SkeleToon – The Curse of the Avenger

La produzione al top e la prova sontuosa di un vocalist che lascia senza fiato aggiungono valore al cd, la cui custodia non può mancare vicino al lettore di ogni amante del power metal melodico.

Power metal teutonico, veloce, trascinante ed ipermelodico, un cantante spettacolare, tante buone idee, un trio di graditi ospiti ed il gioco è fatto.

I nostrani SkeleToon debuttano tramite Revalve con questa fialetta di nitroglicerina metallica dal titolo The Curse Of Revenge, un concept album che finalmente vede lasciare nell’ombra eroi, guerrieri, spade e fiere mitologiche, per raccontarci delle disavventure di un nerd alle prese con la sfigata vita di tutti i giorni: un eroe quindi, magari lontano dalle gesta eroiche di cavalieri senza paura, ma che affronta le sue battaglie quotidiane sempre in lotta con il cinico e spietato mondo che lo circonda.
La storia è alquanto originale, la musica prodotta un po’ meno, ma il power metal del gruppo fondato dal singer Tomi Fooler non manca di far esplodere dalla poltrona i fans dei vari Helloween, Gamma Ray, Edguy e compagnia teutonica, con questa mezzora abbondante di metallo divertentissimo e travolgente, dove non mancano  super ballad e sgommate sul caldo asfalto del metallo melodico, potente e veloce.
La partecipazione di Roland Grapow (Helloween e Masterplan), Dimitri Meloni dei bravissimi Ensight ( autori dell’ottimo Hybrid, album metal prog di spessore uscito pochi mesi fa) e Charlie Dho dei The Fallen Angel, aggiunge pepe a questo piatto metallico confezionato con cura dal gruppo, che sul genere suonato costruisce le fortune di questi otto brani.
Gli Helloween ammaliati dalla strega di Better Than Raw, sono il gruppo che più si riconosce tra i solchi del disco, chiaro che le altre band sono una conseguenza ai padri del genere, a cui gli SkeleToon fanno riferimento, anche se la personalità e l’efficace songwriting, fanno di The Curse Of The Avenger, un gran bell’esempio di come il genere, suonato a questi livelli, dica ancora la sua alla grande, valorizzato da brani pregni di energia positiva come What I Want, la veloce, potente e melodica Heroes Don’t Complain, la ballad semiacustica Hymn To The Moon e l’inno Heavy Metal Dreamers.
La produzione al top e la prova sontuosa di un vocalist che lascia senza fiato aggiungono valore al cd, la cui custodia non può mancare vicino al lettore di ogni amante del power metal melodico.
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TRACKLIST
1 Intro / Timelord
2 What I Want
3 Heroes Don’t Complain
4 Hymn to the Moon
5 The Curse of the Avenger
6 Bad Lover
7 Joker’s Turn
8 Heavy Metal Dreamers

LINE-UP
Tomi Fooler – Vocals, Concept, Songwriting
Henry “SYDOZ” Sidoti – Drums
Dimitri Meloni – Lead & Rythm Guitars
Charlie Dho – Bass
Roland Grapow – Guitar

SKELETOON – Facebook

Myrath – Legacy

Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune

Per farmi uscire dalla confortevole cripta virtuale, all’interno della quale mi abbevero di tutte le sonorità più cupe e funeree che il mondo musicale può offrire, ci vuole qualcosa di unico, di speciale, capace di entrare in rotazione pressoché fissa nel lettore, anche se di genere normalmente estraneo ai miei ascolti abituali.

L’anno scorso questo “evento” si era verificato grazie ai francesi 6:33, mentre in questo 2016 credo proprio che il loro posto verrà preso dai magnifici tunisini Myrath.
La band nordafricana non è, in effetti, una sopresa vera e propria, neppure per me visto che avevo già avuto modo, qualche anno fa, di apprezzarne le indiscutibili doti espresse con il terzo full-length Tales of the Sands.
Quel lavoro, così come i precedenti, metteva in evidenza un gruppo di assoluto livello ma, ammettiamolo, molta dell’attenzione nei suoi confronti derivava dalla nazione di provenienza, inutile girarci intorno, e questo induceva inevitabilmente a deformare la percezione del contenuto musicale, badando più all’aspetto esotico della proposta che non al suo effettivo e ben consistente valore.
Legacy, lo spero con tutto il cuore, dovrebbe sgombrare il campo da ogni distorsione, rendendo il disco dei Myrath “semplicemente” un capolavoro scritto e composto da musicisti che vivono su questo pianeta, punto; poi, è evidente quanto la grandezza di questo album derivi anche da quelle origini, oggi più che mai compenetrate con la struttura heavy/prog dei brani grazie ad un lavoro di arrangiamento a dir poco stupefacente, oltre che all’operato di un tastierista dalla statura superiore alla media (in tutti i sensi) come Elyes Bouchoucha, in grado di ammantare il sound dei Myrath di quelle orchestrazioni arabeggianti che lo rendono unico.
Questa commistione sonora in passato era riuscita altrettanto bene agli Orphaned Land (soprattutto in Mabool), ma la proposta della band israeliana traeva vantaggio da una maggiore eterogeneità che, quindi, consentiva di spaziare con disinvoltura da partiture estreme a passaggi etnici, senza però raggiungere l’amalgama perfetta espressa invece dai tunisini: in Legacy ogni singola strofa è immersa in questa atmosfera davvero speciale, con suoni caldi e comunque differenti da quelli, solo apparentemente simili, che possono giungere dall’Europa o dagli States; infatti, i Myrath riescono in maniera continua a conferire al loro sound la “riconoscibilità”, ovvero quel quid che rende ogni nota suonata da una band una sorta di marchio di fabbrica.
Certo, si potrebbe obiettare che, esemplificando al massimo, la musica ascoltata in Legacy sia una sorta di versione alleggerita ed arabeggiante dei Symphony X ma, fermo restando che ciò non sarebbe affatto sminuente nei confronti dei Myrath, va ribadito che qui non si sta parlando dell’invenzione di un nuovo genere, bensì di una rielaborazione dell’esistente in maniera del tutto personale: Legacy è un lavoro tutto sommato ortodossamente prog/heavy metal, per cui la bravura dei nostri risiede proprio nella capacità di apparire “unici”, pur muovendosi all’interno di un territorio dai confini stilistici ben definiti.
Del disco restano da citare i brani migliori, ma per far questo sarebbe sufficiente fare un copia-incolla della tracklist, visto che non c’è un solo brano debole tra gli undici (più intro) presentati; messo alle strette confesso però di avere maturato un debole per il singolo Believer (da godersi il video che lo accompagna), per Nobody’s Lives, con il suo refrain cantato in lingua madre, e per quello che ritengo uno dei brani migliori ascoltati negli ultimi tempi, la magica ed evocativa Duat.
Zaher Zorgati è il cantante perfetto per una band si questo tipo, con una voce che potrebbe definirsi, con molta approssimazione, un ipotetico punto d’incontro tra Dio, Jorn Lande e Roy Khan: un vocalist del quale si apprezzano, comunque, le doti interpretative ed espressive più che i virtuosismi.
Inevitabilmente ottimo il lavoro del chitarrista Malek Ben Arbia, fondatore della band quando era appena un ragazzino, meno appariscente in fase solista del suo modello Michael Romeo ma non di meno efficace, ed impeccabile la base ritmica fornita da Anis Jouini al basso e dal francese Morgan Berthet alla batteria.
Legacy è l’album che DEVE consacrare questa risplendente realtà musicale, trattandosi della naturale finalizzazione di un talento non comune; il fatto stesso che la band abbia deciso di autointitolare l’album (non è un refuso, Legacy è la traduzione inglese di Myrath) rende l’idea di quanto questo passo fosse ritenuto fondamentale per imprimere una svolta decisiva e definitiva ad una carriera che, da qui in poi, ci si augura possa proseguire in maniera altrettanto luminosa, per la gioia di tutti gli appassionati di musica in senso lato.
Nei primi anni del secolo un gruppo di ragazzi tunisini si dilettava a suonare cover dei Symphony X: nel 2016 quei ragazzi, diventati i Myrath, stanno intraprendendo un tour con quelli che erano i loro idoli (dalla nostre parti arriveranno il 3 marzo all’Alcatraz di Milano), con il concreto “rischio” di metterne in dubbio la leadership e, mi si creda, non sto affatto esagerando …

Tracklist
1.Jasmin
2.Believer
3.Get Your Freedom Back
4.Nobody’s Lives
5.The Needle
6.Through Your Eyes
7.The Unburnt
8.I Want To Die
9.Duat
10.Endure The Silence
11.Storm Of Lies
12.Other Side

Line-up:
Anis Jouini – Bass
Malek Ben Arbia – Guitars
Elyes Bouchoucha – Keyboards, Vocals
Zaher Zorgati – Vocals
Morgan Berthet – Drums

MYRATH – Facebook

Defiance of Decease – Suicide

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta

Negli anfratti nascosti della scena dark doom c’è ancora chi, ai suoni bombastici ed operistici tanto di moda in questi anni, preferisce un approccio alla materia in linea con le produzioni dei primi anni novanta, allora divise tra la scena olandese e quella britannica.

La band russa Defiance Of Decease, all’esordio con questo album licenziato dalla Narcoleptica Prod. in edizione limitata nel supporto musicassetta, si posiziona esattamente fra le due scene, fondamentali per l’evoluzione dei suoni dark, doom e gothic.
E Suicide, il loro debutto accompagnato da una bellissima copertina, torna a far respirare ai fans del genere le atmosfere malinconiche e dark, accompagnate dall’estremismo sonoro del doom/death di quegli anni.
Voce femminile delicata, growl possente, lenti passaggi oscuri, note eleganti dei tasti d’avorio, che passano come banchi di nebbia su tappeti metallici e tanta, drammatica melanconia, fanno di Suicide un buon esempio del genere, come detto lontano dalle produzioni bombastiche a cui ci hanno abituato le symphonic gothic bands odierne.
La band inizia il calvario che porta al suicidio con la dark song Like a Star in The Sky, nella quale l’elegante voce di Anna Velichko accompagna il growl di estrazione doom/death di Ricardo Digolos, ma già dalla seconda traccia (Possessed by a Demon) i suoni si induriscono, il lento incedere verso la morte passa dal monolitico muro sonoro costruito dal gruppo, rendendo il sound pregno di tragiche atmosfere gothic, dove affiorano i demoni che portano la protagonista al fatale gesto.
Nelle oscure trame di brani come Farewell in Heart, Blade of Death e Ribbon of Life, vivono e si rigenerano le note passionali e drammatiche dei primi The Gathering, Paradise Lost, Orphanage e My Dying Bride, nomi di spicco della straordinaria scena gothic doom dei primi anni novanta.
Certo, la produzione non è delle migliori e la band pecca in qualche passaggio monocorde, ma se siete amanti del genere un ascolto è assolutamente consigliato: album per anime tragicamente romantiche.

TRACKLIST
1. Like a Star in the Sky
2. Possessed by a Demon
3. Death in Fire
4. Farewell in Heart
5. Blade of Death
6. Drowned
7. Cruel World
8. Ribbon of Life

LINE-UP
Sergio Darksol – Bass
Paul Stadman – Guitars
Ricardo Digolos – Guitars, Vocals
Juliana Stadman – Keyboards, Vocals (backing)
Arthuro Doretti – Drums

DEFIANCE OF DECEASE – Facebook

No Man Eyes – Cosmogony

Per gli amanti di Nevermore, Symphony X ed Angel Dust, serviti con abbondanti dosi di thrash ed una spruzzata di neoclassicismo malmsteeniano, la band genovese potrebbe essere un micidiale cocktail di cui ubriacarsi senza pensare alle conseguenze

Ed eccomi a raccontarvi dei miei concittadini No Man Eyes e del loro secondo lavoro, in arrivo in questo inizio d’anno sotto l’ala della Diamonds Prod.

La band genovese nasce nel 2011 da ex membri dei Graveyard Ghost: qualche aggiustamento nella line up porta verso il primo lavoro, Hollow Man ed ad una buona attività live in compagnia di nomi di una certa importanza nel panorama metallico nazionale (Trick or Treat, Roberto Tiranti, Nerve, Mastercastle).
Senza mollare la presa, il gruppo torna con un nuovo lavoro, Cosmogony, prodotto nel Dead Tree Studio del chitarrista Andrew Spane, che si è occupato anche dei testi.
Metal robusto, ritmiche veloci, ottimi solos melodici ed un cantante che, senza strafare, si rende protagonista di una buona performance, sono ad un primo ascolto le virtù dei No Man Eyes, anche se la loro musica cresce con il tempo, facendo trovare tra i solchi dei brani molte sfumature che li porta nell’eletta schiera delle band difficilmente catalogabili.
I nostri, infatti, si disimpegnano con disinvoltura tra l’heavy metal tradizionale ed il thrash, senza dimenticare il power e lasciando che intricate parte ritmiche e solos vorticosi avvicinino il sound al metal prog.
Le influenze sono palesi, chiariamolo, ma sono anche varie e se Cosmogony per molti non risulterà originale, sicuramente piacerà a chi ama i generi menzionati, amalgamati sapientemente dal gruppo in un viaggio fantascientifico e spirituale (questi sono gli argomenti trattati nei testi) sul treno impazzito partito dalla stazione ferroviaria di Genova.
Lord funge da intro e ci prepara per la prima e vera esplosione di metallo, Dreamsland, ritmiche power thrash, molto ben congegnate fanno da tappeto sonoro al cantato altamente melodico ma maschio del buon Fabio Carmotti, mentre si esalta la sezione ritmica, protagonista di un gran lavoro, potente e vario su tutto l’album (Alessandro Asborno al Basso e Michele Pintus a picchiare come un forsennato il suo drumkit).
La parte del leone la fa la chitarra di Spane, che spara mitragliate thrash, solos metallici e qualche spunto neoclassico: Cosmogony non dà tregua, le aperture melodiche mantengono comunque alta la forza dirompente dei brani, contraddistinti da atmosfere oscure, drammatiche e dall’impatto di un pendolino che taglia l’aria con velocità e potenza micidiali.
Tra le songs spiccano Huracan, Blossoms Of Creation, dall’anima spinta nell’abisso oscuro del death metal, non fosse per il cantato pulito, e la title track, ma è nel suo insieme che il disco funziona, carico com’è di energia metallica.
Per gli amanti di Nevermore, Symphony X ed Angel Dust, serviti con abbondanti dosi di thrash ed una spruzzata di neoclassicismo malmsteeniano, la band genovese potrebbe essere un micidiale cocktail di cui ubriacarsi senza pensare alle conseguenze, provateli e non ne farete più a meno.

TRACKLIST
1.Lord
2. Dreamsland
3. Huracàn
4. Bound to doom
5. Spiders
6. Blossoms of creation
7. All the fears
8. How come
9. The death you need
10. Cosmogony
11. Children of war

LINE-UP
Fabio Carmotti – Voce
Andrew Spane – Chitarre
Alessandro Asborno – Basso
Michele Pintus – Batteria

NO MAN EYES – Facebook

Clouds Taste Satanic – Your Doom Has Come

Il secondo album dei Clouds Taste Satanic è una gustosa pietanza alla quale manda l’ingrediente decisivo che la renda irrinunciabile e, soprattutto, l’ennesimo buon lavoro che corre il rischio d’essere ignorato

I newyorchesi Clouds Taste Satanic sono una band di formazione recente che, con Your Doom Has Come arrivano al secondo album dopo quello d’esordio (To Sleep Beyond the Earth) uscito lo scorso anno.

Il quartetto statunitense propone un doom del tutto strumentale e a questo punto, da parte di chi si è imbattuto in qualche mia recensione in passato, ci si aspetterà la solita tirata sull’opportunità o meno di questo tipo di scelta: non intendo deludere tale attesa e quindi lo farò nuovamente, a maggior ragione in questo caso, visto che la propsta dei Clouds Taste Satanic possiede tutti i crismi qualitativi richiesti, salvo appunto la voce.
Con la presenza di un cantante all’altezza, Your Doom Has Come potrebbe collocarsi tranquillamente all’altezza delle migliori cose ascoltate di recente, anche se a volte può apparire forzato pensare d’inserire delle linee vocali laddove, a livello compositivo, si è operato a priori con la consapevolezza di farne a meno.
Detto questo, l’album consta di una mezza dozzina di brani incisivi, intesi e davvero ben suonati: la competenza e la passione del quartetto statunitense è fuori discussione e chi è avvezzo a questo modus operandi non potrà che goderne; peraltro va sottolineato come l’opener Ten Kings sia un brano solido, in grado convogliare in maniera eccellente le diverse sfumature del doom nel corso dei suoi otto minuti, resta il fatto che tutto ciò che segue finisce per brillare di luce riflessa, venendo meno quella variabile decisiva di cui si è ampiamente detto.
Il secondo album dei Clouds Taste Satanic è una gustosa pietanza alla quale manca l’ingrediente decisivo che la renda irrinunciabile e, soprattutto, l’ennesimo buon lavoro che corre il rischio d’essere ignorato; cominciano ad essere troppo le band che praticano questo tipo di soluzione quando, invece, sono pochi quelli che possiedono il talento smisurato necessario per emergere …

Tracklist
1. Ten Kings
2. One Third of the Sun
3. Beast from the Sea
4. Out of the Abyss
5. Dark Army
6. Sudden…Fallen

Line-up:
Sean Bay Bass
Christy Davis Drums
Steven Scavuzzo Guitar
David Weintraub Guitar

CLOUDS TASTE SATANIC – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=JqiJWrIuTQw

Dead Twilight – Endless Torment

Album da ascoltare con attenzione, Endless Torment racchiude in sé una brutale aggressione alla mente umana, stravolta da cotanta belligeranza

La Sicilia non smette di regalare musica di un certo livello, che sia estrema o meno, i gruppi che si affacciano sulla scena underground non difettano certo in personalità e hanno tutti qualcosa da dire, in termini musicali, senza ancorarsi a cliché triti e ritriti.

Il trio estremo dei Dead Twilight conferma quanto scritto, licenziando un album di death metal brutale, disturbante e dall’atmosfera apocalittica.
Nato da un’idea del chitarrista Luca Bellante, uscito dalla death metal band Pantheist nel 2001, il gruppo vede Marco Bellante al growl e Calogero Schillaci al basso, mentre i suoni di batteria sono lasciati ad una drum machine.
Poco male, il sound dei nostri è un inferno sulla terra, un alienante massacro estremo che senza pietà si riversa sull’ascoltatore, tramortito dai micidiali colpi portati di una band oltranzista ed estrema all’ennesima potenza.
Primo lavoro sulla lunga distanza, Endless Torment segue due demo usciti tra il 2006 e il 2011 (…a Litany for the Deads… e Echoes from Nothingness) e si affaccia sulla scena portando morte e distruzione, con chitarre e growl al limite dell’umano e un’attitudine estrema che trova pochi eguali.
Qualche somiglianza con il death metal di estrazione americana, poi Endless Torment vive di luce propria: gli strumenti si rincorrono senza tregua, in un tornano di suoni da tregenda; per i testi vengono usati vari idiomi, dal greco antico al tedesco ed al latino, mentre l’assalto sonoro portato dal gruppo non si ferma fino all’ultimo secondo della conclusiva Letzer Wille.
Eternal City segue l’intro Finis Infinitatis e ci invita a questo massacro sonoro dalla violenza allucinata, lungo una mezz’ora circa di armageddon musicale, ed il risultato è una sequela di brani dall’alto tasso brutale tra i quali Eos e Legion fanno da traino per tutto il lavoro.
Album da ascoltare con attenzione, Endless Torment racchiude in sé una brutale aggressione alla mente umana, stravolta da cotanta belligeranza, consigliato.

TRACKLIST
1. Finis Infinitatis (Intro)
2. Eternal City
3. Neun Tugenden
4. Eos
5. Apocalypsis
6. Legion
7. Dead Realm
8. Carmen Saliare Mars Dicatur
9. Letzer Wille

LINE-UP
Marco “Asavargr” – Voce
Luca – Chitarra, programmazione batteria
C.S. Jack – Basso

DEAD TWILIGHT – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=28pYKyTk9gc

Frostbite – Etching Obscurity

In generale la sensazione che si respira tra le tracce di Etching Obscurity è quella di un lavoro convincente da parte di un gruppo in crescita e dalle ottime potenzialità

Tra i boschi e le nebbie del Canada si aggira un’entità metallica che si definisce ambiziosamente progressive black’n’roll.

Sono i Frostbite da Montreal, quintetto attivo dal 2011 e con un ep alle spalle, dal titolo Through the Grave uscito tre anni fa.
Tornano tramite Tmina Records con Etching Obscurity, esordio sulla lunga distanza che, in effetti, mantiene le promesse, conquistando con un sound ben congegnato che amalgama black metal, parti più intricate che potremmo definire progressive, e ritmiche che, in alcuni casi e nei brani più diretti, si avvicinano al black’n’roll.
Sinceramente il gruppo dà il meglio di sé nelle songs dove il black metal, sound base dei nostri, viene reso più complicato da splendide parti progressive, quando armonie acustiche, solos che si avvicinano al rock settantiano e riffoni metallici dagli umori classici riempiono il suono delle varie Malleus, Through The Grave e dell’intimista Shining, mentre si perde qualcosa allorché le cavalcate di melodico black’n’roll portano tanta energia, attenuando le atmosfere adulte dei brani descritti.
Poco male perché nel suo insieme l’album funziona, con il buon scream della singer Krystal Koffin, di estrazione black, ma soprattutto dal lavoro dei due chitarristi, Max Allard e Anthonny Colin-Bilodeau, bravi nel saper alternare ritmiche estreme a solos di gustoso metal old school, sconfinando, come detto in riff dalle riminiscenze settantiane.
Il mood di Etching Obscurity rimane oscuro, a tratti ricorda i primi Sentenced, quelli di Amok (Soul Devourer), mentre le canzoni, accompagnate da pochi ma splendidi intermezzi acustici, scivolano verso l’inesorabile fine, non stancando l’ascolto.
Forse è proprio la parte più diretta del sound prodotto dai Frostbite che rende il disco più fluido del disco anche se, ripeto, con gli ascolti cresce a dismisura l’altra faccia della medaglia, quella più nobile e matura.
In generale la sensazione che si respira tra le tracce di Etching Obscurity è quella di un lavoro convincente da parte di un gruppo in crescita e dalle ottime potenzialità, ovviamente da seguire per valutare e scoprire dove il talento ne condurrà la musica in futuro.

TRACKLIST
1. Ascending the Void
2. Sigil Seal
3. The Pest
4. Malleus
5. Through the Grave
6. Delayed Perception
7. Etching Obscurity
8. Shining
9. Soul Devourer
10. Forgotten Path
11. Erased from Existence

LINE-UP
Max Allard – Guitars
Alekseïev Delbès – Drums
Anthonny Colin-Bilodeau – Guitars
Stéphane Deschênes – Bass
Krystal Koffin – Vocals

FROSTBITE – Facebook

ATLANTIS CHRONICLES – Barton’s Odyssey

Viaggio ad Hadotopia solo andata!

Eccoci finalmente fuori le lande compassionevoli di Alcest per ritrovarci in un terreno incontaminato, di frontiera senz’altro e ben più (pre)potente.

C’è tutto in questa formazione, tutto quello che la Francia non ha tra i suoi tipici luoghi comuni: prog, death, speed e screamo. Quattro punti cardinali dove dirigersi a seconda delle tracce in un’avventura sonora dal retrogusto tagliente.
Forse gli Atlantis Chronicles ricordano i Bal Sagoth di “Battle Magic”, ma con sonorità molto più dolci rispetto alle rivali terre inglesi, o magari rimandano ai Nekrogoblikon ma, tuttavia, l’originalità del quintetto francese si comprende appieno solo dopo ripetuti ascolti, per essere sicuri di non ricadere nella ricerca di similitudini. C’è da dire anche che in Francia regna sempre più una vaga aura di post/symphonic black, quindi per un gruppo death è necessario decisamente giocare con le improvvisazioni, tanto meglio se spingono in digressioni ritmiche e assoli psichedelici.
Le varie tappe in Francia e in Belgio programmate per tutto il 2016 permetteranno al gruppo di testare l’attitudine live, alla ricerca di ulteriori miglioramenti che potrebbero corrispondere, per esempio, ad una maggiore organicità del sound. Per gli amanti del death la band potrebbe rappresentare comunque un prospetto da osservare attentamente nel corso della sua progressione.

TRACKLIST
1. The Odysseus
2. Otis Barton
3. Back to Hadotopia
4. Within the Massive Stream
5. Upwelling Pt. I
6. Upwelling Pt. II
7. Lights and Motions
8. I, Atlas
9. 50°S 100°W
10. Modern Sailor’s Countless Stories

LINE-UP
Alex Houngbo – chitarra e cori
Sydney Taieb – batteria
Antoine Bibent – voce
Jérôme Blazquez – chitarra
Simon Chartier – basso

ATLANTIS CHRONICLES – Facebook

Nasty Ratz – First Bite

I Nasty Ratz trasformano le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli.

Dalla Los Angeles degli anni ottanta alla Praga del 2015 il passo sembra più lungo di quanto si possa credere.
D’altronde perché non trasformare le strade dell’austera capitale della Repubblica Ceca nel Sunset Boulevard della città degli angeli?

Ci riescono alla grande i Nasty Ratz, giovane gruppo ceco, con questo buon lavoro, che dello street, hard rock, glam ne ha fatto la sua missione, quella di riportare gli sgargianti colori del metal americano dei splendidi anni ottanta non solo nel nuovo millennio, ma nell’Europa dell’est.
Con alle spalle un ep e tanti concerti in giro per il vecchio continente, in compagnia, tra gli altri, di Adam Bomb e Crazy Lizz, la band debutta sulla lunga distanza con First Bite, classico esempio di cosa si suonava negli anni in cui pantaloni di pelle, bandane, mascara e belle figliole erano il pane dei rockers di mezzo mondo che, come mecca, guardavano agli eccessi della Los Angeles delle promesse, molte volte disilluse di fama e successo.
Rock’n’roll travestito da metalliche iniezioni di street e hard rock, attitudine glam e tanta voglia di divertirsi e abbordare, erano la ricetta per l’ottimo pranzo dei gruppi storici, di cui i Nasty Ratz se ne fanno una scorpacciata, tra brani grintosi e super ballatone strappa lacrimuccia, suonate più per far colpo sulla biondona prosperosa che vero momento di nostalgico malessere esistenziale o amoroso.
Il gruppo è formato dall’ottimo singer Jake Widow, anche chitarra ritmica, mentre la solista, tutta fuoco e fiamme, è di Stevie Gunn con la sezione ritmica composta da Tommy Christen al basso e Rikki Wild alle pelli.
Non troppo lungo ma assolutamente compatto e divertente, First Bite, nel genere, è un buon esordio: certo siamo perfettamente in linea con le produzioni dei vari monumenti al rock stradiolo come Motley Crue, Poison, Ratt e compagnia di delinquenti dagli occhi truccati e la rissa facile, ma se siete ancora in botta per le reunion dei Crue o aspettate come il messia quella dei Gunners, brani che schiumano rock’n’roll come Love At First Fight, Made Of Steel e Snort Me vi faranno tornare sulla via losangelina e chiudendo gli occhi vi ritroverete in fila davanti al Whisky A Go Go, ad aspettare il vostro turno, sperando che questa volta sia quella buona per entrare.
Nostalgico? No, solo molto divertente e suonato sufficientemente bene per risultare un buon ascolto. Stay rock!

TRACKLIST
1. Love At First Fight
2. Made Of Steel
3. I Don’t Wanna Care
4. Morning Dreams Come True
5. Snort Me
6. Angel In Me
7. N.A.S.T.Y.
8. I’ll Cut You Off
9. Sharize
10. If You Really Love Me

LINE-UP
Jake Widow – rhytm guitar, vocals
Stevie Gunn – lead guitar, vocals
Tommy Christen – Bass guitar, vocals
Rikki Wild – drums, vocals

NASTY RATZ – Facebook

Thunder Lord – Prophecies of Doom

Se siete fans del power speed metal un ascolto al disco potete tranquillamente darglielo, ma senza nutrire particolari aspettative, altrimenti passate pure oltre.

Poco conosciuti in Europa, i Thunder Lord da quasi quindici anni portano il loro heavy metal in giro per il Sudamerica: attivi infatti dal 2002, arrivano al terzo full length che segue Hymns of Wrath in This Metal Age del 2008 ed il precedente Heavy Metal Rage uscito quattro anni fa.

Tornano dunque per la label tedesca Iron Shieds Records, costola della piovra Pure Steel con questo Prophecies Of Doom, assalto metallico dalle chiare accelerate speed, old school fino al midollo, guerresco e con un tocco epico, un’atmosfera sempre presente nei gruppi del genere.
Niente di clamoroso, un dischetto di metal ignorante, sparato a mille e che non riserva grosse sorprese, a parte un’ottima amalgma tra le componenti, discreti solos classici e fierezza metallica a iosa.
Il quartetto originario di Santiago conferma come l’heavy metal europeo abbia fatto proseliti nel continente sudamericano, più orientato ai suoni classici rispetto ai paesi del nord, compresi gli U.S.A., maggiormente suscettibili ai vari trend.
Se mi si concede un paragone calcistico, i Thunder Lord sono un buon mediano, tanta corsa, sette polmoni, ma poca classe: le canzoni tendono ad assomigliarsi un po’ troppo, lasciando solo ai true defenders più incalliti il desiderio di assaporare le virtù di un classico combo senza infamia e senza lode.
I Running Wild dei primi lavori e gli Exciter, conditi da umori new wave of british heavy metal, sono i paragoni che più calzano alla proposta del gruppo cileno, il quale, tra le varie songs di Prophecies Od Doom, lascia alla sola title track ed alla cadenzata Condemned To Death il compito di alzare al di sopra della sufficienza la media di questo lavoro.
Se siete fans del power speed metal un ascolto al disco potete tranquillamente darglielo, ma senza nutrire particolari aspettative, altrimenti passate pure oltre.

TRACKLIST
1. End of Time
2. Leave Their Corpses to the Wolves
3. Prophecies of Doom
4. Pillan
5. The Darkness’s Breath
6. Condemned to Death
7. The Blood-Red Moon
8. Useless Violence
9. Winds of War
10. Metal Thunder

LINE-UP
Francisco Menares – Bass
Eduardo Nuñez – Drums
Esteban Peñailillo – Vocals, Guitars
Diego Muñoz – Guitars

THUNDER LORD – Facebook

Department Of Correction / Agathocles : Ultra Grindcore vs. Slumbering Sludge

Un gran bello split tra due gruppi che vanno oltre le convenzioni e che ci regalano un qualcosa di nuovo ma con uno spirito antico.

Dividere un disco fra varie band è una pratica consolidata in ambito hc grind metal ed affini, e in questo caso uniscono le forze i francesi Department Of Correction e i mitici belgi Agathocles.

I Department sono un gruppo che fa un grind che deve molto ai primi dischi dei maestri Brutal Truth e Napalm Death, ma i ragazzi francesi ci aggiungono molto di loro, dando a quel suono un tocco importante di modernità.
I loro sei pezzi sono ultra moderni e suoanti molto bene, veloci e precisi. Nell’altro lato dell’Lp ecco gli Agathocles, un gruppo che ha una credibilità ed un reputazione che ben pochi altri gruppi di tutti i generi musicali possono vantare. In giro da tantissimo, hanno scritto la storia del grind più politicizzato, facendo nascere il crust e indicando la via a generazioni di gruppi incazzati e rumorosi. In questo split ci propongono qualcosa di davvero differente rispetto a quello che hanno inciso fino ad ora. La loro partecipazione è un pezzo di oltre sei minuti in stile sludge molto pesante e claustrofobico, che dà l’idea di ciò che potranno fare in futuro dimostrando di non sapere andare solo veloci, ma scavando benissimo in profondità.
Un gran bello split tra due gruppi che vanno oltre le convenzioni e che ci regalano un qualcosa di nuovo ma con uno spirito antico.

TRACKLIST
DEPARTMENT OF CORRECTION:
1. Greencore Is Leaf
2. The Tank Is In The Garden
3. Suck It Up
4. Do It Like
5. Try To Set It Free

AGATHOCLES:
6. Into My Crypts

LINE-UP
Agathocles
Jan – Vocals, Bass
Nils – Drums, Vocals
Koen – Guitars

Department of Correction
Yohann Dieu – Drums
Florian Chrétien – Guitars
Grégoire Duclos – Vocals

DEPARTMENT OF CORRETION – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Purtenance – …to Spread the Flame of Ancients

Una notevole prova di forza da parte del quartetto finlandese, ormai ripulito dalla ruggine del tempo e pronto per dire la sua nel panorama underground estremo.

Con un po’ di ritardo sull’uscita, vi proponiamo questo ottimo lavoro di death metal old school, licenziato dai finlandesi Purtenance, datato combo attivo dall’alba degli anni novanta.

Non più dei novellini, dunque, ma una realtà che ha vissuto all’ombra delle band storiche del genere e tornata dopo un lungo stop a deliziarci con il loro metal estremo putrido e marcissimo.
La band infatti nasce in quel di Nokia, nel 1991, in un periodo di pieno sviluppo del genere nelle fredde terre del nord; il primo ep è seguito dal full length Member of Immortal Damnation del 1992, poi un lungo silenzio interrotto dalla firma con la Xtreem e la reunion che porta, nel 2012, alla pubblicazione dell’ep Sacrifice the King.
La band trova continuità ed il 2013 è l’anno del secondo lavoro sulla lunga distanza, il buon Awaken from Slumber.
Ritroviamo i Purtenance alla fine dello scorso anno con questo nuovo album che li riporta un livello consono alla fama underground del gruppo: …to Spread the Flame of Ancients, pur rimanendo ancorato ai dettami della scuola classica del genere, ha nel songwriting la sua arma letale.
Ottimi brani, tra death metal old school, rallentamenti di scuola Asphyx e passaggi brutali che potenziano ancora di più l’impatto di songs monolitiche e debordanti come On the Far Side of Knowledge, Blood Oath e mazzate estreme come Disseminated Death e The Unseen, risultano davvero devastanti, valorizzate da ritmiche chirurgiche e riffing scritti nell’abisso infernale dove il gruppo risiede, a fianco dei maestri del genere.
Una notevole prova di forza da parte del quartetto finlandese, ormai ripulito dalla ruggine del tempo e pronto per dire la sua nel panorama underground estremo.
Per i fans dei vari Dismember, Entombed, Asphyx e i vari nascituri della nidiata malefica dei primi novanta, …to Spread the Flame of Ancients è un album assolutamente consigliato, a riprova di un ottimo ritorno.

TRACKLIST
1. Invocatio
2. Preventio
3. Waiting to Be Free
4. I, the Sacrificed
5. On the Far Side of Knowledge
6. Destroyed Human Mind
7. Blood Oath
8. Cornerstone of Insanity
9. Disseminated Death
10. The Unseen
11. Kaaos on Kanssamme (Chaos Is with Us)

LINE-UP
Harri Saro – Drums
Juha Rannikko – Guitars
Ville – Bass, Vocals
Ville Nokelainen – Guitars

PURTENANCE – Facebook

Pokerface – Divide And Rule

Divide And Rule non delude certo gli amanti di queste sonorità, ne sentiremo ancora parlare dei Pokerface, scommettiamo?

Torniamo a parlare di metallo forgiato nella madre Russia, per molti provincia della nostra musica preferita, ed invece da anni cilindro da cui escono coniglietti diabolici, dediti ad infuocare la fredda terra sovietica.

La Irond Records questa volta va sul sicuro e ci propone questa band nata solo un paio di anni fa, con un ep (Terror Is The Law) già edito e tanta voglia di spaccare con un thrash metal figlio del periodo ottantiano, irrobustito da buone soluzioni death.
Con una buona esperienza dal vivo con act del calibro di Sepultura, Overkill, e Children Of Bodom, i Pokerface dopo l’uscita dell’album hanno affiancato addirittura sua maestà Dave Mustaine ed i suoi Megadeth, segno che qualcuno crede nel quintetto.
Quella bestia ferita che sentirete urlare la sua rabbia e dolore nel microfono non è un uomo, ma bensì una graziosa fanciulla, con tutte le carte in regole per seguire le orme di Angela Gossow e compagnia di ragazze terribili, una forza della natura che di nome fa Delirium e che vi investirà con una prova da far impallidire tanti maschietti con la pretesa di cantare in una metal band.
Detto della singer, Divide And Rule risulta un buon album di genere, old school, ma prodotto bene, suonato discretamente e con soluzioni ritmiche e chitarristiche sufficientemente convincenti; certo, siamo nel già sentito, le influenze del gruppo escono prepotentemente dai solchi dei brani che lasciano trasparire tutta la devozione per gli Slayer, i Venom e la triade teutonica Sodom/Kreator/Destruction.
Ma questo primo lavoro sulla lunga distanza si fa apprezzare per l’aggressività e la rabbia mai doma, con qualche buon spunto death che ringiovanisce di qualche anno il sound, mantenendo un approccio classico al genere.
L’arpeggio accompagnato dai tasti d’avorio funge d’apertura, non solo all’opener All Is Lie, ma a tutto l’album che, dal secondo numero quarantotto in poi, esplode in un delirio di metal estremo e non si ferma più.
Qualche buona ripartenza, velocità elevata e chitarre che sparano chiodi e attaccano al muro, sono le peculiarità dei brani, ma è indubbio che la parte del leone la fa l’indiavolata vocalist, davvero incontenibile sul tappeto metallico orchestrato dai suoi compari.
Botta di vita da spararsi tutta d’un fiato, Divide And Rule non delude certo gli amanti di queste sonorità, ne sentiremo ancora parlare dei Pokerface, scommettiamo?

TRACKLIST
1. All is Lie
2.Kingdom of Hate
3.The Chessboard Killer
4.Existence
5.Into the Inferno
6.Human Control
7.Age of Terrorism
8.Killed by Me
9.Shut Up!
10.Divide and Rule

LINE-UP
Delirium-vocals
Nick-lead guitars
Maniac-lead guitars
DedMoroz-bass
Doctor-drums

POKERFACE – Facebook

Rotting Christ – Rituals

I Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una lunga storia.

Un nuovo disco dei Rotting Christ non può che rivestire il carattere dell’evento.

Chiaramente qui stiamo parlando di una delle band più importanti e più longeve della scena estrema europea, se pensiamo che è prossimo il traguardo del trentesimo anno di attività e questo dovrebbe già essere sufficiente per spiegare l’importanza del gruppo fondato dai fratelli Tolis.
Rituals è il dodicesimo full-length e non fa calare la qualità media delle uscite della band ateniese: come si può intuire dal titolo, a prevalere è l’aspetto prettamente rituale dei brani, che spesso risultano vere e proprie invocazioni corali; già l’opener In Nomine Dei Nostri esibisce senza mediazioni le sue sembianze di preghiera blasfema che tiene perfettamente fede alla ragione sociale, ma tutto ciò nei Rotting Christ non avviene con le modalità adolescenziali di certe band che pensano sia sufficiente esibire il face panting per apparire minacciose, bensì con la maturità di musicisti completi e soprattutto credibili.
In una carriera così lunga diversi sono stati gli indirizzi stilistici intrapresi da Sakis, dal grind dei primi demo al black metal peculiare dei primi quatto lavori (con i picchi di Non Serviam e Triarchy Of The Lost Lovers), poi con la svolta gothic di A Dead Poem e Sleep Of The Angels, per tornare successivamente sui propri prassi con Kronos fino a Theogonia ed approdare infine, in questo decennio, ad uscite dall’impronta più epica, talvolta anche folk, e se possibile maggiormente radicate a livello di ispirazione nella storia della nazione ellenica.
Se è vero che l’ultimo album fondamentale pubblicato dai nostri è stato Theogonia, datato 2007, va detto che una minore brillantezza del songwriting rinvenibile negli ultimi lavori è stata ben compensata da una sempre maggiore cura dei particolari, a partire dalla produzione per arrivare al contributo dei diversi ospiti che, da Aealo in in poi, si rivela una piacevole costante. Se allora brillava la presenza di una stella assoluta come Diamanda Galas (senza tralasciare un certo Alan Averill), in Rituals spicca la partecipazione di Vorph dei Samael, sorta di corrispettivi elvetici dei Rotting Christ, e di Nick Holmes dei seminali Paradise Lost.
Detto dell’ottima traccia d’apertura (con il contributo di un’altra icona della scena greca come Magus) e della bontà degli episodi che vedono all’opera i due illustri ospiti (Les Litanies de Satan con Vorph e For a Voice like Thunder con Holmes), il brano che maggiormente colpisce per intensità è Elthe Kyrie, sorta di rappresentazione musicale della tragedia greca, con tanto di recitato da parte di un’attrice del Teatro Nazionale (Danai Katsameni): qui ritroviamo anche le classiche progressioni chitarristiche che, se da una parte, possono apparire una forma di autocitazionismo, dall’altra costituiscono un vero e proprio riconoscibile marchio di fabbrica per i Rotting Christ.
Al contrario, un po’ debole e leggermente furi contesto è Devadevam, con Kathir dei singaporiani Rudra a fornire un’impronta fin troppo particolare al brano, mentre qualche ripetitività di troppo (Apage Satana) appesantisce solo parzialmente un lavoro che nel suo complesso non delude, anche perché, come detto, se l’ispirazione che pervadeva dischi come Non Serviam e Theogonia si manifesta ormai solo a sprazzi, tale mancanza viene compensata ampiamente dal mestiere e dal carisma di una band in grado di legare con disinvoltura i diversi spunti che vengono fatti confluire nell’opera.
In definitiva, i Rotting Christ si confermano con Rituals tra i leader della scena estrema del nostro continente, in virtù di un sound peculiare che, tra alti (molti) e bassi (rari) , ha contributo a consolidarne una fama meritatamente acquisita nel corso di una storia lunga ma che pare ancora ben lungi dall’essere al suo epilogo.

Tracklist
1. In Nomine Dei Nostri
2. זה נגמר (Ze Nigmar)
3. Ἐλθὲ κύριε (Elthe Kyrie)
4. Les Litanies de Satan (Les Fleurs du Mal)
5. Ἄπαγε Σατανά (Apage Satana)
6. Του θάνατου (Tou Thanatou) (Nikos Xylouris cover)
7. For a Voice like Thunder
8. Konx om Pax
9. देवदेवं (Devadevam)
10. The Four Horsemen

Line-up:
Themis Tolis – Drums
Sakis Tolis – Guitars, Vocals
Vagelis Karzis – Bass
George Emmanuel – Guitars

Guests:
Magus (NECROMANTIA) – “In Nomine Dei Nostri”
Danai Katsameni (NATIONAL HELLENIC THEATER) – “Elthe Kyrie”
Vorph (SAMAEL) – “Les Litanies De Satan (Les Fleurs Du Mal)”
Nick Holmes (PARADISE LOST) – “For A Voice Like Thunder”
Kathir (RUDRA) – “Devadevam”

ROTTING CHRIST – Facebook

Drowning Pool – Hellelujah

L’era del nu metal è finita da un po’ e le band sopravvissute a quello tsunami musicale arrivato a cavallo del nuovo millennio faticano a trovare consensi, surclassate nelle preferenze dei fans e soprattutto degli addetti ai lavori dal sound metalcore, oggi il genere più cool aldilà dell’oceano.

Il ritorno dei Disturbed alla fine dello scorso anno ha confermato però che la musica di qualità molte volte non va a braccetto con la fama, con un buon album che, rispetto ad una quindicina d’anni fa quando qualunque disco uscisse con l’etichetta nu metal era oro che colava, è passato senza lasciare traccia o quasi.
I Drowning Pool rischieranno la stessa fine con questo buon lavoro, non un capolavoro ma un esempio concreto di come si suona il genere.
Certo, magari non saremo sui livelli di Sinner del 2001 e l’asso Dave Williams ha lasciato, con la sua scomparsa, non pochi problemi, ma Jasen Moreno spacca al microfono e la band sembra in forma per far divertire gli appassionati del genere.
Le prime quattro tracce sono un ottimo biglietto da visita: l’irruenza metallica, le ritmiche neanche troppo sincopate, un’attitudine quasi rock’n’roll (By The Blood) che lasciano posto all’aggressione senza tregua di Drop, composta da un chorus da spellarsi le mani, conquistano subito e ci danno il benvenuto all’interno di Hellelujah.
Verso la metà dell’album qualche brano perde colpi ( la ballad Another Name, troppo scontata e colpevole di spezzare la tensione), mentre i nu metal fans si leccano le ferite con bordate di quello che è uno dei generi più amati/odiati degli ultimi vent’anni (Symphathy Depleted, Meet The Bullet) ed al quale il gruppo di Dallas, pur non essendone una dei maggiori esponenti, ha sicuramente dato il suo importante contribuito.
Sono passati i tempi dei grandi festival e le copertine patinate di riviste musicale cool, non solo per i Drowning Pool, ma per tutto il movimento, rimane la musica e, verrebbe da dire, finalmente.
Hellelujah si può tranquillamente definire un ottimo ritorno, anche sennza che vengano apportate grosse novità nel sound del gruppo, concedendo anche qualche citazione (Godsmack e Stone Sour): i Drowning Pool conoscono alla perfezione il genere e, cosa non da poco, lo sanno suonare; vedremo quanto la Napalm ci metterà del suo nel supportare un’opera che a livello commerciale è fuori tempo massimo, ma io un ascolto ve lo consiglio, fidatevi.

TRACKLIST
01. Push
02. By The Blood
03. Drop
04. Hell To Pay
05. We Are The Devil
06. Snake Charmer
07. My Own Way
08. Goddamn Vultures
09. Another Name
10. Sympathy Depleted
11. Stomping Ground
12. Meet The Bullet
13. All Saints Day

LINE-UP
Jasen Moreno – Vocals
CJ Pierce – Guitar
Stevie Benton – Bass
Mike Luce – Drums

DROWNING POOL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=K_X_ZboXQDo

Maze Of Terror – Ready To Kill

Esame sulla lunga distanza superato per i Maze Of Terror: Ready To Kill è sicuramente da considerare un ottimo album di genere.

Thrash metal old school, violento e senza compromessi, alimentato da una vena death che ne fa un esempio di metal estremo, primitivo, rude ed ignorante.

Questo in poche parole è il sound prodotto dai Maze Of Terror, combo peruviano al primo full length dopo la nascita avvenuta nel 2011, un ep e lo split con i greci Amken, uscito lo scorso anno e di cui ci siamo occupati sulle nostre pagine.
La buona impressione che i brani inclusi nello split avevano suscitato, non cambia, il gruppo aggredisce e distrugge con il suo thrash metal di origine teutonica e i richiami ai vari Destruction e Kreator, continuano ad essere preponderanti nel devastante sound proposto dal gruppo di Lima.
Giovani ma attrezzati per convincere i fans dei suoni old school, i Maze Of Terror ci vanno giù pesante, presentandosi con un trittico si brani da massacro senza pietà.
Rotting Force, Lycanthropes e There Will Be Blood danno fuoco ai cannoni e Ready To Kill parte a bomba per non fermarsi più in tutti i suoi cinquanta minuti abbondanti di durata.
Tra i solchi delle tracce presentate, affiorano a tratti gli Slayer , signori incontrastati del genere, mentre la voce aggressiva e cartavetrata di Leviathan ci catapulta in un mondo di guerre, violenze e distruzione ( più o meno, quello in cui viviamo).
La prima impressione è che la band sia migliorata molto sotto l’aspetto esecutivo, non mancano infatti cavalcate metalliche, dove la sezione ritmica spara mitragliate a forti velocità e le sei corde impazzano in corse su e giù per il manico, come carrelli lanciati all’impazzata sulle montagne russe.
Velocità, e rallentamenti cadenzati ma potentissimi, rendono l’album vario (World’s Dead Side), mentre la durata si restringe e si arriva alla conclusiva Giles De Rais, traccia di oltre dieci minuti (cosa rara nel genere) che mette in mostra non solo la bravura, ma la personalità del combo peruviano, affrontando una composizione che risulta violentissima, complessa ma molto ben strutturata, variando il sound ed alternando violenza thrash a momenti metallici più in linea con il mood classico del metal old school.
Ottima prova dunque, ed esame sulla lunga distanza superato per i Maze Of Terror: Ready To Kill è sicuramente da considerare un ottimo album di genere.

TRACKLIST
1. Rotting Force
2. Lycanthropes
3. There Will Be Blood
4. Violent Mind of Hate
5. World’s Dead Side
6. Bringer of Torture
7. Protectors
8. Executio Bestialis
9. Blooded Past, Burning Future
10. Gilles de Rais

LINE-UP
Leviathan – Bass, Vocals
Hammer – Drums
Criminal – Mind Guitars
Razor – Guitars

MAZE OF TERROR – Facebook

Black Whispers – Shades of Bleakness

L’inquietudine che trasuda da Shades of Bleakness viene efficacemente veicolata verso l’ascoltatore con un disco relativamente breve e dalle sonorità piuttosto uniformi, ma che hanno in comune linee melodiche molto efficaci

Ecco un bellissimo disco di depressive black metal proveniente dalla Costarica: fino a qualche tempo fa un simile incipit avrebbe destato una certa sorpresa ma, oggi, è ormai assodato che certe pulsioni dell’animo umano non hanno limiti di tempo e luogo né, soprattutto, di espressione.

In effetti, l’unico costaricense del trio è il giovane J.F., chitarrista e vocalist che si fa coadiuvare dal messicano Nergot e dall’italiana Kjiel, personaggio di spicco della scena DSBM nostrana, qui rappresentata anche da HK, che si occupa del drumming sull’album.
Quello che fa la differenza nell’ambito di questo genere, dato per scontato uno stesso desiderio da parte degli autori di rappresentare stati di alienazione dalla realtà propedeutici a comportamenti suicidi o autolesionistici, è la capacità dei singoli musicisti di rendere credibili e nel contempo fruibili le loro soluzioni espressive. Nei Black Whispers entrambi gli aspetti vengono proposti al meglio, sicché l’inquietudine che trasuda da Shades of Bleakness viene efficacemente veicolata verso l’ascoltatore con un disco relativamente breve (4 tracce più intro) e dalle sonorità piuttosto uniformi ma che hanno in comune linee melodiche molto efficaci e, soprattutto, in grado di comunicare manifestamente tutto il senso di disagio.
Una piccola pecca è rinvenibile nel canonico screaming disperato che, essendo un po’ piatto, talvolta si rivela quasi un elemento di disturbo se inserito in un ambito musicale sovente dai tratti melodici, per quanto foschi; è anche vero, però, che questo aspetto è parte integrante di un genere che, per sua natura, non deve né rassicurare né consolare, quindi a chi apprezza tutto ciò non risulterà sgradito più di tanto.
Una lieve imperfezione che, comunque, non va inficiare quello che si rivela come uno dei migliori album depressive black metal ascoltati negli ultimi tempi e, come detto in fase di introduzione, non stupisca il fatto che l’artefice di tutto ciò provenga dalla Costarica: la musica è un qualcosa di universale, impossibile da delimitare erigendo muri o reti elettrificate …

Tracklist
1. Intro (Useless Existence)
2. Gloom
3. Never-ending Unsteadiness
4. Stuck in the Past Ruins
5. Dying (Life Neglected сover)

Line-up:
J.F. – Vocals, Lyrics
Kjiel – Guitars, Additional Vocals
Nergot – Bass
HK – Drums

BLACK WHISPERS – Facebook

Stigmata – The Ascetic Paradox

Gli Stigmata viaggiano tra tutti i sottogeneri del metal, la loro musica risplende di digressioni jazzate, folkloristiche, in uno tsunami di ritmiche devastanti

Che bello viaggiare virtualmente per il mondo alla ricerca di realtà musicali che, se non fosse per la collaborazione con IYE, avrei sicuramente perso, per quanto nella mia lunga vita da appassionato di musica non abbia mai smesso di cercare e scovare band interessanti e, magari agli inizi della loro carriera, poco conosciute.

Ed ecco che, come ormai d’abitudine, mi immergo nel mondo metallico asiatico, questa volta è lo Sri Lanka ad accogliermi, paese che ha dato i natali nell’ormai lontano 1999 a questa clamorosa band che prende il nome da un album degli Arch Enemy, gli Stigmata.
Il quintetto, proveniente dalla città di Colombo, è in possesso di una nutrita discografia, iniziata nei primi anni del nuovo millennio con un ep (Morbid Indiscretion) e proseguita con tre lavori sulla lunga distanza, Hollow Dreams del 2013, Silent Chaos Serpentine del 2006, Psalms of Conscious Martyrdom del 2010 e quest’ultimo, eccellente The Ascetic Paradox.
Come avrete notato in alto a destra, il genere descritto è semplicemente metal: troppo lunga sarebbe stata la lista se fossi andato nello specifico, perché questi cinque ottimi musicisti inglobano nel loro sound praticamente tutti i generi di cui il mondo metallico è composto.
Il bello è che lo fanno con una semplicità disarmante e quello che ne esce non è un minestrone di suoni, ma un’ apoteosi di metalliche atmosfere devastanti, ipertecniche, progressive, potenti, drammatiche ed assolutamente originali nel loro saltare da un genere all’altro.
Partendo da una base sonora che si avvicina terribilmente ai Nevermore più progressivi (anche per la voce spettacolare del singer che ricorda non poco quella di Warrel Dane), gli Stigmata viaggiano tra tutti i sottogeneri del metal, la loro musica risplende di digressioni jazzate, folkloristiche, in uno tsunami di ritmiche devastanti: le sei corde valorizzano il tutto con riff e solos dalla tecnica formidabile, molte volte a velocità inaudita.
I testi di denuncia politico, sociale e religiosa sono interpretati con toni tragici e drammatici da Suresh de Silva, vocalist sontuoso, dotato di una personalità debordante così come l’album, che risulta un’opera fuori dal comune.
Tra i solchi di questi otto brani, lunghi ed articolati, tutti d’ascoltare, ma guidati dalla progressiva Rush Through The Twilight Silver Slithering Stream e dalla conclusiva suite estrema, di ben oltre tredici minuti, And Now We Shall Bring Them War!, troverete ad aspettarvi Nevermore, Death, Cynic, Tool, Arch Enemy, Pestilence, Dream Theather, Rush e molti altri, uniti in questo stupendo affresco metallico al secolo The Ascetic Paradox.

TRACKLIST
1. Our Beautiful Decay
2. An Idle Mind is The Devil’s Workshop
3. Stillborn Again
4. Rush Through The Twilight Silver Slithering Stream
5. Calm
6. Axioma
7. Let The Wolves Come & Lick Thy Wounds
8. And Now We Shall Bring Them War!

LINE-UP
Suresh de Silva – Vocals, Lyrics
Tennyson Napoleon – Rhythm Guitar
Andrew Obeyesekere – Lead Guitar
Lakmal Chanaka Wijayagunarathna – Bass Guitar
Roshan Taraka Senewirathne – Drums

STIGMATA – Facebook

Mourning Beloveth – Rust & Bone

Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere

Gli irlandesi Mourning Beloveth sono una band dallo stato di servizio lusinghiero nel particolare mondo del doom più oscuro, se pensiamo che la loro storia ha preso avvio oltre vent’anni fa.

Fino all’incisione del precedente full length Formless, nel 2013, tutto sommato il gruppo era noto agli appassionati soprattutto per un eccellente album come A Sullen Sulcus, oltre a diverse buone opere in linea con gli stilemi del genere.
Con lo scorso lavoro, invece, era stata impressa una svolta decisa verso suoni che maggiormente attingevano alla tradizione musicale della propria terra di provenienza, non tanto riferiti al folk quanto ad un peculiare mood epico.
In particolare era emersa in tutto il suo splendore quell’affinità elettiva con i Primordial che ne aveva reso i Mourning Beloveth (citando la mia recensione di Formless) “una versione iper-rallentata”, ma ugualmente affascinante quanto personale.
Rust & Bone costituisce un’ulteriore e forse definitiva evoluzione della band proveniente di Athy: i Mourning Beloveth non sono più, di fatto, una band death/doom nel senso più convenzionale del termine, perché, sebbene la lunga opener Godether evidenzi per buna parte passaggi ascrivibili al genere, è l’atmosfera complessiva che è cambiata: il dolore ottundente viene rimpiazzato ora da un sofferenza dai tratti fieri e solenni, ora da una malinconia propedeutica ad una serenità illusoriamente vicina eppure irraggiungibile.
Quando Godether si apre melodicamente, attorno all’ottavo minuto, le emozioni rompono gli argini e non sarà più possibile contenerle fino all’ultima nota dell’album.
Rispetto a Formless, i Mourning Beloveth hanno optato per una maggiore sintesi, visto che Rust & Bone dura meno della metà del precedente lavoro, ma qui non c’è un solo secondo sprecato: anche i due brevi intermezzi Rust e Bone sono funzionali alla causa, andando ad introdurre le altre due perle The Mantle Tomb e A Terrible Beauty Is Born.
La prima prende avvio come se fosse un outtake di quel capolavoro assoluto intitolato A Nameless God e, allorché entra in scena la voce di Frank Brennan, non ci sono dubbi che questa traccia ci trascinerà in un vortice emotivo dal quale non sarà facile riprendersi. Alternato al robusto growl di Darren Moore, il canto evocativo del chitarrista non lascia scampo, finché la vena “primordiale” del brano non si stempera in una seconda parte strumentale nella quale la chitarra solista va a rovistare in maniera irrimediabile nella nostra anima, annichilita da tanta bellezza oltre che sfregiata dall’urlo disperato di Moore.
A Terrible Beauty is Born arriva achiudere l’album con modalità simili alla lunga Transmission, traccia che occupava interamente il cd bonus di Formless: lo spunto di quell’episodio acustico e dai tratti blueseggianti, qui viene perfezionato e reso in una veste che ne accentua il pathos e la limpidezza: l’interpretazione di Brennan fa tutta la differenza del mondo, donando al brano un’intensità rara e preziosa.
Rust & Bone è il disco che consacra definitivamente i Mourning Beloveth: la band irlandese, con un album di questo spessore, va ben oltre i confini disseminati di spine del death doom, approdando ad una forma di lirismo che travalica qualsiasi definizione di genere; difficile fare meglio di così, davvero.

Tracklist
1. Godether
2. Rust
3. The Mantle Tomb
4. Bone
5. A Terrible Beauty Is Born

Line-up:
Timmy Johnson – Drums
Frank Brennan – Guitars, Vocals (clean)
Darren Moore – Vocals
Brendan Roche – Bass
Pauric Gallagher – Guitars

MOURNING BELOVETH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=spPn5BlHZVo&feature=youtu.be