Bell Witch – Four Phantoms

I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati del doom più estremo.

Se qualcuno pensa erroneamente che a Seattle si suoni solo e sempre giunge, o comunque rock alternativo, provi ad ascoltare questo terrificante monolite sonoro eretto dal duo denominato Bell Witch.

Dylan Desmond e Adrian Guerra (quest’ultimo già live drummer dei formidabili Shadow of the Torturer) impiegano oltre un’ora per srotolare quattro brani dalla lentezza quasi esasperante, proponendosi come una sorta di versione d’oltreoceano dei tedeschi Worship.
Questo almeno avviene nella traccia cardine del lavoro, l’iniziale Suffocation, A Burial: I – Awoken, che si dipana in maniera appunto soffocante per oltre venti minuti segnati da uno sbocco melodico davvero lacerante nella sua parte finale.
A parte le più rarefatte sembianze di Judgement, In Fire: I – Garden, il resto dell’album vive sulle precedenti coordinate, anche se in Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy qualche minima variazione, sotto forma di clean vocals dai toni evocativi, la si riscontra, spazzata via bellamente, comunque, dal growl belluino che sovrasta di nuovo il bradicardico incedere della conclusiva Judgement, In Air: II – Felled.
In sintesi, i due musicisti statunitensi con Four Phantoms hanno prodotto un’ottima opera che necessita inevitabilmente, però, di molta familiarità con il versante più opprimente e meno atmosferico del funeral.
I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati: se in futuro riusciranno anche a ripulire un pizzico il loro sound (anche se tutto sommato una produzione non proprio cristallina si confà al genere) e a ricreare con più continuità quel senso di dolore ottundente che dimostrano a tratti d’avere nelle corde, il prossimo lavoro potrebbe rivelarsi qualcosa di memorabile.

Tracklist:
1. Suffocation, A Burial: I – Awoken (Breathing Teeth)
2. Judgement, In Fire: I – Garden (Of Blooming Ash)
3. Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy (The Distance of Forever)
4. Judgement, In Air: II – Felled (In Howling Wind)

Line-up:
Dylan Desmond – Bass, Vocals
Adrian Guerra – Drums, Vocals

BELL WITCH – Facebook

Watch Them Burn – Watch Them Burn

Debutto per i valdostani Watch Them Burn con cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.

Debutto omonimo autoprodotto per i valdostani degli Watch Them Burn, autori di un lavoro composto da cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.

Non male questo mini: la band, attiva da quattro anni, sa come muoversi tra i solchi del genere suonato, cercando di variare la propria proposta con ritmiche cangianti, mai troppo core, riuscendo ad amalgamare perfettamente il death melodico scandinavo, con il genere più in voga ultimamente tra quelli estremi.
Ne escono brani potenti e devastanti e dall’ottimo appeal; ottimo il lavoro delle chitarre, a cura di Corruptor e Mithra che, tra l’impatto prodotto dal gruppo, se ne escono con qualche assolo classico di ottima fattura, e sopra le righe la sezione ritmica (Shinigami al basso e Anubi alle pelli) che asseconda la vena cangiante dei brani, tra le ritmiche sostenute delle tracce più death oriented (bellissima l’opener The Day After) ed il groove potente e cadenzato di quelle più core (Dark Side).
Impreziosito dalla prova sontuosa del vocalist Maniac, vario e perfetto nell’adattare il suo scream ad ogni situazione musicale creata (finalmente un gruppo che non usa la voce pulita) mantenendo una tensione che si alza ad ogni brano, Watch Them Burn risulta un’opera prima riuscita ed in più parti avvincente.
Soul-R, la modernissima e marziale My Country e la conclusiva Afterlife, dove il gruppo valdostano torna alle sonorità death dell’opener, completano un album che si rivela, così, un buon ascolto sia per il fans del death metal melodico, sia per quelli più orientati a sonorità in linea con i gusti del momento: la band ha diverse strade da far percorrere alla propria musica, vedremo in futuro quale sarà l’indirizzo preso, magari con un lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.The Day After
2.Soul R
3.My Country
4.Dark Side
5.Afterlife

Line-up:
Maniac – vocals
Corruptor – Guitar
Mithra – Guitar
Shinigami – Bass
Anubi – Drum

WATCH THEM BURN – Facebook

Indesinence – III

Un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno in ambito doom per la sua grande intensità.

I londinesi Indesinence tornano a proporre il loro oscuro death doom a tre anni di distanza dall’ottimo “Vessels of Light and Decay”.

III è, come si intuisce facilmente, il terzo full length della band, nata all’inizio del secolo ma non troppo prolifica in quanto ad uscite discografiche, in linea del resto con la gran parte di chi si dedica al genere; peraltro, a tale proposito, non va dimenticato che spesso queste uscite superano di gran lunga l’ora di durata e questa non fa eccezione.
È molta, quindi, la carne al fuoco per gli appassionati, i quali hanno la possibilità di ascoltare una delle band migliori quanto sottovalutate dell’intera scena.
La peculiarità degli Indesinence risiede fondamentalmente nell’esibire una versione minacciosa ed irrequieta del death doom, nel senso che l’aspetto consolatorio del genere viene sovente rimpiazzato da violente accelerazioni, quasi uno strappo volto a reagire al destino ineluttabile.
Le sfuriate in doppia cassa si manifestano senza preavviso e contribuiscono a tenere sempre sul chi vive l’ascoltatore, quasi con la funzione di impedirgli di essere sopraffatto dalla malinconia abbandonandosi all’illanguidimento.
Il sound della band è in linea con quello della scuola britannica, quindi con gli Esoteric quale parziale riferimento ma, ovviamente, con un’anima estrema ben più evidenziata ed un impatto senz’altro maggiormente diretto, in un ambito stilistico pertanto più vicino al death che non al funeral .
Nostalgia, primo vero brano dopo l’intro Seashore Eternal, fotografa al meglio il sound degli Indesinence : in questa traccia troviamo tutto ciò che il trio londinese immette nel proprio sound: rallentamenti, sfuriate, evocative melodie ed l’efficace growl di Ilia Rodriguez.
Embryo Limbo si muove sulla falsariga del brano precedente, mentre Desert Trail  si ammanta di un’oscurità annichilente, sia nelle sue sembianze funeral sia in quelle quasi brutal che l’ottimo assolo chitarristico finisce per unire idealmente.
Strana, e non poco, Mountains of Mind / Five Years Ahead che, già dal titolo parrebbe essere costituita da due tracce diverse, e così è di fatto, con lo stacco non da poco tra le atmosfere mortifere che si dipanano per oltre dieci minuti  ed il più orecchiabile gothic doom alla Paradise Lost degli ultimi tre giri d’orologio; scelta bizzarra ma dal risultato finale comunque convincente.
L’impronta disperata della voce in Strange Meridian si staglia su tastiere dolenti lungo i suoi diciassette minuti senz’altro difficili da digerire ma invero magnifici, nei quali la luce lasciata filtrare dalla chitarra solista nella seconda parte è qualcosa in più di un semplice barlume.
La title track, infine, altro non è che una lunghissima traccia di matrice ambient drone, di buona fattura ma che nulla aggiunge o toglie al valore di un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno nel settore per la sua grande intensità.

Tracklist:
1. Seashore Eternal
2. Nostalgia
3. Embryo Limbo
4. Desert Trail
5. Mountains of Mind / Five Years Ahead
6. Strange Meridian
7. III

Line-up:
Andy McIvor – Bass, Lead Guitar
Ilia Rodriguez – Lead & Rhythm Guitars, Vocals, Keyboard
Paul Westwood – Drums

INDESINENCE – Facebook

Mythological Cold Towers – Monvmenta Antiqva

“Monvmenta Antiqva” è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità.

I Mythological Cold Towers sono una delle realtà brasiliane più importanti in ambito doom, benché la loro notorietà sia di fatto confinata a pochi addetti ai lavori.

Autrice di pochi album diluiti in un arco temporale piuttosto vasto, la band paulista si è progressivamente spostata da una forma epica di black doom, grezza quanto di rara efficacia, espressa specialmente nel magnifico “The Vanished Pantheon”, per approdare ad un death doom dalle sfumature gotiche e dalle connotazioni sempre molto evocative.
I Mythological Cold Towers riescono così a trasmettere in maniera compiuta gli umori cupi e decadenti del genere senza però smarrire quell’aura epica che da sempre è nel loro dna.
Monvmenta Antiqva riesce piuttosto bene in tale intento grazie anche ad uno splendido operato della chitarra solista, capace di rendere al meglio, sia pure in maniera molto essenziale, quelli che sono gli umori di un lavoro che conferma l’elevato standard qualitativo messo in mostra anche nel precedente “Immemorial”.
Beyond the Frontispiece apre splendidamente un album che tocca vette emotive altissime in un brano come Of Ruins and Tragedies, che ha il solo difetto di perdersi in una parte finale interlocutoria andando ad intaccare parzialmente un crescendo emotivo che meritava un migliore epilogo.
Sand Relics riparte nuovamente con il marchio dell’opener, con tastiera e chitarra a costruire partiture solenni sulle quali Samej recita le sue malsane litanie, utilizzando un growl semi recitato assolutamente funzionale al contesto in cui si va ad inserire.
Lo spirito dei Septic Flesh di “Esoptron” aleggia invece nella prima parte di Baalbeck, dove un tocco pianistico apparentemente elementare eleva a dismisura il pathos del brano nella sua fase discendente.
Anche Strange Artifacts segue lo schema vincente di Beyond the Frontispiece, mentre Vestiges è la degna chiusura di un album davvero molto bello, con il quale i Mythological Cold Towers riescono a toccare le corde più recondita dell’animo senza ricorrere a particolari artifici, bensì esibendo un sound fruibile e decisamente poco propenso ad accelerazioni o sfuriate di matrice death o black.
Monvmenta Antiqva è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità, peraltro all’interno di un genere che già di suo si colloca orgogliosamente agli antipodi del mainstream musicale.

Tracklist:
1. Beyond the Frontispiece
2. Vetustus
3. Votive Stele
4. Of Ruins and Tragedies
5. Sand Relics
6. Baalbeck
7. Strange Artifacts
8. Vestiges

Line-up:
Samej – Vocals
Shammash – Guitars
Nechron – Guitars, Keyboards, Vocals
Hamon – Drums

MYTHOLOGICAL COLD TOWERS – Facebook

Gravesite – Horrifying Nightmares …

Senza un brano sotto la media, “Horrifying Nightmares …” sembra uscito davvero dalle orde barbariche che ci investirono nei primi anni novanta: parlare di influenze è superfluo, ascoltatelo.

Supergruppo estremo tutto italiano? E perchè no?

D’altronde, a ben vedere il curriculum dei musicisti impegnati in questa band c’è da stropicciarsi gli occhi: David, batterista di almeno tre gruppi esagerati come Haemophagus, Morbo ed ex Sergeant Hamster, Gioele axeman di Haemophagus e Repulsione, oltre a Claudio (basso) e Gabri (voce) a dare il loro contributo ad una miriade di band tra cui Ancient Cult, Bland Vargar, Nagasaki Nightmare il primo e Black Temple Below, Cancer Spreading, Terror Firmer il secondo.
Nati lo scorso anno, i Gravesite hanno all’attivo un demo, “Obsessed by the Macabre”, prima che il full lenght d’esordio irrompa sulla scena underground sotto l’ala della Xtreem Music, che di lavori old school se ne intende, e ci massacrino sotto le bordate death metal del loro devastante Horrifying Nightmares …
Album che si rifà alla tradizione del death metal classico, il lavoro del gruppo emiliano travolge l’ascoltatore che, ad un primo disattento approcciarsi al disco, potrebbe pensare di trovarsi al cospetto di una delle band storiche del nostro genere preferito, direttamente dai primi ’90, tanto è perfetto a livello di sound, composto da tutti gli ingredienti che hanno fatto storia nella musica estrema.
Tanto death nord europeo, ed una spruzzata di sound made in Bay Area, fanno di Horrifying Nightmares … un ascolto obbligato per tutti i deathsters dagli ascolti old school, sparsi per lo stivale e non solo.
Atmosfera orrorifica già dalla stupenda copertina retrò, partenze a razzo per le vie di un massacro senza soluzione di continuità e brusche frenate doom/death, sono le virtù principali di un lavoro pregno di impatto non solo death, visto che la band ci tiene a sottolineare un’orgogliosa attitudine punk che aiuta non poco l’aggressività e la voglia della band di non scendere a compromessi.
Ottimo il lavoro dei musicisti e non potrebbe essere altrimenti, iniziando dal bestiale orco al microfono, per passare al gran lavoro della sei corde (Gioele è una garanzia di qualità) esaltato da una sezione ritmica da orgia infernale.
Senza un brano sotto la media, Horrifying Nightmares … sembra uscito davvero dalle orde barbariche che ci investirono nei primi anni novanta: parlare di influenze è superfluo, ascoltatelo.

Tracklist:
1. Intro / Anguished Sheep
2. Submerged in Vomit
3. Horrifying Nightmares of Flesh and Blood
4. I Want to Rot
5. The Painter of Agonies
6. Where Mortals Fear to Thread
7. Curse of the Red Moon
8. Worship Death in All Its Forms
9. Suscipe Mortem

Line-up:
Claudio – Bass
David – Drums
Gioele – Guitars
Gabri – Vocals

GRAVESITE – Facebook

Psychophobia – The Fall

Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo.

Certo che gli In Flames di band ne hanno influenzate molte: più passa il tempo e più il gruppo di Anders Friden si rivela un importante modello, sia per i gruppi orientati al death melodico, sia per quelli che si ispirano alla band svedese dopo la svolta dall’impronta americana che avvenne da “Reroute to Remain” in poi.

Gli Psychophobia fanno man bassa del sound di album storici come “Whoracle” e “The Jester Race” e lo arricchiscono di ritmiche power: il risultato è una buona amalgama, che stordisce ed a tratti esalta; derivativo certo, ma i tre brani proposti in questo ep sono manna per gli amanti del genere, che vogliono tornare alle origini del death melodico senza perdersi in soluzioni core e godendo degli elementi classici del genere, con solos melodici e voce cattiva oltre alle suddette ritmiche.
La band, non è proprio di primo pelo, e la sua discografia si avvale di un demo del 2003, di un mini cd e di un full length risalente a tre anni, il tutto in oltre un decennio di carriera nel mondo metallico underground.
L’esperienza si sente tutta e pur senza apparire troppo personale, il gruppo il proprio mestiere lo sa fare bene, confezionando tre brani feroci, scorrevoli e melodici, pur picchiando da par loro.
The Fall, se concepito per sondare il terreno per un futuro album, la sua missione la porta a casa con dignità: Servants Of Deception, la title track e The Code piacciono, colme di riferimenti al genere ed ottime soluzioni ritmiche, solos che strappano qualche convinto applauso e growl che impazza, finalmente anche nei ritornelli, aggressivo e sul pezzo.
Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo, sono quello che avrete da quest’opera, datele un ascolto e mettetevi in attesa del prossimo lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.Servants of Deception
2.The Fall
3.The Code

Line-up:
Pater – guitar
Maryjan – guitar
Maly – drums
Stygmat – vocal
Kom – bass

PSYCHOPHOBIA – Facebook

Dead Hand – Storm Of Demiurge

I Dead Hand, con la loro prima prova su lunga distanza , riescono a catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Gli statunitensi Dead Hand sono di formazione piuttosto recente, visto che la loro genesi risale al 2013, e Storm Of Demiurge è il primo full-length che include anche i due brani (Ground to Ash e The Last King) presenti nell’Ep uscito l’anno scorso.

Se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro della band georgiana si prospetta fangosamente entusiasmante, visto che lo sludge messo in mostra in questi tre quarti d’ora abbondanti di musica appare fina da subito di primissima qualità.
Se Resign to Complacency si presenta come una sorta di intro per poi sfociare in un riff ripetuto ad oltranza, con la già citata Ground to Ash si entra nel vivo del lavoro grazie alle sue atmosfere cupe che, a tratti, vengono stemperate da umori post metal funzionali ad incrinare l’incedere di un sound per sua natura piuttosto monolitico.
In effetti, nonostante le premesse iniziali, una certa componente melodico-acustica prende sovente piede, regalando quell’alternanza di sensazioni in grado di rendere più peculiare la proposta della band.
La voci sono in linea con la tradizione sludge-post metal, e ben si sposano con la atmosfere minacciose che trovano una prima loro sublimazione in Trailed by Wolves, traccia lunghissima che si rivela emblematica delle capacità e delle caratteristiche dei Dead Hand, i quali non dimenticano mai di imprimere tratti riconoscibili ai loro brani.
L’album vive di una tensione emotiva continua, accentuata dall’andamento comune a tutti brani, con un inizio quasi soffuso e dai tratti acustici al quale segue un crescendo, più o meno netto, con quale il trio aumenta progressivamente il tiro fino al raggiungimento del climax (cosa che avviene ugualmente, ma in maniera meno accentuata, nella title track).
La chiusura affidata all’altro brano già edito, The Last King, conferma appieno la vena compositiva dei Dead Hand, capaci fin dalla loro prima prova su lunga distanza , di catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Tracklist:
1. Resign to Complacency
2. Ground to Ash
3. Trailed by Wolves
4. Storm of Demiurge
5. 1/13/12
6. The Last King

Line-up:
Matt – Guitar, Vocals
Clifton – Guitar, Vocals
Stephen – Bass
Shannon – Keyboards, Vocals
J.R. – Drums

DEAD HAND – Facebook

Kalamata – Same

Il trio teutonico Kalamata esordisce con un album space rock psichedelico che spacca.
Geniale sia l’artwork, che ricorda i deliri onirici dei Tool, sia i titoli delle canzoni, che letti insieme passano un messaggio forte e chiaro all’ascoltatore: You Have To Die Soon Mother Fucker. Non perdiamo tempo quindi, mettiamoci subito in cammino, la colonna sonora è garantita.
Come nel miglior viaggio che presenta un paesaggio mutevole, batteria, basso e chitarra sapientemente alternati si inseguono in riff potenti e ipnotici, a tratti più pungenti, in altri più nervosi.
Il giro di chitarra iniziale di You si lega in modo subliminale alle sinapsi; quando la canzone esplode ormai è radicata dentro il cervello. Have sconfina del post rock con suoni più veloci e vibranti. Die è calda e avvolgente, mistica: grazie anche ad un ascolto diretto con le cuffie non è solo un viaggio fisico, ma spirituale, ascetico, magari aiutato da sostanze psicotrope. E c’è qualcosa dei Tool anche per come la chitarra stride verso la fine della canzone.
Strutture math un po’ troppo ripetitive rendono Soon una canzone noiosa, al punto che dopo alcuni ascolti del disco si tende, arrivati a questo punto, a premere il tasto skip.
Mother riprende il vigore dell’inizio dell’album, Fucker è un rimando agli Sleep di Jerusalem, lenta, incessante, inesorabile, subliminale.
Same è album di esordio davvero piacevole, caratterizzato da suoni puliti e precisi, che soddisferà senza fatica gli amanti del genere, affamati di aggiungere un altro gruppo alla loro playlist.

Tracklist :
1. You
2. Have
3. To
4. Die
5. Soon
6. Mother
7. Fucker

Line-up :
Peter Jaun: chitarra
Olly Opitz: batteria
Maik Blumke: basso

pagina facebook
www.facebook.com/kalamataband

Black Capricorn / Bretus – 7″ Split

Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.

Semplicemente due tra le migliori band di musica pesante in Italia uniscono le loro forze e ci presentano una coppia di inediti davvero ottimi.

Sul lato A di questo sette pollici, stampato in trecento copie dalla The Arcane Tapes, ci sono i Bretus, macchine calabresi di sonorità doom classiche, con grandi composizioni che arieggiano la disperazione e il cantato davvero fuori dal comune dei Candlemass, ma oggi sono meglio di questi ultimi. La canzone si ispira ad un racconto dalle stesso titolo molto importante nella produzione lovecraftiana, ed è un ulteriore invito a leggere il Maestro.
Sul lato B le bestie di Satana sarde Black Capricorn, che si sono rivelati nel 2014 con “The Cult of Balck Friars” come uno dei migliori gruppi nel genere doom versante occulto. Le loro abrasioni sonore sono fuori dal comune e questo inedito li conferma come un gruppo che può suonare quello che vuole. The Hound of Harbinger God  è un pezzo di quasi nove minuti ipnotico ed iniziatore, basta seguirlo ed andarci dietro, non cercando la luce in questa bellissima oscurità.
Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.
Una chicca.

Tracklist:
Lato A Bretus – The Haunter Of The Dark
Lato B Black Capricorn – The Hound of Harbinger God

Line-up:
Bretus
Zagarus – vocals
Ghenes – bass
Faunus – guitars
Striges – drums

Black Capricorn
Fabrizio “kjxu” Monni – guitars, vocals, 2nd guitar solo
Daniele Manca – guitars, 1st guitar solo
Virginia Piras – bass
Rachela Piras: drums

BRETUS – Facebook

BLACK CAPRICORN – Facebook

Fallen – Fallen

Riedizione dell’unico album pubblicato dai Fallen con l’aggiunta di due tracce inedite.

È tempo di riedizioni per le creature musicali di Anders Eek, uno dei protagonisti principali della scena doom norvegese.

I Fallen erano una band parallela dei più noti Funeral (dei quali parleremo appunto nei prossimi giorni trattando la ristampa del loro secondo album) e, nel corso della loro breve esistenza artistica, hanno lasciato una sola testimonianza su lunga distanza, A Tragedy’s Bitter End, un lavoro uscito nel 2004 che ottenne buoni riscontri a livello di critica.
Purtroppo, la prematura morte del chitarrista Christian Loos decretò l’interruzione dell’attività per i Fallen, con Eek che passò a dedicarsi a tempo pieno al suo principale progetto.
La Solitude offre oggi questa riedizione, che viene definita impropriamente una compilation, visto che si tratta di fatto della riproposizione dell’unico album con l’aggiunta di due brani registrati prima della scomparsa di Loos.
Musicalmente, A Tragedy’s Bitter End contiene una forma di funeral piuttosto scarna ma indubbiamente coinvolgente anche se non sempre del tutto a fuoco; la possibilità di parlare di questo vecchio album mi fornisce lo spunto per chiarire un personalissimo punto di vista sulla materia trattata: per quanto mi riguarda, l’unica forma vocale possibile per un disco funeral è il growl, punto, e “tutto il resto è noia” (nel vero senso della parola), come qualcuno cantava molti anni fa …
Il tono profondo e forzato di Kjetil Ottersen è piuttosto simile a quello utilizzato da Kostas Panagiotu nei Pantheist, il che tende sicuramente a fornire al sound un’aura più decadente (oltre all’indubbio vantaggio di poter cogliere il contenuto lirico senza l’ausilio di un testo scritto), ma con lo sgradevole effetto collaterale di dover ascoltare una sorta di Andrew Eldritch afflitto da adenoidi.
Per contro, l’attitudine e la competenza nel trattare il genere da parte di Eek e compagni è al di sopra di ogni sospetto, e si percepisce chiaramente quanto il tragico e ineluttabile sentore di morte che aleggia costantemente lungo ogni singola nota dell’album non sia frutto di un’esibizione manieristica.
Un brano splendido come Now that I Die, con i suoi diciassette minuti ed oltre di dolore che si fa musica, è emblematico della bontà intrinseca di un lavoro che è giustamente rimasto ben impresso nella memoria degli appassionati più incalliti.
Le due composizioni che vanno ad integrare la scaletta di A Tragedy’s Bitter End sono Drink Deep My Wounds, che si muove sulla falsariga dei brani precedenti pur rivelandosi in certi frangenti più arioso, e la cover di Persephone dei Dead Can Dance, piuttosto stravolta rispetto all’originale ma non per questo meno efficace (anche grazie al ricorso ad un timbro vocale meglio tarato da parte di Ottersen).
I motivi per far propria questa uscita quindi non mancano, inclusa la possibilità di avere per le mani un album che, all’epoca, venne stampato in un numero limitato di copie e che, oggi, viene oltretutto riproposto con una nuova e più soddisfacente veste grafica.

Tracklist:
1. Gravdans
2. Weary and Wretched
3. To the Fallen
4. Morphia
5. Now that I Die
6. The Funeral
7. Drink Deep My Wounds
8. Persephone – A Gathering of Flowers (Dead Can Dance cover)

Line-up:
Anders Eek – Drums
Christian Loos – Guitars
Kjetil Ottersen – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Black Inside – A Possession Story

Passato, presente e futuro dell’heavy metal passano da album come questo bellissimo “A Possession Story” dei nostrani Black Inside.

Questo bellissimo album mi da lo spunto per fare una considerazione sull’attuale stato di salute dell’heavy metal nel nostro paese: chiaro che, se prendiamo come punto di riferimento e paragone gli anni d’oro (decennio ottantiano), a livello di popolarità non c’è confronto, quelli erano tempi in cui il metal era normalmente in classifica e le band storiche, aiutate da ogni tipo di media, potevano contare addirittura su articoli apparsi su quotidiani e settimanali non proprio di settore (qualcuno si ricorda i Maiden su Sorrisi e Canzoni TV … ?).

I tempi sono cambiati, le tv sono sempre meno libere e chi avrebbe la possibilità di dare una mano al metal, continua a far girare un certo tipo di rock più impegnato politicamente, lasciando al genere, a mio parere il più anarchico di tutti, le briciole.
Peccato, anche perché mai come in questo periodo il metal gode di ottima salute, rigenerato da etichette che non mollano, alla faccia della crisi, ed immettono sul mercato gioielli di musica dura che, aldilà delle influenze più o meno riscontrabili, riescono nella non facile impresa di piacere, travolgere, emozionare.
A distanza di pochissimo tempo dal bellissimo album dei Negacy, ecco che un’altra band mi conquista con un lavoro che poggia le sue fondamenta sul metal classico ma che, invece di risultare il classico lavoro old school, si rivela vario, fresco e moderno pur richiamando il sound dei nostri eroi.
Questa volta si scende al sud, nella bellissima Napoli per incontrare i Black Inside e parlarvi del loro ultimo lavoro dal titolo A Possession Story.
Il gruppo campano nasce nel 2009 e nel 2011 esordisce con l’ep “Servants of the Servants”, seguito dal primo full length “The Weigher of Souls” del 2013, che li ha portati a dividere il palco con Blaze (“che ci faccio io nei Maiden”) Bailey e i Phantom X.
Due anni sono passati, (un lasso di tempo che sta diventando una costante per la band) ed eccoli tornare alla grande con questo bellissimo lavoro di metallo classico, per inciso hard & heavy incendiario, dal songwriting clamoroso ma soprattutto, come detto prima, vario.
Infatti A Possession Story è un susseguirsi di bellissime canzoni, tra l’heavy metal epico e progressivo di certi capolavori della vergine di ferro (The Siege OF Jerusalem), richiami al metal statunitense dei grandiosi Iced Earth (Man Is A Wolf to Men), affreschi di hard rock sabbathiano (Jeffrey), stoner metal grondante lava (I’m Not Like You), travolgente hard & heavy (la conclusiva Pharmassacre) e ballads drammatiche da applausi (la title track), che formano insieme alle altre canzoni un tuffo nel miglior esempio di quello che è oggi l’heavy metal: un genere che guarda al passato con più di un piede nel presente e nel futuro della musica , ed è proprio grazie a dischi come questo che risulta immortale.
Non bastasse ci si aggiungono le prove dei musicisti che, guidati dalla personalità debordante del singer Luigi Martino, sciorinano una prestazione eccezionale in ogni passaggio dell’album, aiutati da una produzione perfetta per il genere, non troppo cristallina per risultare patinata, ma assolutamente sanguigna.
Chi mi conosce per ciò che scrivo si IYE, sa che il mio amore per l’heavy metal è incondizionato causa le troppe primavere, ormai, passate in compagnia della musica dura per eccellenza, ma vi assicuro che album come A Possession Story fanno tornare il sorriso a questo inguaribile vecchietto …

Tracklist:
01. Man is a Wolf to Men
02. The Siege of Jerusalem
03. Black Inside
04. I’m Not like You
05. King of the Moon
06. Too Dark to See
07. A Possession Story
08. Forsaking Song
09. Jeffrey
10. Pharmassacre

Line-up:
Luigi Martino – Lead Vocals
Brian Russo – Guitars
Eduardo Iannaccone – Guitars
Vincenzo La Tegola – Bass Guitar
Enzo Arato – Drums

BLACK INSIDE – Facebook

AA.VV. – A Treasure To Find, un Omaggio ai Novembre

Un’operazione del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle rispettive riproposizioni.

Prima di cominciare a parlare di questo album devo fare doverosamente outing: i Novembre non mi hanno mai fatto impazzire. Intendiamoci, non ho alcuna intenzione di sminuire (e del resto chi sono io per pensare di farlo ?) il valore oggettivo di una band che ha influenzato centinaia di musicisti, non solo nel nostro paese: il fatto è che il sound della creatura dei fratelli Orlando non è mai riuscito del tutto a far breccia in un cuore come il mio, che pure è propenso per natura ad emozionarsi ascoltando brani intrisi di malinconia come sono in effetti quelli dei Novembre. Come cantava qualcuno molti anni fa, evidentemente, è solo “una questione di feeling”.

Questa premessa, che ai più forse parrà superflua, è doverosa in quanto l’apprezzamento che andrò a descrivere nei confronti di questa ottima iniziativa della Mag-Music, non è quello del fan accecato dalla passione, bensì deriva esclusivamente dalla bontà delle rielaborazioni dei brani dei Novembre contenuti nel tributo.
Nove sono le tracce proposte con il contributo di dieci realtà musicali (in quanto Cold Blue Steel viene brillantemente rielaborata dall’accoppiata Vostok / Australasia), diverse per background e stile ma ugualmente ispirate nei rispettivi percorsi musicali dalla seminale band capitolina .
Nella scelta dei brani la parte del leone la fa il penultimo album “Materia” con quattro tracce (in effetti cinque se consideriamo che L’Alba di Morrigan propone mirabilmente in un sol colpo Aquamarine / Geppetto) lasciando il resto ai vari “Classica” (2), “Wish I Could Dream It Again…”, “Arte Novecento” e “Novembrine Waltz” (uno ciascuno), e tralasciando misteriosamente del tutto l’ultima testimonianza su lunga distanza “The Blue”.
Nel complesso l’operazione si rivela, comunque, del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle relative riproposizioni, con note di merito per l’operato di Lenore S. Fingers, dove possiamo apprezzare ancora una volta la splendida voce di Lenore, Shores Of Null, la band più metal del lotto che, non a caso, si appropria da par suo di The Dream Of The Old Boats ,uno dei brani più datati dei Novembre, e, come detto L’Alba di Morrigan con la poetica accoppiata tratta da “Materia”.
Di sicuro gradite a chi ha familiarità con la musica proposta, per assurdo questo tipo di iniziative possono rivelarsi utili soprattutto incuriosendo chi magari conosce solo di fama le band oggetto dei tributi, tanto più in questo caso specifico alla luce del recente annuncio (al punto che viene da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina …) dell’imminente ritorno dei Novembre, guidati dai soli Carmelo Orlando e Massimiliano Pagliuso, a ben otto anni di distanza da “The Blue”.
Da applaudire quindi per la brillante intuizione i promotori del tributo, Marco Gargiulo della Mag-Music e Stefano Morelli di Rumore, a maggior ragione per la decisione di offrirne i contenuti in download gratuito.

Tracklist:
1. Valentine – Lenore S. Fingers (Novembrine Waltz)
2. The Dream Of The Old Boats – Shores Of Null (Wish I Could Dream It Again)
3. A Memory – Demetra Sine Die (Arte Novecento)
4. Aquamarine/Geppetto – L’Alba Di Morrigan (Materia)
5. Cold Blue Steel – Vostok & Australasia (Clasica)
6. Nostalgiaplatz – Arctic Plateau (Classica)
7. Memoria Stoica/Vetro – Shape (Materia)
8. Nothijngrad – Electric Sarajevo (Materia)
9. Jules – Lauren Vieira (Materia)

MAG MUSIC – Facebook

Reanimator – Horns Up

I canadesi Reanimator tornano con un nuovo massacro thrash metal: per gli amanti del genere un album da ascoltare senza riserve.

Un toro borchiato di tutto punto, armato di corna che sputano lingue di fuoco vi travolgerà e non ci sarà scampo …

Cattiveria pura, un caterpillar inferocito che, a colpi di thrash metal, vi inchioderà al muro, devastandovi sotto mazzate di una forza animalesca irrefrenabile: questo è Horns Up, nuovo lavoro dei canadesi Reanimator, metallo che mostra i muscoli e senza pietà, spacca ossa e orecchie sospinto dall’impatto distruttivo della band del Quebec, con già una decina d’anni di attività alle spalle.
Thrash’n’roll si definiscono loro, semplicemente old school thrash metal direi io: lo speed a rendere il tutto più veloce e travolgente e qualche accenno hardcore nei cori sono le qualità maggiori di questo massacro senza soluzione di continuità, suonato come il genere insegna in virtù della buona tecnica e dell’esperienza fatta dal gruppo in questi anni, accompagnando sul palco nomi storici del metal estremo come Exodus, Aggressor, Brutal Truth, Macabre e Cryptopsy, tanto per nominare i più noti e sottolineare la varietà di stili con cui i Reanimator si sono confrontati senza timore in sede live.
Chitarre che tranciano in due come seghe elettriche (Ludovic Bastien e Joel Racine ), sezione ritmica che picchia come il bestione in copertina (Francis Labelle alle pelli e Fred Bizier al basso), ed un cantante indemoniato e rabbioso (Patrick Martin) sono gli ingredienti di questo macello sonoro che inizia alla grande con Electric Circle Pit e non smette di picchiare, continuando anzi a colpire duramente con Tempted by Deviance, Thieves of Society e via di diritti e ganci, senza sosta ne pietà.
Con ritmiche che mozzano il fiato, un’aggressività che conquista e cori azzeccati, i Reanimator si dimostrano una perfetta macchina da guerra che in sede live immagino ancor più devastanti; questo ottimo lavoro ha proprio tutto per essere portato sui palchi, facendo vittime, travolte dalla carica di brani come Still Sick e Mock a Mockingbird, traccia conclusiva del lavoro dove viene a galla la furia rock’n’roll del combo di Montréal.
Per gli amanti del genere un album da ascoltare senza riserve.

Tracklist:
1.Electric Circle Pit
2.Rush For The Mosh
3.Tempted By Deviance
4.Thieves Of Society
5.The Abominautor
6.The Mosh Master
7.Still Sick
8.Off With Their Heads
9.Mock A Mockingbird

Line-up:
Patrick Martin – Vocals
Ludovic Bastien – Guitar
Francis Labelle – Drums
Fred Bizier – Bass
Joel Racine – Guitar

REANIMATOR – Facebook

Phlegmatic Table – Waiting For The Wolf

I bielorussi Phlegmatic Table sono autori di un moderno thrash colmo di digressioni industrial e groove: se questo è un assaggio di un prossimo full length ne vedremo e sentiremo delle belle,

Non è poi così facile convincere, ma soprattutto sorprendere, in poco più di dieci minuti, a meno che non si abbiano a disposizione talento e tecnica: i Phlegmatic Table, band proveniente dalla Bielorussia, all’esordio tramite Total Metal Records, ci sono riusciti.

Il trio, all’esordio con questo Ep intitolato Waiting For The Wolf, uscito solo in versione digitale, immette nella propia musica una valanga di idee, assemblando generi e influenze in pochi minuti e conquistando l’ascoltatore, piacevolmente frastornato dalle sorprese che la band riserva ad ogni passaggio.
C’è davvero un po’ di tutto nel sound della band: thrash metal, industrial, alternative e tanto groove, il che produce un monolite di musica estrema, concettualmente progressiva ed ottimamente suonata.
Immaginate il thrash evoluto di Coroner e Mekong Delta, a cui si aggiungano l’industrial metal dei Prong e le ritmiche marziali e groove dell’alternative di moda nel nuovo millennio, ed avrete più o meno un’idea della musica proposta dai Phlegmatic Table.
Senza dimenticare i Voivod di “Angel Rat”, la band spara liriche sarcastiche su questo ottimo tappeto di metal moderno, maturo, tenendo comunque a bada il songwriting che non dimentica mai la forma canzone, specialmente in occasione della notevole title track e dell’opener Chocolate Ice Cream.
Lasciarsi trasportare da parti jazzate che, qua e là, nobilitano ancor di più il suono è un attimo, finché il ritmo colmo di groove della notevole Dirty Shoes entra prepotentemente nelle nostre teste per cicatrizzarsi e non uscirne più.
Davvero notevoli, se questo è un assaggio di un prossimo full length ne vedremo e sentiremo delle belle.

Tracklist:
1. Chocolate Ice Cream
2. Waiting for the Wolf
3. Dirty Shoes
4. Fridge
5. Another Morning

Line-up:
Artour Sotsenko – guitars, vocals;
Vladimir Slizhuk – bass;
Paul Chaplin – drums.

Sorrowful – In The Rainfall

Un disco rivolto soprattutto a chi apprezza maggiormente le partiture dolenti del doom quando sono sommerse da gragnuole di colpi inferti dalla furia del death.

Esordio all’insegna di un death doom molto tradizionale per questa band di stanza a Göteborg, della quale attraverso i canali ufficiali non è che si sappia molto dei musicisti coinvolti.

Bisogna, quindi, attingere alla sempre utile Encyclopaedia Metallum per scoprire che i Sorrowful sono un duo messicano trasferitosi da tempo in Scandinavia composto da I.Ishtar e Jorge Vergara, con il primo, soprattutto, già molto attivo nella scena nordeuropea (facendosi valere in particolare con gli ottimi Dødsfall).
Si diceva di un lavoro devoto ai suoni tradizionali in voga negli anni ’90, quando My Dying Bride ed Anathema, soprattutto, tracciarono le linee guida di un genere che nel corso degli anni, come sempre accade, avrebbe assunto diverse ulteriori ramificazioni.
Il sound dei Sorrowful è sicuramente efficace in quanto completamente spogliato di qualsiasi orpello gotico e decadente, e questo alla fine costituisce un pregio, per l’indubbia coerenza ad uno stile che oggi non si può certo definite alla moda, ma anche un difetto in quanto, basando il tutto su un impatto piuttosto brutale, In The Rainfall mantiene una linearità apprezzabile ma che non sfocia mai in momenti davvero memorabili.
Il disco è comunque valido, ma mi sentirei di consigliarlo più agli estimatori del death caliginoso e rallentato (in stile Asphyx, direi) che non a chi, all’inizio degli anni ’90, si è beato di pietre miliari quali “As The Flower Withers” e “Serenades”.
Un buon growl, sorretto da riff pesantissimi e da qualche raro ma riuscito passaggio in chiave solista, sono il trademark di questi tre quarti d’ora di buona musica estrema, che ripropone in maniera appropriata quanto onesta quei suoni che ogni tanto è bene che vengano rispolverati.
I nostri dimostrano, pur se con parsimonia, di avere nelle corde anche quelle aperture melodiche capaci di rendere memorizzabili tracce altrimenti monolitiche nel loro incedere: a tale proposito si rivela emblematica l’ottima The Machine Of Desolation e in parte anche la successiva The Flight of Mind, mentre Gray People si staglia sul resto della tracklist con i suoi ritmi mortiferi che riportano, volendo restare in un ambito attuale, ai Vallenfyre di Greg Mackintosh.
Da rimarcare anche l’opener The Last Journey e Oceans of Darkness, brani nei quali i Sorrowful riescono a trovare un buonissimo equlibrio tra le diverse componenti del loro sound.
In definitiva, un disco interessante, soprattutto per chi apprezza maggiormente le partiture dolenti del doom quando sono sommerse da gragnuole di colpi inferti dalla furia del death.

Tracklist:
1. The Last Journey
2. Nothingness
3. Gray People
4. Oceans of Darkness
5. Utopian Existence
6. Frozen Sun
7. The Machine of Desolation
8. The Flight of Mind
9. Eager of Death

Line-up:
I. Ishtar – Guitars, Drums
Jorge Vergara – Vocals, Bass

SORROWFUL – Facebook

The Long Escape – The Warning Signal

Il futuro del progmetal passa da lavori che miscelano tradizione e modernità come “The Warning Signal”

Brutta bestia il prog metal: da una parte la bravura tecnica dei musicisti che nel genere è un dato di fatto, dall’altra un forte senso di già sentito aleggia sulle produzioni del genere, fredde se la tecnica prende il sopravvento sul songwriting, emozionali ma derivative se le band puntano sul classico seguendo il teatro di sogno in un caso o il new prog britannico nell’altro.

Allora esce allo scoperto la voglia di chi, pur conservando un approccio prog alle composizioni, le valorizza con varie influenze, dal rock alternativo al metal moderno, accorciando il minutaggio delle composizioni, raddoppiandone l’appeal e rendendo la propria musica fruibile ad un pubblico che non sia solo formato da intenditori.
La versione metal del prog anni settanta, purtroppo, consta di fans molto conservatori, ancorati ai gruppi storici settantiani o ai metallari che, dal power più tecnico hanno volto lo sguardo alle sonorità care alle super band degli anni novanta (Dream Theather e Symphony X su tutte).
I francesi The Long Escape, giustamente, fanno spallucce e con il loro secondo lavoro, accentuano ancor di più il loro sound che di metal prog si nutre, cercando però di variegarlo con ottime atmosfere che dei generi moderni sono prerogativa.
Ecco che nasce il sound di The Warning Signal, prog metal moderno, colmo di ritmiche grasse che a tratti schiacciano l’occhiolino al core, brani dal forte sapore alternative e tanta bravura strumentale, che esce allo scoperto quando il gruppo si ricorda di divagare con scale intricate ma non troppo, melodiche, ruffiane, graffianti e aggressive il giusto per piacere agli appassionati dai gusti moderni.
Ne esce un gran bel disco, piacevole in tutte le sue sfumature e suonato benissimo, da musicisti sul pezzo e alquanto vario; certo, dimenticatevi cervellotiche fughe chitarristiche accompagnate da tastiere suonate alla velocità della luce: qui si viaggia su ritmi cadenzati e pesanti, le accelerazioni, quando la band schiaccia sul pedale, sono devastanti monoliti dal groove micidiale, intervallati da soluzioni alternative, come se gli Alter Bridge decidessero di suonare prog metal.
Seas Of Wasted Men, Awakened Ones, Carnival Of Deadly Sins e Slave sono gli episodi migliori di un album riuscito e che entra di diritto nelle opere di genere che lasciano qualcosa in più rispetto a mere prove di tecnica strumentale fini a sé stesse.
Da appassionato di prog in tutte le sue forme, credo fortemente che il futuro per il genere passi da questi lavori che miscelano tradizione e modernità.

Track List:
1.The Noise
2.Seas Of Wasted Men
3.Awakened Ones
4.Million Screens
5.Digital Misery
6.Carnival Of Deadly Sins
7.Crashdown
8.The Search
9.Homo Weirdiculus
10.Slave
11.World Going Down
12.The Last Crying Man

Line-up:
Kimo – Vocals/Guitars
Marius – Guitars
Nicolas – Bass
Tom – Drums

THE LONG ESCAPE – Facebook

Ataraxie – Slow Transcending Agony

Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

A dieci anni esatti dalla sua pubblicazione, Slow Transcending Agony, album d’esordio dei francesi Ataraxie, viene nuovamente immesso sul mercato in una veste rinnovata e con l’aggiunta di una bonus track come The Tree of Life and Death, cover dei seminali Disembowelment.

La band normanna è senza ombra di dubbio uno dei nomi di punta della scena funeral death doom europea, benché la sua produzione non sia ricchissima a livello di full length pubblicati, ma qui a fare la differenza è la qualità immensa di ognuna delle tre uscite (oltre al disco in oggetto, “Anhedonie” del 2008 e “L’être et la Nausée” del 2013).
Proprio parlando di quest’ultimo lavoro, circa due anni fa, mi spinsi ad affermare che gli Ataraxie avevano finalmente raggiunto il gotha della scena, e tale sensazione viene ampiamente suffragata da quest’esame retrospettivo che ci consente di vericare l’evoluzione della band e, nel contempo, di constatare quanto il sound fosse evoluto e di un livello abbondantemente al sopra della media già allora.
Dopo la lunga introduzione affidata al mortifero strumentale Astep Into The Gloom, Funeral Hymn scaraventa l’ascoltatore negli abissi più reconditi, lo immerge in una cupa disperazione rivelandosi una vera e propria marcia funebre che accompagna l’interminabile percorso lastricato di un dolore senza fine.
L’Ataraxie, se possibile, aumenta ancor di più il pathos drammatico del lavoro; se il brano precedente risentiva ancora, parzialmente, dell’inevitabile influsso della “sposa morente”, il pezzo autointitolato è invece un magnifico e monolitico esempio di funeral doom che non ammette dubbi né repliche: lo si ama, e basta.
La title track si snoderebbe nel buio più totale se non intervenisse qualche accenno acustico ad illuminare di luce fioca uno scenario non dissimile a quelli consoni ai Mournful Congregation (che nello stesso anno, è bene ricordarlo, diedero alla luce quel capolavoro intitolato “The Monad Of Creation”).
Another Day Of Despondency lascia sfogare una controllata furia death prima che i rallentamenti mozzafiato vadano a lambire, nelle rare aperture melodiche, gli umori seminali della scuola albionica dei primi anni novanta.
The Tree of Life and Death, infine, è l’omaggio doverso agli australiani Disembowelment, band di culto che con un solo album, pubblicato nel 1993, è stata comunque capace di lasciare il segno nella scena death doom; da rimarcare che il brano in questione è stato registrato dagli Ataraxie con la nuova formazione che vede la presenza di ben tre chitarristi.
Senza nulla togliere ai suoi compagni , Jonathan Thery domina Slow Transcending Agony grazie alla sua capacità di unire un growl dalla timbrica inumana, eguagliato oggi dal solo Daniel Neagoe, a sfuriate in uno screaming di matrice quasi depressive, senza che il potenziale evocativo dei brani venga minimamente scalfito.
Dieci anni sono relativamente pochi nella storia di una band, ma in ogni caso l’album non mostra alcuna ruga, confermandosi ancora oggi come una delle migliori testimonianze del genere pubblicate nel nuovo secolo.

Tracklist:
1. Astep Into The Gloom
2. Funeral Hymn
3. L’Ataraxie
4. Slow Transcending Agony
5. Another Day Of Despondency
6. The Tree of Life and Death

Line-up:
Jonathan – Vocals, Bass
Fred – Guitars
Sylvain – Guitars
Pierre – Drums

ATARAXIE – Facebook

Old Graves – This Ruin Beneath Snowfall

“This Ruin Beneath Snowfall” è una delle cose migliori ascoltate quest’anno in ambito black atmosferico.

Breve Ep d’esordio per Old Graves, ennesimo progetto solista dedito al black metal atmosferico.

Colby Hink è canadese e, tutto sommato, nella sua musica confluiscono in maniera sensibile le emozioni ed il senso di sgomento che gli splendidi scenari paesaggistici offerti del suo paese riescono ad indurre, in chiunque sia conscio della propria sostanza infinitesimale rispetto alla maestosità della natura.
Se il sound porta con sé una brezza tenue ma gelida, d’altra parte possiede anche un respiro più ampio che conduce la mente in spazi sterminati in cui l’uomo è (non sempre gradito) ospite.
Il lavoro è molto breve ma fa intuire l’innata predisposizione di Colby nel produrre atmosfere malinconicamente evocative, pur nella loro semplice struttura. In particolare brilla, baciata da una linea melodica davvero splendida, Hang My Remains from the Crescent Moon, ma Dawn Treader e la title track non sono in fondo da meno, andando a costituire un quadro dall’impatto emotivo non sempre riscontrabile in simili occasioni.
Lo screaming è nella norma ma ha il pregio di non risultare fastidioso, anche se in fase di produzione è stato come da copione del genere seppellito dagli altri strumenti, specialmente quando tutti si muovono all’unisono nell’edificare un muro sonoro avvolgente.
Il musicista nordamericano dimostra buon gusto e talento anche nelle parti acustiche e più riflessive, nelle quali la componente ambient viene sempre e comunque asservita ad un costruzione melodica logica e lineare, che include la presenza di assoli chitarristici di buon pregio.

This Ruin Beneath Snowfall è una delle cose migliori ascoltate quest’anno in ambito black atmosferico: di solito con gli Ep tendo a non sbilanciarmi con le valutazioni ma, in questo caso, mi sento di scommettere senza alcuna remora su una qualità compositiva che non può essere né casuale né transitoria.

Tracklist:
1. Kestrel
2. Dawn Treader
3. Hang My Remains from the Crescent Moon
4. This Ruin Beneath Snowfall

Line-up:
Colby Hink – All instruments

OLD GRAVES – Facebook</>

Feral – Where Dead Dreams Dwell

Per chi ama il death metal old school questo è un album da avere assolutamente.

Nel nordeuropa sembra tornata, alla grande, la voglia di suonare death metal come si faceva nei primi anni novanta: sono infatti molte le band che si rifanno ai suoni old school, senza scendere a facili compromessi e tornando a far sferragliare gli strumenti come il genere insegna.

Vero infatti che, aldilà di nostalgici sguardi al passato, il metal estremo ha avuto in quel periodo, un picco qualitativo assoluto con death e black che si giocavano la supremazia sulle preferenze dei fans, con capolavori rimasti saldamente nella memoria di chi quel periodo l’ha musicalmente vissuto.
Non a caso, quando si parla di death metal classico o old school (come va di moda chiamarlo), le band storiche della scena scandinava (insieme a quelle americane) escono dalle note delle nuove opere e dagli articoli di chi prova a descrivere album che, oggi più di qualche tempo fa, si rifanno ad una scena morta per il music biz, ma tremendamente viva nell’underground.
I Feral sono l’ennesima band svedese che torna a far male rifacendosi al death metal classico, ed il suo nuovo lavoro, Where Dead Dreams Dwell, si rivela un altro ottimo esempio di metal estremo che, pur rifacendosi alle band storiche del genere, suona fresco e devastante.
Nato nel 2007, il gruppo di Skellefteå ha dato alle stampe una manciata di demo per esordire sulla lunga distanza quattro anni fa con “Dragged to the Altar”.
Where Dead Dreams Dwell, dunque, è il secondo lavoro, uscito per Cyclone Empire in questa primavera, un nuovo capitolo mixato e masterizzato da Petter Nilsson, ex chitarrista della band, con tanto di copertina disegnata da Costin Chioreanu, già al lavoro con At The Gates, Arch Enemy, Primordial e Mayhem, tra gli altri.
Niente di nuovo, quindi, solo incendiario, travolgente e massacrante metal estremo, suonato bene, composto da brani di ottima qualità, brulicante di solos, di ritmiche velocissime, rallentamenti e ripartenze fulminee e un impatto da vecchia scuola che non lascia scampo.
I Feral, rodati da innumerevoli live, ne esce alla grande, compatta e sfavillante, creando un’onda d’urto di inumana potenza: le canzoni deflagrano in tutta la loro violenza, senza nessun riempitivo e l’album scivola via così fluido e potente tra brani riusciti come Creatures Among the Coffins, Inhumation Ceremony, The Crawler e Mass Resurrection, in cui compare come ospite il growl di Jonas Lindblood dei grandiosi Puteraeon, autori con “The Crawling Chaos”, di uno dei dischi più belli dello scorso anno nel genere.
Where Dead Dreams Dwell è un altro album da non sottovalutare per gli amanti del death metal classico, tornato finalmente ai livelli che gli competono in fatto di qualità, anche grazie a band come i Feral.

Tracklist:
1. Swallowed by Darkness
2. Creatures Among the Coffins
3. As the Feast Begins
4. Suffering Torment
5. Carving The Blood Eagle
6. Inhumation Ceremony
7. The Crawler
8. Overwhelmed
9. Mass Resurrection
10. Succumb to Terror

Line-up:
Viktor Eriksson – Bass
David Nilsson – Vocals
Markus Lindahl – Guitars
Roger Markström – Drums

FERAL – Facebook