Paolo Spaccamonti/Paul Beauchamp – Torturatori

Beauchamp e Spaccamonti dipingono in gran bell’affresco con molti colori e con una bellissima vibrazione di fondo, per un disco che è molte cose e che è anche molto semplicemente grande musica fatta da due sensibilità affini.

La musica è fatta anche di incontri, di scelte di condividere la propria sensibilità e le modalità possibili per fare ciò.

La imprescindibile e misteriosa Torino fa da sfondo a questo incontro di due musicisti che si sono conosciuti proprio lì e che in quella città hanno la loro congiunzione astrale favorevole. Paul Beauchamp è un chitarrista americano esploratore di toni diversi dal solito, più eterei e misteriosi utilizzando acustica ed elettronica, mentre Paolo Spaccamonti è un chitarrista che vive in cinematografiche distese di note e ha una passione che muove anche noi, quella del metal. Insieme hanno scritto composto e suonato due tracce che si completano e che sono come la nostra vita , una bianca e l’altra nera. L’ incontro di questi due chitarristi ha prodotto un luogo musicale sterminato e tutto da ascoltare, figlio di due DNA musicali differenti ma assolutamente affini, che hanno prodotto una musica che allarga spazi e si moltiplica nella testa di chi sente. Dolci droni ed elettronica che parla al cuore, per un paesaggio musicale immenso e lentamente rotante, con colori che cambiano come in un tramonto prima di un apocalisse, nella tenerezza del primo o dell’ultimo abbraccio. Beauchamp e Spaccamonti dipingono un gran bell’affresco con molti colori e con una bellissima vibrazione di fondo, per un disco che è molte cose e che è anche molto semplicemente grande musica fatta da due sensibilità affini. Per tutto ciò dobbiamo anche ringraziare forte l’Argo Laboratorium di Gianmaria Aprile di Fratto9/UnderTheSky e musicista nei Luminance Ratio, un produttore e conoscitore davvero profondo di musica mai ovvia.

TRACKLIST
A. White Side
B. Black Side

FRATTO9 – Facebook

Dream Evil – Six

Tornano i Dream Evil e lo fanno con un lavoro che segue la strada dell’heavy power scandinavo, cpn suoni pieni e cristallini, una buona alternanza di ritmiche hard & heavy/power metal ed un amore sconfinato per le band che hanni visto all’opera Ronnie James Dio.

Premessa: un album come Six, sesto full length dei Dream Evil, può piacere o meno, non porterà nessuna novità nel mondo del metal classico, ma è indubbio il suo valore come album di genere, anche perchè valorizzato da suoni eccellenti.

Detto questo, presentiamo questo lavoro per il gruppo del famoso produttore Fredrick Nordstrom, qui in veste di chitarrista, ed accompagnato da quattro musicisti tecnicamente inattaccabili ed in forma smagliante.
La band svedese ha avuto il suo momento di gloria specialmente con l’arrivo del nuovo millennio e l’ entrata sul mercato con i primi due lavori (Dragonslayer ed Evilized): una popolarità che cresce e si stabilizza con The Book Of Heavy Metal, l’album più famoso, uscito nel 2004.
Il ritorno avviene con un lavoro che segue la strada dell’heavy power scandinavo, con suoni pieni e cristallini, una buona alternanza di ritmiche hard & heavy /power metal ed un amore sconfinato per le band nelle quali Ronnie James Dio ha militato nella sua leggendaria carrera (Rainbow, Black Sabbath, passando per i suoi Dio), il tutto chiaramente reso appetibile ed esaltante da suoni che esplodono letteralmente dalle casse, da chorus epico melodici, e chitarre che passano dalla pesantezza cimiteriale di Tony Iommi, ai solos melodici suonati cavalcando l’arcobaleno di Ritchie Blackmore.
Fine della storia, di lavori del genere ne avrete sentiti tanti e ne sentirete ancora (fortunatamente), rimane solo da farvi partecipi di un lotto di brani bellissimi che si mantengono su una qualità mediamente alta, con Dream Evil (il brano), Sin City e le fenomenali Hellride e Too Loud a fare di Six un album imperdibile per chiunque ami il metal di stampo classico, suonato di questi tempi anche da Astral Doors e Jorn che, con i Dream Evil, sono gli esempi più convincenti.

TRACKLIST
1. Dream Evil
2. Antidote
3. Sin City
4. Creature Of The Night
5. Hellride
6. Six Hundred And 66
7. How To Start A War
8. The Murdered Mind
9. Too Loud
10. 44 Riders
11. Broken Wings
12. We Are Forever

LINE-UP
Niklas Isfeldt – Lead vocals
Fredrik Nordström – Lead rhythm guitars
Mark U Black – Lead lead guitars
Peter Stålfors – Lead bass
Patrik Jerksten – Lead drums

DREAM EVIL – Facebook

Merchant – Beneath

E’ probabile che una simile proposta si riveli molto più efficace in ambito live, dove si può contare su un maggiore coinvolgimento degli ascoltatori e sulla potenza dei watt scaricati, che non su disco dove, dopo uno o due ascolti, è forte il rischio di saturazione.

Lungo ep di due tracce per gli australiani Merchant, band emergente in ambito psychedelic sludge.

Dopo i buoni riscontri ottenuti con il full length Suzerain dello scorso anno, i quattro di Melbourne consolidano tali sensazione con questa mezz’ora di stoner sludge catramoso, opprimente, privo di particolari sbocchi melodici ma abbastanza efficace.
In fondo in questa descrizione credo che vengano riassunti quelli che sono pregi e difetti del lavoro, a seconda della predisposizione dell’ascoltatore per questo genere.
Per cui, chi adora farsi strapazzare senza porsi particolari limiti temporali da riff pesanti, inseriti all’interno di un’atmosfera lisergica con voce urlante sullo sfondo, Beneath è sicuramente consigliato, mentre lo stesso non si può certo fare nei confronti di chi, nella musica, va alla ricerca di particolari raffinatezze e dono della sintesi.
Le due tracce sono piuttosto simili, sia per durata (un quarto d’ora) sia per l’incedere, anche se forse Guile As A Vice è più prevedibile ma meglio focalizzata sull’obiettivo, mentre Succumbing, dopo una prima parte ancor più monolitica, si perde in un rumorismo finale che in un brano di tale lunghezza non si rivela forse del tutto opportuno.
Il vero problema di questa uscita è che, seguendo in maniera fedele, il canovaccio del genere, i Merchant fanno ben poco per differenziarsi rispetto a tutte le altre band che percorrono con uguale convinzione questo percorso, e la mia sensazione è che una simile proposta si riveli molto più efficace in ambito live, dove si può contare su un maggiore coinvolgimento degli ascoltatori e sulla potenza dei watt scaricati, che non su disco dove, dopo uno o due ascolti, è forte il rischio di saturazione.

Tracklist:
1. Guile As A Vice
2. Succumbing

Line up:
Tommy Mirgiannis – Vocals
Ben Kerr – Guitars
Wilson Hede – Bass
Nick James – Drums

MERCHANT – Facebook

Pigeon Lake – Barriers Fall

Barriers Fall è un gioiellino di genere, lontano dalla rabbia sincopata e molte volte adolescenziale del metalcore da classifica, e vicino alle anime travagliate che si aggirano nella la scena musicale moderna.

Rock alternativo, progressivo e melanconicamente dark, attraversato da umori metallici moderni che squarciano lo spartito, mentre l’oscurità lascia il posto a una rabbiosa disperazione.

Il quartetto norvegese chiamato Pigeon Lake torna dopo tre anni dal primo full length, Tales Of a Madman, con questa raccolta di brani, sofferti e maturi, intimisti ed atmosfericamente depressivi che formano Barriers Fall, album elegante ed intenso.
Il gruppo ha nella voce del singer Christopher Schackt il suo punto di forza, dal tono non comune e molto interpretativo, che dona ai brani un’intensità ed uno spessore che si tocca con mano, mentre il sound si rivolge agli alternative rockers amanti delle sfumature dark, progressivamente moderne.
Barriers Fall mantiene un atmosfera intrisa di depressiva malinconia, mentre la musica alterna parti grintose vicine al metal moderno a liquide atmosfere dark, passando agevolmente da un’interminabile tonalità di colori che si mantengono sul grigio per arrivare al buio totale del nero.
Un gruppo maturo che delle proprie ispirazioni si nutre, mantenendo un approccio personale ad un genere che ormai non è più una novità, ma che come in questo caso sa regalare ottima musica alternativa.
Un album da ascoltare con la dovuta calma, dandogli la possibilità di farci partecipi dei suoi umori, mentre le splendide linee vocali dell’opener Ragnarock e di Lyra ci introducono nel mondo dei Pigeon Lake e la rabbiosa parte metallica fa capolino tra le note di A Familiar Problem e Perfect Place. le tracce più estreme di questo intenso lavoro.
Consigliato agli amanti del rock/metal alternativo dalle tinte dark, Barriers Fall è un gioiellino di genere, lontano dalla rabbia sincopata e molte volte adolescenziale del metalcore da classifica, e vicino alle anime travagliate che si aggirano nella la scena musicale moderna.

TRACKLIST
1.Ragnarok
2.Lyra
3.Barriers fall
4.The Futility of You
5.Hide and Seek
6.Sunder
7.A Familiar Problem
8.Perfect Place
9.Let’s Pretend

LINE-UP
Christopher Schackt – Vocals/Guitar
Magnus Engemoen – Lead Guitar
Haakon Bechholm – Bass Guitar
Jonas Rønningen – Drums

http://www.facebook.com/PigeonLakeMusic

Deflore – Spectrum Decentre Epicentre

La spina dorsale del progetto è il ritmo, soprattutto l’esplorazione e la manipolazione di quest’ultimo, la costante ricerca sonica più che sonora e l’incredibile varietà di vedute, e qui il pensiero laterale musicale diventa dominante.

Seppure uscito a marzo non è mai troppo tardi per parlare di questo disco.

I Deflore hanno pubblicato un disco totale, pieno di suoni e stili, ma soprattutto fedele alla linea del rumore. Spectrum Epicentre è un disco che affronta una tempesta durissima e duratura nell’oceano della musica di avanguardia, nel senso che questo gruppo sta proprio davanti. Industrial, techno, elettronica, accenni di metal, reminiscenze di Narcolexia e come substrato dei Cccp, i Deflore portano avanti un discorso musicale splendido e davvero unico. La spina dorsale del progetto è il ritmo, soprattutto l’esplorazione e la manipolazione di quest’ultimo, la costante ricerca sonica più che sonora, e la incredibile varietà di vedute, e qui il pensiero laterale musicale diventa dominante. Loro stessi definiscono la loro musica psichedelia industriale, ma è una definizione per difetto, perché qui c’è tantissimo d’altro. Nella stessa canzone ci sono Godflesh, una colonna sonora in stile Wipeout, e poi un’atmosfera da convento maledetto. L’elettronica rimbalza tra muri di chitarre, e i sintetizzatori si fanno un giro su autostrade desertiche, con i Kraftwerk dentro l’autoradio per poi esplodere gioiosamente. Sinceramente è un disco che è davvero difficile da descrivere, perché ha mille spigoli, angoli ciechi dove le sorprese sono sempre dietro l’angolo.
Continua l’avventura rumorista e avanguardistica di Christian Ceccarelli e Emiliano Di Lodovico.

TRACKLIST
1. MASTICA / ME
2.BETONIERA
3.APOLLO
4.RARE / FRACTO Phase I
5.KING DEAF
6.TREESONG

LINE-UP
Christian Ceccarelli – Bass, Grooves, Samples and Snyths.
Emiliano Di Lodovico – Guitar, Synths and Radio.

DEFLORE – Facebook

Iced Earth – Incorruptible

Gli Iced Earth sono tornati con uno dei lavori più intensi e riusciti degli ultimi anni, un album imperdibile per chi ama il power/thrash americano.

I continui saliscendi tra le preferenze dei fans (anche per colpa di album non completamente riusciti), i cambi di line up, specialmente dietro al microfono e i problemi di salute del leader indiscusso Jon Schaffer (operato ultimamente e per la seconda volta al collo), avrebbero disintegrato la stabilità artistica di qualsiasi band, non degli incorruttibili (come suggerisce il titolo) Iced Earth, autentico patrimonio metallico per chi li ha seguiti fin dagli esordi.

Burnt Offerings, The Dark Saga, Something Wicked This Way Comes rimane un trittico di lavori che sono e rimarranno nella storia del metal classico mondiale, uno dei picchi qualitativi più alti del power/thrash americano, nel loro essere devastanti, melodici ed oscuri come vuole la tradizione a stelle e strisce, almeno quando si parla di heavy metal.
Jon Schaffer si è guadagnato in veste di songwriter, prima ancora che in quella di chitarrista, un posto tra i grandi interpreti della nostra musica preferita, anche se in tanti anni di onorata ed “incorruttibile” carriera non sono mancate le battute d’arresto, specialmente negli ultimi anni.
Destino ha voluto che da Dystopia, album del 2011, dietro al microfono si sia posizionato Stu Block, ex singer dei notevoli Into Eternity, unico ed autorevole erede di quel Matt Barlow che fece risplendere con la sua drammatica, teatrale e personalissima voce gli album storici del gruppo americano, richiamato più volte nel regno della terra ghiacciata ma non più convincente e convinto come in passato.
Incorruptible può iniziare ad essere descritto da questa verità, Block è posseduto dal demone che tanti anni fa fece fuoco e fiamme dentro al corpo di Barlow e l’opera, oscura, spettacolare, drammatica e devastante se ne giova non poco.
Jon Schaffer ne ha passate di tutti i colori, nel frattempo ha quasi finito di costruire il suo studio personale dove è stato registrato l’album e la sua musica ne ha risentito, questa volta positivamente: non siamo ai livelli dei capolavori che incendiarono gli anni novanta, ma è indubbio che la band sia tornata a suonare grande power/thrash.
E allora fatevi travolgere dalle atmosfere dannatamente oscure e teatrali di questo ancora una volta emozionante lavoro: il marchio di fabbrica stampato in evidenza su queste nuove dieci composizioni è Iced Earth in tutto e per tutto, trattandosi di una delle poche band che al giorno d’oggi possano vantarsi d’aver creato e portato avanti negli anni uno stile inconfondibile, rimanendo sempre legati ad una ifedeltà metallica che ha del commovente.
Basta menzionare la splendida The Relic (part 1), con un Block su livelli emozionali che toccano le vette del suo storico predecessore, o lo strumentale Ghost Dance (Awaken The Ancestors) e l’immancabile ed epico brano dedicato ad un fatto storico, questa volta riguardante l’Irish Brigade e la battaglia di Fredericksburg con la clamorosa Clear The Way (December 13th, 1862).
Non mi dilungherò oltre, se non per ribadire che gli Iced Earth sono tornati con uno dei loro lavori più intensi e riusciti degli ultimi anni, imperdibile per chi ama il power/thrash americano.

TRACKLIST
1. Great Heathen Army
2. Black Flag
3. Raven Wing
4. The Veil
5. Seven Headed Whore
6. The Relic (Part 1)
7. Ghost Dance (Awaken The Ancestors)
8. Brothers
9. Defiance
10. Clear The Way (December 13th, 1862)

LINE-UP
Jon Schaffer – Rhythm, lead and acoustic guitars, Keyboards/MIDI, Vocals
Stu Block – Lead Vocals
Brent Smedley – Drums
Luke Appleton – Bass Guitar, Vocals
Jake Dreyer – Lead Guitar

ICED EARTH – Facebook

Vallenfyre – Fear Those Who Fear Him

Una valanga di death di classe superiore, suonato, composto e cantato da un Gregor Mackintosh che dimostra d’essere non solo un magnifico interprete del proprio strumento ma anche un growler che non teme confronti.

Terzo album per i Vallenfyre, vera e propria valvola di sfogo per le pulsioni estreme di uno dei musicisti più influenti della storia del metal, quale può essere considerato Greg Mackintosh.

La nascita di questo progetto, non a caso, corrisponde a grandi linee con un relativo ritorno a sonorità più cupe anche da parte dei Paradise Lost, anche se ovviamente l’irrobustirsi del sound da un lato approda alla costruzione di un death vero e proprio, seppure ammantato da una spessa coltre di oscurità, mentre dall’altro ne puntella con maggior convinzione il sentire gotico e melodico. Con i Vallenfyre Mackintosh va anche oltre a livello di spietatezza e ferocia, rispetto ai primi passi fatti con i Paradise Lost, ma soprattutto anche se confrontato ai due precedenti full length: un meteorite incandescente quale Messiah vale più di qualsiasi descrizione ed è l’ideale biglietto da visita che accoglie chi voglia provare ad introdursi nell’inospitale immaginario del musicista britannico.
Parlare di death doom, quindi, sarebbe potuto rivelarsi improprio se non fosse per la presenza in scaletta di alcuni episodi che riportano direttamente ai rallentamenti morbosi dell’album d’esordio A Fragile King e nei quali Mackintosh regala l’inimitabile marchio di fabbrica chitarristico che i fan dei Paradise Lost ben conoscono: ecco quindi giungere le splendide An Apathetic Grave  e The Merciless Tide a ribadire ai profani chi abbia definito, assieme  a pochi altri all’inizio degli anni ’90, le coordinate del gothic death doom così come lo conosciamo oggi.
Il resto della tracklist è una valanga di death di classe superiore, suonato, composto e cantato da un Gregor Mackintosh che dimostra d’essere non solo un magnifico interprete del proprio strumento ma anche un growler che non teme confronti: tracce dall’impatto tellurico come Degeneration, Nihilst, Kill All Your Masters, tra le altre, appaiono allo stesso tempo brutali ma contraddistinte da una sorprendente limpidezza sonora, merito indubbio anche di una band che vede all’opera anche l’ex My Dying Bride Hamish Glencross (chitarra e basso) e l’attuale drummer dei Lost, il giovane finlandese Waltteri Väyrynen.
Resta anche il tempo per un episodio leggermente diverso, ma non meno possente e minaccioso nel suo incedere, come la dissonante Cursed From The Womb prima che l’album si chiuda con una Temple of Tears che non lascia spazio a rimpianti e ripensamenti.
Paradossalmente, credo che la nascita dei Vallenfyre abbia giovato anche agli stessi Paradise Lost, e lo testimonia il fatto stesso che la loro produzione più recente (in fervente attesa dell’album di prossima uscita) abbia ritrovato lo smalto dei bei tempi dopo un periodo di relativo appannamento. Al di là di questo, i Vallenfyre vanno goduti però per quello che sono, ovvero una magnifica death metal band dalle venature doom, senza cadere nel peccato mortale di considerarla un semplice diversivo di un musicista annoiato dalla fama acquisita con la sua band principale.

Tracklist:
1. Born To Decay
2. Messiah
3. Degeneration
4. An Apathetic Grave
5. Nihilist
6. Amongst The Filth
7. Kill All Your Masters
8. The Merciless Tide
9. Dead World Breathes
10. Soldier Of Christ
11. Cursed From The Womb
12. Temple Of Rats

Line-up:
Greg Mackintosh – vocals, guitars
Hamish Glencross – guitars, bass
Waltteri Väyrynen – drums
Sam Kelly-Wallace – guitar (live)
Chris Casket – bass (live)

VALLENFYRE – Facebook

Biogenesis – A Decadence Divine

Progressive, sinfonie gotiche, power metal e death/thrash contribuiscono a rendere quest’opera la colonna sonora del diluvio universale, una punizione divina che si scatenerà quanto prima dalle note di questo splendido lavoro.

Dall’underground metallico statunitense arrivano ottimi lavori, magari fuori dai soliti cliché del metal made in U.S.A. più cool, ma sicuramente opere di spessore che MetalEyes puntualmente vi porta a conoscenza.

La label Roxx Records, specializzata in christian metal, licenzia il quarto lavoro dei Biogenesis, gruppo proveniente dall’Ohio, attivo da ormai vent’anni ed in cui milita il singer Chaz Bond, ex Jacobs Dream, power metal band fuori con una manciata di ottimi lavori nel primo decennio del nuovo millennio.
A Decadence Divine è un ottimo album che ingloba una serie di atmosfere e sfumature diverse tra loro, vari generi che, amalgamandosi, trovano un equilibrio quasi perfetto e creano questo oscuro e tragico monolite di metallo, progressivo ed orchestrale.
Il singer tra clean e growl dà prova di saperci fare, così come i musicisti che lo accompagnano in questa che, di fatto, è un’ avventura nel mondo del metal tra classico ed estremo.
La title track, l’oscura Inside The Beast, la veloce e Thrashy As Empire Falls, formano un inizio scoppiettante, con i tasti d’avorio che cuciono arabeschi di musica classica, le sei corde che imprimono un marchio di fabbrica progressive/thrash, con la sezione ritmica che sale in cattedra quando la velocità diventa sostenuta.
Molto teatrale, tanto che in alcuni momenti il sound ricorda la splendida musica dei Saviour Machine (Lines In The Sand), l’album risulta un monolito di spettacolare metallo oscuro e progressivo, colonna sonora di una decadenza che, fin dal titolo, il gruppo descrive divina, frutto di forze e volontà più grandi dell’uomo.
La sinfonica Tears Of God e la conclusiva Brood Of Vipers sono un paio di esempi di questo clamoroso lavoro che diventa sempre più intenso ogni minuto che passa, mentre Iced Earth, Symphony X e i tedeschi Crematory divengono più che semplici ispirazioni.
Progressive, sinfonie gotiche, power metal e death/thrash contribuiscono a rendere quest’opera la colonna sonora del diluvio universale, una punizione divina che si scatenerà quanto prima dalle note di questo splendido lavoro.

TRACKLIST
1. Prelude (Nocturnal Images)
2. A Decadence Divine
3. Inside the Beast
4. Bet Your Soul
5. As Empires Fall
6. Lines in the Sand
7. The Pain You Left Behind
8. Tears of God
9. Land of Confusion
10. In the Darkness I Dwell
11. Brood of Vipers
12. Silence (CD Only Bonus Track)

LINE-UP
Sam Nealeigh – Keyboards
Majennica Nealeigh – Drums
Dan Nealeigh -Bass
Luke Nealeigh – Lead/Rhytym Guitars
James Riggs – Lead/Rhythym Guitars
Chaz Bond – Lead Vocals

BIOGENESIS – Facebook

Black Wings Of Destiny – The Storyteller Part Two

La musica è uno scattante e groovoso metal con molte influenze, dal southern al groove, da accenti stoner a parti metal tout court.

I Black Wings Of Destiny sono di Torino e mettono storie in musica, donandogli la vita con una buona dose di metal, declinato in vari sottogeneri, dallo stoner al southern, dal grove a qualche momento metal più ortodosso.

Il disco è la seconda parte di The Storyteller Part One uscito nel 2014, e che ha avuto una buona accoglienza di pubblico e critica. Il concetto che sta dietro questi lavori è quello di narrare storie usando il metal, o più largamente la musica per portare l’ascoltatore dentro le vicende raccontate. Lo stile è uno scattante e groovoso metal con molte influenze, dal southern al groove, da accenti stoner a parti metal tout court. Nessun sottogenere predomina sull’altro, ma tutti contribuiscono a fare un suono bene definito e abbastanza riconoscibile. La forza del gruppo risiede nel far scorrere piacevolmente il disco, tendendo sempre alto il livello del piacere per l’ascoltatore. Il groove è la spina dorsale del lavoro, ed è quello che porta avanti il tutto, rendendolo assai interessante. Una pecca è che la produzione è forse troppo edulcorata, e sarebbe bello sentire il gruppo a briglie maggiormente sciolte, perché le potenzialità ci sono. La melodia è un’altra protagonista del disco, ed è presente in un modo intelligente, accompagnandosi bene con questo concetto di metal moderno che hanno i Black Wings Of Destiny.
Un disco che ha dentro di sé ottime potenzialità che a volte sono portate a compimento, mentre in altri momenti rimangono solo nelle intenzioni.

TRACKLIST
1. Black Knife
2. Jane the Hunter
3. Venom
4. Dillinger Is Dead
5. Dust
6. From Day One
7. Masquerade

LINE-UP
Luca Catapano – guitars/vocals
Marco Mallamo – guitars
Emanuele Cacchioni – drums
Daniele Cogo – bass

BLACK WINGS OF DESTINY – Facebook

Tankard – One Foot In The Grave

Potete amarli alla follia o odiarli con pari foga, ma è indubbio che i Tankard siano parte importante del nostro mondo e della nostra cultura metal.

Noi siamo i Tankard, suoniamo thrash metal da trentacinque lunghi anni condito da irriverenza, humor, ed un’alta gradazione alcolica, siamo il quarto incomodo nella sacra triade del thrash metal teutonico (Sodom-Kreator-Destruction), idolatrati dai thrashers tutti metal birra e pogo ed ignorati da chi ci considera fautori della frangia più ignorante del metal.

Il diciassettesimo album del gruppo di Gerre, è un ottimo lavoro incentrato sulla parte più tradizionale del genere, registrato e prodotto ai Gerhard Studios di Troisdorf da Martin Buchwalter ed accompagnato ancora una volta dalla copertina originalissima e divertente di Patrick Strogulski.
Chi ha sempre ritenuto i Tankard come band emblematica di un approccio al genere scanzonato e diretto ma da prendere poco sul serio, anche questa volta si dovrà ricredere, perché One Foot In The Grave risulta uno schiaffo metallico di inumana violenza, portato al volto di chi non ha mai creduto in uno dei gruppi più veri e diretti della scena thrash metal e non solo.
Un sound fresco, veloce e senza compromessi fa da colonna sonora a testi che da allegri e scanzonati si fanno cupi e di inaspettata denuncia, mentre l’irruenza della sei corde si azzuffa con una sezione ritmica che continua a far scapocciare thrashers in tutto il mondo.
One Foot In The Grave è bello che descritto, d’altronde una band che ha dichiarato guerra nel lontano 1984 e continua la sua battaglia a colpi di metallo incendiario, chorus da inveire contro tutti, boccale in una mano e dito medio alzato nell’altra, non ha nulla da far scoprire se non un lavoro curato nei minimi dettagli, valorizzato da un songwriting che non ha nulla di divertente, ma distrugge, massacra, devasta, dall’opener Pay To Pray, all’attacco ai social network portato da Arena Of The True Lies, all’inno alcolico della title track e via fino alla conclusiva Soul Grinder.
Potete amarli alla follia o odiarli con pari foga, ma è indubbio che i Tankard siano parte importante del nostro mondo e della nostra cultura metal: in alto le pinte e sguardo irriverente e fiero, sfidando il mondo falso e ipocrita dei benpensanti.

TRACKLIST
1. Pay To Pray
2. Arena Of The True Lies
3. Don’t Bullshit Us!
4. One Foot In The Grave
5. Syrian Nightmare
6. Northern Crown (Lament Of The Undead King)
7. Lock’Em Up
8. The Evil That Men Display
9. Secret Order 1516
10. Solo Grinder

LINE-UP
Gerre – Vocals
Andy Gutjahr – Guitars
Frank Thorwarth – Bass
Olaf Zissel – Drums

TANKARD – Facebook

Lying Figures – The Abstract Escape

The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.

Primo full length per questa band francese che ha mosso i sui primi passi alla fine dello scorso decennio e che, oggi, dà finalmente un seguito consistente agli accenni di ottimo death doom fornito con un demo ed un ep rilasciati qualche anno fa.

The Abstract Escape si rivela infatti un’opera di notevole spessore, anche perché il gruppo di Nancy spicca per un approccio alla materia leggermente diverso, senza tralasciare di immettere nelle proprie composizioni passaggi riconducibili al gothic più depressivo, sfumatura quest’ultima che ben si sposa a tematiche legate a disagi psichici ed esistenziali.
Dei Lying Figures colpisce la capacità di toccare notevoli vette evocative subito dopo averne preparato il terreno con passaggi più rarefatti e solo apparentemente interlocutori, il tutto in qualche modo aderendo all’andamento schizofrenico di una mente malata che prova, invano, a riemergere dagli abissi nella quale è sprofondata.
In circa 50 minuti la creatura fondata dai due chitarristi Mehdi Rouyer e Matthieu Burgaud offre questi otto brani di ottima fattura, dimostrando la padronanza tipica di chi si è preso tutto il tempo necessario (come non sempre avviene) prima di imbarcarsi in un’avventura tutt’altro che scontata come il primo passo su lunga distanza: anche grazie a questo The Abstract Escape non mostra punti deboli, riuscendo ad evocare con la necessaria continuità le sensazioni di isolamento ed abbandono che anche nella copertina vengono raffigurate con una certa efficacia.
La voce di Thibault Robardey interpreta tutto ciò con la giusta enfasi e, anche se magari certi passaggi possono risultare un po’ forzati, l’effetto desiderato viene raggiunto ampiamente: tutto ciò contribuisce a rendere diversi brani delle opalescenti e dolorose perle, il cui afflato melodico è sempre in primo piano e capace di illuminare il disco con improvvise aperture.
Tormented Soul e There was a hole here, it’s gone now sono due trace magnifiche per intensità, aderendo alle caratteristiche appena descritte, ma sono di poco superiori, probabilmente solo per gusto personale, al resto di una tracklist che vede anche la disperata Monologue of a sick brain, la gothicheggiante e più ritmata Remove the black e la conclusiva Zero, all’insegna invece di un sound più rallentato, quali altri punti di spicco di un disco bellissimo.
The Abstract Escape, come molte altre opere simili, va lavorato con pazienza perché non entra nelle corde dell’ascoltatore con particolare agio, ma quando ciò avviene rilascia quelle sensazioni che ogni amante del doom che si rispetti ricerca con doverosa e tenace pazienza.

Tracklist:
1. Hospital of 1000 deaths
2. Tormented souls
3. Monologue of a sick brain
4. The Mirror
5. There was a hole here, it’s gone now
6. My Special place
7. Remove the black
8. Zero

Line-up:
Thibault Robardey – vocals
Matthieu Burgaud – guitars
Mehdi Rouyer – guitars
Frédéric Simon – bass
Charles Pierron – drums

LYING FIGURES – Facebook

Suffocation – ….Of The Dark Light

Dopo decenni di attività i Suffocation non hanno alcuna intenzione di cedere il proprio posto privilegiato presso la tavola del brutal death metal.

Per i Suffocation sono quasi trent’anni all’insegna del death metal, brutale, tecnico e violentissimo.

Un nome diventato parte importante della storia di un genere, passando per i molti cambi di line up e attraverso l’altalenante popolarità dei vari generi non ha scalfito la macchina da guerra di Long Island.
Il gruppo americano torna dopo quattro anni dall’ultimo assalto sonoro dal titolo Pinnacle Of Bedlam, con Frank Mullen e Terrance Hobbs sempre sul ponte di comando, affiancati dal basso di Derek Boyer e dai nuovi arrivati, Charlie Errigo alla chitarra ed Eric Morotti alla batteria, entrati in formazione solo lo scorso anno.
I maestri statunitensi non sbagliano un colpo e mantengono inalterata la loro reputazione con un altro mastodontico lavoro che racchiude tutta la forza espressiva del genere, l’abilità esecutiva del gruppo ed un songwriting che permette, nell’assoluta belligeranza, di apprezzare le nove canzoni che compongono …Of The Dark Light.
Siamo arrivati dunque all’ottavo full length e il gruppo non ha nessuna intenzione di mollare il il proprio posto privilegiato presso la tavola del brutal death metal con un bombardamento da terza guerra mondiale, un lavoro studiato per colpire mortalmente, senza pietà, furioso, tecnico ed assolutamente devastante.
Detto di una prova scioccante di Boyer alle pelli, preciso come un alieno dai tentacoli di un Kraken, della produzione profonda ma secca, di un riffing talmente squassante da squartare casse toraciche come il famoso mostro della saga di Alien, rimane solo da citare quel fattore sorpresa che, sicuramente, non troverete su questo platter.
Qui, infatti, si suona death metal brutale da parte di una delle massime realtà del genere, e brani come Clarity Through Deprivation, The Violation e le altre massacranti tracce che compongono l’album, non sono che mattoni di piombo sul muro di suono innalzato ancora una volta dai Suffocation.

TRACKLIST
01. Clarity Through Deprivation
02. The Warmth Within the Dark
03. Your Last Breaths
04. Return to the Abyss
05. The Violation
06. Of the Dark Light
07. Some Things Should Be Left Alone
08. Caught Between Two Worlds
09. Epitaph of the Credulous

LINE-UP
Frank Mullen – Vocals
Terrance Hobbs – Guitars
Charlie Errigo – Guitars
Derek Boyer – Bass
Eric Morotti – Drums

SUFFOCATION – Facebook

Fleshpress – Hulluuden Muuri

I Fleshpress in poco più di mezz’ora scagliano nell’etere la loro personale visione musicale che non prevede soluzioni banali e neppure sconti particolari a chi si avvicina all’ascolto

I finnici Fleshpress sono una band dalla produzione già piuttosto corposa alle spalle, essendo attivi fin dagli ultimi anni del secolo scorso.

L’approccio musicale del gruppo di Lahti è quanto mai obliquo, vivendo di esplosioni di matrice black che si vanno ad intersecare con rallentamenti doom e disturbi sonici assortiti, risultando così di ardua definizione per la sua natura sperimentale.
Del resto in questa band milita in veste di drummer Mikko Aspa, meglio conosciuto invece come vocalist degli sperimentatori estremi Deathspell Omega, e un tale indizio non va affatto trascurato.
I Fleshpress in poco più di mezz’ora scagliano nell’etere la loro personale visione musicale che non prevede soluzioni banali e neppure sconti particolari a chi si avvicina all’ascolto: il loro black/doom è dissonante, carico di tensione, con diversi sconfinamenti dronici ai limite della cacofonia, quindi destinato per lo più a chi apprezza il versante avanguardistico del genere rappresentato, appunto dai vari Deathspell Omega, Blut Aus Nord, eccetera.
Pur essendo relativamente di breve durata, Hulluuden Muuri (nel quale i nostri si cimentano per la prima volta con la lingua madre) sembra molto più lungo per l’intensità disturbante che ne pervade le trame, e ovviamente i  Fleshpress non fanno nulla per rendere in qualche modo più accativante la proposta.
Anzi, a rimarcare tutto ciò, il terzetto colloca come traccia conclusiva quella più lunga e forse emblematica del proprio sentire musicale, Voiman Täydellinen Toteutuminen, un crescendo martellante interrotto da urla belluine ed esplosioni soniche che vanno a definire un quadro di grande ed instabile vitalità.
Classico prodotto per un ristretto novero di ascoltatori, Hulluuden Muuri come già detto non dovrebbe comunque faticare a trovare estimatori tra chi conosce le band citate come riferimento, oltre che negli appassionati di black e doom dalle vedute più ampie.

Tracklist:
1. Lunastuksen Ajan Veren Riitti
2. Hulluuden Viiltävä Lasipinta
3. Oikeamieliset
4. Siintävän Totuuden Häikäisevä Kajo
5. Voiman Täydellinen Toteutuminen

Line-up:
Mikko Aspa – Drums
Marko Kokkonen – Guitar, Effects, Vocals
Samuli – Guitars

FLESHPRESS – Facebook

Resurrect The Machine – Uncover The Truth

Ristampa curata dalla Minotauro per Uncover The Truth, primo ed unico album per i Resurrect The Machine.

Il ritorno dei suoni classici, nell’hard rock come in tutto il mondo metallico, ha portato nuovo interesse per le varie scene sparse per il mondo e, come sempre gli States sono l’ago della bilancia, specialmente come ritorno commerciale ma anche per saggiare i gusti dei consumatori di musica.

Ebbene, i suoni vintage ed old school non mancano di fare ancora una volta proseliti così da riportare l’hard & heavy classico almeno a confrontarsi, con armi tornate cariche, nel bel mezzo della mischia nel panorama attuale.
Nascono così nuove realtà ovviamente (oltre ai gruppi storici) come questo quartetto di Los Angeles, i Resurrect The Machine, usciti tre anni fa con questo debutto ora ristampato dalla Minotauro.
Uncover The Truth è un lavoro che ripercorre la strada solcata dai miti dell’hard & heavy dagli anni ottanta agli anni novanta, una raccolta di brani tra la tradizione heavy metal losangelina ed un sound più moderno, mantenendo però una forte impronta old school.
Ritmiche a tratti vicine all’hard rock si scontrano con chitarre dal retrogusto heavy, i solos ed i riff della sei corde strizzano l’occhio al metal classico, mentre brani più orientati al mid tempo di stampo rock sono interpretati con grinta e spavalderia metallica dal buon Dean Ortega.
Una virtù di questo lavoro è anche la durata che supera di poco la mezzora, che consente di godersi i nove brani senza che scemi l’attenzione.
Intuizioni buone non ne mancano, così come una sana dose di melodia ed Uncover The Truth ne esce bene, valorizzato da una buona tecnica e da brani trascinanti come l’opener Rush, Meet Your Maker e la groovy Headed For The Sun.
Per darvi un’idea faccio tre nomi, Ozzy Osbourne, Metallica e Soundgarden, miscelati e lavorati quel tanto che basta per ottenere il sound che domina i brani raccolti in Uncover The Truth.

TRACKLIST
1.Rush
2.Kaos
3.Meet Your Maker
4.Creeper
5.No Reason, Pt. 1
6.No Reason, Pt. 2
7.Cannnibal
8.Headed for the Sun
9.Resurrect the Machine

LINE-UP
Dean Ortega – Vocals
Andre Makina – Guitars
Joey Cotero – Drums, percussion and backing vocals
Kurt Barabas – Bass and Backing Vocals

RESURRECT THE MACHINE – Facebook

Virtual Symmetry – X-Gate

Nuovo Ep per i Virtual Symmetry, creatura dalle intricate ragnatele melodiche e dai raffinati passaggi progressivi.

Il progressive metal sa sempre regalare sorprese, ovviamente il genere è di quelli che o lo si ama o lo si odia, ma è indubbio che al fan delle intricate ragnatele musicali dei gruppi che, al progressive tradizionale aggiungono dosi di potenza metallica, non manca certo di che crogiolarsi.

Marco Pastorino, talento musicale nostrano e songwriter sopraffino, aggiunge alle fatiche con i Secret Sphere (fino a poco tempo fa) ed i Temperance questa ottima band, che del progressive metal si nutre, lontana dal power hard rock progressivo dei primi, così come dalle sinfonie metalliche dei secondi.
I Virtual Symmetry sono attivi dal 2009, fondati dal chitarrista Valerio Æsir Villa, e hanno debuttato lo scorso anno con Message From Eternity, full length che vedeva come ospiti, oltre ad Alessandro Del Vecchio, Jordan Rudess, tastierista di quella che è la massima influenza del gruppo, i Dream Theater.
Ovviamente la band parte da questa famosa ispirazione per poi prendere una propria strada fatta di intricati passaggi strumentali, ma anche di ottime e raffinate melodie, sviluppate in tre brani lunghi, tre suite che tornano all’antico, considerato il trend tra le band odierne del genere nel concentrare in pochi minuti i viaggi progressivi sul proprio spartito.
Pastorino canta, personale e melodico, e senza strafare lascia che le sensazioni prodotte dalla musica e dalla sua voce entrino nell’ascoltatore, mentre i compagni di questa avventura sfoggiano una padronanza dei mezzi oltre la media, con la musica dei Virtual Symmetry che cattura, rapisce, ipnotizza come nella migliore tradizione progressiva.
Eyes Of Salvation, Alchymera (con bellissime sfumature riconducibili alle opere di Ayreon) ed Elevate, dove Pastorino è affiancato da una bellissima voce femminile, compongono questo notevole lavoro, un ep da gustare come un succulento antipasto a quello che probabilmente sarà il prossimo album, mentre recuperare Message From Eternity diventa obbligatorio se non si conosceva la band in precedenza.

TRACKLIST
1.Eyes of Salvation
2.Alchymera
3.Elevate

LINE-UP
Valerio Æsir Villa – Guitars
Mark Bravi – Keyboards
Alessandro Poppale – Bass Guitar
Davide Perpignano – Drums
Marco Pastorino – Vocals

VIRTUAL SYMMETRY – Facebook

Below the Sun – Alien World

Spesso il secondo disco può nascondere insidie ma la band siberiana, traendo linfa vitale da un masterpiece della fantascienza, crea un viaggio affascinante e misterioso.

DOOM, profondamente doom con intense venature “progressive” e sfumature death il secondo lavoro dei siberiani Below the Sun a due anni di distanza dall’esordio Envoy; il misterioso quartetto si ripresenta con un’opera difficile, con un concept tratto dal masterpiece Solaris del 1961 del grande scrittore polacco Stanislaw Lem, libro affascinante di fantascienza filosofica trasposto cinematograficamente dal regista russo Tarkovskij.

I musicisti russi raccolgono la sfida e in otto lunghi brani ci impressionano con un lavoro cangiante, ricco di suoni e idee creando una immaginifica “colonna sonora”, un viaggio carico di emozioni, di introspezione, di ricerca interiore; opera non facile da comprendere, sono necessari molti ascolti per apprezzare appieno il labirinto di suoni che la band crea senza utilizzare alcun synth o keyboard: ciò è stupefacente perché chi ascolta non può non rimanere rapito di fronte agli ampi spazi strumentali concepiti all’interno dei vari brani.
L’opener Blind Ocean nei suoi dieci minuti di durata esplora lo spazio fin dall’inizio per poi porci di fronte alla grandezza di una forma aliena, l’oceano intelligente che ricopre completamente la superficie del pianeta Solaris, creando un mix di emozioni che vanno dallo stupore alla paura, fino al lirismo intenso della parte finale dove la chitarra solista intesse trame fitte, ricche, romantiche e molto introspettive. Suoni post-metal avvolgono e rendono le altre composizioni cariche di mutevole fascino come in Giants Monologue dove una cadenza pesante e lenta crea una atmosfera di misteriosa attesa che lentamente si richiude in sé stessa. Un sentito plauso alla band perché sicuramente l’idea del concept ha stimolato molto l’inventiva dei musicisti e li ha suggestionati nell’elaborare e comporre un disco veramente bello, maestoso e misterioso.

TRACKLIST
1. Blind Ocean
2. Mirrors
3. Giant Monologue
4. Dawn for Nobody
5. Release
6. Dried Shadows
7. Black Wave
8. In Memories

LINE-UP
Void Drums, Vocals
Vacuum Guitars
Quasar Guitars, Vocals
Lightspeed Bass

BELOW THE SUN – Facebook

Chaos – All Against All

Un gruppo che si conferma, nel suo genere, come ottima alternativa ai soliti nomi, e diffidate del paese di provenienza, in India si suona grande metal.

Tornano più irruenti e veloci che mai i Chaos, band proveniente da Trivandrum (India) e di cui il sottoscritto si era già occupato tre anni fa in seguito all’uscita del notevole Violent Redemption, primo full length dei thrashers asiatici.

Licenziato (e non potrebbe essere altrimenti) dalla Transcending Obscurity, il nuovo album continua l’opera di distruzione iniziata con il precedente lavoro, una ruspa che abbatte senza pietà su tutto e tutti a colpi di thrash metal made in Bay Area.
Il quartetto non le manda di certo a dire ai colleghi americani ed europei e All Against All risulta un altro assalto ai padiglioni auricolari dei kids dai gusti metallici di estrazione thrash.
Un sound old school duro come l’acciaio, veloce e violento come nella migliore tradizione, ma che non risparmia una valanga di melodie, riffoni che smuovono montagne, solos che accendono il cielo, lampi di metal estremo che una sezione ritmica da infarto ( Vishnu, Basso e Manu alle pelli) e la chitarra di Nikhil che incendia pentagrammi, contribuiscono a rendere anche questo nuovo album una notevole mazzata metallica.
La rabbia vomitata del singer JK e i dieci brani sparati alla velocità della luce ci investono per un’altra quarantina di minuti scarsi firmata dai Chaos, ottimi alfieri di quello che è il thrash metal di Exodus e Death Angel, con brani violentissimi ma sempre confinati nell’old school come The Inevitable Genocide, Patros Of Pain e la conclusiva The Escape!
Un gruppo che si conferma, nel suo genere, come ottima alternativa ai soliti nomi, e diffidate del paese di provenienza, in India si suona grande metal.

TRACKLIST
1.The Great Divide
2.The Inevitable Genocide
3.All Against All
4.Indoctrination
5.Death to the Elite
6.The Enemy
7.Patrons of Pain
8.Asylum
9.Portrait in Blood
10.The Escape

LINE-UP
Vishnu – Bass
Manu Krishnan – Drums
JK – Vocals
Nikhil N R – Guitars

CHAOS – Facebook

Astarte – Doomed Dark Days

Purtroppo Maria Tristessa Kolokouri è morta nel 2014, uccisa dalla leucemia, ma la sua stella nera non smette mai di brillare, poiché ci ha lasciato dischi bellissimi come questo.

Necessaria ristampa di uno dei principali dischi di black metal, nonché primo di una band al femminile.

Oltre a quanto detto sopra, Doomed Dark Days, pubblicato nel 1998, fu un gran disco di black metal, potente e mistico, legato alla tradizione scandinava, ma portatore dei pregi del genere suonato in Grecia, che non sono pochi.
Nel 1995 il gruppo comincia le attività con il nome Lloth, per poi mutare in Astarte, capitanati dalla nera sacerdotessa Maria Tristessa Kolokouri che, assieme a Nemesis e Kinthia, aiutate da un batterista turnista uomo, diedero vita a questo capolavoro. Ascoltando Doomed Dark Days si ha l’impressione di venire catapultati nella Norvegia di qualche anno prima, ma si nota subito il tocco ellenico, che sta nel dare al black metal una melodia ed un gusto fortemente gotico che altrove è difficilmente riscontrabile. Durante tutta la durata del disco le tracce sono nere sinfonie, nate in mezzo a boschi inaccessibili, ma in realtà paradigma di ciò che portiamo nel nostro animo. La capacità compositiva di Maria era notevole e si può godere della sua visione in questo lavoro, che è davvero una chicca imperdibile. Abissi ma non solo, growl ma anche melodie, con una produzione che è lo fi il giusto, e che risalta ancora meglio con la remasterizzazione di questa edizione. Doomed Dark Days è un pentacolo perfetto con dentro un grande black metal, fatto con passione estrema e grande senso della composizione. Purtroppo Maria Tristessa Kolokouri è morta nel 2014, uccisa dalla leucemia, ma la sua stella nera non smette mai di brillare, poiché ci ha lasciato album bellissimi come questo.

TRACKLIST
1.Passage to Eternity(Prelude)
2.Voyage to Eternal Life
3.Thorns of Charon (pt1) – Astarte’s Call
4.Doomed Dark Years
5.Thorns of Charon(Pt. II)-Emerge From Hades
6.Thorns of Charon(Pt. III)-Pathway To Unlight
7.Empress Of The Shadow land
8.The Rise Of The Metropolis

ASTARTE – Facebook

Nordland – European Paganism

Una bella prova, intensa, competente e genuina nelle sue risultanze.

Nordland è il progetto solista di Vohr, musicista inglese dedito ad un black metal dai tratti epici ed atmosferici.

European Paganism è il quarto full length in un quinquennio di attività e giunge a riaffermare le posizioni critiche dell’autore rispetto all’egemonia del cristianesimo e delle religioni monoteiste in genere, quali cause dell’azzeramento pressoché totale del paganesimo visto quale tratto distintivo e peculiare dell’identità di ciascun popolo europeo.
Niente di nuovo, forse, dal punto di vista concettuale (per quanto interessante e tutt’altro che banale nella maniera in cui l’argomento viene trattato), e neppure da quello musicale, dato che il black di Nordland accoglie e rielabora tutte le fonti di ispirazioni conosciute, però la differenza viene fatta dalla profondità con la quale la materia viene affrontata sotto entrambi gli aspetti.
Per descrivere l’operazione di azzeramento delle tradizioni e dei costumi che hanno mantenuto coese nel passato diverse comunità, Vohr utilizza con sapienza quanto gli ultimi vent’anni di musica estrema gli hanno messo a disposizione, prendendone le parti più pregiate dando così vita ad un prodotto di assoluto livello.
Lo stesso azzardo di partire con una traccia di oltre ventisette minuti di durata, appare emblematico di quanto abbia da dire il musicista britannico, il quale preferisce non indugiare più di tanto sugli stilemi del genere inserendo passaggi ora acustici, ora epici e folkeggianti, ora progressivi grazie anche ad un utilizzo molto personale della chitarra solista: The Mountain tiene costantemente desta l’attenzione dell’ascoltatore in virtù di una varietà che non sconfina mai nel farraginoso ma che, piuttosto, rende meno monolitico e più avvincente lo scorrere dell’album.
Inutile rimarcare come il fulcro di European Paganism sia proprio la lunghissima The Mountain, perfetto manifesto del sentire musicale di Vohr, ma anche le altre due tracce non sfigurano, benché appaiano in qualche modo più canoniche nel loro incedere, in particolare la conclusiva Rites At Dawn, decisamente radicata nel black tradizionale.
Una bella prova, intensa, competente e genuina nelle sue risultanze.

Tracklist:
01. The Mountain
02. A Burning Of Idols
03. Rites At Dawn
Line-up:
Vohr

NORDLAND – Facebook