Bellathrix – Orion

Orion farà battere all’impazzata cuori metallici di vecchia data e sorprenderà i giovani più legati al power e poco avvezzi alle cavalcate heavy metal, tipiche degli anni d’oro del genere.

Con ancora nelle orecchie le splendide note dell’ultimo album degli Athlantis, mi ritrovo con in mano un’altra opera che coinvolge un gruppo di talenti musicali proveniente dalla provincia di Genova.

Pier Gonella e Steve Vawamas, chitarra e basso di Mastercastle e Athlantis, e poi separatamente in altre importanti realtà metalliche quali i Necrodeath per il primo e i Ruxt per il secondo, si ritrovano ancora una volta insieme in un ennesimo progetto, questa volta più orientato all’heavy metal tradizionale, ma non per questo meno riuscito.
I due, non contenti degli applausi a scena aperta conquistati nell’ultimo periodo, tornano con i Bellathrix, gruppo formato appena due anni fa e dal nucleo portante a trazione femminile (Lally Cretella alla chitarra, Stefy Prian alla voce ed Elisa Pilotti alla batteria), al primo passo discografico con questo ottimo esempio di heavy metal, al giorno d’oggi definito old school, ma che poi altro non è che hard & heavy di stampo classico e dai buoni spunti progressivi e folk.
Licenziato dalla storica label genovese Black Widow, Orion non mancherà di far battere all’impazzata cuori metallici di vecchia data, o di sorprendere giovani metallari legati al power e poco avvezzi alle cavalcate caratteristiche degli anni ruggenti.
Ogni volta che ho a che fare con Pier Gonella, mi ritrovo a lodare le gesta di questo numero uno della sei corde, sempre perfettamente a suo agio in ogni contesto: nei Bellathrix, assieme all’ottima Lally Cretella, va a costituire il fulcro del sound di Orion, con il sostegno della potente e precisa sezione ritmica e della voce assolutamente perfetta per il genere di Stefy Prian (dimenticatevi gorgheggi di stampo operistico, qui si fa heavy metal), personale e convincente.
Non poteva certo mancare una manciata di graditi ospiti e allora i Bellathrix lasciano a Tommy Massara il solo su The Ritual, cover della Strana Officina, e si avvalgono delle tastiere di Dave Garbarino, del violino di Federica Pelizzetti e del flauto del sempreverde Martin Grice, storico componente dei Delirium.
E come ormai ci hanno abituato questi bravissimi stakanovisti del metal nostrano, l’album convince a più riprese, risultando perfetto nel dosaggio tra l’irruenza tipica dell’heavy metal, le melodie di un hard rock evocato spesso dalle linee vocali della Prian (Fly In The Sky e le ritmiche funkizzate di My Revenge) e con l’asso calato a pulire il tavolo rappresentato dalle parti progressive e folk nella semiballad I Don’t Believe A Word; le reminiscenze space rock della pur grintosa title track ed il tuffo nel rock progressivo della bellissima King Of Camelot chiudono come meglio non si potrebbe questa prima uscita targata Bellathrix.
In attesa che (sicuramente tra non molto) si ripresenti l’opportunità di ascoltare altra musica prodotta o suonata da questi inesauribili musicisti, non rimane che consigliare caldamente di fare proprio quest’album.

TRACKLIST
1. The Road in the Night
2. Before the Storm
3. Fly in the Sky
4. My Revenge
5. I Don’t Believe a Word
6. The Ritual (Strana Officina cover)
7. Orion
8. King of Camelot

LINE-UP
Stefy Prian – Vocals
Elisa Pilotti – Drums
Steve Vawamas – Bass Guitar
Lally Cretella – Guitar
Pier Gonella – Guitar

BELLATHRIX – Facebook

Norunda – Irruption

Irruption mette in luce una passione sconfinata per il genere da parte dei musicisti pari a quella dei fans di un genere lontano da regalare clamorose novità, ma sempre ben accetto.

Bastano davvero poche parole per descrivere un album come Irruption, esordio sulla lunga distanza per i thrashers spagnoli Norunda, d’altronde dell’anima old school del genere si tratta, così che musica ed ispirazioni sono sicuramente conosciute ai lettori di MetalEyes.

Il trio è una neonata realtà (2016) nata per volere di Rubén Cuerdo chitarrista e cantante, accompagnato dalla sezione ritmica composta da Pedro Mendes al basso e Marcelo Aires alle pelli: Irruption non brilla certo per originalità ma sa essere convincente, specialmente quando tra i solchi dei brani spicca la sua anima progressiva, molto voivodiana.
Per il resto con Irruption si ascolta del buon thrash metal di ispirazione americana, melodico, dai riferimenti heavy negli assoli e tranquillamente accostabile alle storiche band della Bay Area.
Con una devozione per i quattro cavalieri di Frisco quasi commovente, il trio si impegna a non annoiare l’ascoltatore lungo i cinquanta minuti di durata dell’album, che vive di veloci cavalcate, mid tempo potenti e chorus da fiammeggianti live, mentre come scritto, è quando l’anima progressiva spunta timida dallo spartito che questo lavoro si merita qualche applauso più convincente.
Forse leggermente più prolisso di quello che, scremando un paio di brani, il gruppo poteva dare in pasto agli amanti del genere, Irruption mette in luce una passione sconfinata per il genere da parte dei musicisti pari a quella dei fans di un genere lontano da regalare clamorose novità, ma sempre ben accetto.
Grazie alle ottime Dynamite, Infoxication e Sultan Killer l’album si porta a casa la sua abbondante sufficienza: come inizio per i Norunda non è affatto male.

TRACKLIST
1. Asshole in your Way
2. Dynamite
3. Face to Face
4. Hit You
5. Infoxication 6
6. Pushing to the Limit
7. Sultan Killer
8. The Only Truth
9. Violent Street
10. Into my Game

LINE-UP
Rubén Cuerdo – Vocals, guitars
Pedro Mendes – Bass
Marcelo Aires – Drums

NORUNDA – Facebook

Ibyss – Hate Speech

Questi sei brani forse non cambieranno la storia del genere ma hanno la caratura per consentire agli Ibyss di ritagliarsi un meritato spazio; e chissà che, come spesso accade, una forma di censura non provochi un effetto diametralmente opposto a quello desiderato da chi l’ha imposta …

Tra le molte mail inviate quotidianamente a MetalEyes ne è arrivata una molto particolare qualche settimana fa: chi scriveva lamentava il fatto d’aver subito in patria (la Germania) una sorta di ostracismo dovuto, sostanzialmente, al titolo dell’album, Hate Speech, ritrovandosi costretto a cercare di ottenere la giusta attenzione al di fuori dei patri confini.

Francamente non avevo idea di quanto l’attenzione al politicamente corretto avesse raggiunto un livello prossimo alla censura preventiva da quelle parti, dove ritenevo invece ci fosse maggiore apertura rispetto ad un paese come il nostro, dove una piaga come quella costituita dagli ultracattolici vorrebbe mettere il becco anche su quanto e quando si dovrebbe andare al cesso ogni giorno …
Ma, evidentemente, anche in terra teutonica ci sono dei nervi scoperti che dopo oltre settant’anni devono dolere ancora parecchio. Detto ciò, al netto di chi inneggia in maniera esplicita al totalitarismo ed al razzismo, chiunque può trovare spazio sulla nostra webzine, a maggior ragione se l’operato si rivela meritevole del giusto rilievo, come nel caso degli Ibyss.
La band, dopo un avvio di carriera in formazione più tradizionale è ora ridotta ad un duo formato da Jens e Nihil, riproponendo la formula, almeno da punto di vista numerico, di alcune tra le principali fonti di ispirazione dei nostri come Godflesh e Scorn.
Oltre al sound di questi due giganti dell’industrial degli anni ’90, gli Ibyss immettono la lezione del versante più metallico del genere come Ministry o Prong, ed Hate Speech si rivela così un buonissimo lavoro nel quale tutte le intuizioni dei nomi citati vengono elaborate con competenza e personalità.
Trattandosi di un ep, l’opera è relativamente breve e si assimila quindi con più agio, facilitati in questo da una scrittura se non varia, comunque abbastanza attenta a conferire ad ogni brano una sua fisionomia ben definita.
Chi apprezza il genere, quindi, non potrà fare a meno di gradire i riff squadrati che conferiscono rara efficacia a tracce come Face Off, Frontlines e Like Drones e la buona orecchiabilità di Home Is Where The Graves Are, che vede il contributo vocale dell’ospite Rüdiger Schuster (ex Garden Of Delight); al riguardo va detto che il titolare del ruolo, ovvero Jens, offre una prestazione in linea con i dettami del genere, grazie ad uno scream/growl senz’altro convincente, mentre l’unico possibile appunto che si può fare ai due ragazzi tedeschi è forse la scelta (o la necessità) di ricorrere ad una drum machine piuttosto che ad un batterista in carne ed ossa, facendo risaltare le differenze rispetto alle band di riferimento che potevano annoverare tra le loro fila fenomeni come Mick Harris o Bill Rieflin.
Questi sei brani forse non cambieranno la storia del genere ma hanno la caratura per consentire agli Ibyss di ritagliarsi un meritato spazio; e chissà che, come spesso accade, una forma di censura non provochi un effetto diametralmente opposto a quello desiderato da chi l’ha imposta …

Tracklist:
01. Bois Ton Sang
02. Face Off
03. Home Is Where The Graves Are
04. Like Drones
05. Frontlines
06. Senseless Ordeal

Line-up:
Jens – Vocals / Guitars
Nihil – Guitars / Programming

IBYSS – Facebook

Freakings – Toxic End

Un lavoro incendiario, che narra la fine di un mondo intossicato dai veleni e dalle guerre, qui riprodotto dal vento atomico di uno speed/thrash devastante ed assolutamente old school.

Una botta di adrenalina thrash metal direttamente dalla patria degli orologi, la Svizzera.

Precisi come i migliori meccanismi creati aldilà delle Alpi lo sono pure i Freakings, trio metallico, che della velocità e devastante furia ne fa una religione.
Attivi da quasi dieci anni, e con altri due album alle spalle (No Way Out del 2011 e Gladiator di ormai tre anni fa), Toby Straumann (basso), Simon Straumann (batteria) e Jonathan Brutschin (voce e chitarra) tornano con un lavoro incendiario, che narra la fine di un mondo intossicato dai veleni e dalle guerre, qui riprodotto dal vento atomico di uno speed/thrash devastante ed assolutamente old school, una dichiarazione di guerra contro il maltrattamento del nostro pianeta, ormai alla deriva ed al collasso.
Toxic End esplode, e come uno tsunami atomico non si ferma più, investendo con accelerazioni di una forza impressionante: la voce è al limite, le ritmiche mantengono velocità inumane e la mezz’ora a disposizione del gruppo passa veloce come il lampo.
L’opearato dei Freakings è connotato da una velocità assurda, contornata una tempesta di suoni speed che non trova barriere, continuando nella sua missione tra solos al fulmicotone, ritmiche da massacro ed un approccio live che immagino incarni il macello di cui questo trio può essere capace on stage.
Potrei nominare tutte o nessuna traccia, mi limito a consigliare quindi questo tornado sonoro agli amanti dello speed/thrash di matrice assolutamente old school che non temono di farsi intimidire dalle mitragliate riversate dai Freakings.

TRACKLIST
1.Hell On Earth
2.Future Vision
3.Violent Disaster
4.TxWxNxD
5.Toxic End
6.Friendly Fire
7.Brain Dead
8.Price Of Freedom
9.Wave Of Pain
10.Beer Attack
11.No More Excuses

LINE-UP
Toby Straumann – Bass
Simon Straumann – Drums
Jonathan Brutschin – Guitars, Vocals

FREAKINGS – Facebook

Crawler – Hell Sweet Hell

Hell Sweet Hell è un lavoro mastodontico e bellissimo, consigliato a tutti gli amanti del genere e principalmente degli Edguy/Avantasia, principali fonti di ispirazione del gruppo.

Quindici anni di storia, un passato da cover band dei gruppi storici dell’heavy metal mondiale ed un secondo album di inediti pronto per conquistare i cuori del metallari duri e puri.

Tornano i Crawler, band di Cremona, a distanza di sei anni dal debutto sulla lunga distanza, quel Knight Of The Word che ha ottenuto ottimi riscontri.
Per Valery Records esce questo nuovo lavoro intitolato Hell Sweet Hell, un’ora abbondante su e giù per il metal classico degli ultimi venticinque anni, tra spunti progressivi, piglio epico orchestrale e più di uno sguardo sulla musica scritta da Tobias Sammet (Claudio Cesari, vocalist del gruppo lo si può senz’altro considerare il Sammet nostrano) sia con gli Avantasia che con gli Edguy, oltre ad un cordone ombelicale difficile da tagliare con Iron Maiden e Judas Priest.
Hell Sweet Hell è un album curato, prodotto molto bene con un lotto di brani trascinanti e dal taglio internazionale, assolutamente in grado di tenere botta con le opere provenienti da fuori confine grazie ad un songwriting sopra la media, un cantante davvero bravo e una varietà di atmosfere che offre ad ogni brano una sua identità.
Si passa così dal power metal melodico all’heavy metal tradizionale, dal symphonic power a canzoni dagli ottimi spunti progressivi, con un’altro richiamo importante come quello dei Symphony X.
Ricco di cambi di tempo ed atmosfere, Hell Sweet Hell si fa apprezzare nella sua interezza, non scendendo mai da un elevato ottimo e facendo focalizzare l’attenzione dell’ascoltatore sulla bontà della musica più ancora che sull’ottima tecnica strumentale dei bravissimi musicisti che formano il gruppo.
L’aggressiva e tagliente Dhampyre, la progressiva ed orchestrale The Power Of Magic, il power metal di Neverland e le chitarre hard rock di No Pain, che ricorda i brani più divertenti e pazzi degli Edguy, fanno risplendere la prima parte dell’album, mentre si torna alle atmosfere epiche con The Lair of the Smoking Dragon che precede l’heavy metal classico ed aggressivo della title track.
Drammatica, oscura e progressiva si rivela Akhenaton, degna conclusione dell’album, una traccia metallica e magniloquente che mette la parola fine si di un lavoro mastodontico e bellissimo, consigliato a tutti gli amanti del genere e principalmente degli Edguy/Avantasia, principali fonti di ispirazione del gruppo.
Niente di nuovo? Vero, ma che musica ragazzi!

TRACKLIST
1.Dracarys! (intro)
2.Winter is Coming
3.Dhampyre
4.The Power of Magic
5.Neverland
6.I wait for my Siren
7.No Pain
8.The Eyes and the Dark
9.The Lair of the Smoking Dragon
10.Hell sweet Hell
11.7 Days
12.Akhenaton

LINE-UP
Claudio Cesari – Vocals
Matteo Cattaneo – Guitars
Filippo Severgnini – Guitars
Daniele Mulatieri – Bass
Nicola Martiniello – Drums

CRAWLER – Facebook

Tormentor – Morbid Realization

Il songwriting di buon livello permette all’album di non perdere mai l’attenzione da parte dell’ascoltatore, con un lotto di canzoni che arrivano subito al sodo, pesanti come incudini, violente, morbose e valorizzate da ritmiche vincenti.

Bella sorpresa questi Tormentor, gruppo tedesco che fa del thrash metal di ottima fattura e che arriva al secondo lavoro sulla lunga distanza tramite la Iron Shield.

Passati i dieci anni di attività il quartetto aveva già dato modo in passato di non passare inosservato, con il primo demo ….Lesson In Aggression sponsorizzato nientemeno che Mille Petrozza, sommo sacerdote del teutonic thrash metal.
Se il primo album (Violent World) aveva accontentato tutti, la furia che non si placa neanche in questo Morbid Realization, un fulgido esempio di thrash metal sulla scia dei Kreator.
Il bello di questo lavoro è il songwriting di buon livello che permette all’album di non perdere mai l’attenzione dell’ascoltatore, con un lotto di canzoni che arrivano subito al sodo, pesanti come incudini, violente e morbose (come da titolo) e valorizzate da ritmiche vincenti.
Certo, la devozione ai Kreator è totale, con il singer che praticamente è la copia carbone del buon Mille, ma ritengo che sia l’unico difetto dei Tormentor, perché nel complesso il Morbid Realization risulta un album ben fatto, adeguato alle attese degli amanti del genere.
Del cantante, Max Seipke (anche chitarrista) abbiamo praticamente detto tutto, non rimane che ricordare l’ottimo lavoro del suo compare Kevin Hauch e della coppia ritmica, formata dal basso di Christian Schomber e dalle pelli distrutte sotto i colpi di Thomas Wedemeyer.
L’album non ha cedimenti, con un thrash metal aggressivo che presenta ottime melodie chitarristiche, cavalcate ritmiche trascinanti (Walk Past Myself) e tanto metallo tedesco, duro come l’acciaio, perfettamente in bilico tra velocità e mid tempo pesantissimi, con una serie di brani a tratti esaltanti (la title track, Burning Empire e Forgotten) ed in grado di lasciare un’espressione maligna sul viso dei fans del thrash metal di scuola Kreator.
In conclusione, un album ben fatto, assolutamente non originale, ma con tutte le caratteristiche per piacere agli amanti del genere, a cui va il mio consiglio all’ascolto.

TRACKLIST
1. Hope
2. Kill with no Excuse
3. Morbid Realization
4. Comprehension Failed
5. Burning Empire
6. Endless Emptiness
7. Forgotten
8. Lurks in the Dark
9. Walk past myself
10. Path to the dark Side

LINE-UP
Thomas Wedemeyer – drums
Christian Schomber – bass
Kevin Hauch – guitar
Max Seipke – voc/ guitar

TORMENTOR – Facebook

Dool – Here Now, There Then

La proposta dei Dool risulta profonda senza sconfinare in soluzioni cervellotiche, e il tutto viene eseguito in maniera esemplare: la spiccata varietà sonora non diviene sinonimo di dispersività, ma si rivela l’elemento decisivo per rendere Here Now, There Then un lavoro adatto ad ascoltatori dal differente background.

Dopo aver fatto conoscenza con i Dool l’anno scorso, in occasione dell’uscita del singolo Oweynagat non era difficile presagire che il loro primo lull length avrebbe potuto lasciato il segno.

La band olandese mantiene le promesse e rafforza l’impressione, avuta allora, di trovarsi al cospetto di un gruppo di musicisti di livello superiore: se poteva esserci un minimo dubbio in considerazione del fatto che azzeccare un singolo brano capita a molti, poi incapaci di mantenere uno stesso standard su lunga distanza, era stata la versione acustica del brano a farmela considerare una vera e propria epifania di un nuovo talento.
Oweynagat è presente in Here Now, There Then solo nella sua versione canonica ed il lavoro è, appunto, del tutto all’altezza del suo brano trainante: come detto all’epoca, non deve destare stupore neppure il fatto che tale opera sia pubblicata da una band all’esordio, visto che la line up vede all’opera protagonisti piuttosto conosciuti della scena underground olandese, tra cui membri di band come The Devil’s Blood e Gold, oltre alla più nota Ryanne van Dorst.
Non c’è dubbio che una vocalist cosi versatile e dalla spiccata personalità sia un vero valore aggiunto, ma non va sottovalutato l’operato dei suoi degnissimi compagni di viaggio, musicisti davvero sopraffini.
Anche i Dool, come altri gruppi trattati di recente, sono difficili da catalogare, ma affermare che il loro sound, a grandi linee, si snoda lungo coordinate doom, dark e psichedeliche non sarebbe un peccato, per quanto comunque non del tutto appropriato.
La bellezza di Here Now, There Then sta anche nel suo cambiare toni da una traccia all’altra, con episodi trascinanti e dallo sviluppo in progressivo crescendo, come l’opener Vantablack e la già citata Oweynagat, altri magari più ariosi e dal chorus incisivo (Golden Serpents e In Her Darkest Hour), per giungere a canzoni che rimandano in maniera più decisa al gothic dark (She Goat) o alle atmosfere cupe del doom (The Alpha).
La proposta dei Dool risulta profonda senza sconfinare in soluzioni cervellotiche, e il tutto viene eseguito in maniera esemplare: la spiccata varietà sonora non diviene sinonimo di dispersività, ma si rivela l’elemento decisivo per rendere Here Now, There Then un lavoro adatto ad ascoltatori dal differente background.
I Dool, pur a fronte di una storia ancora breve, stanno già ottenendo riscontri importanti ed un’attenzione che li porterà senz’altro ad occupare posizioni di prestigio in diversi festival estivi, in primis al Prophecy Fest di fine luglio: non c’è davvero nulla di fortuito in tutto questo …

Tracklist:
1.Vantablack
2.Golden Serpents
3.Words On Paper
4.In Her Darkest Hour
5.Oweynagat
6.The Alpha
7.The Death Of Love
8.She Goat

Line-up:
Ryanne van Dorst – Vocals/Guitar
Micha Haring – Drums
Job van de Zande – Bass
Reinier Vermeulen – Guitar
Nick Polak – Guitar

DOOL – Facebook

Bolesno Grinje – Grd

I titoli esprimono ovviamente la scelta di utilizzare testi in lingua croata, ma sinceramente è consigliato schiacciare il tasto play e farsi travolgere da questa mezz’ora di carneficina ininterrotta.

Tornano sul mercato i Bolesno Grinje, una vecchia conoscenza della scena estrema croata e nome storico se si parla di grind core.

Nato infatti con l’avvento del nuovo millennio, il gruppo di Pula ha dato alle stampe un buon numero di lavori tra cui otto full length, di cui Grd è l’ultimo devastante parto a base di un grindcore che regala ottimi passaggi vicini al classico death metal e all’hardcore, rendendo il lavoro vario e dalla presa immediata, cosa non facile se si suona questo genere.
Troviamo così doppia voce, testi in lingua madre, una carica violentissima ma con in mano il segreto per fare di questa raccolta di esplosioni e mitragliate estreme un album godibilissimo, non solo per  i fans del grind.
Orecchiabile e composto da un lotto di brani illuminati da un songwriting che nel genere è da considerarsi di livello superiore, Grd è un bombardamento a cui è difficile rinunciare: i Bolesno Grinje modellano la materia con una padronanza fuori dal comune e i brani, pur formando un massacro sonoro di notevole potenza, hanno nella varietà di stili ed influenze (si parla di generi ovviamente) l’arma per vincere la sfida con molte altre realtà dell’underground estremo.
I titoli esprimono ovviamente la scelta di utilizzare testi in lingua croata, ma sinceramente è consigliato schiacciare il tasto play e farsi travolgere da questa mezz’ora di carneficina ininterrotta, con un effetto deflagrante assolutamente garantito.

TRACKLIST
1.Rstrgn
2.Ne vjerujem nikome
3.Autobiografija propasti
4.Genijalci
5.Asimilacija
6.Abortus SS
7.Reakcija
8.Vratite mi mozak
9.Kurve establišmenta
10.Pseudo-grobar
11.Umjetnost je goli kurac
12.Dodimi mi ruku

LINE-UP
Hoc – bass
Jule – guitar
Luze – drums
Angeri – vocal

BOLESNO GRINJE – Facebook

Buffalo Grillz – Martin Burger King

Senza perdersi in cose e pose cervellotiche, i Buffalo Grillz sfornano un disco di grindcore come non si sentiva da tempo, diretto ben prodotto e con quel suono pieno e ben bilanciato tra i bassi e gli alti, che dovrebbe essere la pietra fondante di ogni buon gruppo grind.

I romani Buffalo Grillz danno alle stampe un geniale album di grind con un po’ di thrash qui e là.

Fondati nel 2009 da Enrico Giannone, voce degli Undertakers, e Max Marzocca batterista dei Natron, dopo varie vicissitudini relative alla formazione vedono passare Cinghio, bassista dei meravigliosi Orange Man Theory, dal basso alla chitarra. Questo disco è il terzo nella carriera di quello che si può tranquillamente definire come uno fra i migliori gruppi grind italiani, sia per la potenza espressa che per la grande ironia. I Buffalo Grillz, oltre a rifarsi al nome di una nota catena di ristoranti canadesi, fanno un grind molto potente, debitore della vecchia scuola ma con un suono assai moderno. Nei testi riversano tutta la loro grande cultura italiana e non solo, riuscendo a dare un significato più ampio loro di molti altri gruppi che si prendono molto di più sul serio. Ciò che muove i Buffalo Grillz è la stessa leva che muove noi che scriviamo queste righe, il disagio, quel vecchio e caro amico che ci fa sempre sentire a casa non facendoci mai sentire adeguati a nulla. Che poi, se il mondo è questo, come descritto mirabilmente in questo disco, forse è più normale sentirsi a disagio che a proprio agio. L’ironia dei Buffalo Grillz ha come secondo livello un’analisi impietosa della nostra società ma il tutto è fatto dai romani con un suono potentissimo, molta ironia e un grande stile. Senza perdersi in cose e pose cervellotiche, i Buffalo Grillz sfornano un disco di grindcore come non si sentiva da tempo, diretto ben prodotto e con quel suono pieno e ben bilanciato tra i bassi e gli alti, che dovrebbe essere la pietra fondante di ogni buon gruppo grind. Infatti, per dare una coordinata musicale, possiamo citare Nasum e Napalm Death, fautori di quanto appena descritto.
Si passa da un’incredibile intro a trattati di sodomia e campari, affrontando il clou della cultura italiana con un piglio da pugna al bar, con un suono che riesce sempre ad essere il protagonista assoluto, e non c’è nemmeno un secondo nel disco che non valga la pena ascoltare. Un perfetto connubio di grindcore, ironia e disagio, tanto disagio e questo disco ci piace tantissimo.

TRACKLIST
1. GG AULIN
2. LENNY GRINDVIZT
3. 66SEITAN
4. MARTIN BURGER KING
5. BEVERLY GRILLZ 90666
6. CARNE DIEM
7. FIAT FACTORY
8. CREADLE OF FINDUS
9. SCOOBY DOOM
10. FIORELLA MANNAIA
11. PONZIO PILATES
12. CAMPARI SODOM
13. PUS SPRENGSTEEN
14. LE BESTIE DI SANTANA (OUTRO)

LINE-UP
Tombinor: Insults
Cinghio: Hi Noise
Pacio: Low Noise
Mizio: Blast

BUFFALO GRILLZ – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Gorephilia – Severed Monolith

Severed Monolith sarà apprezzato dagli amanti del death metal diretto e distruttivo, perché se si pensa di trovare qualcosa di simile alla melodia è meglio guardare altrove, qui c’è solo massacro.

Stiamo ancora viaggiando a pieno regime per quanto riguarda il filone old school del death metal: le band che si affacciano nel mondo estremo underground sono, nella maggior parte dei casi, ottime eredi dei gruppi storici nati negli anni novanta.

I finlandesi Gorephilia fanno parte dell’ultima ondata di gruppi dediti alle sonorità classiche, e Severed Monolith segue di cinque anni l’esordio Embodiment Of Death e tre lavori minori mentre si avvicinano al decimo anno di attività.
La band non ha certo perso lo smalto che ne aveva caratterizzato gli inizi, anche questo album corre su ritmiche oscure e devastanti con un occhio particolare per i primi Morbid Angel, senza dimenticare chiaramente la lezione scandinava.
Il quintetto di Vantaa imprime una forza disumana al sound estremo di cui è composto Severed Monolith, creando un lavoro devastante e monolitico, magari non così vario ma dall’impressionate forza d’urto.
Senza compromessi, i Gorephilia ci invitano al massacro, non concedono quasi nulla in melodia e attaccano senza pietà con una serie di brani che hanno nella terribile Black Horns, il punto più sadico di questa carneficina, seguita dalla disumana Return To The Dark Space.
Gli altri brani seguono pedissequamente le coordinate di queste due tracce, con le ritmiche che si mantengono su velocità alte, il growl da demone perverso ed una atmosfera da fine del mondo riscontrabile proprio nei primi lavori dei Morbid Angel.
Severed Monolith sarà apprezzato dagli amanti del death metal diretto e distruttivo, perché se si pensa di trovare qualcosa di simile alla melodia è meglio guardare altrove, qui c’è solo massacro.

TRACKLIST
1. Interplanar 2
2. Hellfire
3. Harmageddon of Souls
4. Words That Solve Problems
5. Black Horns
6. The Ravenous Storm
7. Return to Dark Space
8. Eternity
9. Crushed Under the Weight of God

LINE-UP
Henry Kuula – Vomit
Tami Luukkonen – Bass
Jukka Aho – Guitar
Pauli Gurko – Guitar
Kauko Kuusisalo – Battery

GOREPHILIA – Facebook

Lucifer’s Fall – II Cursed & Damned

Il nuovo album dei Lucifer’s Fall alza non poco il giudizio su questo quintetto di doomsters australiani, rendendosi più che appetibile per gli amanti della musica del destino di stampo classico.

Tornano con il secondo album sulla lunga distanza i doomsters australiani Lucifer’s Fall: II Cursed & Damned segue il primo album omonimo uscito tre anni fa, anche se ci eravamo occupati del gruppo di Adelaide solo in occasione dell’uscita dell’ep Fuck You We’re Lucifer’s Fall lo scorso anno.

Le cose cambiano notevolmente rispetto a quella che era, di fatto, una raccolta di brani in versione demo, più tre inediti che non avevano impressionato il sottoscritto, mentre alla riprova su lunga distanza la band ne esce molto meglio, e l’album si può certamente considerare un buon esempio di heavy doom sulla scia di Pentagram, Candlemass , Count Raven e degli onnipresenti Black Sabbath.
La produzione gioca un ruolo fondamentale per l’ascolto del cd, essendo stata davvero poco soddisfacente nel lavoro precedente e rivelandosi invece più esplosiva oggi, specialmente per quanto riguarda le ritmiche.
Dell’ep precedente vengono riprese l’inno (Fuck You) We’re Lucifer’s Fall e l’ottima Mother Superior, che funge da opener, il resto dell’album sono brani scritti per l’occasione e che, come da tradizione Lucifer’s Fall, spaziano dal lentissimi e liturgici esempi di doom classico (Cursed Priestess, The Mountain Of Madness e l’ evocativa The Necromancer), a tracce che si specchiano nell’ hard & heavy settantiano rifacendosi il trucco con pennellate derivanti dal decennio successivo, valorizzandole con bordate di doom dai tratti epici (Mother Superior, The Invocator/Cursed Be Thy Name).
Come detto la storia cambia non poco rispetto all’ep, con la produzione che valorizza il buon songwriting del gruppo ed una raccolta di brani che, dall’opener passando per l’epic doom di The Mountain Of Madness e la lunga The Necromancer alzano non poco il giudizio su questo quintetto di doomsters australiani, rendendo II: Cursed & Damned un ascolto consigliato agli amanti della musica del destino di stampo classico.

TRACKLIST
1. Mother Superior
2. Damnation
3. The Mountain of Madness
4. Cursed Priestess
5. (Fuck You) We’re Lucifer’s Fall
6. The Necromancer
7. Sacrifice
8. The Invocator / Cursed Be Thy Name
9. Homunculus

LINE-UP
Deceiver – Bass, Guitars, Vocals
Unknown and Unnamed – Drums
Cursed Priestess – Bass
The Invocator – Guitars
Heretic – Guitars

LUCIFER’S FALL – Facebook

Azarath – In Extremis

In Extremis è un disco che merita grande attenzione e riverserà sopra di voi un’immensa potenza di fuoco, risultando moderno ma possiede anche un suono che riporta all’epoca d’oro del death metal.

Torna una delle bestie musicali più immonde della pia Polonia, ed è un ritorno molto gradito quello degli Azarath.

Il gruppo è stato fondato nel 1998 nella cittadina polacca di Tczew, e l’unico membro fondatore è il batterista Inferno, che altri non è che il batterista dei più famosi e altrettanto polacchi Behemoth fin dall’anno 1998, ed è tuttora attivo con loro. E gli Azarath sono appunto una delle maggiori band polacche attualmente in circolazione, e se ascolterete In Extremis capirete facilmente il perché. Il disco è un diluvio di ottimo death black metal, con un approccio, tanto per intenderci, alla maniera dei primi Morbid Angel, con il suono altrettanto rassomigliante a quello dei Behemoth o dei Marduk, ma in realtà il tutto è molto Azarath. In Extremis arriva sei anni dopo Blasphemer’s Maledictions uscito nel 2011, ed è un disco davvero estremo e potente. Il suo suono è un death con venature black soprattutto nell’impianto chitarristico, ma rimane comunque sempre fortemente death. La cosa più importante è che non troverete tregua in questo assalto guidato dalla potente batteria di Inferno, sempre puntuale e decisiva, e tutto il gruppo lo segue perfettamente, aiutato da una produzione molto precisa e mirata sul suono. Gli Azarath non sono l’ennesimo gruppo death black, e nemmeno il passatempo di Inferno, sono semplicemente uno dei gruppi più potenti in circolazione, forti di un suono peculiare, alfiere della via polacca al death metal, e più in generale alla musica estrema. In Extremis è un disco che merita grande attenzione e riverserà sopra di voi un’immensa potenza di fuoco, risultando moderno ma possiede anche un suono che riporta all’epoca d’oro del death metal.

TRACKLIST
1. The Triumph of Ascending Majesty
2. Let My Blood Become His Flesh
3. Annihilation (Smite All the Illusions)
4. The Slain God
5. At the Gates of Understanding
6. Parasu Blade
7. Sign of Apophis
8. Into the Nameless Night
9. Venomous Tears (Mourn of the Unholy Mother)
10. Death

LINE UP
Inferno – Drums
Bart – Guitars
Necrosodom – Guitars, Vocals
Peter – Bass

AZARATH – Facebook

Ben Blutzukker – Analogic Blood

Quattro tracce tra heavy metal e thrash/black per questa one man band del tedesco Ben Blutzukker.

Ben Blutzukker è un polistrumentista tedesco e questo ep di quattro brani è il suo primo lavoro a suo nome.

Analog Blood prende il titolo da un progetto elettronico del 2007 a cui Ben ha partecipato (Digital Blood) e da cui sono stati tratti e rivisitati in versione metallica quattro brani.
Non è la prima volta che il musicista si avventura nel mondo del metal, visto la sua militanza nei thrash metallers Jormundgard, con cui ha collaborato dal 2000 al 2004.
Un ritorno metallico, dunque, con questo ep dove Blutzukker reinterpreta questi brani conferendogli una veste heavy metal, tra le sue ispirazioni ed influenze che vanno dal thrash metal a mid tempo dal flavour oscuro e gotico:
Analog Blood vede una voce aggressiva sporcata da uno scream black che ricorda quello di Abbath, e l’alternanza di ritmiche tra veloci cavalcate thrash metal e potenti mid tempo, dove la sei corde traccia linee di sangue con il black, altro genere nelle corde del musicista di Aschaffenburg.
Tra le quattro tracce si distinguono Digital Blood, title track dell’album targato 2007 e reinterpretata in versione black metal, per poi trasformarsi in un brano di heavy classico attraversato da oscure atmosfere dark/gothic, e la conclusiva Red, anch’ essa concettualmente un brano black vicino al sound solista del leader dei norvegesi Immortal.
Un ascolto che può diventare interessante se siete amanti tanto del metal estremo che di quello classico.

TRACKLIST
1. Walpurgisnacht
2. From Hell
3. Digital Blood
4. Red

LINE-UP
Ben Blutzukker – All Instruments

BEN BLUTZUKKER – Facebook

2nd Face – Nemesis

L’opera prima di 2nd Face dimostra come non sia necessario imbracciare delle chitarre e dotarsi di un aspetto truce per proporre musica ugualmente minacciosa e rumorosa.

Notevole esordio per il progetto 2nd Face guidato dal giovane tedesco Thorn.

Prendendo le mosse (tenendo parzialmente fede a quanto dichiarato in sede di presentazione) dalla scuola canadese dei primi anni ottanta, il musicista di Mainz mette in scena un’interpretazione dell’elettro industrial in grado di metter d’accordo fasce di ascoltatori confluenti da svariati generi, partendo dall’ebm per spingersi fino al metal alternativo.
Il marchio di garanzia applicato su Nemesis dalla Dependent Records si rivela fondamentale per schiudere i contenuti musicali di 2nd Face a chi tende a non prestare attenzione a nomi che non siano già affermati: l’album si rivela un’ottimo compendio di elettronica disturbante, mai banale e con tutte le caratteristiche per risultare gradito anche a chi apprezza sonorità più aspre.
Sono dodici i brani che vanno a comporre l’intrigante puzzle sonoro formato da Nemesis, uno sforzo compositivo che supera abbondantemente l’ora di durata ma non stanca, in virtù della brillante alternanza tra ritmi incalzanti e melodie (Instinct, Brother), cupe aperture atmosferiche (la magnifica Mindlapse, nella quale ho rinvenuto richiami agli Ultravox di Lament,  e la solenne Nemesis), spunti ossessivi (Deathspread) e momenti più robusti, dall’indole metal pur senza usarne la strumentazione canonica (Punisher).
Non va neppure dimenticato che Thorn (al secolo Vincent Uhlig) è ancora giovanissimo, ma questo dato diviene un valore aggiunto, in quanto la palese maturità compositiva viene esaltata dalla freschezza nell’interpretare un genere in cui il pericolo dell’adagiarsi al manierismo si annida dietro ogni angolo.
L’opera prima di 2nd Face dimostra come non sia necessario imbracciare delle chitarre e dotarsi di un aspetto truce per proporre musica ugualmente minacciosa e rumorosa: davvero una bella sorpresa, il cui ascolto è vivamente consigliato ai frequentatori della nostra webzine dotati di mentalità aperta (che mia auguro siano il 100% …).

Tracklist:
1.Instinct
2.Movement
3.Divine
4.Mindlapse
5.Deathspread
6.Weapon
8.Brother
9.1st Of His Name
10.Now You Can See
11.Punisher
12.Insanity

2ND FACE – Facebook

Lantern – II: Morphosis

Tutto puzza di zolfo e bruciato in questo album, con un growl in arrivo da una bara sprofondata nel girone più lontano degli inferi, ed un sound in perfetto stile primi anni novanta, almeno per quanto riguarda il death metal scandinavo.

Dai meandri più putridi di una fredda e diabolica Kuopio ritornano i Lantern, death metal band vicina al decimo anno di attività come duo (Cruciatus e Necrophilos, rispettivamente chitarra e voce), ma ora di fatto un quintetto con l’aggiunta di J. Noisehunter al basso, St. Belial alla seconda chitarra e J. Poussu alle pelli.

Il gruppo estremo proveniente dalla terra dei mille laghi arriva al secondo full length, dopo Below licenziato nel 2013 ed una manciata di lavori minori, ed ora tramite la Dark Descent, label specializzata in opere ed artisti dai rimandi old school, propone questo catacombale II: Morphosis, death metal album vecchia scuola, morboso e dalle atmosfere cimiteriali, pur conservando una carica estrema e devastante.
Tutto puzza di zolfo e bruciato in questo album, con il growl in arrivo da una bara sprofondata nel girone più lontano degli inferi, ed un sound in perfetto stile primi anni novanta, almeno per quanto riguarda il death metal scandinavo.
Riff che vomitano maledizioni, pesanti come incudini, stacchi melodici che hanno fatto la storia della musica estrema ed un’attitudine morbosa e misantropica per un album che non può non produrre brividi a chi gli anni d’oro del death metal li ha vissuti, e ghigni satanici che si trasformano in risate soddisfatte all’ennesimo ritorno di un suono che rinasce, ogni volta che gruppi come i Lantern lo tributano.
Ed allora lasciatevi avvolgere dal signore oscuro che, tramite la musica dei Lantern si ripropone a voi, vile e bugiardo signore del male, serpente che vi avvolge tra le sue spire e vi porta con sé, bruciando nella sua casa per l’eternità a colpi delle putride note che scaturiscono da Black Miasma, Cleansing Of The Air, Lucid Endlessness e gli altri piccoli sacrifici in musica che compongono II: Morphosis.
Agli amanti dei suoni old school e senza compromessi l’album è consigliato senza riserve.

TRACKLIST
1. Black Miasma
2. Sleeper of Hypnagog
3. Hosting Yellow Fungi
4. Cleansing of the Air
5. Necrotic Epiphanies
6. Transmigration
7. Virgin Damnation
8. Morphosis
9. Lucid Endlessness

LINE-UP
Cruciatus – lead guitar
Necrophilos – vocals
J. Noisehunter – bass
St. Belial – rhythm guitar
J. Poussu – drums

LANTERN – Facebook

The Royal – Seven

Questi cinque ragazzi sanno come suonare metal moderno cercando di piacere non solo a giovanissimi dal capellino rovesciato, ma anche ai metallari che hanno raggiunto la maggiore età, con una serie di melodie che si incastrano in brani aggressivi e perfettamente studiati.

Si torna a parlare di metalcore sulle pagine di MetalEyes con il secondo full length (il primo per Long Branch) dei The Royal, quintetto di Eindhoven attivo dal 2012 e con un primo album autoprodotto uscito tre anni fa (Dreamcatchers).

Moderno e molto melodico, avaro di ritmiche sincopate e più vicino ad un nu metal maturo, il sound di Seven indubbiamente trova qualche spunto personale, lasciando ad altri gli ormai triti e ritriti cliché del genere, per un approccio aggressivo nelle vocals che si mantengono in scream per tutta la durata dell’album senza scendere in ormai abusati miagolii dai toni (in molti casi) fastidiosamente puliti, e concentrandosi più nel creare atmosfere varie e molto ben orchestrate.
A tratti i The Royal si spingono ai confini del prog moderno, specialmente quando la furia si placa e le dita sui manici delle sei corde creano arpeggi drammaticamente intimisti.
Questi cinque ragazzi sanno come suonare metal moderno cercando di piacere non solo a giovanissimi dal capellino rovesciato, ma anche ai metallari che hanno raggiunto la maggiore età, con una serie di melodie che si incastrano in brani aggressivi e perfettamente studiati, come l’opener Thunder, la cattivissima Thalassa, la nervosa Feeding Wolves e la title track, la canzone che più rispecchia l’anima nu metal del combo olandese.
Un album che si estranea dalle solite uscite del genere, ed un gruppo su cui si può contare per non cadere nelle solite ed abusate soluzioni alle quali il metalcore ci ha abituato, spesso annoiandoci.

TRACKLIST
1.Thunder
2.Feeding Wolves
3.Wildmind
4.Creeds And The Vultures
5.Counterculture
6.Interlude (*CD only)
7.Seven
8.Life Breaker
9.Thalassa
10.Draining Veins

LINE-UP
Sem Pisarahu – Vocals
JD Liefting – Guitars
Pim Wesselink – Guitars
Loet Brinkmans – Bass
Tom van Ekerschot – Drums

THE ROYAL – Facebook

Winter Deluge – Devolution-Decay

Quello dei Winter Deluge non è un black per palati raffinati ma neppure per gli appassionati duri e puri: si colloca piuttosto in una sorta di terra di mezzo nella quale, a mio avviso, riesce nell’intento di intrigare tutti piuttosto che non accontentare nessuno

Il secondo full length dei neozelandesi Winter Deluge è un classico esempio di come il black metal, in fondo, sia qualcosa in più rispetto ad un semplice genere musicale, almeno per chi lo apprezza per quello che è, senza troppo perdersi in menate connesse a look, stile, tecnica e stucchevoli diatribe su quanto sia o meno “true”.

Devolution – Decay lo ascolti una prima volta e pensi che sia nient’altro se non un normale album, onesto e corrosivo il giusto per attirare un minimo di attenzione ma, in fondo, privo di quel quid in più per renderlo in qualche modo “necessario”.
Poi, come quasi sempre avviene (spingendomi ad affermare che chi liquida un disco dopo uno o due ascolti commette non solo un atto di presunzione e superficialità, ma una sorta di reato di falso ideologico) i passaggi successivi sono quelli che rendono accessibile buona parte delle pieghe che increspano il sound: è solo allora che di Devolution – Decay si capisce molto di più, potendo osservare il tutto sotto una luce diversa.
L’operato dei Winter Deluge perde via via la sua apparente ed uniforme opalescenza per mostrare spunti dalla malevola incisività che non risparmiano la vanità umana (Tentacles Of Time), l’ingerenza della religioni su ogni aspetto dell’esistenza (Corrupt Prophets) o la deriva psichica che sempre più affligge un’umanità priva di certezze (The Negation of Existence): Devolution – Decay scorre ruvido su tempi medi e mai parossistici, ma con accelerazioni repentine che esaltano la rapidità percussiva di Autumnus e qualche rallentamento che va a lambire il doom.
Qualche parvenza gradita di melodia chitarristica la si riscontra in forme omeopatiche, come avviene nell’ottima …Now You Reap, ma è in generale la sensazione disturbante che pervade il lavoro a renderne l’ascolto molto più di un atto dovuto.
Quello dei Winter Deluge non è un black per palati raffinati ma neppure per gli appassionati duri e puri: si colloca piuttosto in una sorta di terra di mezzo nella quale, a mio avviso, riesce nell’intento di intrigare tutti piuttosto che non accontentare nessuno: certo, nesuna novità, ma il tutto va a favore di una asciutta ortodossia e, soprattutto, di una consistente profondità, che è proprio quanto serve per connotare il proprio operato di un valido segno distintivo.

Tracklist:
1.Der Letzte Atemzug
2.The Negation Of Existence (The Cotard Syndrome)
3.Corrupt Prophets
4.Yersinia Pestis
5.Tentacles Of Time
6….Now You Reap
7.Perversion Of Common Sense
8.Winter Deluge
9.The Image That Remains

Line-up:
Arzryth – Lead, Rhythm, Bass Guitars
Autumus – Drums
Mort – Rhythm Guitars
Seelenfresser – Vocals

WINTER DELUGE – Facebook