimento per i Nicumo, non accoglieranno con grande favore le sventagliate di modern metal che affliggono tracce come Guilt, Unholy War (quest’ultima con tanto di ritornello melodico d’ordinanza) e If This Is Your God, I Don’t Need One.
Sono canzoni come Old World Burning, Death, Let Go, Aiolos e la lunga e conclusiva Dream Too Real, nella quale le sporcature estreme sono utilizzate con maggior raziocinio e misura, ad offrire quella che dovrebbe essere, idealmente, l’effettiva cifra stilistica della band, ma ciò avviene senza la dovuta continuità
Hannu Karppinen si conferma cantante di vaglia, non solo quanto regala la sua timbrica calda e pulita ma anche quando inasprisce i toni, e i suoi compari di certo non sfigurano; il problema vero dei Nicumo odierni è che non dispiacciono affatto ma neppure fanno sobbalzare sulla sedia, complice forse una minore ispirazione rispetto al debutto ed una maggiore consapevolezza dei propri mezzi che, per assurdo, può averli spinti ad assolvere il compito cercando di accontentare sia gli ascoltatori dal mood malinconico sia quelli più propensi alle sonorità moderne, finendo per smarrire una direzione stilistica maggiormente definita, nell’uno o nell’altro senso.
Un peccato, perché il rock melanconico alla finlandese è sempre un bel sentire, ma i Nicumo in quest’occasione lo propongono in maniera troppo intermittente.

Tracklist:
1. The Dawn
2. Old World Burning
3. Beyond Horizon
4. Unholy War
5. Death, Let Go
6. Guilt
7. Poltergeist
8. If This Is Your God, I Don’t Need One
9. Sirens
10. Aiolos
11. Dream Too Real

Line up:
Sami Kotila – Bass
Aki Pusa – Drums, Percussion
Tapio Anttiroiko – Guitars
Atte Jääskelä – Guitars
Hannu Karppinen- ocals

NICUMO – Facebook

Karkaos – Children Of The Void

Con un album di un’altra categoria, i Karkaos emergono da un underground ricco di talenti e si conquistano un posto al sole.

Furioso, bellissimo, devastante, melodico, oscuro ed epico, Children Of The Void è tutto questo e anche di più: una tempesta di note metalliche, un vento che dal nord soffia minaccioso e porta metallo estremo sinfonico di livello altissimo.

Loro sono i canadesi Karkaos, gruppo proveniente da Montreal, attivi dal 2009 con questo monicker ma sulla scena come Sinister Vengeance già dal 2003 e una discografia che si completa con un primo ep, In Burning Skies del 2011, ed il primo full length Empire licenziato tre anni fa, ora sul mercato sempre in regime di autoproduzione con questo bellissimo esempio di death metal melodico e sinfonico, in cui le orchestrazioni sono importantissime nel sound così come una verve battagliera che infonde epiche atmosfere a tutto Children Of The Void.
E’ una bellezza inoltrarsi nei meandri di questo lavoro, tra sinfonie epiche e death metal melodico che valorizzano questi cinquanta minuti tempestosi, in un turbinio di spettacolari fughe ritmiche, solos che squartano membra e voci che si rincorrono, quella splendidamente pulita della singer Viky Boyer ed il growl potentissimo e teatrale del chitarrista Vincent Harnois .
Il singolo Kolossus, la successiva Let The Curtains Fall, la title track e via una fuori l’altra, tutte le tracce che compongono Children Of The Void sono uno spettacolare invito alla battaglia, ispirate dai Bal Sagoth, dagli Amon Amarth e dai primi impareggiabili In Flames.
Con un album di un’altra categoria, i Karkaos emergono da un underground ricco di talenti e si conquistano un posto al sole, almeno sulle nostre pagine.

Tracklist:
1. Babel
2. Skymaster
3. Kolossos
4. Let the Curtains Fall
5. Pale
6. Children of the Void
7. Rêverie
8. Tyrant
9. Where Mushrooms Grow
10. Lightbearer
11. The Beast
12. Bound by Stars

Line-up:
Vincent Harnois – Guitars
Sébastien Belanger-Lapierre – Keyboards
Eddy Levitsky – Bass
Samuel Pelletier – Guitars
Viky Boyer – Vocals
Justine Ethier – Drums

KARKAOS – Facebook

Sun Of The Sleepless – To The Elements

Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, dando vita ad una forma di black metal che va a toccare vette difficilmente superabili.

Quando ci si approccia all’ascolto dell’album di una band poco conosciuta penso che tutti, istintivamente, provino a raccogliere qualche notizia sui musicisti che ne fanno parte e sulla sua discografia passata: questo, inevitabilmente, rischia di creare un pregiudizio (nel senso letterale di giudizio preventivo) nel bene o nel male, quando invece i nomi coinvolti nell’opera sono ben noti.

Confesso che, quando è partito To The Elements nel mio lettore stracolmo di album in mp3 da ascoltare per poi provare a descriverne il contenuto nel migliore dei modi, dei Sun Of The Sleepless ricordavo solo che mi erano arrivati via Prophecy Productions ma, aiutato anche da quest’ultimo indizio, ho impiegato ben poco per capire che il musicista coinvolto in questo progetto era Markus Stock, alias Ulf Thodor Schwadorf: per chi ha amato fin dalla prima ora gli Empyrium ed ha apprezzato non poco l’operato del nostro anche con i The Vision Bleak, non è difficile riconoscere l’impronta di uno degli autori maggiormente peculiari tra quelli dediti al lato più oscuro del metal.
Ed ecco scattare il pregiudizio: da quel momento in poi ti attendi di ascoltare qualcosa di speciale, capace di costringerti ad un’attenzione superiore alla media per cogliere al meglio ogni sfumatura, cosa che, per carità, si prova sempre a fare ma con risultati altalenanti, trovandosi spesso di fronte a lavori anche buoni a livello esecutivo e compositivo ma non sempre stimolanti.
Però uno come Markus Stock non può deludere, perché troppo è il talento che madre natura gli ha concesso, regalandoci  con questo suo progetto solista nato alla fine dello scorso secolo la sua personale interpretazione di un black metal che, se già di solito in terra germanica viene interpretata in maniera ben diversa e più ricercata rispetto al resto del mondo, in questo caso tocca vette difficilmente superabili; ovviamente il musicista bavarese non si dimentica d’essere il padre degli Empyrium e certi episodi più rarefatti o acustici lo stanno a dimostrare (The Burden, il cui testo è tratto dall’opera shakespeariana la Tempesta, e Forest Crown), ma nei restanti cinque brani fa sciogliere il face painting a una moltitudine di ragazzotti di buona volontà, esibendo qualcosa che rasenta lo stato dell’arte del genere, almeno per quanto riguarda il suo aspetto più atmosferico ed evocativo.
Bastano pochi secondi di Motions per immergersi nell’atmosfera austera che il marchio Sun Of The Sleepless regalerà lungo lo spartito creato per To The Elements: questo brano è uno dei più belli ascoltati nel genere negli ultimi anni, e il piede batte ai ritmi parossistici dei blast beat mentre mentre lo spirito si lascia trasportare da un crescendo melodico che si vorrebbe interminabile.
Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, passando per la superba The Owl dedicata al meraviglioso rapace notturno, per arrivare alla conclusiva Phoenix Rise, che si ammanta di una più malinconica melodia per poi chiudersi con una citazione tolkeniana tratta da La Compagnia dell’Anello.
Da un musicista di questo spessore non ci poteva attendere nulla di meno, ma ogni volta che si palesa un album di simile livello qualitativo si rinnova quel momento magico che è il piacere della scoperta e la voglia di riascoltare queste note non appena se ne avrà l’occasione …
Là fuori c’è davvero tanta grande musica, gran parte della quale il popolo degli appassionati è destinato ad ignorare stante l’impossibilità fisica di ascoltarla tutta: uno dei nostri compiti è anche far emergere ciò che davvero non può e non deve essere ignorato, come appunto questo primo full length dei Sun Of The Sleepless del  bravissimo Markus Stock.

Tracklist:
1. The Burden
2. Motions
3. The Owl
4. Where in My Childhood Lived a Witch
5. Forest Crown
6. The Realm of the Bark
7. Phoenix Rise

Line up:
Ulf Theodor Schwadorf – Everything

SUN OF THE SLEEPLESS – Facebook

Thy Art Is Murder – Dear Desolation

Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Ormai, con l’uscita di questo ultimo lavoro, la definizione deathcore per descrivere la musica degli australiani Thy Art Is Murder risulta sicuramente forzata, ma andiamo con ordine.

La band di Sydney torna con Dear Desolation quarto album in studio licenziato in Europa dalla Nuclear Blast che segna il ritorno dell’orco CJ McMahon, allontanatosi all’indomani dell’uscita di The Depression Session, split album in compagnia di The Acacia Strain e Fit for an Autopsy, ma rientrato dopo pochi mesi.
Accompagnato da un’inquietante copertina che vede ritratto un famelico lupo allattare un agnellino con l’intenzione di sbranarlo subito dopo, Dear Desolation è un buon esempio di brutal death metal ispirato da soluzioni moderne, efferato e terribile come le fauci del grande predatore.
A tratti l’oscurità pressante ed il continuo massacro vengono stemperate da soluzioni melodiche che rimangono tragiche ed infauste, mentre il vorace lupo prende le sembianze del singer, animalesco e cattivo come pochi.
Nella sua interezza l’album risulta un macigno estremo di death metal brutale e moderno, accentuato da devastanti sfuriate e mid tempo che sono muri di arrembante metallo oscuro, mentre le sei corde questa volta risultano più varie e melodiche nel gestire il proprio lavoro e l’elemento elettronico/atmosferico è presente, senza però mettere in discussione la natura brutal dell’opera.
L’ultimo lavoro dei deathsters australiani non è sicuramente di facile assimilazione, anche se la durata è nella media (una quarantina di minuti), grazie ad una tragica ed oscura anima che aleggia sui brani così da soffocare la title track, Death Dealer, Into Chaos We Climb e le altre tracce in un buio perenne di dannazione e violenza.
Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Tracklist
1. Slaves Beyond Death
2. The Son Of Misery
3. Puppet Master
4. Dear Desolation
5. Death Dealer
6. Man Is The Enemy
7. The Skin Of The Serpent
8. Fire In The Sky
9. Into Chaos We Climb
10. The Final Curtain

Line-up
CJ McMahon – vocals
Andy Marsh –
Sean Delander – guitars
Kevin Butler – bass
Lee Stanton – drums

THY ART IS MURDER – Facebook

BVDK – Architecture of Future Tribes

Un lavoro davvero particolare, ma meritevole di grande attenzione, che rappresenta l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal.

Tanto per cambiare è dalla vicina Francia che arriva l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal, questa volta ad opera del trio denominato BVDK.

Una tantum il termine black non va associato solo al metal ma anche alla musica proveniente dall’Africa: in Architecture of Future Tribes avviene infatti l’audace tentativo di fondere i furiosi blast beat con elementi tribali ed elettronici, andando a formare un ibrido tanto improbabile quanto efficace; inutile specificare pertanto che qui siamo molto lontani dalle dissonanze sperimentali in quota Blut Aus Nord o Deathspell Omega, per lasciare sfogare piuttosto un’indole industrial sulla quale va ad aderire una sorprendente e melodica capace di catturare l’attenzione ogni singolo brano.
L’unico elemento riconducibile alla normalità è la voce, che strepita in maniera esasperata ed in lingua madre liriche sopraffatte, a livello di produzione, dalla furia organizzata della strumentazione; se Snatcher esibisce un volto ballabile, Nana Buluku parrebbe sfogare all’infinito un rabbioso black atmosferico, prima che il break centrale ci faccia piombare nel bel mezzo del continente nero e delle sue affascinanti nenie tribali, e se La Langue Sanglante è un notevole strumentale che mette in luce anche un buon lavoro chitarristico all’interno di un’inquietante atmosfera cinematografica, Jericho’s Pride è un crescendo emotivo che quando sembra pronto per esplodere si suddivide in velenosi rigagnoli elettro-tribali.
Psalm 32 chiude l’album risultando inferiore per suffisso numerico del brano dei Ministry, ma eguagliandolo o quasi in quanto a penetrazione ed ossessività, a suggello di un lavoro davvero particolare ma meritevole di grande attenzione, soprattutto da parte di chi ama farsi sorprendere dalle soluzioni originali che non difettano certo ai nostri cugini d’oltralpe.

Tracklist:
1. Snatcher
2. Surreptitious Cluster
3. Nana Buluku
4. La Langue Sanglante
5. Bahir Dar
6. Jericho’s Pride
7. Dar es Salaam
8. Psalm 32

Line-up:
Scree – Guitars
A-152 – Guitars, bass, electronics
Lvx – Vocals, electronics

BVDK – Facebook

Firesphere – Requiem

Una proposta fuori dai soliti schemi dettati dalla musica gothic/dark, forse ancora da registrare leggermente per rendere più fluido l’ascolto, ma che a tratti regala ottima musica avvolta dalle ombre di emozioni malinconiche ed intimiste.

I Firesphere sono un progetto, una concept band capitanata dalla cantante e tastierista giapponese Rosemary Butterfly e dal chitarrista e cantante Priest; Requiem è stato ristampato dopo solo un anno dalla Darksign Records che ha messo le mani sul gruppo e, alla luce della buona qualità della proposta, si direbbe che abbia fatto senz’altro bene.

I Firesphere potrebbero facilmente essere scambiati per il classico gruppo gothic di moda in questo periodo, invece tra le trame di questo loro primo album c’è molto di più: un rock alimentato da una vena progressiva e cinematografica, l’ elettronica che fa capolino tra le tracce ed un uso di sfumature teatrali, che si avvicina  al metal/rock d’autore.
Un concept che si alimenta di drammatica tensione mentre i vari generi usati con maestria, variano l’ascolto che si riempie di epiche atmosfere, visionari quadri dark rock e rabbiose parti industrial metal, usate con parsimonia ma presenti ed efficaci nell’economia dell’opera.
Le parti strumentali dal taglio progressivo sono il fiore all’occhiello del sound proposto dai nostri (Fate), mentre i due vocalist si scambiano il microfono e l’aria si fa pesante, operistica e magniloquente in tracce sinfoniche come In The Silence.
Immaginatevi i primi Savior Machine potenziati da dosi industriali, aperture prog metal alla Queensryche, dark rock e musica dal taglio cinematografico ed avrete idea del sound offerto dal gruppo proveniente da Orlando.
Una proposta fuori dai soliti schemi dettati dalla musica gothic/dark, forse ancora da registrare leggermente per rendere più fluido l’ascolto, ma che a tratti regala ottima musica avvolta dalle ombre di emozioni malinconiche ed intimiste.

Tracklist
1. Requiem
2. Behind These Eyes
3. Silent Darkness
4. In The Silence
5. Tonight
6. I See You
7. Release Me
8. Into My Heart
9. Calling Me
10. Fate (instrumental)
11. Come With Me
12. Bringing You Here

Line-up
Priest (Ken Pike)- vocals
Rosemary Butterfly (Ryo Utasato-Pike) – vocals
Blacksmith (Ed Dumas) – guitar
Roadblock (Tyler Colick) – guitar
Tsukime (Robert Adams) – keyboards
Asmodeus Stone (Chris Falwell) – bass
Mason (Anthony Marou) – drums

FIRESPHERE – Facebook