Gaijin – Gaijin

Ottima partenza e piccolo assaggio delle capacità del gruppo Indiano, che potrebbe riservare grosse soddisfazioni agli amanti del genere, specialmente per quelli che seguono le vicende musicali del metallico paese asiatico.

Mumbai, tra i meandri della megalopoli indiana si aggirano entità che si nutrono di metal estremo che, sempre più voraci, crescono a dismisura, invadendo, come un virus il mercato underground metallico, quello più violento ed estremista.

I Gaijin fanno parte di questa covata malefica, ed arrivano anche loro, dopo un’onorata gavetta al primo parto discografico, sotto forma di un ottimo ep di tre brani roboanti, veloci e tecnicissimi.
Un metal estremo che travolge a colpi di technical death metal, dalle indubbie risorse, suonato dannatamente bene e neanche troppo cervellotico.
Il quintetto ha stoffa da vendere e lo dimostra subito, completando l’ep con un brano in chiusura strumentale (Anamnesis) roba da band navigata, non certo da pischelli al primo vagito discografico.
Labirinti ed intrecci chitarristici( Jay Pardhy e Vinit Jani, davvero bravi con le sei corde), evidenziano una personalità debordante, il sound, strutturato su devastanti prove di forza della sezione ritmica(Karan Oberoi al basso e Ajit Singh al drumkit) che, non contenta, arricchisce la sua prova con fenomenali cambi di tempo ed elergisce potenza ed un mood progressivo che coccia con il growl brutale del buon Malcolm Soans.
Dead Planet e Meiosis accentuano il vortice in cui il gruppo asiatico ci scaraventa, siamo nel death metal tecnico, quindi niente smancerie e via per scale e solos virtuosissimi, lasciando che le influenze o meglio, le ispirazioni(Obscura, Cynic e Cannibal Corpse), escano dai solchi dell’album in tutta la loro inesauribile potenza.
Ottima partenza e piccolo assaggio delle capacità del gruppo Indiano, che potrebbe riservare grosse soddisfazioni agli amanti del genere, specialmente per quelli che seguono le vicende musicali del metallico paese asiatico.

TRACKLIST
1. Dead Planet
2. Meiosis
3. Anamnesis

LINE-UP
Malcolm Soans – Vocals
Vinit Jani – Guitar
Jay Pardhy – Guitar
Karan Oberoi – Bass
Ajit Singh – Drums

GAIJIN – Facebook

Heathen Beast – Trident

Benissimo ha fatto la Transcending Obscurity a prendersi cura della distribuzione di questa compilation che riassume il lavoro di un grande gruppo.

L’India è ormai un laboratorio sempre attivo dove nascono creature musicali in tutte le frange metalliche, se si parla di suoni estremi poi c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Death metal, brutal e come in questo caso black, sono i generi dove quella terra lontana, produce ottimi gruppi in abbondante quantità, molto conosciuti nei paesi asiatici, troppo poco considerati in Europa, dove gli amanti della musica dura sono da sempre poco inclini alle novità di casa loro, figuriamoci se si tratta di band fuori dal solito circuito Europa/Stati Uniti.
Gli Heathen Beast sono una band di Calcutta, dopo aver dato alle stampe un tris di mini cd , immettono sul mercato questa compilation dove sono compresi tutti e tre i lavori prodotti, andando a formare un album completo, opera sopra le righe che conferma la qualità della musica estrema prodotta nel loro paese d’origine.
Black metal feroce, ateo come ben sottolineato dalla band, una denuncia contro tutte le religioni, la politica e il livello sociale in cui letteralmente annega il paese Indiano, con la loro città, sorta di megalopoli dove la povertà è ai minimi storici da sempre e la violenza dilaga.
Un inferno, un antro dove l’uomo si divora l’anima e si nutre dei suoi simili, Calcutta esprime il lato peggiore del genere umano, lasciato a se stesso e dove la vita non vale neppure un pasto caldo, le malattie dilaniano corpi e menti e solo pochi riescono a sopravvivere ad una calamità che non ha fine.
La Band tutto questo lo trasporta in musica, elargendo metal estremo di spiccata personalità tra la tradizione black e ottime parti dove la loro cultura esce allo scoperto e si amalgama perfettamente al sound devastante, costruito dal gruppo.
Grandiose le ritmiche di questo lavoro, riprese dalla musica tradizionale(The Carnage Of Godhra) che fanno da tappeto a solos di lancinante black metal rabbioso, ed ottime le parti più in linea con la musica metallica, con uno scream talmente disperato, violento e vissuto da mettere i brividi(Carvaka anche alla sei corde)
Il gruppo il meglio di sé lo dà quando riesce ad uscire dai soliti binari estremi, con questa alleanza tra metal e musica popolare che rende le songs davvero clamorose.
Un lavoro straordinario quello fatto da Mimamsa alle pelli, accompagnato dal basso di Samkhya, mai sentito sinceramente un gruppo black con una varietà così accentuata nelle ritmiche, ed enorme il lavoro del chitarrista/cantante, una belva ferita, un urlo bestiale che trasuda puro odio iconoclasta.
Religious Genocide è disturbante nella sua inumana violenza, Ayodhya Burns è un crescendo tragico dove la chitarra accenna riff classici, violentati dalla voce abrasiva del singer, Gaurav Yatra (The Aftermath) nel suo violento incedere riesce a trasmettere un mood progressivo, mentre le percussioni disegnano ricami di musica orientaleggiante per quasi sette minuti di spettacolare musica metallica.
Benissimo ha fatto la Transcending Obscurity a prendersi cura della distribuzione di questa compilation, che riassume il lavoro di un grande gruppo.

TRACKLIST
1. Blind Faith
2. Religious Genocide
3. Ayodhya Burns
4. Drowning of the Elephant God
5. Contaminating the Ganges
6. Bakras to the Slaughter
7. The Carnage of Godhra
8. Ab Ki Baar Atyachaar
9. Gaurav Yatra (The Aftermath)

LINE-UP
Samkhya Bass
Mimamsa Drums
Carvaka Vocals, Guitars

HEATHEN BEAST – Facebook

Of Spire & Throne – Sanctum in the Light

Ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.

Dopo diversi EP ed un split album, gli scozzesi Of Spire & Throne decidono finalmente di realizzare il loro primo full length, mettendo a serio repentaglio la salute mentale dei loro potenziali ascoltatori con uno sludge/doom al quale la definizione di “pachidermico” va persino un po’ stretta.

Il lato fangoso e caliginoso del genere viene qui portato alle estreme conseguenze ma il tutto, quasi magicamente, nel corso della sua oretta scarsa di durata riesce a non annoiare mai, complice un impatto ruvidamente spontaneo che provocherà al massimo qualche mal di testa dovuto al pesante oscillare della scatola cranica e di tutto il suo nobile contenuto.
Qui ogni nota è ribassata e distorta all’ennesima potenza ma, grazie alla produzione di Chris Fielding e alla masterizzazione di James Plotkin, la resa sonora è perfettamente commisurata agli intenti bellicosi della band di Edimburgo (ovviamente se siete alla ricerca di suoni leccati passate comunque oltre …): tre brani lunghissimi (il quarto, Fathom, è leggermente più breve e dai tratti sperimentali, ma non per questo meno pernicioso), nei quali affiora di tanto in tanto una voce che non fa presagire alcunché di rassicurante, inchiodano l’ascoltatore alla poltrona esibendo senza mediazioni il frutto di anni di escavazioni all’interno degli anfratti più putridi.
In fondo non c’è molto altro da raccontare di quest’opera monolitica, in grado di oscurare in un attimo anche gli scenari più bucolici: ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.
Nel corso di alcuni (presunti) barlumi di lucidità ho pensato che se Lee Dorrian e Gary Jennings non fossero già stati nella fase iniziale del loro trip psichedelico, forse Forest Of Equilibrium avrebbe potuto suonare molto simile a Sanctum in the Light, di sicuro come pesantezza questo lavoro non è da meno, anche se in quel caso si parla sempre e comunque di una pietra miliare del genere: però non è che gli Of Spire & Throne ci vadano poi così lontani, provare per credere ….

Tracklist:
1.Carrier Remain
2.Fathom
3.Upon the Spine
4.Gallery of Masks

Line-up:
Matt Davies – bass, vocals
Ali Lauder – guitar, vocals, bass, synth, harmonium
Graham Stewart – drums, guitar, synth

Guillaume Martin – guitar

OF SPIRE AND THRONE – Facebook

Within Silence – Gallery Of Life

Gallery Of Life di fatto è un buon disco di genere, certo siamo in anni di carestia per il power metal, il disco se fosse uscito una quindicina d’anni fa avrebbe fatto parlare molto di sé, purtroppo di questi tempi certe sonorità hanno perso fascino tra gran parte dei fans e degli addetti ai lavori.

Negli ultimi tempi una pioggia torrenziale di power metal è caduta sulla mia scrivania, grazie sopratutto al gran lavoro della Ulterium Records, etichetta specializzata nel melodic power e nel metal classico, con un buon fiuto per band dalle evidenti potenzialità.

Ed è così che si passa con disinvoltura a descrivere album estremi, tra diavoli e violenza tout court, a gruppi che fanno della religione cristiana lo spunto per i loro testi come i Within Silence.
Poco male, anzi, aver a che fare con i due rovesci della medaglia metallica varia e rende affascinante il lavoro del recensore, che non giudica ma descrive le varie atmosfere e chiaramente la musica contenuta nelle opere che ascolta.
Il gruppo proveniente dalla Slovacchia arriva al debutto con Gallery Of Life, album di arioso e positivo power metal melodico sulla scia dei gruppi scandinavi, dunque niente di nuovo, ma ascoltando il disco ci si trova di fronte una buona band, che prende spunto dalle opere dei vari Stratovarius e Sonata Arctica, per avvicinarsi a tratti agli Hammerfall nei brani tirati e più classici, dove le tastiere lasciano alle chitarre il compito di trascinarci in mezzo ad uragani metallici dalle ottime atmosfere epiche.
Il gruppo ha tutto per non sfigurare nel panorama metallico dalle reminiscenze classiche: un buon cantante (Martin Klein), una coppia d’asce agguerrita (Richard Germanus e Martin Cico) ed una sezione ritmica che cavalca purosangue lanciati in lunghe cavalcate di epico e nobile power metal (Filip Andel al basso e Peter Gacik alle pelli).
E’ pur vero che l’album difetta in personalità, le songs seguono perfettamente i cliché del genere, ma siamo al debutto e se il gruppo perde qualcosa per colpa di un songwriting che segue i binari dove corrono le band storiche, acquista punti per una raccolta di brani prodotti benissimo e ben suonati, melodicissimi e di facile assimilazione.
Ottime The Last Droop Of Doom dove le due asce sono protagoniste di un gran lavoro ai solos e Love Is Blind ed Anger and Sorrow, cavalcate power metal, epiche, veloci e inarrestabili.
Gallery Of Life di fatto è un buon disco di genere, certo siamo in anni di carestia per il power metal, il disco se fosse uscito una quindicina d’anni fa avrebbe fatto parlare molto di sé, purtroppo di questi tempi certe sonorità hanno perso fascino tra gran parte dei fans e degli addetti ai lavori.
Rimane l’underground a scaldare i cuori dei defenders sparsi per il globo…..pugno al cielo e gloria al signore.

TRACKLIST
1. Intro
2. Silent Desire
3. Emptiness of Night
4. Elegy of Doom
5. The Last Drop of Blood
6. Love is Blind
7. Anger and Sorrow
8. Judgement Day
9. The World of Slavery
10. Road to the Paradise
11. Outro

LINE-UP
Martin Klein – Vocals
Richard Germanus – Guitars, Vocals
Martin Cico – Guitars
Filip Andel – Bass
Peter Gacik – Drums

WITHIN SILENCE – Facebook

The Sickening – Sickness Unfold

Sickness Unfold è il classico album da ascoltare come fosse una lunga jam estrema, lasciando che i vari passaggi entrino in noi e ci annodino le budella, prima che il ventre esploda in una cascata di sangue e viscere.

Una band estrema norvegese dal sound americano, questi sono i The Sickening, brutal death metal band al secondo lavoro uscito per la Xtreem Records.

Il trio di Kristiansund sono più di dieci anni che tortura e sevizia senza pietà, eppure la discografia si ferma ad un demo, uscito nel 2007 e a due full length: il primo uscito nel 2009 dal titolo Death Devastation Decay e questo massacro ultra tecnico, al secolo Sickness Unfold.
Mezz’ora di soluzioni tecniche intricate al servizio di un sound, dirompente e vorticoso, lasciano il segno sull’ascoltatore, trascinato in un mondo di morte dal gruppo scandinavo che, come detto, volge lo sguardo alla lontana america, per infarcire il proprio sound di soluzioni che richiamano i Suffocation e i Deeds Of Flesh.
Niente di male, il brutal dei nostri raccoglie ovazioni la dove, le trame del sound si fanno intricate e colme di soluzioni mai troppo banali.
Una furia difficile da tenere a bada, il sound del gruppo vola alla velocità della luce, con prove eccezionali dei musicisti all’opera, che non ne vogliono sapere di rallentare la folle corsa, e si inventano passaggi difficilissime ma assolutamente fluidi.
E qui sta il bello di questo lavoro: il tempo scorre, persi nei labirinti estremi creati dal gruppo, dotato di una tecnica individuale spaventosa ed un talento innato per la forma canzone.
Growl brutale e assassino (Pål “Markspist” Bjerkestrand, anche alla sei corde) e cambi di ritmo a velocità inumana da parte di una sezione ritmica dotata di una bravura che ha del clamoroso (Neeraj Kasbekar al basso e Espen “Beist” Antonsen alle pelli) sono le migliori virtù di questo trio di pazzi, geniali musicisti che strapazzano lo spartito a colpi di metal estremo sopra le righe.
Il classico album da ascoltare come fosse una lunga jam estrema, lasciando che i vari passaggi entrino in noi e ci annodino le budella, prima che il ventre esploda in una cascata di sangue e viscere.
Per gli amanti del genere, un gran bel disco da non farsi mancare nella propria brutale discografia.

TRACKLIST
01. Sickness Unfold
02. Fixed On Killing
03. Unnamed Horror
04. Throat Hole Ejaculation
05. Lord Of Decay
06. A Mind Deranged
07. Powertool Sodomy
08. Suffer For My Pleasure
09. Consumed By Hate
10. Abort (The Fetus) (Vile Cover)

LINE-UP
Pål “Markspist” Bjerkestrand – Voce, chitarra
Neeraj Kasbekar – Basso, voce
Espen “Beist” Antonsen – Batteria

THE SICKENING – Facebook

Ennui – Falsvs Anno Domini

Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del funeral-death doom.

Nuovo album per i georgiani Ennui, da qualche anno alla ribalta nella scena doom con il loro sound di matrice funeral/death doom e dei quali ho avuto il piacere e l’opportunità di seguire il percorso musicale fin dai primi passi corrispondenti con l’album d’esordio Mze Ukunisa del 2012.

A questo punto della loro storia, David Unsaved e Serj Shenghelia non potevano più nascondersi in quanto da loro era lecito attendersi un album che non solo desse continuità a quanto già fatto, ma che garantisse un decisivo e definitivo salto di qualità.
Per fare questo i due musicisti di Tblisi, passati nel frattempo dalla MFL Records di Evander Sinque, che ha avuto il grande merito di sdoganarli, alla Solitude Productions, intanto hanno ritenuto di avvalersi in pianta stabile di un terzo elemento che si dedicasse alla sezione ritmica e individuato, niente meno, che in Daniel Neagoe, sua maestà “il growl” nonché mastermind degli Eye Of Solitude, dei Clouds e coinvolto in mille altri progetti di livello assoluto (peraltro, il musicista di origine rumena ha anche curato personalmente masterizzazione e mixaggio dell’album).
Ma David e Serj non si sono accontentati dell’ingaggio di un nome così pesante, anzi … : scorrendo la lista degli ospiti che hanno fornito il loro contributo alla riuscita del disco troviamo gente come Greg Chandler (Esoteric), Don Zaros (Evoken), Sameli Köykkä (Colosseum) e AKiEzor (Abstract Spirit e Comatose Vigil), quasi a voler chiamare a raccolta, simbolicamente, i nomi storici della scena a fornire una sorta di imprimatur all’opera.
Questo spiegamento di forze ha prodotto il risultato sperato: Falsvs Anno Domini è l’album definitivo degli Ennui, quello che consentirà loro di passare dallo status di ottima band futuribile a quello di realtà consolidata in grado di riscrivere la storia del genere negli anni a venire.
Rispetto all’ultimo lavoro il sound si è spostato maggiormente verso un death dooom dai toni aspri ma non privo di aperture melodiche e atmosferiche: l’aura che avvolge il sound degli Ennui appare però molto più cupa e minacciosa che in passato, in ossequio ad un contenuto lirico che non lascia soverchie speranze riguardo alle redenzione di un’umanità avviata all’ineluttabile autodistruzione, ancor più morale che materiale.
Forbidden Life apre l’album in maniera invero piuttosto anomala, con un suono di chitarra che ricorda maledettamente quello di The Figurhead dell’immortale capolavoro Pornography targato Cure: un caso ? Forse, ma non c’è dubbio che nessuno meglio di Smith ha preconizzato, all’inizio degli anni ottanta, l’inizio del decadimento dell’umanità, raccontando il disagio di chi a vent’anni si sentiva un centenario precoce.
Il brano poi si apre in maniera più canonica, mantenendo un andamento piuttosto malinconico , ma è con la successiva The Apostasy che Falsvs Anno Domini prende definitivamente quota, grazie a sonorità molto vicine a quelle dei Colosseum dell’indimenticato Juhani Palomaaki: momenti più aspri si alternano a funerei rallentamenti e ad ampie aperture nelle quali la chitarra tesse magnifiche e dolenti melodie.
Con TheStones Of The Timeless arriviamo al fulcro dell’intero album, laddove viene espresso oltre un quarto d’ora di pura disperazione, con uno screaming che prende il posto del più canonico growl ed una parte finale in cui, inconsciamente o meno, l’ingresso di Daniel negli Ennui si fa sentire tramite un crescendo melodico che è tipico marchio di fabbrica degli Eye Of Solitude: in definitiva, una meraviglia …
Dopo questi quaranta minuti di doom ai suoi massimi livelli, ce ne attendono circa altrettanti certamente non da meno per intensità e capacità evocative, con in particolare altre due tracce splendide come No Home Beneath the Stars, sedici minuti che volano via tra ricami chitarristici in un’atmosfera, almeno inizialmente, un po’ meno da tregenda ed un altro finale da brividi, e la title track, più vicina per sonorità alla scuola ex sovietica con i suoi toni cupi e solenni allo stesso tempo: la chiusura ossessiva sta a simboleggiare l’annientamento di ogni vana speranza, una sorta di reiterazione all’ennesima potenza della rabbia che assale chi si trova al cospetto di un degrado apparentemente senza limiti.
Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del genere: Falsvs Anno Domini è un altro grandissimo album in un settore musicale che, pur trattando prevalentemente della morte, è paradossalmente più vivo che mai, in un “anno domini” che ha visto il ritorno, dopo anni di silenzio, di giganti quali Shape Of Despair e Skepticism, oltre che dei meno noti Tyranny; la band georgiana dimostra che le nuove leve sono già all’altezza della situazione e in grado di alimentare nel migliore dei modi un genere capace di fornire emozioni uniche.

Tracklist:
1. Forbidden Life
2. The Apostasy
3. The Stones of the Timeless
4. When our Light Dies Forever
5. No Home Beneath the Stars
6. Falvs Anno Domini

Line-up:
David Unsaved – guitars, vocals, keyboards.
Serge Shengelia – guitars, vocals.
Daniel Neagoe – drums, bass.

ENNUI – Facebook

Tranquillizer – Des Endes Anfang

Primi Dark Tranquillity e Dissection sono i gruppi di maggiore ispirazione per la band, a cui auguro quella stabilità che potrebbe favorire una presenza più costante sul mercato

La Germania continua ad essere da anni la patria dei suoni metallici, dall’hard rock al metal estremo la tradizione metal è ben radicata nel popolo tedesco, ed i vari generi continuano a trovare nuovi estimatori proprio nella terra posta al centro dell’Europa.

Non solo come si potrebbe pensare l’heavy classico o il più tradizionale power metal, ma anche le frange più estreme hanno sempre trovato terra fertile da quelle parti, sia per quanto riguarda il numero di fans che di gruppi dediti al genere.
I Tranquillizer sono una band di Francoforte attiva dal 2008, ma arrivata solo ora al primo lavoro sulla lunga distanza, lasciando alle spalle un ep targato 2011.
Dunque ci hanno messo un po per entrare in modo deciso sul mercato, ma il risultato non è affatto male e Des Endes Anfang accontenterà una buona fetta degli amanti del death metal melodico dai richiami black e fortemente influenzato dall’onnipresente scena scandinava.
Il quintetto tedesco sempre in difficoltà per i vari cambi di line up che, in questi anni, ne hanno rallentato la carriera nel mondo metallico underground, si presenta con un buon esempio di metal estremo melodico, strutturato sull’alchimia tra black e death, ma reso vario ed interessante da ottime cavalcate di classico metal dai tratti epici e dark, che conferisce al sound un’aurea oscura e drammatica.
Le veloci parti ritmiche, si attorcigliano come serpenti in amore, a solos melodici, ottimi stacchi acustici e refrain trascinanti, le songs non perdono molto in impatto lungo la durata del lavoro, certo non mancano i difetti, ma sono ben bilanciati da una forma canzone ben strutturata.
Appunto, i difetti : non tutto funziona perfettamente, per esempio l’ottimo scream, viene accompagnato da un growl in stile brutal che non ci azzecca un granché con la proposta del combo tedesco e in alcuni casi il fantomatico già sentito affiora tra le tracce di questo Des Endes Anfang, contribuendo a far scendere un poco il valore dell’album, che rimane comunque un’opera prima dignitosa.
Primi Dark Tranquillity e Dissection sono i gruppi di maggiore ispirazione per la band, a cui auguro quella stabilità che potrebbe favorire una presenza più costante sul mercato, mentre ai fans del melodic death un ascolto al disco è consigliato, visto che potrebbero trovare in Des Endes Anfang qualcosa di sufficiente per crogiolarsi tra i cliché del genere.

TRACKLIST
1. Agonie
2. Eine andere Welt
3. Bestie Krieg
4. Werde Zu Staub
5. Kapitulation
6. Blutrot
7. Welk
8. Ins Licht
9. Seelenreiter

LINE-UP
Madelaine Kühn – Bass
Johannes Gauerke – Vocals (lead), Trombone, Drums
Aleksander Vetter – Guitars
Fabian Wohlgemuth – Guitars, Vocals
Nico Dunemann – Drums

http://www.facebook.com/pages/Tranquillizer/139894089390032

Eldritch – Underlying Issues

L’ennesimo capolavoro di una band unica, che sicuramente ha raccolto molto meno di quello che, in termini di qualità, ha dato alla nostra musica

Era la primavera di quest’anno, quando la band di Terence Holler e Eugene Simone calarono a Genova in quel dell’Angelo Azzurro nel giro di date a supporto del bellissimo Tasting The Tears, ultima splendida opera di una delle band più importanti nel panorama metal nazionale degli ultimi vent’anni.

Il cantante, con tanto di stampelle a causa di un infortunio, diede spettacolo così come i suoi compagni per un concerto degno della fama del gruppo, ma purtroppo davanti a pochi intimi.
La solita storia dell’Italia metallara, a grandi gruppi seguono pochi adepti, specialmente dal vivo e se si esce fuori dalla solita Lombardia, così che Terence non si sprecò in critiche taglienti un po’ a tutta la scena e la sensazione del sottoscritto fu di rabbia e frustrazione, comune a quella espressa dal singer italo americano.
Rabbia e frustazione, sentimenti ed emozioni di cui il nuovo lavoro è pregno, sempre nel segno degli Eldritch, ed allora sfuriate metalliche di thrash moderno, esagerate parti di tastiera, tra melodie e fughe incalzanti, sezione ritmica che travolge, sei corde che urlano o ammaliano in arpeggi che nella loro complessità entrano in noi come il caldo vento meridionale e linee vocali che ancora una volta rimettono in fila i singer di genere come farebbe un bambino con i suoi soldatini.
Underlying Issues è tutto qui, o meglio, è quello che il povero recensore carpisce nella moltitudine di suoni, emozioni, atmosfere e sfumature che la band toscana immette nella sua splendida musica.
Molto più duro del precedente lavoro, il nuovo album presenta un gruppo che, dopo venticinque anni di carriera ed una decina di dischi alle spalle, riesce nella non facile impresa di risultare fresca, determinata, convincente nel portare avanti il proprio sound, senza scendere a compromessi ed elargendo lezione di metal dal taglio prog, moderno, a tratti violento, ma stupefacente nel regalare melodie che valorizzano tutto il mondo musicale creato, anche in questo lavoro.
Un anno è passato da Tasting The Tears, neanche troppo, anzi pochissimo al giorno d’oggi, eppure la band non scende sotto una media altisonante, che ne dimostra il talento disumano, una macchina perfetta per creare musica metallica, nobile ed elegante anche quando le sei corde di Rudj Ginanneschi e Eugene Simone violentano lo spartito o la sezione ritmica (Raffahell Dridge alle pelli e Alessio Consani al Basso) scambiano i propri strumenti per martelli pneumatici, spaccando tutto con una forza ed una tecnica disarmante.
Canzoni: qualunque sia la loro forma, i refrain da memorizzare, le melodie che ipnotizzano sono sempre li, nascoste da questo mare in burrasca che butta sulla costa onde di note fiaremente progressive pur nella loro violenza e ci costringono, ancora una volta, a battere le mani a questi splendidi musicisti.
Prodotto benissimo, così che il suono arrivi potentissimo e pulito, Underlying Issues vive di undici composizioni che hanno nelle parti più furiose il loro punto di forza, ed allora lasciatevi travolgere da Changing Blood, Danger Zone, All And More, The Face I Wear, The Light e la conclusiva, devastante Slowmotion K Us.
Nel mezzo, meraviglie prog metal che contribuiscono a fare del nuovo album l’ennesimo capolavoro di una band unica, che sicuramente ha raccolto molto meno di quello che, in termini di qualità, ha dato alla nostra musica preferita, eppure ancora qui a dispensare arte a chi, ancora una volta, da molti anni di essa si nutre.

TRACKLIST
1.Changing Blood
2.Danger Zone
3.Broken
4.All and More
5.The Face I Wear
6.To the Moon and Back
7.Bringers of Hate
8.The Light
9.Piece of Clarity
10.Before I Die
11.Slowmotion K Us

LINE-UP
Eugene Simone – Guitars
Terence Holler – Vocals
Raffahell Dridge – Drums
Rudj Ginanneschi – Guitars
Alessio Consani – Bass

ELDRITCH – Facebook

Manipulation – Ecstasy

Ecstasy è un lavoro compatto e debordante che unisce con ottimi risultati tradizione e modernità

Ecco un album che accomuna spirito classico e death moderno in un concentrato di estrema putrescenza sonora.

Ecstasy è il nuovo lavoro dei polacchi Manipulation, band non di primo pelo, essendo attiva dall’ormai lontano 2001 e con i primi due lavori usciti a distanza di cinque anni: The Future of Immortality primo album licenziato nel 2007, ed il secondo, Passion dato alle stampe tre anni fa.
Il nuovo album uscito per Satanath Records risulta un monolito estremo di inumana violenza, ben bilanciata tra sfuriate di detah metal classico e robuste soluzioni deathcore, per un risultato di indubbia devastazione sonora.
Un mood oscuro, permea tutto l’album, sconvolto da soluzioni tecniche sopra la media e da un songwriting che non perde mai il filo conduttore, che porta ed eleva questa raccolta di songs violente e devastanti, convincendo a più riprese.
Brani che spazzano via tra il growl dall’impronta core di Brużyc, la varia e funzionale sezione ritmica, che passa con disinvoltura da blast beat di scuola classica e tremende e cadenzate bordate core(Bysiek al basso e Kriss alle pelli) con le chitarre che, dalla loro, si aggirano tra la struttura delle songs piene di famelico spirito estremo, torturate da Rado.Slav e Vulture .
Registrato in Polonia nei Monroe Sound Studio, Ecstasy esplode come un’atomica e gli echi di queste dieci bombe sonore si dilatano come il fungo atomico, tanta è la potenza che il gruppo emana.
Una macchina distruttrice, che senza fermarsi travolge, massacra e uccide senza pietà con una forza dirompente, tecnica e malata, lasciando indietro molte delle realtà più blasonate del genere, anche d’oltreoceano terra dove la musica del combo trae le sue ispirazioni.
Album da spararsi tutto d’un fiato per godere della sua immane potenza, tra cui si distinguono spettacolari tracce come l’opener Insomnia, The Paradigm of Existence, Temples of Vanity e la title track posta in chiusura.
Ecstasy risulta così un lavoro compatto e debordante, che unisce con ottimi risultati tradizione e modernità, dategli un ascolto.

TRACKLIST
1. Insomnia
2. Sic Itur ad Astra
3. Lifetime
4. Bad Boy
5. The Paradigm of Existence
6. Sunset over Vatican
7. Temples of Vanity
8. Burn Motherfuckers!
9. Dźwięk upadku
10. Ecstasy

LINE-UP
Rado.Slav – Guitars
Bysiek – Bass
Kriss – Drums
Vulture – Guitars
Brużyc – Vocals

http://www.facebook.com/manipulation.net/

Rapture – Crimes Against Humanity

Difficile uscire dalla cerchia dei fans del genere per la giovane band greca, anche se non credo sia per loro una priorità, l’attitudine e l’impatto fanno ben sperare per un futuro magari non di primo piano ma ben saldo nello stile proposto

Si torna a parlare di metal estremo proveniente dalla Grecia e dalla sua capitale (Atene), con questo buon debutto che farà la gioia dei fans del death/thrash old school.

La band in questione sono i giovani Rapture, metallari che da tre anni recano danni nella scena estrema della capitale e giunti al debutto sotto Witches Brew dopo due releases minori( i due ep Gun Metal del 2013 e 2014 Promo).
Il quartetto devoto al metal estremo di estrazione classica, si aggiunge a molte band che, a livello underground hanno contribuito al ritorno delle sonorità old school, perciò aspettatevi ritmi serrati, solos velocissimi torturatori di chitarre, incendiate sull’altare del metal ottantiano e una spiccata predisposizione per atmosfere death oriented, che accentuano ancora di più la vena estrema del gruppo.
Accompagnati da testi che spaziano dal puro horror alla violenza sociale e politica, i brani di Crimes Against Humanity non lasciano scampo e aggrediscono senza pietà, lasciando che la furia thrash del gruppo esca prepotentemente dai solchi del disco.
Pur giovani i musicisti coinvolti ci sanno davvero fare, la produzione è ottima e l’album, composto da songs tutte su buoni livelli, hanno in Laboratories of Infection( scelta come singolo/video), Suicidal cannibalism e Spiritual Paralysis i brani punta, trascinanti e diretti, un vero massacro.
Siamo nei territori estremi cari agli Slayer, gruppo di maggior influenza per il gruppo Greco, che non nasconde la propria ispirazione, anzi la scrive col sangue sullo spartito di Crime Against Humanity, lasciando al death qualche rallentamento che varia e rende ancora più potente l’assalto sonoro prodotto.
Difficile uscire dalla cerchia dei fans del genere per la giovane band greca, anche se non credo sia per loro una priorità, l’attitudine e l’impatto fanno ben sperare per un futuro magari non di primo piano ma ben saldo nello stile proposto, che ha ancora moltissime frecce nel proprio arco a dispetto di chi lo vorrebbe morto e sepolto.
Come si dice in questi casi: buona la prima.

TRACKLIST
1. Laboratories of Infection
2. Unit of Total Destruction
3. Born Dead
4. Suicidal Cannibalism
5. Transorbital Lobotomy
6. Borderline Disorder
7. As Darkness Falls
8. Spiritual Paralysis
9. Sadistic Shredding of Flesh

LINE-UP
Stamatis Petrou – Bass,Vocals
Nikitas Melios – Guitars,Vocals
Apostolos Papadimitriou – Guitars, Lead Vocals
Giorgos Melios – Drums,Vocals

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Worldview – The Chosen Few

Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.

Giunti all’esordio sulla lunga distanza, gli americani Worldview, aiutati da una manciata di musicisti su cui spicca Oz Fox degli Stryper, confezionano un lavoro di power metal statunitense, ma dalle molte atmosfere europee, raffinato, mai troppo potente ma dal buon gusto melodico.

La band californiana ha nell’ugola del vocalist Rey Parra, il suo asso nella manica, che asseconda con un songwriting ispirato, magari non originalissimo ma molto piacevole.
Atmosfere orientaleggianti(Mortality), drammatiche parti power/prog tipiche del metal d’oltreoceano, ed un gusto per le melodie nobilitate da una vena prog danno al disco un tono adulto e fanno di The Chosen Few un buon esordio, anche se le influenze compaiono a tratti ben visibili tra i solchi del disco, da ricercare specialmente nei Kamelot di Roy Khan.
Niente di male, l’album scorre mantenendo questi clichè, la band difficilmente corre,le ritmiche si mantengono cadenzate, marciando al suono tenuto da tastiere dal mood progressivo.
Quando la luce metallica si accende, ne escono power song dal taglio epico come Prisioner Of Pain, ottima song che non disdegna tasti d’avorio dal taglio settantiano e chorus che rimandano all’hard & heavy di ottantiana memoria.
I musicisti ci sanno fare non poco con gli strumenti, le tastiere disegnano arabeschi progressivi su eleganti parti ritmiche, mentre la chitarra si rende protagonista di solos ben incastonati nelle varie parti dell’album.
Quando l’hard rock melodico prende il sopravvento, sempre arricchito da orchestrazioni di natura prog ecco che i danesi Royal Hunt fanno capolino nella bellissima Two Wonders.
Affidato alle mani di Bill Metoyer (W.A.S.P, Slayer) The Chosen Few gode di un ottimo suono, che esce pulito e cristallino, cosi da raffinare ulteriormente le songs proposte dal gruppo di Los Angels.
Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico, dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.
Lo spiegamento di forze, sia alla consolle, che negli ospiti che appaiono con un loro contributo nei vari brani dell’album, non sono stati sprecati e The Chosen few risulta un’ottima opera prima per la band losangelina.

• Autore
Alberto Centenari

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• ETICHETTA

TRACKLIST
01. Mortality
02. Illusions of Love
03. Back in Time
04. The Mirror
05. Why?
06. Prisoner of Pain
07. Two Wonders
08. Walk Through Fire
09. The Chosen Few

LINE-UP
Johnny Gonzales – Drums, Percussion
Todd Libby – Bass guitar, Keyboards
George Rene Ochoa – Guitars, Keyboards, Background Vocals
Rey Parra – Lead Vocals

Special guests
Oz Fox [Stryper] – Lead guitar on “Back in Time” (2nd lead)
Les Carlsen [Bloodgood] – Bridge vocals on “The Chosen Few”
Larry Farkas [ex. Vengeance Rising] – Lead guitar on “Prisoner of Pain” (1st lead)
Jimmy P Brown II [Deliverance] – BGV on “The Mirror” (2nd and 3rd chorus)
Ronson Webster – Keyboards, Background Vocals
Armand Melnbardis [Rob Rock] – Piano on “The Chosen Few”, Violin on “Back in Time”
Niki Bente – Female vocals on “The Chosen Few”

WORLDVIEW – Facebook

Monastery Dead – Black Gold Appetite

Le influenze sono percepibili nei maestri Cannibal Corpse e nei Dying Fetus, la produzione rende giustizia al suono pesantissimo creato dal gruppo ed il disco fila liscio senza grosse cadute, ma altresì senza meraviglie, mantenendo una qualità sufficiente per non passare del tutto inosservato.

Nuovo lavoro per questa band estrema proveniente dalla Russia, terzo di una discografia che vede altre due opere licenziate nel corso di undici anni di attività; Victims of Senseless Massacre del 2009 e Cold and Gloom del 2012.
Il gruppo di san Pietroburgo opera nel settore del death metal che sfocia molte volte nel brutal, magari non tecnicissimo ma dall’impatto devastante.

Un aggressione feroce dunque, senza compromessi e colma di sfuriate violentissime, ad opera di una band che punta tutto sull’impatto, da tregenda della propria musica e l’effetto è convincente, specialmente per chi fa del genere la principale fonte di sostentamenti musicale.
Manca un briciole di fantasia in più per differenziarsi dalle centinaia di realtà che popolano l’universo underground estremo, ma è indiscutibile l’attitudine che la band riversa in questi trentaquattro minuti di delirio death senza compromessi.
Growl brutale e sezione ritmica che crea un wall of sound di notevole impatto sono le caratteristiche maggiori per far si che Black Gold Appetite trovi estimatori tra i fans del death metal, affrancati ed accontentati nei loro istinti da songs tremebonde come You Are Parasite, Sick Absolution, la title track e Lie, picchi qualitativi di questo lavoro estremo.
Siamo al cospetto di una band che, senza far gridare al miracolo, il suo mestiere lo fa con dovizia senza andare oltre ad un onesto compitino.
Le influenze sono percebibili nei maestri Cannibal Corpse e nei Dying Fetus, la produzione rende giustizia al suono pesantissimo creato dal gruppo, ed il disco fila liscio senza grosse cadute, ma altresì senza meraviglie, mantenendo una qualità sufficiente per non passare del tutto inosservato.

TRACKLIST
1. Global Bleeding Euphoria
2. More Power
3. You Are Parasite
4. Despairing Existence
5. Sublimation
6. Sick Absolution
7. Generation: Rats
8. Black Gold Appetite
9. Why Are You Born
10. Voracity of Madness
11. Lie
12. Digital Apocalypse
13. Gore Gods Enthroned

LINE-UP
Vadim Nikolaev – Bass
Kirill Zharikov – Drums
Nikita Volkov – Guitar
Anton Malov – Vocals
Kirill Tatarinov – Guitar

MONASTERY DEAD – Facebook

Vingulmork – Chiaroscuro

Chiaroscuro (titolo originalmente made in Italy) esce dalle casse in un’esplosione di note estreme, donandoci una buona mezzora di metal ignorante e potente.

Dalle fredde lande norvegesi arrivano a far danni i Vingulmork, attivi da più di tre anni e con un ep all’attivo nel 2014, The Long March.

Thrash metal con richiami al black è la proposta dei nostri vichinghi, un massacro perpetrato a colpi di metallici martelli nel nome di Odino e furiosi attacchi ai padiglioni auricolari, il tutto impreziosito da un riffing davvero notevole.
Le ritmiche trascinano come non mai in questo lavoro, i brani si susseguono compatti e veloci, mettendo in mostra non solo un buon songwriting ma l’ottima padronanza dei mezzi dei quattro musicisti di Oslo.
Lo scream/growl del buon Jostein Stensrud Køhn, accompagna queste nove burrasche di metal estremo con piglio e personalità, la chitarra si scaglia all’attacco dei nemici con riff e solos incendiari(Martin Kandola) e la sezione ritmica è un bombardiere impegnato a distruggere a colpi di cannonate devastanti( Simen Kandola alle pelli e Steffen Grønneberg al basso).
Ne esce un lavoro di ottimo metal estremo, ben bilanciato tra l’anima Thrash old school e quella black che, ovviamente estremizza ancora di più la musica con sfuriate estreme come l’opener Collapse and Rebuild, (I Am) The Darkness You Can touch e le alquanto esaltatanti From Promise e White Dress, Black Heart.
Poco più di mezzora, travolti da questo uragano sonoro, magari non troppo originale ma ben congegnato dal quartetto norvegese, che non ne vuole sapere di rallentare i ritmi, aggredendo l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota.
Registrato ai Toproom studios e mixato da Børge Finstad and Matias Aaveren, Chiaroscuro (titolo originalmente made in Italy) esce dalle casse in un’esplosione di note estreme, donandoci una buona mezzora di metal ignorante e potente….insomma, una goduria.

TRACKLIST
1. Collapse and Rebuild
2. Hold Your Ground
3. (I Am) The Darkness You Can touch
4. The Haunting
5. Old Hate
6. From Promise
7. Painting Lives
8. White Dress, Black Heart
9. It Will Suffice

LINE-UP
Simen Kandola Drums
Martin Kandola Guitars
Steffen Grønneberg Bass
Jostein Stensrud Køhn Vocals

VINGULMORK – Facebook

Tyranny – Aeons in Tectonic Interment

Un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.

L’aria che tira in Finlandia dev’essere sicuramente particolare: del resto il funeral doom è nato in quelle lande per mano dei Thergothon ed è stato poi perfezionato e codificato prima dagli Skepticism e poi da una serie di band eccezionali quali Shape Of Despair, Colosseum e, più recentemente, Profetus.

Più d’uno probabilmente può essersi dimenticato di un disco uscito nel 2005, intitolato Tides of Awakening, per oltre un decennio rimasta la sola testimonianza su lunga distanza dei Tyranny, band che proprio ai Profetus è collegata per la comune appartenenza di Matti Mäkelä, colui che con Lauri Lindqvist condivide le sorti di questa band ritornata improvvisamente alla ribalta con un nuovo album.
Aeons in Tectonic Interment riprende il discorso esattamente dal punto in cui si era bruscamente interrotto: il funeral dei Tyranny non è evocativo come quello di Skepticism o Shape Of Depair, ma in qualche modo va a colmare il vuoto lasciato dai Colosseum del compianto Juhani Palomäki: un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.
La voce di Lindqvist è appropriatamente inumana e si fonde con le lente partiture capaci di avvolgere in una spira di disperazione dagli effetti venefici: ma ecco che, a tratti, sporadici squarci di melodia creano angusti varchi nella spessa coltre di negatività, ove si vanno ad innestare fugaci barlumi di speranza, ancor più terribili per la loro ingannevole essenza.
La chitarra di Mäkelä non si limita a produrre riff mortiferi nella loro pachidermica lentezza ma regala anche perle di struggente dolore come nell’opener Sunless Deluge e nel meraviglioso finale di Bells of the Black Basilica, brano a dir poco monumentale per la sua terrificante bellezza.
I Tyranny rischiavano di restare derubricati allo status di band di culto, per di più in un settore che di suo è già sufficientemente di nicchia, ma con questo magnifico lavoro entrano di diritto nel gotha del funeral finlandese, il che equivale a dire mondiale, vista la già citata importanza della nazione dei mille laghi per lo sviluppo del genere.

Tracklist:
1. Sunless Deluge
2. A Voice Given unto Ruin
3. Preparation of a Vessel
4. The Stygian Enclave
5. Bells of the Black Basilica

Line-up:
Matti Mäkelä – Guitars, Vocals, Samples
Lauri Lindqvist – Vocals, Bass, Keyboards

TYRANNY – Facebook

Swallow The Sun – Songs from the North I, II & III

Quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione

Cosa può spingere un band dedita ad un genere di nicchia come il doom ad uscire con un triplo album nell’anno domini 2015, in un periodo storico di vacche più scheletriche che magre dal punto di vista commerciale?

È vero, i SwallowThe Sun sono forse oggi, tra tutte le band di riferimento del genere, quella che possiede comunque un minimo di appeal commerciale, viste le aperture a sonorità più gotiche e melodiche evidenziatesi magnificamente nel precedente Emerald Forest and the Blackbird; in più, aggiungiamo che i finnici escono oggi sotto l’egida della Century Media, a suggellare l’impressione di un’operazione comunque pianificata con cura e ben lungi da rappresentare l’espressione di un’insana bulimia creativa ma, detto ciò, la fruizione di quasi tre ore di musica di tale fatta resta comunque affare per pochi.
Se nutrire qualche dubbio sulla resa finale complessiva di una simile mole di lavoro appare più che lecito, la sua strutturazione finisce per provocare qualche rimpianto a causa di alcune scelte non del tutto condivisibili di Raivio e soci.
Il contenuto dei tre cd, infatti, è suddiviso in maniera netta in base allo stile musicale proposto, per cui troviamo un disco 1 (intitolato Gloom) che ricalca le orme dell’ultimo full length, con le sue ampie aperture melodiche ed atmosferiche, un disco 2 (Beauty) completamente acustico ed un disco 3 (Despair) che porta i Swallow The Sun a battere un terreno ostico ed esplorato solo in parte nei primi due album, come quello rappresentato dal funeral-death/doom.
Per fortuna la montagna creativa dei nostri non ha partorito un topolino, nel senso che Songs from the North I, II & III è un’opera che resterà sicuramente impressa nella memoria degli appassionati come una delle migliori dell’anno, ma non si può sorvolare sul fatto che il disco acustico si rivela il classico vaso di coccio racchiuso in mezzo a due monumentali espressioni artistiche quali Gloom e Despair.
Bastano i 9 muniti di With You Came the Whole of the World’s Tears per capire che i Swallow The Sun sono tornati senza alcuna traccia di appannamento dovuta ai tre anni trascorsi da Emerald… : l’impronta compositiva di Raivio è un marchio di fabbrica in grado di amplificare la portata emotiva delle digressioni melodiche, mentre Kotamäki è ormai una certezza assoluta anche con le clean vocals, facendo sì che l’alternanza con il growl ed uno screaming usato con maggiore parsimonia non appaia mai forzata.
Almeno fino a Heartstrings Shattering il primo disco è di livelli irraggiungibili per molti, mentre la seconda metà è lievemente meno coinvolgente, pur risultando ugualmente di altissimo spessore.
Dopo un’ora di emozioni a profusione, Beauty rappresenta un inevitabile calo di tensione: impeccabile dal punto di vista esecutivo, il secondo cd difetta proprio in quell’afflato evocativo che dovrebbe essere insito in musica prevalentemente acustica, per evitare di renderla alla lunga inoffensiva; purtroppo la sola Songs from the North si rivela all’altezza della situazione, grazie anche al contributo in lingua madre della brava Kais Vala, mentre il resto scorre in maniera anche piacevole ma senza lasciare un segno davvero tangibile.
Con le prime note di The Gathering of Black Moths, che inaugura il disco conclusivo denominato Despair, veniamo scaraventati in atmosfere plumbee, in cui solo dosati spunti melodici rappresentano una fievole fiammella di speranza.
L’interpretazione del funeral da parte dei Swallow The Sun risente comunque dell’anima gotica connaturata al loro stile musicale, per cui l’andamento è sì dolente ma mai troppo claustrofobico, e la disperazione evocata dal titolo fornito al cd appare tangibile proprio nella sua malinconica ineluttabilità.
I finnici scendono così sul terreno preferito dei campioni del genere in questi ultimi anni, sto parlando degli Eye Of Solitude, e la battaglia è tutt’altro che impari, visto che Raivio tira fuori dal cilindro un pacchetto di brani magnifici, che si sublima nella straordinaria Abandoned by the Light: qui chitarra e tastiera (sempre ad opera del bravissimo Aleksi Munter) si alternano nel proporre partiture dolenti e capace di far rabbrividire le anime che si abbeverano di queste note.

Alla fine di questa sorta di prova di resistenza all’ascolto, ciò che resta di Songs From The North è molto e non sarà facile cancellare dalla memoria la bellezza di diversi brani contenuti nella trilogia.
Volendo fare gli incontentabili, come è giusto che sia al cospetto di quella che io considero una delle band migliori in assoluto del panorama, un disco doppio sarebbe stato il giusto mezzo che ci consentirebbe di parlare di quest’opera come di un qualcosa prossimo al capolavoro: così non è perché purtroppo, anche se lo si vorrebbe ignorare, il cd acustico c’è e non lo si può omettere ai fini della valutazione complessiva.
Però, sia chiaro, quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione da parte degli estimatori di questa splendida realtà musicale chiamata Swallow The Sun.

Disc 1 – Gloom
1. With You Came the Whole of the World’s Tears
2. 10 Silver Bullets
3. Rooms and Shadows
4. Heartstrings Shattering
5. Silhouettes
6. The Memory of Light
7. Lost & Catatonic
8. From Happiness to Dust

Disc 2 – Beauty
1. The Womb of Winter
2. The Heart of a Cold White Land
3. Away
4. Pray for the Winds to Come
5. Songs from the North
6. 66°50’N, 28°40’E
7. Autumn Fire
8. Before the Summer Dies

Disc 3 – Despair
1. The Gathering of Black Moths
2. 7 Hours Late
3. Empires of Loneliness
4. Abandoned by the Light
5. The Clouds Prepare for Battle

Line-up:
Juha Raivio – Guitars
Matti Honkonen – Bass
Markus Jämsen – Guitars
Aleksi Munter – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals
Juuso Raatikainen – Drums

SWALLOW THE SUN – Facebook

Weeping Silence – Opus IV Oblivion

Chi ama il gothic doom avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Malta è una delle nazioni più piccole d’Europa ma a livello di doom metal possiede una tradizione piuttosto radicata: non a caso nell’incantevole isola del Mediterraneo si svolge fin dal 2009 un rinomato festival dedicato a questo sottogenere musicale.

Gli Weeping Silence esplorano la parte più malinconica e melodica del doom  ovvero quella ammantata di atmosfere gotiche, con la consueta dicotomia tra voce maschile e femminile.
Chiaramente, con questo tipo di premesse, chi sperava in qualcosa di particolarmente innovativo può pure passare oltre, visto che l’affollata band maltese, composta da 7 elementi, non fa altro che riproporre le sonorità portate ai massimi livelli espressivi da nomi quali Draconian o primi Within Temptation, tanto per citarne due particolarmente pesanti.
Ma Opus IV Oblivion merita ben più di un distratto ascolto perché, a fronte di una relativa orecchiabilità, la materia è trattata nel miglior modo possibile, il che si traduce in una raccolta di brani avvincenti ed emozionanti: tutto quanto è giusto attendersi da un gruppo esperto, del resto, con già altri tre full length all’attivo nel corso di una storia musicale ultracedennale.
In effetti la componente prettamente doom si rinviene più a livello attitudinale che non stilistico: qui, infatti, non troveremo rallentamenti asfissianti od atmosfere particolarmente plumbee, complici un songwriting lineare quanto efficace e la soave (ma non stucchevole) voce di Diane Camenzuli, la quale, proprio senza andare mai fuori dalle righe, ci conduce piacevolmente lungo questo cammino malinconico ma privo di eccessive ruvidezze.
Il valore dell’album risiede appunto nella sua gradevolezza che non viene mai meno, salvo una leggera opacizzazione nella parte centrale con i due episodi forse meno brillanti, In Exile e Stormbringer, e contrassegnata da aperture improvvise nel corso delle quali gli strumenti si liberano raggiungendo picchi evocativi non trascurabili: Eyes Of The Monolith, Hidden from the Sun, Bury My Fairytale possiedono appunto queste caratteristiche, anche se la ciliegina sulla torta i nostri la collocano proprio in chiusura, con la teatrale e drammatica Gothic Epitaph, splendida ed autentico manifesto sonoro del sound della band maltese.
A corollario di una tracklist di buon livello va aggiunta la prova di spessore dell’intera band: detto della vocalist, il growl di Dario Pace Taliana ha il pregio di completarne i vocalizzi senza risultare invadente, mentre il resto della truppa erige un dolente accompagnamento sonoro, impreziosito dall’ottimo lavoro alla chitarra solista di Manuel Spiteri, oltre che da una produzione di assoluta eccellenza.
In definitiva, chi ama questo genere avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Tracklist:
1. Oblivion – Darkness in My Heart Anno XV
2. Ivy Thorns upon the Barrow
3. Eyes of the Monolith
4. Hidden from the Sun
5. In Exile
6. Stormbringer
7. Transcending Destiny
8. Bury My Fairytale
9. Gothic Epitaph

Line-up:
Diane Camenzuli – Vocals (female)
Dario Pace Taliana – Vocals
Mario Ellul – Guitars
Manuel Spiteri – Guitars (lead)
Sean Pollacco – Bass
Alison Ellul – Keyboards
Angelo Zammit – Drums

 

Atrorum – Structurae

Gli Atrorum sono sorpendenti nel loro mescolare aperture ariose e lievi a passaggi decisamente massicci e grumosi, l’ascoltatore viene in alcuni momenti completamente spiazzato da momenti schizofrenici

Quando ascolti un disco come questo, la prima azione da compiere è aprire la mente. Mi spiego meglio: “aprire la mente” in questo caso significa porsi nella disposizione d’animo più ricettiva possibile, eliminare pregiudizi, preconcetti, il rapporto predeterminato tra vista ed udito e lasciarsi coinvolgere in un’opera che trattasi di un dipanarsi di stanze musicale concettualizzate in profondi rapporti di passaggio tra influenze stilistiche varie, disparate, spesso antipodiche ma amalgamate con sapienza, logica e rigore.

Gli Atrorum sono un duo proveniente da Monaco, in Baviera, attivo dal 1998, alla loro terza prova ufficiale. Non musicisti di primo pelo, quindi, ma elementi attivi dell’underground bavarese da quasi venti anni; l’esperienza maturata negli anni emerge tra le note di questo Structurae: un edificio musicale costruito con pazienza e professionalità, in cui in un universale impronta progressive marezzata di black metal sinfonico proprio di Dimmu Borgir e Borknagar, fa variegatura un impianto digitale disturbante, figlio (o nipote) del kraut-rock geograficamente legato agli Atrorum ed individuabile in reminiscenze che ricordano i primi Aborym.
Sorprendenti nel loro mescolare aperture ariose e lievi a passaggi decisamente massicci e grumosi, l’ascoltatore viene in alcuni momenti completamente spiazzato da momenti schizofrenici popolati di partiture free-jazz, come nella sorprendente Amapolas o nell’onirico confluire jazzistico del pianoforte in Menschein.
Fiore all’occhiello di questa produzione risulta il lucidissimo lavoro di postproduzione, in cui ogni velo di caratteristica strumentistica viene esaltato e reso nitido; ulteriore punto di merito è la meravigliosa impronta artistica e culturale degli Atrorum che hanno, in questo Structurae esaltato le loro composizioni poetiche con un songwriting in sette lingue diverse: inglese, francese, tedesco, russo, spagnolo, latino e greco per esplorare concettualmente la struttura e la capacità razionale e non della mente umana.

TRACKLIST
1.Menschsein
2.Große weiße Welt
3.Amapolas
4.Ψαλμός
5.Camouflage
6.Verfugung
7.Équipartition
8.Regnum Caelorum

LINE-UP
Umbra
Vatros

ATRORUM – Facebook

Black Oath – To Below And Beyond

Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riporati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.

Non è la prima volta che parlando di un album mi ritrovo a fare riferimento alla scena dark italiana, una fonte di ispirazione inesauribile, nella musica come nel cinema, specialmente negli anni settanta e ottanta, con artisti diventati oggetto di culto in tutto il mondo e punto di riferimento per chi non si accontenta di opere usa e getta, ma affascinato dall’arte,esplora l’underground, in questo caso quello del metal doom, colmo di riferimenti all’oscuro mondo dell’occulto.

L’Italia (fortunatamente) non è solo il paese dei talent show o dei film dei Vanzina, nel suo dna risiede una forte tradizione mistico occulta, esplosa negli anni settanta con registi che hanno fatto scuola, insegnando cinema horror a tutto il mondo.
Se poi, come in questo caso si parla di musica, l’importanza delle nostre band, nel dark/prog così come nel metal classico ed estremo diventa esponenziale.
I milanesi Black Oath portano avanti la tradizione italica nel genere da quasi dieci anni, il loro esordio omonimo uscì due anni dopo la fondazione in formato ep, poi altri lavori minori e due full length The Third Aeon del 2011 e Ov Qliphoth and Darkness licenziato due anni fa.
Metal classico, accenni al doom e tanta atmosfera dark sono le principali caratteristiche del sound di questo bellissimo lavoro, che affonda le radici nel dark metal prog nazionale, colmo di stupende ed oscure melodie vintage, un viaggio mistico nella musica esoterica, presi per mano dalla splendida voce di A.Th, sarcedote di questa liturgia occulta che per quasi un’ora ipnotizza e seduce.
Molto scorrevole, complice un songwriting maturo ed ispirato, To Below And Beyond è la classica opera senza tempo, lontana da facili estremismi, ma ben consolidata nella parte oscura dell’heavy metal classico, dove torna ad avere importanza nel sound, sua maestà il riff, potente e melodico, cadenzato nel suo lungo incedere e valorizzato da solos che escono dal mondo oscuro ammalianti e tragici.
Non un brano che scende sotto una media che rimane altissima per tutta la durata del lavoro, tenendo l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle atmosfere messianiche di songs come I Am Athanor, l’enorme Flesh To Gold, la più doom oriented del lotto e la grandiosa title track, monumento all’heavy/dark esoterico e occulto.
Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riportati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.
Un’opera nera che non deluderà gli amanti del genere , il più underground ed affascinante di tutte le varie anime della musica metallica.

TRACKLIST
1. Donum Dei
2. Wicked Queen
3. I Am Athanor
4. Mysterion
5. Flesh to Gold
6. Sermon Through Fire
7. Healing Hands of Time
8. To Below and Beyond (Ars Diaboli)

LINE-UP
A.Th Vocals, Guitars, Bass
Chris Z. Drums
B. R. Guitars

BLACK OATH – Facebook