Amputory – Ode To The Gore

Album da spararsi come una dose di pura adrenalina, “Ode To The Gore” non farà sicuramente conquistare nuovi fan al genere, ma gli amanti di queste sonorità troveranno di che gioire.

Dalle estreme lande del nordeuropa, un altro combo dedito al death metal old school attraversa il mare e porta con sé, attraversando il vecchio continente, uno tsunami di barbarie in musica: cinque guerrieri che, portando alta la bandiera del genere,e ci investono con la forza distruttrice che solo questo tipo di musica sa regalare.

Loro sono i finlandesi Amputory, autori in precedenza di due demo (“Promo 2010” e “Unclean Promo 2012”) che li hanno portati all’attenzione di Dave Rotten, micidiale singer dei thrashers spagnoli Avulsed e patron della Xtreem Music, una delle maggiori etichette, qualitativamente parlando, del metal estremo underground.
Old school, si diceva ed allora non aspettatevi nulla che non sia puro ed incontaminato death metal scandinavo, feroce, brutale e massiccio: mezz’ora circa di sangue a frotte che esce dagli strumenti, seviziati da quest’orda di fiere feroci, in una messa nera dedicata al signore della morte in un’orgia di suoni estremi direttamente dai primi anni ’90.
La band, compatta, aggredisce dalla prima all’ultima nota, come consuetudine parti veloci si scambiano la scena con altre cadenzate e potentissime, dove il fiore all’occhiello è la prestazione dietro al microfono di quella creatura infernale che di nome fa Jarno Kokkonen, vocalist per talento, orco per natura, dotato di un growl bestiale.
Il resto della band asseconda questa creatura con buona tecnica e tanto feeling, i brani escono pesanti come incudini, travolgenti nelle ritmiche e ottimi nei solos, che sono impietose frustate nella schiena.
Album da spararsi come una dose di pura adrenalina, Ode To The Gore non farà sicuramente conquistare nuovi fan al genere, troppo devoto com’è ai crismi del death tradizionale (più svedese che finlandese, direi), ma gli amanti di queste sonorità troveranno di che trastullarsi tra ossa e falci in questa oscura opera estrema.
Le band storiche a cui la band si ispira sono essenzialmente Dismember e primi Entombed, per cui, se questi nomi sono nelle vostre corde, fate vostro questo inno al male godendovi ancora una volta una mezz’ora di musica estrema con gli attributi al posto giusto.

Tracklist:
1. Enslaved in the Basement
2. Ode to Gore
3. Cleansing the Blade
4. Aghori
5. Unclean
6. Bludgeoned
7. Unaccountable
8. Illuision of Sanity

Line-up:
Pekka Sauvolainen – Bass
Jaakko Kölhi – Drums
Saku Manninen – Guitars
Antti Saikanmäki – Guitars
Jarno Kokkonen – Vocals

AMPUTORY – Facebook

Pale From Sunlight – Love Was Never An Option

L’elemento di interesse per i Pale From Sunlight risiede nella maggiore rarefazione delle atmosfere, che non sono mai banali e che, alla fine, riescono ad indurre quel senso di ineluttabile ed interminabile sconforto che il DSBM intende riversare sull’ascoltatore.

Depressive black dagli Stati Uniti con il duo Pale From Sunlight, all’esordio con questo primo lavoro su lunga distanza dopo l’Ep omonimo uscito solo lo scorso febbraio.

L’interpretazione del genere vede Krullnaag e Vemetrith alle prese con i consueti suoni venati di dolore ottundente che dividono la scena con l’altrettanto canonica voce straziante.
L’elemento di interesse per i Pale From Sunlight risiede, dunque, nella maggiore rarefazione delle atmosfere, che non sono mai banali e che, alla fine, riescono ad indurre quel senso di ineluttabile ed interminabile sconforto che il DSBM intende riversare sull’ascoltatore.
Peccato solo che la produzione non riesca a valorizzare appieno il buon lavoro compositivo, ma chi ama tali sonorità ormai ha già fatto abbondantemente l’orecchio a questo aspetto
I cinque brani di Love Was Never An Option appaiono comunque tutti piuttosto efficaci anche se, per gusto personale, ho molto apprezzato la conclusiva Last Sunset, in pratica un esibizione di funeral depressive capace di convogliare in un sol colpo tutto il disagio esistenziale che, ciascuno a modo proprio, entrambi i generi intendono convogliare.
Buona prova comunque per una band che si piazza con buona disinvoltura sulla scia della migliore scuola americana che vede Xasthur e Dhampyr quali portabandiera.

Tracklist:
1. River Oaks
2. ‘Til Death Does His Part
3. Anxious Revelations
4. Out of Reach
5. Love Was Never an Option
6. Last Sunset

Line-up:
Krullnaag – All instruments
Vemetrith – Vocals

PALE FROM SUNLIGHT – Facebook

Shape Of Despair – Monotony Fields

Il sound dei Shape Of Despair non respinge ma avvolge, non trasporta un sentore di morte cavalcando sonorità ostiche e dissonanti, bensì accompagna misericordiosamente gli ultimi ansiti vitali rendendo sopportabile ma non meno drammatico l’imminente distacco.

All’inizio del secolo i finlandesi Shape Of Despair si imposero come una delle realtà più fulgide della scena funeral doom, grazie ad un trittico di album (“Shades Of …”, “Angels Of Distress” ed “Illusion’s Play”) di eccellente livello medio.

In particolare il secondo viene ricordato come uno dei capolavori assoluti del genere e, in una mia ipotetica graduatoria, occupa saldamente una delle prime cinque posizioni all time.
Dopo “Illusion’s Play”, la band creata da Jarno Salomaa e Tomi Ullgrén si prese una lunga pausa, interrotta solo dall’ep “Written In Scars” del 2011 e dallo split album con i portoghesi Before The Rain l’anno dopo.
La partecipazione di Salomaa al meraviglioso progetto Clouds di Daniel Neagoe faceva in effetti sperare in una prossima ripresa dell’attività degli Shape Of Despair, e così è stato: ottenuto un nuovo deal con la Season Of Mist e rimpiazzato alla voce lo storico vocalist Pasi Koskinen con l’ottimo Henri Koivula dei Throes Of Dawn, eccoci quindi a parlare di questo Monotony Fields, album che si prospetta come una sorta di evento per chi ama il funeral.
Chiedere di raggiungere i livelli di “Angel Of Distress” sarebbe stato forse troppo, eppure i nostri vi si avvicinano non poco, superando ampiamente per valore il buono ma non eccezionale “Illusion’s Play”.
L’interpretazione del genere dei finnici possiede un mood atmosferico che rende peculiari tutti i brani: il particolare tocco chitarristico di Salomaa e le sue linee tastieristiche fanno precipitare l’ascoltatore in un vortice di malinconia che il contributo vocale della sempre brava Natalie Koskinen rende più sopportabile, senza riuscire a cancellare la disperazione ed il senso di ineluttabile tragedia che aleggia sull’esistenza di ognuno.
Il sound dei Shape Of Despair non respinge ma avvolge, non trasporta un sentore di morte cavalcando sonorità ostiche e dissonanti o sfruttando essenzialmente un growl impietoso e riff granitici, bensì accompagna misericordiosamente gli ultimi ansiti vitali rendendo sopportabile ma non meno drammatico l’imminente distacco.
Un’ora e un quarto di languida e mortale poesia, con brani che crescono dopo ogni ascolto, rendono Monotony Fields un virus che si insinua sottopelle: la title track, Withdrawn e In Longing sono le gemme più fulgide di un lavoro privo di punti deboli, se non quello prettamente commerciale, contenendo sei tracce di funeral doom, un genere che anche nelle sue espressioni più elevate rimane pur sempre rivolto ad un numero limitato di anime sensibili.
La riedizione di Written Of Scars chiude questo meraviglioso monumento al dolore: non temetelo e non ritraetevi, il suo effetto catartico potrebbe sorprendervi al di là di ogni aspettativa.

Tracklist:
1. Reaching the Innermost
2. Monotony Fields
3. Descending Inner Night
4. The Distant Dream of Life
5. Withdrawn
6. In Longing
7. The Blank Journey
8. Written in My Scars

Line-up:
Tomi Ullgrén – Guitars
Henri Koivula – Vocals
Sami Uusitalo – Bass
Samu Ruotsalainen – Drums
Natalie Koskinen – Vocals (female)
Jarno Salomaa – Guitars, Keyboards

SHAPE OF DESPAIR – Facebook

Madness Of Sorrow – III: The Beast

Sterzando leggermente il tiro su sonorità più metalliche, ma non snaturando assolutamente il proprio credo musicale, il gruppo ha regalato ai fan il degno successore dell’ottimo primo album.

La bestia che si annida tra le note create dai nostrani Madness Of Sorrow, non si è mai estinta e torna con tutto il suo terribile bagaglio di nefandezze, nascosta nell’ombra dei palazzi apostolici, contaminando, possedendo, liberando ogni tipo di istinto e il male, quello vero che rovina vite, distrugge speranze, annienta personalità e umanità.

III: The Beast è il terzo capitolo creato dalla band di Muriel Saracino, factotum dei Madness Of Sorrow, che con il precedente “Take The Children Away From The Priest”, aveva impressionato gli addetti ai lavori con un album di genere che pescava tanto dal metal dei Death SS quanto dal dark ottantiano, risultando uno dei più riusciti lavori del 2013.
Il nuovo album non tradisce le aspettative, il sound della band ormai è ben canalizzato sulle coordinate date dal leader, lasciando a pochi dettagli le differenze con il suo bellissimo predecessore.
Un gran bel lavoro quello fatto da Saracino, questa volta aiutato dal nuovo chitarrista e bassista Shark, anche in fase di scrittura: l’album riparte da dove “Take The Children Away From The Priest” ci aveva lasciati, quindi molto più metallico specialmente in avvio con i primi due brani, Welcome to Your Suicide e Three Meters Underground, che partono a razzo.
Si torna ad atmosfere oscure con il capolavoro Seed of Evil, uno stupendo affresco colorato con pastelli dark ed horror metal perfettamente bilanciati creando un arcobaleno di tonalità nere e drammatiche, interpretate da Muriel con rabbiosa personalità.
Sia chiaro, la teatralità delle classiche band di genere qui è sostituita da un’atmosfera di drammatica pesantezza, denuncia e sofferenza: l’alchimia tra metal moderno (continuo a trovare nella musica del gruppo più di un riferimento al reverendo Manson, oltre ai maestri Death SS) ed il dark rock continua ad imperversare nel sound di una band matura, poco incline a note ruffiane ma solidamente ancorata al proprio percorso musicale, che con il nuovo album si conferma in tutto il suo cupo incedere.
The Army of Sinners durissima e moderna richiama i Nefilim di Zoon, mentre The Black Lady risulta l’esempio lampante del buon mix tra Manson ed i Death SS, prima che la devastante Vatican’s Ruins ci consegni il brano più estremo del lavoro, almeno per quanto riguarda le ritmiche e la buona dose di velocità.
Non mancano due graditi ospiti sul nuovo album: Simon Garth, già presente sul precedente lavoro e qui alle prese con la chitarra acustica in Crucifixed, e Bolthorn, bassista degli epic metallers Avoral sulla devastante Three Meters Underground.
Evilangel superba e malefica song metallica fino al midollo, in compagnia della superba Drowned, chiude III: The Beast e conferma i Madness Of Sorrow come una delle realtà più fulgide del panorama horror metal nazionale.
Sterzando leggermente il tiro su sonorità più metalliche, ma non snaturando assolutamente il proprio credo musicale, il gruppo ha regalato ai fan il degno successore dell’ottimo primo full length, sta a voi ora immergervi nelle atmosfere di questo ennesimo bellissimo lavoro da non perdere per alcun motivo.

Tracklist:
1. Welcome to Your Suicide
2. Three Meters Underground
3. Seed of Evil
4. The Army of Sinners
5. The Black Lady
6. Vatican’s Ruins
7. No Redemption
8. Crucifixed
9. Evilangel
10. Drowned

Line-up:
Muriel – Vocals, rithm/lead guitar
Shark – Rithm/lead guitar
Derrick – Live drums

MADNESS OF SORROW – Facebook

Dan Deagh Wealcan – Who Cares What Music Is Playing In My Headphones?

E’ un susseguirsi di sorprese questo nuovo lavoro dei Dan Deagh Wealcan, che in poco più di trenta minuti racchiudono un’enormità di generi, creando varie atmosfere che cambiano come il clima primaverile

La Metal Scrap non si fa mancare niente nel proprio rooster: le band su cui l’etichetta ha messo lo zampino sono ottime realtà appartenenti ai più svariati generi, dal metal classico all’estremo, fino all’alternative e, come nel caso dei Dan Deagh Wealcan, all’industrial, anche se manipolato e reso originalissimo da abbondanti dosi di alternative metal, maturo e progressivo.

Il duo con cittadinanza in una delle più belle capitali europee (Mosca) nasce nel 2012 ed è al secondo lavoro: Mikhail A. Repp e Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenk soprendono per l’elevata qualità della loro musica, strutturata su un sound che ha, come punto di riferimento, il sound pazzoide di Trent Reznor ed i suoi Nine Inch Nalis, reso originale da una serie di spunti che chiamare geniali è dir poco e che pescano dall’alternative così come dal prog moderno, dall’industrial al metal, in un’amalgama di suoni che spaziano senza lasciare mai la strada dell’originalità.
E’ un susseguirsi di sorprese questo nuovo lavoro dei Dan Deagh Wealcan, che in poco più di trenta minuti racchiudono un’enormità di generi, creando varie atmosfere che cambiano come il clima primaverile, tuoni e fulmini, quando la band decide di aggredire, ma all’improvviso un vento alternativo spazza il cielo e la musica torna su motivi più rock/wave, rabbuiandosi all’improvviso al ritorno di forti burrasche musicali.
Bellissime Dogs In A box ed, Easy Way Long Way (progressiva, oscura, colma di cambi di tempo e allucinanti digressioni alla Primus sopra un tappeto di elettronica); Neutral Moresnet è una song estrema, i maestri Ministry fanno capolino, la voce diventa un pazzoide urlo di dolore, mentre in What Was That sono i Primus a tornare in bella mostra nel songwriting del gruppo moscovita.
In un lavoro così folle poteva mancare Devin Townsend? Baseless Hatred spara accelerazioni thrash che stravolgono ancor di più il sound e l’idea che ci eravamo fatti sulla musica del duo, continuando poi ad alternare elettronica ad alternative rock, in un turbinio di cambi di tempo ed atmosfere.
Gran bel disco, a cui bisogna dedicare un po’ di tempo per far proprie tutte le sfumature che ad ogni ascolto escono dall’opera scritta da questi due geniali musicisti, ai quali ogni tipo di etichetta sta stretta e pare sempre forzata, tanto è originale la loro proposta.

Track List:

1. Anamorphic Widesound
2. Dogs in a Box
3. Easy Way – Long Way
4. No More Than Usual
5. Neutral Moresnet
6. What Was That?
7. Baseless Hatred
8. I Killed Everything That Was Good in Me
9. Endless Apathy 03:43 Total playing time:

Mikhail A. Repp – Sound.
Eugene “Iowa” Zoidze-Mishchenko – Voice

Originale sound che mischia industrial, alternative, prog e metal è quello che ci propongono i moscoviti Dan Deagh Wealcan.

https://www.facebook.com/DanDeaghWealcan

I Miss My Death – In Memories Presentation Show – Live In Kiev

I DVD celebrativi sarebbe bene lasciarli fare a chi ha alle spalle una carriera un po’ più lunga e con all’attivo come minimo 4-5 album di buona qualità.

I Miss My Death è l’ennesima band ucraina dedita al gothic doom con tanto di voce femminile: niente che così descritto possa far strabuzzare gli occhi per la sorpresa, senonché il gruppo di Kiev ha pensato di pubblicare in formato dvd il concerto tenuto nella capitale nel 2013, in occasione della presentazione dell’album In Memories, che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo.

La curiosità non è solo cronologica, in quanto fa pensare sicuramente il fatto che una band pensi di filmare un concerto prima di dare alle stampe l’album d’esordio: grande fiducia nei propri mezzi, budget ricco grazie a qualche munifico benefattore o buoni agganci nell’ambiente ?
Ai posteri l’ardua sentenza, di sicuro i dati che saltano all’occhio sono sostanzialmente due:
1) gli I Miss My Death sono una band dal buon potenziale ma, per ora, nulla di più 2) registrare un concerto utilizzando le solite due o tre inquadrature, tra l’altro riprendendo una band statica sul palco come poche, è una scelta che francamente lascia più di una perplessità.
Fare il passo più lungo della gamba è un’operazione che, se da una parte denota quell’ambizione che è ingrediente irrinunciabile per chi vuole provare a sfondare, dall’altra rischia di bruciare irrimediabilmente una band agli occhi degli appassionati.
Ora, può darsi che In Memories abbia riscosso un buon successo commerciale per cui, sfruttandone la scia, i nostri siano stati spinti a ripescare le immagini di un concerto che, magari, faceva parte di un progetto a più lunga scadenza, fatto sta che continuo a restare pervicacemente sulle mie posizioni, ovvero: gli I Miss My Death dovrebbero pensare prima di tutto a rendere più peculiare un sound che è gradevole quanto derivativo, quindi a limitare quelle sbavature che, oltretutto, proprio dal vivo emergono maggiormente.
Perché, oggi come oggi, questi volenterosi ragazzi ucraini rappresentano solo una delle innumerevoli band che propongono sonorità decadenti seguendo lo schema compositivo (inclusa l’alternanza growl maschile/voce lirica femminile) di Draconian e seguaci, senza però riuscire ad avvicinare per intensità certi livelli.
Ergo, i dvd celebrativi sarebbe bene lasciarli fare a chi ha alle spalle una carriera un po’ più lunga e con all’attivo come minimo 4-5 album di buona qualità.

P.S: il voto è riferito al contenuto musicale che di per sé non è poi così deprecabile, mentre sulla ridondanza del dvd mi sono già abbondantemente espresso …

Tracklist:
1. At the Dark Garden of the Vampire
2. Thirteen Autumns of My Solitude
3. The One (feat. Tatiana)
4. Silence Cries
5. Earl Pale
6. Silent Existence
7. In Memories
8. Lacrimosa (W. A. Mozart)
9. While You Remember Me

Line-up:
Sergiy Kryvoyaz – Lyrics, Vocals, Guitars
Elena Kryvovyaz – Keyboards, Vocals (female)
Nikita Grom – Keyboards
Serge Riabtsev – Bass
Serge Novachenko – Drums

I MISS MY DEATH – Facebook

Mindful Of Pripyat – … And Deeper, I Drown In Doom …

Sparatevi senza indugi questa bomba grind/death lanciata dai nostrani Mindful Of Pripyat.

Nati lo scorso anno, i Mindful Of Pripyat sbaragliano il campo nel genere estremo che si rifà al grind/death, con un lavoro sorprendente per impatto e aggressività senza soluzione di continuità.

Forte di un sound che passa agevolmente dal grind tout court al death old school, il trio proveniente dall’area milanese rompe argini, spiana colline e provoca valanghe, una tempesta di metal estremo che si abbatte senza pietà, lasciando al suo passaggio solo distruzione.
I Mindful Of Pripyat iniziano da questo micidiale …and Deeper, I Drown in Doom… la loro avventura nell’underground estremo, e la loro abilità è confermata dalle esperienze passate di tutti e tre i musicisti: Gio, ex Corporal Raid, che devasta alla velocità della luce il drumkit, Giulia, ex Sign of Evil ed Exterminate, alle prese con basso e sei corde e Tya, voce e chitarra già con Antropofagus, Necromega.
Supergruppo? Beh dal curriculum lo si può anche affermare, del resto la conferma di essere al cospetto di una band con i fiocchi arriva dallo tsunami di note estreme che vengono riversate sull’ascoltatore, un massacro racchiuso in 16 brani di cui due sono le cover di Oblivion Descends (Unseen Terror, straordinaria), e Contagion (Defecation) che chiude alla grande il mini cd.
Nel mezzo la band deflagra tra ritmiche violentissime, accelerazioni sempre al limite ed un talento per confezionare il tutto in una forma canzone non molto comune nelle band dedite al genere.
Consigliato alla grande ai fans del grindcore, …and Deeper, I Drown in Doom… non cede un secondo sia per impatto sia per l’alta qualità del sound: in un attimo si arriva all’ultimo brano e la voglia di ricominciare a farci del male con le mazzate inferte dal combo è tanta.

Tracklist:
1. Containment
2. Liquidators
3. Chernobitch
4. Cleansed by Fallout
5. Lone in Town
6. Deterrence
7. Deep Water Coffin
8. Mindful of Pripyat
9. Oblivion Descends (Unseen Terror cover)
10. Rusty Skin
11. 40 Seconds
12. Maruta
13. Rabid
14. G.W.I.
15. Impressions of a Sick Mind
16. Contagion (Defecation cover)

Line-up:
Giovanni – Drums, Vocals
Giulia – Guitar, Bass, Vocals
Tya – Vocals, Noises

MINDFUL OF PRIPYAT – Facebook

Orphans Of Dusk – Revenant

“Revenant”, pur nella sua veste di Ep, è già un lavoro del tutto appagante e di livello superiore alla media, ma è solleticante pensare che la band sia concretamente in grado di riprodurre la stessa qualità in una prova su lunga distanza.

Pochi giorni fa avevo benevolmente tirato le orecchie ai Luna, nella persona dell’unico musicista coinvolto, in quanto l’ultimo full length si mostrava eccessivamente derivativo, benché questo sia un aspetto, almeno in ambito doom, al quale normalmente attribuisco un peso del tutto relativo.

Gli Orphans Of Dusk, in tal senso, rappresentano un certo elemento di discontinuità in quanto, pur attingendo anch’essi in maniera signifcativa all’imprimatur di una band specifica, riescono a farlo fornendo al loro sound quell’impronta personale che nell’esempio appena citato latitava quasi del tutto.
Il duo oceanico, formato dal neozelandese James Quested agli strumenti e dall’australiano Chris G. alla voce, offre un’interpretazione efficace ed elegante del gothic doom omaggiando a più riprese i monumentali Type 0 Negative nella loro veste più oscura, ma senza dimenticare di inasprire il sound di venature più robuste, oltre che tradizionalmente devote al genere come nel drammatico incipit strumentale di August Price, grazie anche ad un buonissimo growl che va ad alternarsi con sapienza ad una timbrica profonda che richiama non poco quella dell’indimenticabile Peter Steele.
Revenant consta di quattro brani per una mezz’ora scarsa di musica in grado di riconciliare gli appassionati con il genere, finalmente, senza dover ricorrere a particolari artifici. È fuor di dubbio che Beneath the Cover of Night, ad esempio, paia a tratti un riuscitissimo outtake di “October Rust”, ma sono le doti compositive degli Orphans Of Dusk a fare la differenza, facendoli balzare agevolmente da un ipotetico status di opachi scopiazzatori a quello di continuatori legittimi ed ispirati del sound di una delle band più influenti degli ultimi vent’anni.
Sarà difficile non restare incantati dalle atmosfere soffuse, melodiche e pervase da un non comune gusto malinconico che gli Orphans Of Dusk riversano nelle proprie composizioni: Revenant, pur nella sua veste di Ep, è già un lavoro del tutto appagante e di livello superiore alla media, ma è solleticante pensare che la band sia concretamente in grado di riprodurre la stessa qualità in una prova su lunga distanza; intanto il duo oceanico è entrato nell’orbita di un’importante label di settore come la Solitude e questo è già un bel segnale.

Tracklist:
1. August Price
2. Starless
3. Nibelheim
4. Beneath the Cover of Night

Line-up:
Chris G. – Vocals
James Quested – Guitars, Synths & Bass
Dan Nahum – Session Drums

ORPHANS OF DUSK – Facebook

Heavylution – Children Of Hate

Children Of Hate è un ascolto obbligato per ogni defender che si rispetti e alza l’asticella della qualità delle uscite nel campo del metal classico in questo incendiario 2015

Dall’underground più profondo del metal classico europeo, continuano a proporsi band dalle indubbie qualità: arrivano di soppiatto, dai più svariati paesi dall’estremo ovest all’est, da nord a sud, tutte con la loro musica forgiata nel metallo ottantiano, straordinari eredi di un genere entrato a dispetto di molti nelle storia della musica moderna.

Gli Heavylution sono una band transalpina nata quasi una decina di anni fa ormai, Children Of Hate è il primo full length, arrivato come un lampo nella notte dopo che la band aveva già licenziato un demo e l’ep “The Architect” nel 2011.
Quattro anni non sono passati invano, ed il gruppo di Saint-Etienne si presenta nel nuovo anno con quest’opera di fiero metallo, tra l’heavy metal tradizionale e il power, oscuro, dalle sfumature epiche e melodie a iosa.
Ritmiche power e crescendo metallici fanno da struttura ad una raccolta di brani, ben fatti, suonati bene e dall’ottima resa, non spiccatamente vintage, ma con una modernità di fondo data dall’ottimo lavoro, fatto in studio.
I brani escono così potenti e melodici, con due o tre perle (la title track, Spirit Never Die e The Exodus) in un lotto dalla buona qualità, richiamando più di una band storica tra metal ottantiano e power estrapolato dalla seconda metà del decennio successivo.
Nel genere le qualità del singer fanno mille, ed allora ecco che la band piazza Paul Eyssette dietro al microfono, aggressivo, sanguigno, accostabile all’ultimo Dickinson, anche alla sei corde in compagnia di Thibault Maurin e Olivier Dupont.
Tanto dispiego di asce non è un caso, Children Of Hate ha nel lavoro delle chitarre il suo punto di forza: melodiche, pungenti, graffianti e affiatate, sono il fiore all’occhiello di questo lavoro, senza nulla togliere alla buona sezione ritmica composta da Laurent Descours alle pelli e Nicolas Savoca al basso.
Iron Maiden,Judas Priest, Iced Earth, qualche sprazzo di power teutonico e tanta fierezza metallica, fanno di Children Of Hate un ascolto obbligato per ogni defender che si rispetti, alzando l’asticella della qualità delle uscite nel campo del metal classico in questo incendiario 2015: lunga vita all’underground.

Tracklist:
1.The Call
2.Children of Hate
3.Obsession
4.Spirit Never Dies
5.Burn Out
6.Mind Avulsion
7.The Eye Will Control
8.The Exodus
9.Balls of Steel
10.Future is on Your Side
11.Fight for Changes

Line-up:
Laurent Descours – Drums
Olivier Dupont – Guitars
Paul Eyssette – Vocals, Guitars
Nicolas Savoca – Bass
Thibault Maurin – Guitars

HEAVYLUTION – Facebook

Luna – On the Other Side of Life

Dopo aver sperimentato qualcosa di diverso in occasione del recente Epi, DeMort ripropone le sonorità dedite ad un funeral atmosferico devoto in maniera financo eccessiva agli Ea.

Secondo album per la one man band ucraina Luna, della quale abbiamo già parlato in occasione sia del full length d’esordio sia dell’Ep uscito non troppo tempo fa.

Dopo aver sperimentato qualcosa di diverso in quell’occasione con buoni risultati, DeMort è tornato in toto alle sonorità dedite ad un funeral atmosferico devoto in maniera financo eccessiva agli Ea.
Come in quel frangente, infatti, il nuovo lavoro vive delle stesse contraddizioni: atmosfere evocative guidate per lo più dalle tastiere che ricalcano in maniera fedele, pur se con la dovuta competenza, quel tipo di sound.
Due soli brani, interamente strumentali, per circa un’ora complessiva di durata, che costituiscono pur sempre un’esperienza gradevole per chi ama queste sonorità, lasciano in eredità, purtroppo, la sensazione d’avere ascoltato un buon surrogato di una delle band più particolari dell’intera scena doom, piaccia o meno.
Tutto ciò, quindi, mi costringe a replicare a grandi linee il giudizio fornito in occasione di “Ashes To Ashes” anche se, dal raffronto, emergono sensibili passi avanti sia sotto l’aspetto esecutivo sia per quanto riguarda quello compositivo, che appare decisamente meno essenziale.
Credo che DeMort, se vorrà provare a ritagliarsi uno spazio più importante, dovrà cercare di personalizzare ulteriormente il sound, magari provando ad inserire anche le parti vocali, altro elemento in grado di apportare a sua volta una certa varietà, quand’anche dovesse essere utilizzato con parsimonia.

Tracklist:
1. Grey Heaven Fall
2. On the Other Side of Life

Line-up:
DeMort – All Instruments

Feign – Into The Void

Secondo ep per la one man band statunitense Feign, a conferma del buon potenziale già espresso nel precedente lavoro.

Secondo ep per la one man band statunitense Feign, già trattata su queste pagine in occasione dell’esordio Lost to Eternity.

Il giovane Jacob Lizotte conferma agevolmente le buone impressioni destate in quell’occasione, proseguendo sulla strada di un black metal atmosferico piuttosto debitore di Agalloch e Wolves In The Throne Room.
La prima traccia si snoda attorno ad un tema portante dai toni epici sui quali la chitarra solista compie un buon lavoro elevandone il potenziale evocativo e, tutto sommato, la seconda ne ricalca in positivo l’andamento, mentre la terza è una breve chiusura di stampo ambient.
Come detto in fase di recensione del precedente demo, appare notevole il potenziale di questo musicista del Maine, ma potrà essere solo l’uscita di un più probante full length a definire in maniera compiuta il valore effettivo del progetto Feign.

Tracklist:
1. Deathwisher
2. Soulcrusher
3. Stargazer

Line-up:
Jacob Lizotte All instruments, Vocals

https://www.facebook.com/feignband

Norse – Pest

Un lavoro complesso ed irto di spine ma ugualmente ricco di una certa attrattiva.

Gli australiani Norse sono in circolazione da quasi un decennio nel corso del quale hanno dato alle stampe due full-length nel 2010 e nel 2012.

La band, che di fatto è sempre stata guidata dal drummer Forge, si cimenta in un black death che non lascia spazio alcuno ad ammiccamenti groove o melodici.
I Norse forse non spaventano ma sicuramente disturbano, con i loro brani all’insegna di una claustrofobica misantropia che si esplicita attraverso un sound capace di unire la vena più sperimentale del black con sfuriate talvolta al limite del grind, creando un impasto sonoro difficilmente digeribile ma ugualmente affascinante.
La repulsione iniziale dovuta all’insistenza di sonorità dissonanti lascia lentamente spazio, infatti, a un percezione che non può essere certamente definita empatia ma che è, quantomeno, una perniciosa attrazione verso questi suoni che Forge, coadiuvato dallo screaming di ADR, riversa senza misericordia alcuna sull’ascoltatore.
Solo la conclusiva Aimless concede spiragli di melodia nelle trame chitarristiche, quasi a voler ribadire che anche l’oscurità più assoluta conserva al suo interno infinitesimali barlumi di luce.
Il formato Ep di Pest, con la sua durata inferiore alla mezz’ora, favorisce indubbiamente l’assimilazione di questo lavoro complesso ed irto di spine ma ugualmente ricco di una certa attrattiva.

Tracklist:
1. Encoded Weakness
2. Disarmed. Toothless. Weak
3. Pest
4. Irradiator
5. True Insignifigance
6. Aimless

Line-up:
ADR – vocals, lyrics
Forge – All instruments

NORSE – Facebook

Putrid Offal – Premature Necropsy

Ottima iniziativa della Kaotoxin che raccoglie in una compilation i primi lavori dei grindsters francesi Putrid Offal.

Anno solare importante per i Putrid Offal, una delle band di punta della Kaotoxin: dopo l’ep “Suffering” di fine 2014, che di fatto sanciva il ritorno sulle scene della band estrema transalpina, ed il nuovo full length uscito lo scorso febbraio (“Mature Necropsy”), che confermava il gruppo come una delle migliori realtà nel panorama death/grind europeo, eccoci alla alla terza uscita in meno di un anno con Premature Necropsy, raccolta del materiale prodotto negli anni novanta, autentico ripasso della storia del gruppo, rimasto fermo per vent’anni e tornato a devastare come e più di prima.

Di tempo ne è passato tanto ma i brani raccolti in questa compilation non fanno che confermare la bravura del combo, nato in anni nei quali il genere era al massimo della popolarità, trascinato da band di relativo successo come Napalm Death, Carcass e, perchè no, Brutal Truth.
Oltre allo split con gli Exulceration da cui prende il titolo, Premature Necropsy raccoglie le prime opere della band rimasterizzate : dal primo demo “Unformed”, passando dallo split “At the Sight of the Foul Offal” in compagnia degli storici Agathocles, fino allo split “Obscurum Per Obscurius”, diciotto brani che non sono solo i primi vagiti di una band straordinaria, ma una panoramica su quello che offrì il genere negli anni di massimo splendore.
All’epoca la band, oltre a Franck Peiffer e Frédéric Houriez (oggi saccompagnati da Philippe Reinhalter alla chitarra e da Laye Louhenapessy alla batteria) si avvaleva alle pelli di Ludovic Loez prima ed in seguito di Boris Reisdorff.
Premature Necropsy è un acquisto consigliato per chi ha conosciuto il gruppo francese in questo ultimo periodo; i Putrid Offal non lasciano scampo e dimostrano che il loro death/grind anche all’epoca aveva qualcosa in più: terremotante, massacrante vario e suonato alla grande, seguiva la scia dei primi Carcass e General Surgery e costituiva di fatto la risposta transalpina alle devastazioni scandinave e soprattutto americane.
Completato da un booklet completo di biografia e poster nella sua versione limitata a cinquecento copie, questa compilation non può mancare nello scaffale di ogni grindster che si rispetti.

Tracklist:
1. Purulent Cold
2. Repulsive Corpse
3. Premature Necropsy
4. Rotten Flesh
5. Symptom
6. Garroting Way
7. Suffering
8. Mortuary Garlands
9. (outro)
10. Mortuary Garlands
11. From Plasma to Embalming
12. Gurgling Prey
13. Birth Remains
14. Organic Excavation
15. Gurgling Prey
16. Oscillococcinum
17. Purulent Cold
18. Rotten Flesh

Current line-up:
Franck Peiffer – guitars, vocals
Philippe Reinhalter – guitars
Frédéric Houriez – bass
Laye Louhenapessy – drums

Line-up on this compilation:
Franck Peiffer – guitars, vocals
Frédéric Houriez – bass
Boris Reisdorff – drums
Ludovic Loez – drums (tracks 15-18)

PUTRID OFFAL – Facebook

Doomed – Wrath Monolith

Continua il percorso sulle vie lastricate di dolore del death-doom da parte di Pierre Laube con il suo solo project Doomed.

Continua il percorso sulle vie lastricate di dolore del death-doom da parte di Pierre Laube con il suo solo project Doomed; questo Wrath Monolith è il quarto album in soli tre anni e conferma il costante progresso del musicista tedesco dal punto di vista compositivo.

L’interpretazione del genere da parte di Laube continua ad essere caratterizzata da un impatto aspro e talvolta dissonante, ma gli sprazzi melodici oggi appaiono meglio integrati e più funzionali alla resa complessiva.
Come sempre spicca un lavoro chitarristico dai tratti piuttosto personali che, in un brano come Euphoria’s End, va a lambire territori technical-death.
Wrath Monolith evoca, come gran parte dei dischi del genere, un doloroso disagio ma lo fa in maniera meno immediata ed evocativa rispetto ad altre band e questo finisce per essere un pregio, in quanto denota la volontà di Pierre di non adagiarsi su soluzioni scontate ma, d’altro canto, rende oltremodo complessa la memorizzazione dei singoli brani.
Se, per gusto personale, preferirei ovviamente una maggiore presenza di aperture melodiche, anche perché quando ciò avviene il sound ne beneficia in virtù di capacità compositive comunque ben superiori alla media, non posso fare a meno di constatare quanto ogni uscita targata Doomed sia ormai divenuta garanzia di qualità, accentuata proprio dai tratti piuttosto personali e riconoscibili, nonostante l’ancora relativamente breve vita artistica del progetto.
La stessa consolidata appartenenza al roster della Solitude ci suggerisce, in qualche modo, una certa affinità alla frangia meno accessibile della scena russa, costituita da band quali Abstract Spirit e Who Dies In Siberian Slush, tanto per citare due tra le più note, proprio per il suo ricorrere a sonorità che si concedono con parsimonia a facili soluzioni meloduche.
Ennesimo buonissimo disco, quindi, ma volendo fare per una volta la parte dell’incontentabile mi piacerebbe che Laube ricorresse con maggior frequenza a soluzioni come il malinconico assolo di Our Ruin Silhouette (a proposito, oltre alla copertina a sfondo verde, viene mantenuta anche l’abitudine di dare ad un brano lo stesso titolo dell’album precedente), visto che una simile forza evocativa non può e non deve restare un caso pressoché isolato all’interno di una singola traccia, piuttosto che di un intera tracklist.
Detto questo, chi ha apprezzato i precedenti lavori non resterà affatto deluso da questa ultima fatica dei Doomed, mentre io continuo ad attendere con fiducia il lavoro definitivo, quello capace di farne assurgere il nome ai massimi livelli, dai quali non siamo invero troppo lontani.

Tracklist:
1. Paradoxon
2. Our Ruin Silhouettes
3. Euphoria’s End
4. The Triumph – Spit
5. Looking Back
6. I’m Climbing

Line-up:
Pierre Laube – All instruments, Vocals

DOOMED – Facebook

Night Gaunt – Night Gaunt

I romani Night Gaunt esordiscono con questo disco omonimo andando a rimpinguare la schiera di buone band della capitale dedite ad un doom dai tratti piuttosto classici.

I romani Night Gaunt esordiscono con questo disco omonimo andando a rimpinguare la schiera di buone band della capitale dedite ad un doom dai tratti piuttosto classici.

L’album, originariamente uscito come autoproduzione nel 2014, ha catturato l’attenzione dell’attenta label genovese BloodRock Records che lo ha riproposto sul mercato questa primavera.
In ossequio ad un genere che si sviluppa, come è giusto che sia, nel solco della tradizione, appare quasi superfluo sottolineare come i nostri in queste sette tracce rinuncino in partenza all’inserimento di spunti innovativi: qui si fa, bene e con tutta la dedizione del caso, del sano doom intriso fino al midollo degli umori lisergici che hanno fatto la fortuna di nomi quali Saint Vitus, Pentagram, Candlemass ecc.
Un rito di una quarantina di minuti nel corso dei quali non vengono risparmiate distorsioni spasmodiche, riff avvolgenti, ritmi pachidermici alternati a repentine cavalcate e vocals evocative quanto basta, con una partenza leggermente in sordina ed un deciso cambio di passo a livello qualitativo ad iniziare da The Patient, passando per l’irresistibile traccia strumentale e manifesto delle band, Night Gaunt, fino ad arrivare alla conclusiva Acquiescent Grave, nella quale il quartetto romano pare aver voluto convogliare tutte le proprie influenze e la genuina passione per questo genere.
Un esordio che non è ancora sufficiente per collocare i Night Gaunt nelle prime file dello schieramento di partenza (dove risiedono stabilmente i concittadini e neo-compagni di etichetta Doomraiser), ma che si rivela lo stesso oltremodo soddisfacente, contribuendo a perpetuare quella tradizione doom che ormai nel nostro paese, e nella capitale in particolare, si sta consolidando in maniera convincente.
Il primo importante passo è stato compiuto nel migliore dei modi e il prossimo obiettivo, per la band romana, sarà quello di mostrare una cifra stilistica più personale pur senza dover necessariamente snaturare le proprie caratteristiche.

Tracklist:
1. Persecution
2. Breathless
3. The Church
4. The Patient
5. Night Gaunt
6. Black Velvet
7. Acquiescent Grave

Line-up:
Araas – Bass
Kelèvra – Drums
Zenn – Guitars
Gc – Guitars, Vocals

NIGHT GAUNT – Facebook

Chapter V:F10 – Syndrome

Ottimo lavoro da parte di Astaroth Merc (già conosciuto con i Raventale) che, sotto il monicker ChapterV:F10, ci consegna un album black metal di buon spessore.

Syndrome è il primo lavoro dei Chapter V:F10, creatura di Astaroth Merc, conosciuto per essere il membro unico degli ucraini Raventale, attivi da una decina d’anni e protagonisti della scena con ben sei album all’insegna di un black metal atmosferico.

Anche in questa occasione il nostro si cimenta con tutti gli strumenti ma è accompagnato nell’avventura dalla voce di Howler, già suo compagno nei Den Of Winter.
Syndrome è un buon lavoro di genere, glaciale e composto da ottime canzoni, ora strutturate su ritmiche cadenzate ora spazzate da sfuriate metalliche fredde come il vento del nord.
Il musicista di Kiev se la cava alla grande con gli strumenti, così come il suo partner si rivela dotato di un ottimo scream: le atmosfere, che si mantengono gelide e diaboliche e fanno da contorno al black metal che ha nella vecchia scuola la fonte a cui abbeverarsi, a tratti vengono lacerate da frustate di nero metallo, altre volte sono contornate invece da una vena epica ed evocativa che trasporta l’ascoltatore in paesaggi di deserto ghiacciato, lande ai confini del mondo dove l’inferno è ad un passo.
Sono proprio queste le parti in cui Syndrome offre il suo meglio, con note che si avvinghiano allo stomaco, atmosfericamente da applausi pur mantenendo una violenza di fondo che si libera quando gli elementi scatenano una danza infernale.
Le ritmiche tengono il passo, passando da mid tempo a veloci mitragliate, come nella superba Progression, che apre il lavoro e con la quale Chapter V:F10 sparano già le loro migliori cartucce.
Invero proprio la prima e l’ultima traccia sono quelle che più lasciano all’ascoltatore un ottimo ricordo, con Ending, posta in chiusura, bellissimo strumentale con digressioni che oserei definire, a tratti, progressive.
Nel mezzo il black metal tout court di Reclaim, Nectar e sopratutto Mercury convince donandoci ottimi esempi di metallo nero, assolutamente consigliato agli adepti del genere a cui va l’invito ad ascoltare questo gioiellino di metallo oscuro e maligno.

Tracklist:
1. Progression
2. Reclaim
3. Nectar
4. Hollow
5. Mercury
6. Ending

Line-up:
Astaroth Merc – All instruments
Howler – Vocals

Abysmal Grief / Runes Order – Hymn of the Afterlife / Snuff the Nun

Uno split album di qualità non comune grazie alla presenza di due realtà che non deludono mai, dall’alto delle capacità compositive e della personalità dei musicisti coinvolti.

Split album che vede all’opera due nomi pesanti, questo pubblicato dalla Italian Doom Metal Records.

In realtà solo uno di questi parrebbe compatibile con la ragione sociale della label, e parliamo dei genovesi Abysmal Grief, mentre i Runes Order appartengono, di fatto, al mondo degli sperimentatori elettro-ambient.
La band ligure, che apre il lavoro con Hymn of the Afterlife, conosciuta e venerata come formidabile interprete di un horror doom dai tratti unici, per l’occasione si avvicina alle sonorità degli altri ospiti di questo 12”, proponendosi in una veste dark ambient, già esibita qualche anno fa nell’ep “Foetor Funereus Mortuorum” .
Gli Abysmal Grief non evocano semplicemente il dolore lancinante della perdita ma sono essi stessi gli officianti del rito, i necrofori che si incaricano di portare la bara all’esterno della chiesa, coloro che scavano la fossa e che, infine, gettano le ultime manciate di terra sul feretro, prima che il suo dimorante venga inghiottito per sempre nell’oblio della morte.
Personalmente prediligo la band allorché Labes C. Necrothytus ringhia dall’alto della sua tastiera- pulpito su un tessuto musicale più canonico, anche se, pure in questa veste, l’effetto macabro è ugualmente garantito e di indubbia qualità.
Peraltro, come detto, tale scelta contribuisce a rendere la proposta non troppo dissimile, non solo negli intenti, rispetto a quella dei Runes Order di Claudio Dondo.
Il brano Snuff The Nun è una magistrale summa (suddivisa in cinque parti) del background musicale dell’artista: il dark ambient dell’avvio sfocia progressivamente nell’ipotetica soundtrack di un horror psicologico, prima con il contributo vocale di Alex De Siena, poi con il manifestarsi del retaggio elettronico di Dondo, naturale continuatore dei suoni provenienti dalla seminale scena teutonica degli anni ’70.
Inquietante e perfettamente complementare, nonostante le diverse basi di partenza delle due band, alla traccia degli Abysmal Grief, Snuff The Nun termina come come Hymn of the Afterlife era iniziata, ovvero con la recitazione di un Pater Noster qui del tutto spogliato da ogni suo paramento sacro.
Pubblicato in 500 copie, di cui 300 in vinile nero e 200 in grigio, lo split album si rivela di qualità non comune, grazie alla presenza di due realtà che non deludono mai, dall’alto delle capacità compositive e della personalità dei musicisti coinvolti.

Tracklist:
Side A
Abysmal Grief – Hymn Of The Afterlife
Side B
Runes Order – Snuff The Nun

Line-up:
Abysmal Grief
Lord Alastair – Bass
Fog – Drums
Regen Graves – Guitars, Synths
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Runes Order
Claudio Dondo – All instruments
Alex De Siena – Vocals

ABYSMAL GRIEF – Official Website

RUNES ORDER – Facebook

Jussipussi – Greatest Tits

Dall’underground italiano stanno venendo fuori molti dischi di musica pesante davvero interessanti, ed è al piccolo cabotaggio che dobbiamo rivolgerci se si vuole ascoltare buona musica.

Questi giovani terroni trapiantati a Milano ci regalano stoner metallico veloce e di ottima fattura.

Il disco è stato una vera sorpresa: seppure loro non siano insieme da tanto, in sette prove vengono fuori questi cinque pezzi.
Il pianeta si chiama Queens of the Stone Age, ma i Jussipussi annettono nuovi territori mischiando la sacra materia con i Red Fang e i Clutch più corrosivi.
Il loro nome deriva da un tipo di pane finlandese, che pare non abbia assolutamente nulla da vedere con la pussy. I Jussipussi si presentano in maniera fortunatamente poco seria, poi li ascolti e ti impressionano veramente poiché possiedono un groove davvero notevole, un passo molto superiore.
I brani scorrono bene, ascoltandoli non si pensa al genere, ma si viene trascinati da questo misto di melodia e cartavetro, ora seguendo un’impennata, ora planando placidi su delle spogliarelliste.
I Jussipussi vi faranno divertire con canzoni come Vultures che sono vere chicche, canzoni che qualcuno oltre oceano vorrebbe scrivere ma non ce la fa.
I ragazzi prendono tutto con molta ironia ma hanno le carte in regola per diventare un gruppo importante, hanno talento e musicalità da vendere, in più non si prendono troppo sul serio e ciò non guasta mai.
Dall’underground italiano stanno venendo fuori molti dischi di musica pesante davvero interessanti, ed è al piccolo cabotaggio che dobbiamo rivolgerci se si vuole ascoltare buona musica.
Un bel disco, una gradita sorpresa da Taxi Driver Records.

Tracklist:
1 The Bliss of a New Black Dawn
2 Warning Sign
3 Vultures
4 Explant ( Feat.Giacomo Boeddu from Isaak )
5 Bury You Deep

Line up:
Francesco Borrelli : Batteria
Michele Cigna : Chitarra
Marco Giarratana : Voce
Antonio Petrotta : Basso

JUSSIPUSSI – Facebook

Austerymn – Sepulcrum Viventium

L’album non concede tregua, con atmosfere oscure, velocità e rallentamenti come il genere insegna

L’underground estremo è la culla del death metal old school, relegato purtroppo ai margini della scena attuale e risvegliato solo in parte dalle uscite delle band storiche: recensione, intervista e nello spazio di un mese tutto torna nel dimenticatoio, ignorando quasi completamente le interessanti novità che arrivano da ogni parte del mondo.

Sepulcrum Viventium, esordio sulla lunga distanza dei britannici Austerymn, per esempio, si rivela una gran bella mazzata, roba che negli anni d’oro avrebbe fatto gridare al miracolo più di un addetto ai lavori.
Rik Simpson e Steven Critchley, d’altronde, è dal 1990 che scorribandano per la scena, prima come Perpetual Infestation, poi Godless Truth: diventati Austerymn nel 2007 spostano il tiro dal doom/death a questa massacrante prova di death metal classico, spaventosamente vecchia scuola e per questo, ancora più affascinante.
L’album non concede tregua, con atmosfere oscure, velocità e rallentamenti come il genere insegna, senza compromessi e dall’impatto marcissimo e guerresco, ed offre ai fan un lavoro sopra le righe e con tutti i crismi per ritagliarsi uno spazio nel panorama estremo.
Una sezione ritmica devastante, riffoni da bombardamento a tappeto e un growl rabbioso e profondo sono gli elementi distintivi di una serie di canzoni che prendono per il collo l’ascoltatore, torturandolo e annichilendolo con un assalto sonoro che richiama le scene regine del death metal, quella americana (Death, Massacre) e quella scandinava (Entombed, Dimember, Grave), con l’aggiunta di un’atmosfera oscura e guerrafondaia, dai richiami ai grandi Bolt Thrower.
Written in the Scars, Darkness Burns Forever, la conclusiva e monolitica Riven sono i brani di spicco, ma è tutto l’album che gira a mille, non facendo prigionieri e risultando imperdibile per tutti i fan dei suoni estremi old school.

Tracklist:
1. Intro
2. Feeding the Grotesque
3. Written in the Scars
4. Bleeding Reality
5. Excarnation
6. Darkness Burns Forever
7. The Living Grave
8. In Death… We Speak
9. Necrolation
10. Buried Alive
11. Dead
12. Riven

Line-up:
Rik Simpson – Guitars, Bass, Drums, Keys, Piano, Synth, Vocals
Steven Critchley – Vocals, Bass
Stuart Makin – Guitars (lead)
Nikk Perros – Drums

https://www.facebook.com/pages/Austerymn/447715821937969

www.youtube.com/watch?v=M0Hy8ZQcA0o

Miellnir – Incineration Astern

La bontà del lavoro risiede nella capacità dei Miellnir di far confluire nel lavoro con innata fluidità gli influssi black, viking, folk e gothic.

Buon album d’esordio per gli ucraini Miellnir, combo dedito ad un viking fok metal dalle sembianze smaccatamente scandinave.

Nulla di male in tutto ciò, sia chiaro, dato che il genere lì è nato ed è prosperato: infatti, l’interpretazione fornita dalla band dell’est risulta così credibile e competente che si fatica a credere di non trovarsi al cospetto di musicisti norvegesi o finlandesi.
Ciò che rende Incineration Astern un disco meritevole di ogni attenzione è lo spiccato gusto melodico che lo pervade in ogni sua parte: aperture epiche e ariose vanno a contrapporsi alle vocals efferate, ora in screening, ora in growl, ma senza che vengano disdegnati neppure efficaci passaggi in clean da parte di Frozensoul.
Il disco a tratti appare davvero trascinante nella sua epica solennità e la sola, piccola, caduta di tono di Ugar Buhlo, traccia all’insegna di un folk alcoolico simil-Korpiklaani, non scalfisce quanto di buono messo in mostra nella gran parte degli altri frangenti.
Infatti, canzoni intense come Prey, che si va ad agganciare perfettamente ad un immaginario epico-cinematografico, e il picco assoluto dell’album, Journey Through the Nine Worlds, non è così scontato poterle ascoltare con grande frequenza.
La bontà del lavoro, in fondo, risiede proprio nella capacità dei Miellnir di far confluire nel lavoro con innata fluidità gli influssi black, folk e gothic in un’espressione sempre molto ricca di contenuti, attestando la band su un livello ben superiore a quelli dei semplici epigoni di Turisas, Fintroll e compagnia epico-folkeggiante …
Un album perfetto per chi apprezza queste sonorità, ma anche sufficientemente accattivante e scorrevole per attirare nuovi adepti.

Tracklist:
1. Incineration Overture (Intro)
2. Prey
3. Legends of the Fallen
4. Stand Against
5. Journey Through the Nine Worlds
6. Ugar Buhlo
7. Embraced by Ire
8. Jörð
9. The Gallows Tree
10. Valhalla Awaits

Line-up:
Daimonos – Drums
Yarek Ovich – Guitars, Vocals (backing)
Njörðr – Guitars
Frozensoul – Vocals, Bass