Proliferhate – In No Man’s Memory

I Proliferhate sono una band di death metal per nulla convenzionale, basato su un grande e sapiente uso della melodia.

I Proliferhate sono una band di death metal per nulla convenzionale, basato su un grande e sapiente uso della melodia.

Formatisi nel 2012 questi ragazzi torinesi hanno subito imboccato un’ottima strada, che qui confermano con questo ottimo album. Nella loro musica i Proliferhate fanno confluire molti elementi stilistici, dalla brutalità alla melodia, pezzi claustrofobici ed ariose aperture. Il loro death metal è molto originale e variegato ed è difficile circoscrivere in un solo genere il risultato. La loro intensa attività live fornisce un grande apporto al loro suono, e li porta ad essere un grande gruppo nel panorama italiano e non solo, poiché la vocazione internazionale è molto presente. Prodotti da Adriano “Vecchio ” Sette, i Proliferhate si candidano ad essere uno dei migliori gruppi metal italiani del presente ma soprattutto del futuro.

TRACKLIST
1Apologia di un Povero Diavolo Pt.1
2 Ashland
3 Resonance Frequency
4 Der Grossmann
5 In No Man’s Memory
6 Apologia di un Povero Diavolo Pt.2
7 The Court of Owls
8 In My Deep feat. AV7 Sounds

LINE-UP
Durante Omar: Vocals, Guitar
Moffa Lorenzo: Guitars
Simioni Andrea: Bass Guitar
Varlonga Daniele: Drums

PROLIFERHATE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=x8PyHyZs3kM

Ape Unit – Turd

Dieci minuti di grindcore spettacolare, unito ad una neanche troppa sottile ironia e scoppia l’innamoramento del sottoscritto per questa band piemontese e la loro musica estrema.

Dieci minuti di grindcore spettacolare, unito ad una neanche troppa sottile ironia e scoppia l’innamoramento del sottoscritto per questa band piemontese e la loro musica estrema.

Bellissima copertina (a cura dell’artista francese Craoman) titoli dei brani che coinvolgono artisti famosi del panorama rock/ metal internazionale ( Mullet For My Valentine, Children Of Boredom, Go Kart Cobain) e tanto metal estremo, suonato alla grande, violentissimo e perfettamente in grado di soddisfare anche l’ascoltatore non avvezzo al genere, per merito di un songwriting perfettamente bilanciato, una potenza esagerata tenuta ben salda tra lo spartito dei nostri, che clamorosamente, riescono nell’impresa di completare un’opera in un minutaggio così ridotto.
Ape Unit, di base a Cuneo, arrivano al quarto lavoro, questo Turd, un esempio lampante di come il genere possa regalare grande musica, estrema certo, ma perfettamente in grado di esprimere tutto quello che gli artisti vogliono in pochissimo tempo e la cosa sinceramente non è da tutti.
Influenzati dai gruppi storici che il genere lo hanno inventato (Napalm Death e Terrorizer), i cinque grindsters danno un’enorme prova di maturità, confezionando un disco che porta l’ascoltatore a non smettere di sentire e risentire l’enorme potenza che Turd sprigiona in queste dieci tracce, dove non mancano, oltre alla devastante velocità, ritmiche colme di groove che aumenta, se possibile, la sensazione lasciata dal sound di trovarci al cospetto di un carro armato impazzito.
Growl cavernoso che, a tratti, si trasforma in scream schizoide dall’input hardcore, chitarre in overdose di watts ed una predisposizione naturale per la forma canzone, fanno di Turd un’opera irrinunciabile per ogni fan del genere.
E, per una volta, non ci si può lamentare del minutaggio ridotto, l’album è perfetto proprio così com’è.

TRACKLIST
1. Puberal Baphomet
2. Mullet For My Valentine
3. Your Body Will Become My Abat-Jour
4. The Will To Smith
5. Tropical Mode-ON
6. Don’t Touch The Forbidden Congas
7. Orango Juice
8. Sperm Bank Robbery
9. Children Of Boredom
10. Go Kart Kobain

LINE-UP
Mariano Somà – Voce
Marco Losano – Chitarra
Alberto Cornero – Chitarra
Umberto Salvetti – Basso
Steve Bianco – Batteria

APE UNIT – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Spina Bifida – Iter

L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Gli Spina Bifida sono una band olandese che fu tra le prime a proporre le varianti più oscure del doom nel paese dei mulini a vento.

Nonostante un solo album all’attivo (Ziyadah, datato 1993), il nome è sempre stato citato tra quelli definibili “di culto”, condizione che spesso viene allargata a band che producono solo un buon album per poi cadere nell’oblio.
L’occasione per riparlare degli Spina Bifida ci è stata fornita la scorsa estate con la riedizione proprio di Ziyadah, quell’unico parto su lunga distanza da molti considerato un lavoro di grande spessore. Al riguardo ci eravamo espressi in maniera diversa, ritenendola un’opera non priva di un suo fascino pur non essendo all’altezza delle migliori espressioni del settore, ma l’indiscutibile aspetto positivo dell’operazione era la sua funzione evidentemente propedeutica ad un ritorno con un nuovo disco di inediti, come effettivamente è avvenuto.
Il lavoro in questione è questo Ep intitolato Iter, che ha il pregio/difetto di ripartire esattamente da dove la band di Tilburg aveva terminato: il death doom qui contenuto continua ad essere asciutto e senza fronzoli, ma anche privo di slanci indimenticabili, pur risultando come il suo lontano predecessore a suo modo accattivante.
Rispetto alla formazione originale, l’unica novità è rappresentata dalla sostituzione del vocalist dell’epoca con William Nijhof dei Faal e, tutto sommato l’avvicendamento, se porta sicuramente qualche miglioria, non si rivela decisivo nell’economia dell’Ep.
Le buone Singular God e Silent Fields bastano comunque per giustificare questo ritorno sulle scene contraddistinto da un sound dal sapore vintage, dovuto al binomio songwrinting/produzione che mostra tratti piuttosto spartani.
L’oscurità evocata dai redivivi Spina Bifida è, in fondo, un regalo gradito per chi preferisce le sonorità crude ed essenziali vicine a quelle dei primissimi Paradise Lost, mentre Iter faticherà di più a far breccia nel cuore di chi apprezza il versante maggiormente emotivo e melodico del death doom.

Tracklist
1. Untitled
2. Singular God
3. Awe
4. The Dead Ship
5. Silent Fields
6. The Heretic

Line-up:
Veronika – Bass
Gerard – Drums
Rob – Guitars
Harrie van Erp – Guitars
William Nijhof – Vocals

SPINA BIFIDA – Iter

Sarasin – Sarasin

Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.

A volte ritornano.

Prendo in prestito il titolo di un famoso romanzo di Stephen King, per presentare il debutto sulla lunga distanza dei Sarasin, band canadese che torna, tramite Pure Steel, dopo aver licenziato il primo lavoro (l’ep Lay Down Your Guns) quasi trentanni fa.
Era infatti il 1987, poi un lungo silenzio, anche se la band è sempre risultata attiva, ed ora il ritorno con una line up rinnovata di 4/5 e capitanata dall’unico superstite della formazione originale, il chitarrista Greg Boileau.
Heavy metal e hard rock, una buona vena epica che sce dai solchi dei brani, un ottimo vocalist, ed un discreto songwriting è quello che presenta il gruppo di Hamilton, vagando tra gli anni ottanta, tra Dio, e Ozzy Osbourne, scaricando riff heavy a profusione ed un’attitudine che potrebbe far breccia nei cuori dei riockers più attempati.
Non mancano buone intuizioni, che portano la band ancora più indietro nel tempo, fino ai tardi seventies, così che, questo album omonimo risulta vario, tra rudezza heavy rock, arpeggi e sfumature tradizionali.
The Hammer apre le danze sparando un refrain colmo di groove, un classic rock da rocker motorizzati, Michael Wilson entra nella struttura della song con un piglio osbourniano, come inizio non c’è male, presentandoci una band vogliosa di impadronirsi di tutto il tempo andato perso.
Enemy Within e In Our Image accentuano le atmosfere U.S metal, indubbiamente presenti nel sound del gruppo, mentre Now è un hard rock song melodica su cui i Sarasin ricamano un riff dal tono drammatico.
Soul In Vain e Sinkhole sono potenti hard rock song cadenzate, dove il singer dimostra di essere attrezzato quanto basta per un’interpretazione suggestiva; Live To See The Glory, ritorna al rock settantiano, enfatizzata da un riff dall’ottimo appeal, per rallentare seguendo strade progressive, mentre giungiamo al termine con l’heavy rock di Forevermore e la liturgica Wake Up, una danza di rock dall’elevato mood settantiano, perfetta chiusura dell’album.
Detto del buon lavoro delle sei corde e di una sezione ritmica che non sfigura, con una prestazione che segue le varie anime del disco con tecnica e gusto, non mi rimane che consigliare l’ascolto ai rockers di provata esperienza, l’album merita, composto da buone songs, ma dubito che farà proseliti nei metallari più giovani, anche se il senso di operazione nostalgia è da trovare altrove, non certo in Sarasin.

TRACKLIST
1. The Hammer
2. Enemy Within
3. In Our Image
4. Now
5. Soul in Vain
6. Sinkhole 7.
Live to See the Glory
8. Forevermore
9. Wake Up

LINE-UP
Les Wheeler – Bass
Roger Banks – Drums
Jim Leach – Guitars
Greg Boileau – Guitars
Mike Wilson – Vocals

SARASIN – Facebook

Throne Of Heresy – Antioch

Un album compatto con molti momenti sprizzanti grande musica estrema e nessun calo in tutti i suoi quaranta minuti di durata

Il Death Metal è un genere affascinante, da quando più di vent’anni fa le orde di truppe assatanate invasero il mondo scendendo in parte dal nord europa e per l’altra metà, attraversando l’oceano, in viaggio dal nuovo continente, il genere si è sviluppato in una miriade di ramificazioni, tutte portando in se realtà entusiasmanti.

Certo, come in tutti gli altri generi che compongono il variegato mondo metallico, anche il death ha visto band qualitativamente parlando mediocri, ma il trend rimane molto alto, soprattutto quando incipt viene dall’old school e dalla famigerata scena scandinava.
Il gruppo di Linköping (Svezia) è l’esempio lampante di come il genere produca continuamente gruppi di notevole spessore, ed il loro Antioch ribadisce l’ottima salute che gode il death metal scandinavo in questi anni, ritornato nell’underground, dopo i fasti degli anni novanta, ma li dopo essersi leccato le ferito, tornato a far male.
I Throne Of Heresy arrivano, con questa notevole bomba sonora, al secondo lavoro sulla lunga distanza, finalmente con un’etichetta in appoggio, dopo i due lavori autoprodotti, The Stench of Deceit, esordio sulla lunga distanza del 2012 e l’ep Realms of Desecration di tre anni fa.
Antioch non fa prigionieri, un assalto scandinavian death agguerrito e furente con piccole dosi letali di black metal scuola Behemoth che, sporcano il sound di nera pece, letale e ma allo stesso tempo melodico nei solos che spiazzano su riffoni pesanti come incudini.
Produzione perfetta, growl che scatena gli istinti più animaleschi ed una raccolta di brani che stritolano, staccano carne a brandelli come investiti da un cingolato, mordono e si accaniscono sui poveri resti come belve demoniache.
Velocità e lenta pesantezza, melodie e aggressività, una discesa senza freni nel death metal, come lo si suona nei freddi paesi su al nord, tecnica invidiabile e songwriting di elevata qualità fanno di Antioch un must per gli amanti del genere, specialmente per i fans della vecchia guardia, abituati a farsi massacrare dalle opere di Hypocrisy, primi Edge Of Sanity, Arch Enemy e compagnia nordica.
Un album compatto con molti momenti sprizzanti grande musica estrema e nessun calo in tutti i suoi quaranta minuti di durata, in poche parole un gigantesca mazzata made in Sweden … What else?

TRACKLIST
1. The God Delusion
2. Serpent Seed
3. Nemesis Rising
4. Flagellum Daemonum
5. Exordium
6. Black Gates of Antioch
7. Blood Sacrifice
8. Phosphorus
9. Souls for the Sepulchre
10. Where Bleak Spirits Pass

LINE-UP
Mathias Westman- Drums
Tomas Göransson- Guitars
Björn Ahlqvist- Bass
Thomas Clifford- Vocals
Michael Edström- Guitars

THRONE OF HERESY – Facebook

An Argency – Through Existence

I già ottimi An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.

Se c’è qualcosa che mi mette di buon umore è la constatazione che, in ogni parte del mondo, ci sono sempre dei ragazzi che hanno voglia di esprimersi attraverso un veicolo meraviglioso come la musica.

Se poi questa racchiude la rabbia, l’urgenza, la freschezza e, perché no, anche l’ingenuità di un gruppo di imberbi giovanotti di Minsk, beh, tanto meglio.
Gli An Argency ti spiazzano fin dalle foto promozionali: se ascolti il loro disco senza conoscerne le sembianze pensi di imbatterti in rudi e cattivissimi esseri barbuti e capelluti, pronti a sfasciare qualsiasi locale in cui abbiano suonato per vendicarsi della scarsa quantità di birre messe a loro disposizione.
Ma, come ben sappiamo, l’abito non fa il monaco, ed il volto pulito dei nostri è ingannevole quanto mai, infatti Through Existence è una mazzata assestata tra capo e collo dalla quale ci si riprende a fatica: collocabile da qualche parte a cavallo tra Fear Factory e Meshuggah, volendo citare i nomi più noti, senza dimenticare il lato più estremo di band geniali quanto misconosciute come Xanthochroid e Mechina, il sound degli An Argency non fa sconti ed in mezz’ora rielabora e scarica tutto ciò che di spiacevole i ragazzi bielorussi hanno evidentemente già fatto tempo ad assimilare nella loro ancor breve esistenza.
Una durata giusta, anche se apparentemente breve, perché le tracce sono tutte intense quanto “piene” e l’ascolto di sicuro non rivela agevole; si diceva delle poche ingenuità, che possiamo individuare in qualche passaggio leggermente manieristico a base di metalcore tout court o qualcun altro in cui una certa anima djent prende il sopravvento, facendo calare un’intensità che, nella stragrande maggioranza della durata del lavoro, si mantiene a livelli spasmodici, con picchi rinvenibili nel singolo An Empty Shell, nella eccellente Condemned e nella conclusiva Torturer.
Sorpresa tra le più belle degli ultimi tempi, gli An Argency hanno naturalmente ancora degli enormi margini di miglioramento, specie se dovessero spostare maggiormente gli equilibri a favore della componente sinfonica rispetto a quella djent-core.
L’album è reperibile per ora sulle più note piattaforme digitali, ma direi che la band bielorussa è già ampiamente pronta per finire sotto l’egida di qualche label che abbia voglia di puntare ad occhi chiusi su gioventù, freschezza e talento da vendere.

Tracklist:
1.Above The Ashes
2.Torturer
3.An Empty Shell
4.False Recognitions
5.Condemned
6.Sheltered
7.A Place To Rest
8.My Solace
9.The Final Conclusion
10.Torturer

Line-up:
Vitaut Kashkurevich – Guitar
Ilya Miroshnichenko – Vocals
Zhenya Buyak – Guitar
Dmitry Romanenko – Drum
Roman Voronkevich – Bass

AN ARGENCY – Facebook

Funeral Mantra – Afterglow

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.

Avevamo parlato molto bene un paio di anni fa di questa band romana, in occasione del loro primo demo autoprodotto, un esordio composto da quattro brani inediti, dopo qualche anno di gavetta come cover band.

Tornano con un contratto per la Sliptrick Records! ed il primo full length i Funeral Mantra, così che il loro sound possa finalmente esplodere e travolgere con l’inferno di lava doom/stoner contenuto nelle tracce di questo ottimo Afterglow.
Prodotto da Luciano Chessa, già al lavoro con i fenomenali Helligators, La Menade e i Graal, l’album conferma le ottime impressioni avute all’ascolto del passato demo, ora la band risulta davvero una pericolosa macchina da guerra doom/stoner, migliorando molto in personalità e lanciando sul mercato un potentissimo esempio di musica sabbatica, desertica e stonata.
Che il genere sia questo, prendere o lasciare, non fa una piega, è come lo si suona che fa la differenza e la band romana, senza tanti giri di parole spacca che è un piacere, limitando di molto divagazioni psichedeliche e jam acide care a molti gruppi di stoner classico, ed elargendo potentissime bordate di doom settantiano, hard rock e groove come se piovesse.
La prova sopra le righe del vocalist Dude, una via di mezzo tra un orso ferito e Zakk Wylde e l’ottimo songwriting, confermano che siamo davanti ad un gruppo notevole, nel genere uno dei migliori dell’underground dello stivale.
Riff che potrebbero essere usati per demolire palazzi in disuso, solos giunti fino a noi dai lontani anni settanta, ritmiche colme di sano groove stoner, fanno di Afterglow un lavoro annichilente per impatto ed affascinante nelle atmosfere, che mantengono inalterata la coltre di nebbia portata dal vento, che si insinua nella nostra stanza direttamente da cerimonie sabbatiche dove viene rievocato il gotha del genere mondiale, gruppi in cui ci siamo imbattuti negli ultimi quarant’anni di musica rock.
Detto che le quattro tracce presenti sul demo fanno bella mostra di se anche su Afterglow ( arrembante Parsec, monolitica Funeral Mantra, varia e dal gusto alternative Gravestones Reveries, una botta alla Black Label Society, Drifting) le altre sei composizioni arricchiscono il mondo Funeral Mantra di songs trascinanti, irresistibili nel loro coniugare un genere tosto e senza compromessi, come quello suonato, ad un immediato appeal tra i brani e con l’ascoltatore, grazie alla fruibilità e alla freschezza di brani dal notevole carisma come Dimensions Onward, l’irresistibile e ritmata In These Day, la muscolosa Brainlost, tranciata a metà da una frenata e da un assolo creato per sconvolgere, e la titletrack, chiusura psichedelica di un album debordante.
Per chi non conoscesse il gruppo capitolino e vuole i soliti nomi di riferimento, allora avvicinatevi senza indugi a questo lavoro, perché al suo interno ci troverete Black Label Society, Black Sabbath, dirigibili zeppeliniani, Grand Magus, Cathedral, Kyuss e Pentagram; mi fermo qui e vi invito a far vostro questo Afterglow, non lo toglierete dal lettore per tanto, tanto tempo.

TRACKLIST
1. Soulstice
2. Dimension Onward
3. Gravestone Reveries
4. Brainlost
5. In These Eyes
6. Funeral Mantra
7. Parsec
8. Counterfeit Soul
9. Drifting
10. Afterglow

LINE-UP
Vikk- Bass
Richard- Guitars
Randy- Guitars
Simone “Dude”- Vocals
Marco “Karonte”- Drums

FUNERAL MANTRA – facebook

Eleventh Hour – Memory of a Lifetime Journey

Non rimane che fare i complimenti all’ennesima band sopra le righe, che si affaccia sulla scena con un album assolutamente da non perdere se siete amanti del metallo più nobile ed elegante.

Negli ultimi tempi la scena prog/power metal nazionale ha regalato grosse soddisfazioni agli amanti di queste sonorità, le opere di valore uscite a ripetizione sul mercato cominciano ad essere una piacevole abitudine ed il debutto degli Eleventh Hour non fa che confermare il momento d’oro della scena.

Capitanati dal chitarrista Aldo Turini e con al microfono Alessandro Del Vecchio (Hardline, Revolution Saints, Edge Of Forever) il gruppo debutta con la benedizione della Bakerteam, con questo ennesimo ottimo esempio di prog/power metal dal titolo Memory of a Lifetime Journey, elegante e raffinato prodotto che non sfigura certo in compagnia delle spettacolari uscite di questi mesi.
La band alterna sapientemente ottimo metallo regale a splendide orchestrazioni, mai troppo bombastiche ma assolutamente eleganti, i tasti d’avorio ricamano di raffinate melodie le cavalcate metalliche che il gruppo non fa mancare, senza perdere un briciolo di nobiltà, così da consolidare la tradizione nazionale nel genere, pur avvicinandosi al metal nord europeo.
Le atmosfere hanno la massima importanza nel sound degli Eleventh Hour e l’album risulta un saliscendi tra l’elettrizzante metal dall’anima progressive e le bellissime parti dove il piano e la voce regalano momenti di musica drammaticamente suadente.
Ottima la prova del tastierista Alberto Sonzogni, che orchestra con maestria le parti più sinfoniche e sa far parlare il suo piano con delicate armonie sulle struggenti Back To You e Sleeping In My Dreams, cuore raffinato di questo lavoro.
Non mancano le fughe sui tasti d’avorio, specialmente nella seconda parte del lavoro, più sinfoniche rispetto alla partenza e più vicine al power metal( Long Road Home e Requiem For A Prison) dove gli Eleventh Hour lasciano le briglie del sound in un susseguirsi di esplosioni metalliche ed arrangiamenti sinfonici dal mood cinematografico.
La sezione ritmica cavalca il purosangue metallico spingendo oltremodo ( Black Jin al basso e Luca Mazzucconi alle pelli), mentre Turini mette ai ferri corti la sua chitarra, in un tripudio power metal progressivo di elevata qualità.
Detto di un Del Vecchio che conferma tutto il suo talento, non rimane che fare i complimenti all’ennesima band sopra le righe, che si affaccia sulla scena con un album assolutamente da non perdere se siete amanti del metallo più nobile ed elegante.
Il 2016 inizia col botto, opere come Memory of a Lifetime Journey ed il superbo Storm del progetto Odyssea (dove appare come ospite il buon Del Vecchio), fanno sperare in un altro anno d’oro per il genere, noi non possiamo che ribadire il nostro supporto e apprezzamento.

TRACKLIST
1. Sunshine’s Not Too Far (Intro)
2. All I Left Behind
3. Jerusalem
4. Back To You
5. Sleeping In My Dreams
6. Long Road Home
7. Requiem From A Prison
8. Island In The Sun
9. After All We’ve Been Missing
10. Here Alone

LINE-UP
Alessandro Del Vecchio- Vocals
Aldo Turini-Guitars
Alberto Sonzogni-Keyboards
Black Jin-Electric and fretless Bass –
Luca Mazzucconi-Drums

ELEVENTH HOUR – Facebook

Lumen Oceani – Errabundus Eram Regno Tenebrarum

Errabundus Eram Regno Tenebrarum è un ottimo disco che, come detto, spinge all’estremo la componente liturgica del funeral senza apparire mai stucchevole, andando a toccare i tasti giusti dell’emotività con un sound più consolatorio che minaccioso

La costante ricerca di novità in campo funeral doom oggi ci porta a conoscere i Lumen Oceani.

Abbiamo già visto quanto un sottogenere, che già di per sé è assolutamente peculiare, possa mostrare a sua volta tante sfaccettature. Così, pure nella sua frangia più melodica, il sound può essere condotto da linee chitarristiche strappalacrime oppure da tastiere solenni e dai toni liturgici.
Proprio in quest’ultima sfumatura stilistica sono collocabili gli svedesi Lumen Oceani, band che come da copione non offre altri appigli descrittivi se non la propria musica, non essendo reperibile alcun accenno biografico sia su Facebook sia sul Bandcamp.
Poco male, come sempre, quando sono appunto le note ad occupare tutti gli spazi, riempiendo gli spazi di suoni lugubri e solenni e trasportando l’ascoltatore al’interno di un virtuale luogo sacro dove l’organo, parti corali e tutto ciò che è strettamente connesso alla ritualità ecclesiastica, ammantano l’aere con linee melodiche ineluttabilmente oscure.
Dei tre lunghi brani sono soprattutto il primo e l’ultimo a spiccare per qualità ed intensità: Die clamavi et nocte coram te prende avvio mostrando le profonde stimmate dei maestri Skepticism, e non può che esser un bell’incedere quello proposto dai Lumen Oceani, visto che l’altro influsso stilistico evidente sono gli Ea, specie quando nelle composizioni scema la solennità a favore della melodia.
Caratteristica, questa, che è appunto più evidente nella conclusiva Panis Vitae, altra traccia notevole a suggello della bellezza di un lavoro che nei suoi cinquanta minuti brilla un po’ meno solo in occasione del brano centrale Caverna, più cupo ma meno evocativo rispetto al resto.
Errabundus Eram Regno Tenebrarum è un ottimo disco che, come detto, spinge all’estremo la componente liturgica del funeral senza apparire mai stucchevole, andando a toccare i tasti giusti dell’emotività con un sound più consolatorio che minaccioso.

Tracklist
I. Die clamavi et nocte coram te
II. Caverna
III. Panis vitae

LUMEN OCEANI – Facebook

From The Vastland – Blackhearts

Quindici minuti di musica sono pochi, ma i tre brani si fanno apprezzare per l’ottima produzione, qualche buon inserto sinfonico ed un mood convincente.

I From The Vastland sono la creatura del polistrumentista Sina, musicista iraniano trapiantato in Norvegia, paese dal quale la sua musica trae ispirazione.

Siamo infatti nel black metal influenzato dalla scena scandinava, con tutti i cliché del genere, quindi sfuriate metalliche, ritmiche portate dal vento del nord, screaming feroce ed un’aura epica.
Blackhearts è l’ultimo lavoro in versione mini cd, composto da tre brani e vede come ospiti Vyl (Keep Of Kalessin, Gorgoroth) alle pelli e Tjalve (1349) al basso, ma scavando nell’antro infernale da dove proviene il buon Sina troviamo tre full length già licenziati tra il 2011 ed il 2014 (Darkness vs. Light, the Perpetual Battle, Kamarikan e Temple of Daevas).
Concettualmente il musicista trae ispirazione dalla cultura persiana e mesopotamica, perciò nessun demone tra i boschi norvegesi o anime perdute in castelli posseduti, mentre il sound molto deve alla scena black nord europea.
Quindici minuti di musica sono pochi, ma i tre brani si fanno apprezzare per l’ottima produzione, qualche buon inserto sinfonico ed un mood convincente.
L’atmosfera oscura e maligna fa il resto, così che Astoyad, la devastante title track e la più atmosferica Abakhtaran si fanno valere, complice l’ottima tecnica esecutiva di Sina.
Probabilmente siamo davanti al classico lavoro che funge da apripista al prossimo full length, e dall’ascolto di queste songs non possiamo che aspettare con interesse la prossima opera sulla lunga distanza.
Se non conoscete ancora questa one man band, Blackhearts è sicuramente un buon biglietto da visita.

TRACKLIST
1. Astoyhad
2. Blackhearts
3. Abakhtaran

LINE-UP
Sina – Composer, Guitars, Vocals
Vyl- Drums
Tjalve- Bass

FROM THE VASTLAND – Facebook

Septagon – Deadhead Syndicate

Deadhead Syndicate dimostra come il vecchio thrash abbia ancora molte frecce nel proprio arco

Debutto molto interessante per questa nuova band tedesca formata da ex membri dei Lanfear, con il supporto di Markus Becker dietro al microfono, ex vocalist dei Atlantean Kodex protagonisti di uno spumeggiante esempio di thrash metal old school, dalle impressionanti accelerazioni speed, ed una vena progressiva che rendono il loro album un gioiellino di metallo diviso tra potenza e melodia.

Appunto, le melodie sono il punto di forza di Deadhead Syndicate, mai banali, inserite con gusto in un contesto che rimane ad alta gradazione metallica, nobilitando il sound di questa raccolta di songs che alternano sfuriate speed/thrash ad ariose aperture, in un crescendo di scale, riff e solos che, a tratti entusiasmano.
Suonato molto bene, senza forzare la mano sulla mera tecnica, l’album si sviluppa in otto brani più intro, dove il gruppo sfoggia un’invidiabile songwriting, devoto all’US metal, che esce prepotentemente dai solchi di alcune songs dal tono drammatico, tanto caro aldilà dell’oceano, ricamando con esso il thrash metal progressivo, cuore pulsante dell’album.
Markus Becker ci mette del suo nella riuscita dei brani proposti, dotato di una voce splendida, interpreta i sali e scendi sulle montagne russe di Deadhead Syndicate, con grinta, e debordante personalità, mentre i suoi compari ( Markus Ullrich e Stef Binnig-Gollub alle chitarre, Alexander Palma al basso e Jürgen Schrank alle pelli) formano una banda di musicisti dal notevole spessore tecnico.
Tra le varie Revolt Against The Revolution, Ripper, la straordinaria Septagon Conspiracy e la iper tecnica title track, avrete modo di divertirvi, la band non fa nulla per nascondere le proprie influenze, d’altronde il genere è questo, prendere o lasciare, ma le assembla con perizia ed ottimo talento.
Exodus e Forbidden, metallo classico statunitense e accenni al thrash progressivo dei Mekong Delta, sono le ispirazioni maggiori per questa ottima band tedesca, che ruberà il cuore dei thrashers dai gusti raffinati, ma potrebbe piacere anche a chi non sbava per il metal dalla proibita velocità.
Deadhead Syndicate dimostra come il vecchio thrash abbia ancora molte frecce nel proprio arco, un genere che, suonato a questi livelli, non conosce ostacoli.

TRACKLIST
1. Ignite the Apocalypse
2. Revolt Against the Revolution
3. Exit…Gunfire
4. Ripper
5. Septagon Conspiracy
6. Henchman of Darkness
7. Deadhead Syndicate
8. Unwanted Company
9. Secret Silver Panorama Machine

LINE-UP
Markus Becker – vocals
Markus Ullrich – guitars
Stef Binnig-Gollub – guitars
Alexander Palma – bass

SEPTAGON – Facebook

Scolopendra Cingulata – Kuoltuu Kaikin Kohetah

Kuoltuu Kaikin Kohetah è un primo passo positivo e del tutto nella media ma, ovviamente, per riuscire ad emergere dalle più profonde lande ex sovietiche ci vuole un ulteriore e deciso salto di qualità.

Band proveniente dal Kazakistan ma trasferitasi sul suolo russo per incidere il primo Ep, gli Scolopendra Cingulata offrono un poker di brani sufficientemente interessanti.

Pur non sconvolgendo alcuna consuetudine infatti, il gruppo guidato dal vocalist e compositore SS si cimenta in maniera disinvolta con un black metal che si muove all’interno della tradizione, senza disdegnare però buone digressioni atmosferiche.
Meglio i primi due brani, più ispirati ed incisivi in virtù di buone linee melodiche ben rimarcate dal lavoro chitarristico , mentre la coppia successiva, puntando maggiormente su un impatto di matrice raw, risulta meno efficace.
Kuoltuu Kaikin Kohetah è un primo passo positivo e del tutto nella media ma, ovviamente, per riuscire ad emergere dalle più profonde lande ex sovietiche ci vuole un ulteriore e deciso salto di qualità.

Tracklist:
1. Помрут – Все Хорошими Станут
2. Ветер Войны
3. Шакалы
4. Меч Смерти Клеймор

Line-up:
SS – Vocals, Lyrics, Songwriting
Waah – Bass
Aske – Drums, Songwriting
Alatar – Guitars
Otis – Guitars
Hulluenkeli – Keyboards

SCOLOPENDRA CINGULATA – Facebook

Thrashfire – Vengeance Of Fire

Nuovo ep per i turchi Thrashfire, freschi di firma con la Xtreem music, che propongono una versione violenta e speed del thrash.

Tornano, dopo la firma con la Xtreem Music, i turchi Thrashfire con questo ep di sei brani composto da quattro inediti e da due tracce risalenti al primo demo, originariamente uscito nel 2007.

Il trio di Ankara, attivo da una decina d’anni, è al secondo mini cd, ed ha nel suo curriculum un full length datato 2011 (Thrash Burned the Hell) e la sua proposta risulta, come da ragione sociale, un speedo thrash violento e old school.
Vicino come proposta al genere di tradizione tedesca (Kreator, Sodom, Destruction), questo nuovo mini cd è un assalto senza compromessi, puro metallo ignorante e senza fronzoli, veloce, sguaiato e dalle ritmiche forsennate.
Voce cattivissima e cartavetrata e tanta attitudine old school che esce prepotentemente dai solchi delle varie Vengeance of Fire, Thrash Assassinations of Rotten Streets (violentissima) e Chainsaw Metal.
Da notare come, all’ascolto delle songs estratte dal demo, la proposta del gruppo non si sia spostata di una virgola, tanto da non credere di essere al cospetto di brani con più di dieci anni sul groppone.
Speed/thrash violentissimo, classico prodotto consigliato solo ai fans incalliti del genere, con un approccio da prendere o lasciare che non lascia dubbi sulle intenzioni del gruppo turco, suonare il più veloce e devastante possibile.

TRACKLIST
1. (Intro) Back to Ritual
2. Vengeance of Fire
3. Thrash Assassinations of Rotten Streets
4. Chainsaw Metal
5. Silent Torture (Demo) *
6. Kill the Fake God (Demo) *

LINE-UP
Okan Özden – Bass, Vocals (backing)
Oktay Fıstık – Drums
Burak Tavus – Guitars, Vocals

THRASHFIRE – Facebook

Sleepy Hollow – Tales Of Gods And Monsters

Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, ottimo esempio di US metal old school amalgamato a sonorità classic doom, epico, fiero e declamatorio

Tornano i veterani Sleepy Hollow con questo nuovo album a distanza di quattro anni dal ritorno sulle scene del 2012 con Skull 13, lavoro che spezzava un silenzio lungo più di vent’anni dall’esordio omonimo datato 1991, interrotto solo da una compilation nel 2002.

Attiva dalla fine del decennio ottantiano la band del New Jersey, purtroppo poco prolifica, ha trovato in questi anni un minimo di costanza nelle proprie uscite e Tales Of Gods And Monsters, licenziato dalla Pure Steel, può così infiammare i true metallers dall’anima epic doom.
Il nuovo lavoro continua la tradizione musicale del gruppo statunitense, un ottimo esempio di US metal old school, amalgamato a sonorità classic doom, epico e declamatorio, fiero, drammatico e molto coinvolgente.
Una cinquantina di minuti persi nelle atmosfere epiche di brani, che dall’opener Black Horse Named Death non cedono un’oncia in tensione, pressanti nel loro andamento cadenzato, valorizzati da un’ottima prova del vocalist Chapel Stormcrow e da linee melodiche perfettamente incastonate nel sound nato nella vorace bocca di un vulcano in eruzione.
Le tastiere, specialmente nei primi brani, più orientati al metal classico, fungono da tappeto sonoro, su cui il gruppo costruisce il suo pesantissimo sound (Sons Of Osiris), mentre nella seconda parte, l’aria si fa ancora più pressante, i ritmi rallentano ed esce, pesante ed epico lo spirito doom del gruppo, valorizzato da songs tragiche e declamatorie che alzano non poco la qualità dell’opera.
On Blackened Seas, Baphomet e la conclusiva Shadowlands, sono perle di musica del destino dai rimandi classici, il gruppo è maestro nel far convivere US metal con il sound monolitico e pesante delle band doom europee come i Candlemass ed i Count Raven, ricamate dalle ottime melodie create dalla sei corde di Steve Stegg.
Animato da una sezione ritmica compatta e, a tratti, debordante (Rich Fuester al basso e Allan Smith alle pelli), Tales Of Gods And Monsters risulta un album riuscito in toto ed un ottimo ritorno per gli Sleepy Hollow, unauna band ritrovata per gli amanti del genere.

TRACKLIST
1. Black Horse Named Death
2. Sons Of Osiris
3. Alone In the Dark
4. Bound By Blood
5. Goddess Of Fire
6. On Blackened Seas
7. Baphomet
8. Creation Abomination
9. Shapeshifter
10. Time Traveller
11. Shadowlands

LINE-UP
Chapel Stormcrow – vocals
Rich Fuester – bass
Allan Smith – drums
Steve Stegg – guitars

SLEEPY HOLLOW – Facebook

Imber Luminis – Veiled

Ennesimo progetto del multiforme Déhà, Imber luminis è quello che per caratteristiche maggiormente si avvicina al depressive metal.

Ennesimo progetto del multiforme Déhà, Imber Luminis è quello che per caratteristiche maggiormente si avvicina al depressive metal.

Questo anche perché, in aggiunta a sonorità melodiche e mai spinte all’estremo, troviamo una prestazione vocale contraddistinta dallo screaming disperato tipico del genere, prestato per l’occasione da Daniel Neagoe, storico sodale del nostro,.
Il breve EP in questione consta di due brani in cui confluiscono diversi influssi che l’eclettico musicista belga riesce a modellare, come sempre, a suo piacimento e il risultato, manco a dirlo, è poco più di un quarto d’ora di splendida e dolorosa musica.
Se Veiled Part I, talvolta, appare una sorta di versione DSBM dei Cure di Disintegration, Veiled Part II va a lambire, a modo suo, il tipico andamento indolente dei Type 0 Negative di October Rust. In quest’ultima traccia l’urlo disperato trova, poi, un suo contraltare sia in un profondo growl, sia in suadenti clean vocals.
Déhà non finisce mai di sorprendere anche chi, come me, ne segue da tempo le diverse incarnazioni, e convince ancora una volte rifuggendo soluzioni arzigogolate, andando invece dritto al cuore dell’ascoltatore.
Non resta che ringraziarlo per questo supportandone l’intero operato con la massima convinzione.

Tracklist
1. Veiled – Part I
2. Veiled – Part II

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals
Daniel Neagoe – Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Arcana 13 – Danza Macabra

Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

Ambizioso e riuscito tentativo di coniugare l’horror di Fulci ed Argento alla musica occulta degli anni settanta. Otto tracce ispirate da otto film diversi per portarci in uno spazio ed in un tempo diversi.

Gli Arcana 13 sono al debutto ma i componenti del gruppo sono dei capitani di lunga ventura, Simone Bertozzi ha suonato e scritto per i Mnemic, Andrea Burdisso è il cantante dei grandissimi Void Of Sleep, Filippo Petrini ha suonato con gli Stoned Machine e Luigi Tarone è un batterista da più di venti anni e si sente. Il suono degli Arcana 13 è molto piacevole e variegato, anche se si muove principalmente nell’ambito del rock anni settanta, lato doom in quota Pentagram e, ovviamente, con riferimenti sabbatiani. Questi musicisti sanno suonare, ma soprattutto hanno gusto e riescono nella difficile missione di musicare un certo immaginario horror, che negli ultimi anni è stato in parte dimenticato. Tutto funziona, a partire dalla copertina di Enzo Sciotti che ha dipinto locandine di Fulci, Argento e Bava, ovvero la triade ispiratrice degli Arcana 13.
Il disco è bello ed è composto e suonato molto bene, rendendo ottimamente atmosfere che gli appassionati dell’horror, specialmente italiano, amano particolarmente.

TRACKLIST
1. Dread Ritual
2. ArcaneXIII
3. Land of Revenge
4. Oblivion Mushroom
5. Suspiria (Goblin cover)
6. Blackmaster
7. The Holy Cult of Suicide
8. Hell Behind You

LINE-UP
S.Bertozzi – Vocals, Guitar
A.Burdisso – Vocals, Guitar
F.Petrini – Bass
L.Taroni – Drums

ARCANA XIII – Facebook

Anthrax – For All Kings

For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.

Spreading the Disease, Among the Living, Persistence of Time, basterebbero questi tre album per spiegare l’importanza degli Anthrax, una dei gruppi fondamentali, non solo per lo sviluppo del thrash metal, ma di tutto il mondo metallico.

Il gruppo di Scott Ian torna in questo inizio 2016 con un nuovo lavoro, For All Kings, che segue di cinque anni l’altalenante Worship Music, confermando la ritrovata verve dei gruppi storici del metal mondiale, prima gli Iron Maiden, poi gli Slayer e, infine, i Megadeth.
Detto che l’ex Shadows Fall Jon Donais ha preso il posto alla sei corde del buon John Caggiano, passato nei danesi Volbeat, e che al microfono si conferma il ritorno di un Joey Belladonna a mio parere mai così convincente, l’album, è bene chiarirlo, deluderà i fans della prima ora, quelli ancorati al thrash metal old school dei gloriosi anni ottanta.
Bisogna dirlo perché la band, pur scaricando volumi spropositati di metallo incendiario, ha da parecchi anni allargato i suoi orizzonti musicali, lasciando che molte soluzioni moderne e hard rock, entrassero prepotentemente nel propio songwriting, già da quel capolavoro che fu Sound of White Noise, album del 1993 che vedeva al microfono l’ex Armored Saints John Bush.
Se si parte da questa importantissima considerazione, allora For All Kings si rivela un lavoro più che semplicemente riuscito, grazie ad ottime canzoni, soluzioni armoniche geniali ed ottime cavalcate ritmiche, serrate e dal mood punk come tradizione del gruppo americano.
Tanta melodia dunque, che si alterna a sfuriate ritmiche serrate, tenute con forza da musicisti dall’esperienza e dalla bravura nota a tutti, a tratti rese irresistibili da chorus di elevata qualità e violentate dal lavoro preciso della coppia d’asce Ian/Donais.
La band, sensibile da sempre alle vicende politiche e sociali, non si risparmia nel dire la sua sulle vicende parigine e sull’attentato a Charlie Hebdo in Evil Twin, mentre il thrash metal fa a spintoni con un approccio più moderno al genere trascinando l’ascoltatore nel mondo Anthrax,  mai come ora meno ancorato ai soliti cliché ed in fondo molto più maturo.
Blood Eagle Wings potrebbe fungere da sunto alla proposta odierna degli Anthrax, un thrash metal che varia e si rigenera tra velocità ed irruenza ed aperture melodiche più ampie; il groove che affiora nelle parti potenti e cadenzate, danno a For All Kings quell’impronta attuale che rende fresco il sound (Defend Avenge) e l’impressione di essere al cospetto di un gruppo attuale è più forte di quello che affiora davanti ad opere imbolsite di tanti loro colleghi sopravvissuti a trent’anni di storia metallica.
L’oscura epicità di All Of Them Thieves, la spettacolare This Battle Chose Us e lo speed metal sparato ed ironico di Zero Tolerance, che torna (questa sì) al sound di Persistence Of Time, chiudono il lavoro, che ha una coda nel riproporre una manciata di brani live, tra cui la storica Caught In A Mosh, mettendo la parola fine al ritorno di questa seminale band che non ne vuol sapere di andare in pensione, dispensando ancora, dopo tanti anni, buona musica metal.
Promossi? Direi proprio di sì, ampiamente.

TRACKLIST
01. You gotta believe
02. Monster at the end
03. For all kings
04. Breathing lightning
05. Suzerain
06. Evil twin
07. Blood eagle wings
08. Defend Avenge
09. All of them thieves
10. This battle chose us
11. Zero tolerance
12. Fight’em all ‘til you can’t (live)
13. A.I.R. (live)
14. Caught in a mosh (live)
15. Madhouse (live)

LINE-UP
Scott Ian Guitars – Vocals
Charlie Benante Drums – Percussion
Frank Bello – Bass
Joey Belladonna – Vocals
Jonathan Donais – Guitars (lead)

ANTHRAX – Facebook

Hatecrowned – Newborn Serpent

Ottimo lavoro peri blacksters Hatecrowned, provenienti da una terra non abituale per il genere come il Libano.

Deserto nord africano: sorpresi nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, i due ragazzi si rifugiano in un’antica cripta sommersa dal mare desertico e scoperta per caso.

Al riparo dal vento caldo del deserto, ed incuriositi da strani segni sulle pareti, i due, al chiarore di una torcia si avventurano tra gli stretti corridoi scavati da migliaia di anni e trovata un’apertura che porta ad una stanza addobbata come un’antica tomba, si addormentano vicini a quella che sembra una lapide.
Il pavimento intorno a loro comincia a muoversi, lento e sinuoso come un mortale serpente demoniaco, è la fine, i loro corpi stritolati tra le spire del rettile non troveranno più la luce, così come le loro anime scaraventate nel più buio antro infernale.
La colonna sonora di questo incubo è Newborn Serpent, primo bellissimo parto estremo degli Hatecrowned, duo libanese protagonista di un black metal satanico e misantropico, violentissimo, ma molto affascinante e suggestivo.
I due arrivano arriva al debutto su lunga distanza dopo il primo lavoro in versione ep, uscito nel 2013 (Warpact in Black) e tramite la Satanath Records licenzia questo oscuro e devastante lavoro.
Ayvaal (voce) e Dahaaka (chitarre e tastiere) sono aiutati in questo viaggio verso l’oscurità, tra le mortali spire del serpente, da Benjamin “GoreDrummer” Lauritsen alle pelli ed Eddy Ferekh al basso, una sezione ritmica da apocalisse, mentre i due demoni mediorientali compiono atrocità e blasfemie, il primo con uno scream molto evil, ed il secondo tra riff e tappeti di keys che puzzano di putridi antri di piramidi dimenticate dal tempo, dove covate di demoni malefici si nutrono delle anime dannate.
Ottime e suggestive le devastanti trame sonore che compongono brani neri e maligni come For Scum Thou Art, and unto Scum Shalt Thou Return, Redefining Purgatory e la clamorosa title track, un inno alle nefandezze del maligno, tremenda colonna sonora di morte e disperazione.
Ottimo lavoro dunque, proveniente da terre non abituali per il metal estremo così da risultare ancor più affascinante.

TRACKLIST
1. Ominous Birth of Serpent
2. For Scum Thou Art, and unto Scum Shalt Thou Return
3. Infest and Conquer
4. Coronation of the Eternal and Pure
5. Void
6. Redefining Purgatory
7. Newborn Serpent
8. Cave of Salvation
9. Funeral Reverie
10. Wolves

LINE-UP
Ayvaal – Vocals
Dahaaka – Guitars and Keyboards

Benjamin “GoreDrummer” Lauritsen- Drums.
Eddy Ferekh – Bass Guitar

HATECROWNED – Facebook

A Soul Called Perdition – Into The Formless Dawn

Qualcuno taccerà questo album come opera poco originale, fate spallucce e lasciatevi travolgere dalle note marchiate a fuoco di Into The Formless Dawn: lunga vita al melodic death metal scandinavo.

A distanza di di molti anni il melodic death metal scandinavo, dopo il successo negli anni novanta, continua a regalare nell’underground ottime realtà che portano avanti la tradizione del genere nel segno del più puro sound creato dai gruppi storici della fredda penisola su a nord.

Il death metal, melodicizzato da sfumature heavy è stato in parte tradito da quei gruppi che lo hanno portato alla ribalta della scena metal mondiale, troppi occhi ed orecchie puntate ad occidente e precisamente negli states, dove il genere è stato imbastardito e violentato da elementi moderni, così da guadagnare in vendite, ma perdere molto del proprio fascino.
Per primi gli In Flames, seguiti da altre bands nel corso degli anni hanno sempre più lasciato le sonorità classiche, colpevoli di ammorbidire la parte estrema, per un approccio moderno e core, così che, specialmente i gruppi nati in seguito, pur con ottimi album alle spalle, si sono dovuti accontentare del mercato underground.
Poco male se le proposte che arrivano a chi cerca di portare all’attenzione dei fans il sottobosco metallico internazionale, giudicando la musica per quello che è, senza guardare alla moda del momento.
La one man band A Soul Called Perdition, monicker che nasconde le imprese musicali di Tuomas Kuusinen, musicista finlandese all’esordio discografico autoprodotto, fa parte di quelle realtà che, uscite tra il ’94 ed il ’98 avrebbe fatto sprecare inchiostro a molti scribacchini dei giornali cool dell’epoca, che, non dimentichiamolo, allora non perdevano occasione per incensare qualsiasi gruppo death metal solo leggermente più melodico del normale, parlando, a volte a sproposito, di nuovi In Flames, Dark Tranquillity o Amorphis.
Dunque questo lavoro che, per inciso, risulta un ottimo esempio di melodic death metal scandinavo, dove il buon Tuomas suona tutti gli strumenti e se lo è pure prodotto e mixato, farà sicuramente la gioia degli amanti del suono anni novanta, essendo un concentrato di metal estremo travolto da melodie chitarristiche di stampo heavy, dove cavalcate death metal veloci ed ispirate, si scontrano con aperture melodiche e growl robusto e cattivo il giusto per inchiodarvi alla poltrona.
Otto brani, prodotti benissimo, una mazzata di mezzora che torna a far risplendere il sottogenere estremo che più cuori ha fatto innamorare negli ultimi vent’anni, suonati alla grande da un musicista, compositore e produttore davvero bravo.
Into The Formless Dawn risulta così, un’opera studiata nei minimi dettagli, un esordio davvero riuscito, compatto, aggressivo e melodico, senza forzature e perfettamente bilanciato in tutte le sue componenti.
Woe, Severance, To Those Who Shall Follow, tanto per citare alcune tracce dell’album ( ma l’opera è da godersi per intero, anche perché non rivela cadute di tono) vi riporteranno piacevolmente indietro nel tempo, mentre primi Sentenced, Amorphis, Hypocrisy e gli In Flames non ancora americanizzati, si riconquisteranno un posto nel vostro lettore.
Qualcuno taccerà questo album come opera poco originale, fate spallucce e lasciatevi travolgere dalle note marchiate a fuoco di Into The Formless Dawn: lunga vita al melodic death metal scandinavo.

TRACKLIST
01. Woe
02. There Is No Shelter
03. Into The Formless Dawn
04. Severance
05. Emptiness
06. Immortal, Entwined
07. To Those Who Shall Follow
08. We Walked In The Shadows

LINE-UP
Tuomas Kuusinen – Vocals, Guitars, Bass, additional instruments

A SOUL CALLED PERDITION – Facebook

Draconian – Sovran

Prendiamo in esame l’ultimo album dei Draconian a qualche mese dalla sua uscita, il tempo necessario per elaborare una valutazione meno istintiva e più ragionata, come va fatto per nomi di questo spessore.

La band svedese è stata, ed è ancora, la virtuale portabandiera del gothic doom, titolo conquistato grazie ad una manciata di album magnifici pubblicati nello scorso decennio.
Ma, se già Turning Season Within, ultimo di questi e risalente al 2008, mostrava i primi segni di appannamento, A Rose for the Apocalypse esibiva suoni un po’ troppo leccati ed inoffensivi per pensare di eguagliare quanto fatto in passato.
Dopo diversi anni, la band di Johan Ericson si ripresenta con questo Sovran, disco nel quale la prima cosa che salta all’occhio è l’avvicendamento alla voce femminile, affidata oggi alla sudafricana Heike Langhans in sostituzione della storica Lisa Johansson; nonostante il timbro della nuova vocalist abbia un impronta meno lirica e più ordinaria, a livello di sound i Draconian paiono aver fatto un gradito passo indietro, tornando a sciorinare un gothic doom melodico sì, ma altrettanto cupo e recuperando almeno in parte il proprio trademark romantico e malinconico.
Se non si può che salutare con soddisfazione questa sorta di retromarcia, va anche detto che il livello di intensità che caratterizzava i brani contenuti in Arcane Rain Fell e The Burning Halo non viene comunque eguagliato: i Draconian odierni sono una band che propone in maniera impeccabile il genere musicale che ha contribuito ad elevare ai massimi livelli, ma la perfezione formale finisce alla lunga per sovrastare l’impatto emotivo.
A sprazzi riaffiorano momenti dal grande potenziale evocativo (Dusk Mariner su tutte) ma, nel complesso, sembra proprio che le proprie pulsioni più oscure e drammatiche Ericson le abbia convogliate principalmente nel suo splendido progetto funeral/death doom Doom:Vs.
Intendiamoci, Sovran è un album di buonissimo livello che non potrà deludere chi ama questo tipo di sonorità, rafforzato da una tracklist che non presenta momenti deboli ma neppure picchi degni di farsi ricordare negli anni a venire e, alla fine, proprio quest’ultimo aspetto costituisce la vera pecca, tanto più quando la band che ne è protagonista si chiama Draconian.

Tracklist
1. Heavy Lies the Crown
2. The Wretched Tide
3. Pale Tortured Blue
4. Stellar Tombs
5. No Lonelier Star
6. Dusk Mariner
7. Dishearten
8. Rivers Between Us
9. The Marriage of Attaris
10. With Love and Defiance

Line-up:
Johan Ericson – Guitars
Anders Jacobsson – Vocals
Jerry Torstensson – Drums
Daniel Arvidsson – Guitars
Fredrik Johansson – Bass
Heike Langhans – Vocals

DRACONIAN – Facebook