HaatE / Chiral – Where The Mountains Pierce The Nightsky

“Where The Mountains Pierce The Nightsky” è un’operazione decisamente riuscita, che può rivelarsi utile per provare a far conoscere ad ancor più persone questi due progetti guidati da musicisti dotati di una sensibilità compositiva non comune.

HaatE e Chiral sono i progetti solisti di due musicisti italiani che dovrebbero essere già conosciuti a chi si aggira su queste pagine, visto che abbiamo avuto occasione di commentare nei mesi scorsi i loro recenti lavori.

Ben venga, quindi, questo split album che consente in un sol colpo di ascoltare due realtà differenti ma ugualmente contigue, più orientata verso un dark/ambient la prima e catalogabile come black atmosferico la seconda.
Per l’occasione i due sfruttano in parte il materiale già edito: HaatE, infatti, ripropone la splendida Crystal e la prima parte di As The Moon Painted Her Grief, tratte dall’omonimo album, regalando comunque una buona traccia inedita quale The Crystal Pathway, mentre Chiral, di fatto, rielabora in maniera decisamente interessante alcuni dei temi già proposti in “Abisso”, presentandoli in una sola lunga traccia di venti minuti intitolata Everblack Fields of Nightside.
Appare inevitabile, quindi, parlare positivamente di questi due musicisti, sia per la qualità del loro operato, ribadita in quest’occasione, sia per la tenacia e la convinzione con la quale cercano di proporre al pubblico generi musicali sicuramente non per tutte le orecchie .
Per HaatE c’è la conferma di un modus operandi molto vicino a nomi quali Lustre o i Wolves In The Throne Room sperimentali dell’ultimo “Celestite”, mentre Chiral mostra un volto più atmospheric/ambient riducendo di molto rispetto ad “Abisso” la componente estrema del suo sound, quasi in ossequio al compagno di split e, soprattutto, ad un concept che viene ben rappresentato da queste due diverse entità: se la prima parte (HaatE) verte sul viaggio di un essere spirituale, la seconda (Chiral) narra del peregrinare terreno di una creatura mortale ma, per entrambe, nonostante diverse finalità e modalità, la fine del percorso coincide con il termine dell’esistenza.
Where The Mountains Pierce The Nightsky è un’operazione decisamente riuscita, che può rivelarsi utile per provare a far conoscere ad ancor più persone queste due realtà musicali guidate da musicisti dotati di una sensibilità compositiva non comune.

Tracklist:
HaatE
1. The Crystal Pathway
2. Crystal
3. As The Moon Painted Her Grief

Chiral
4. Everblack Fields of Nightside

HAATE – Facebook

CHIRAL – Facebook

Circle Of Indifference- Shadows Of Light

Spettacolare esordio dei Circle Of Indifference con questo magnifico “Shadows of Light”.

Altro lavoro che se non arriva a sfiorare il capolavoro ci va tremendamente vicino.

I Circle Of Indifference sono la creatura del polistrumentista Dagfinn Øvstrud, nata lo scorso anno come one man band anche se il musicista svedese è aiutato nella lavorazione del disco da un manipolo di ottimi specialisti della scena estrema. Shadows Of Light ne è il clamoroso debutto che, insieme allo stupendo “Nightmare Years” dei Maahlas, mi ha completamente rapito tanto è il talento estremo che esce dalle composizioni di questo lavoro, all’insegna di un death metal melodico all’ennesima potenza; il tutto viene supportato da un songwriting straordinario che, senza finire troppo nell’abusato calderone del prog/death alla Opeth, stupisce per tecnica compositiva pregno com’è di canzoni che definire esaltanti è un eufemismo. Niente di nuovo, affermerà qualcuno, vero, ma qui siamo davanti ad un album talmente perfetto, così ben costruito che è impossibile non rimanerne affascinati: cavalcate elettriche accompagnano digressioni elettroniche, tutto il metal scandinavo passa per i solchi di questa straordinaria opera, in cui una produzione bombastica non è altro che la ciliegina su una torta che non riuscirete più a fare ameno di divorare. Edge Of Sanity e la loro guida Dan Swanö sono i riferimenti più logici per le soluzioni adottate in questo lavoro, senza dimenticare anche i Pain di Peter Tagtgren nelle parti elettroniche, e ho detto tutto … Aggiungete un innato senso melodico che, anche nelle parti più violente rende i brani uno più bello dell’altro, ed ecco che il grande disco è servito su un piatto d’argento dallo chef svedese, che lascia all’enorme vocalist Brandon Leigh Polaris il compito di accompagnarci per tutta la durata dell’album con il suo growls spettacolare. Tutto è perfetto, non c’è una nota fuori posto in Shadows Of Light, e la musica vi travolgerà senza darvi tempo per riprendervi tra un brano e l’altro, devastati da cotanto talento al sevizio di un metal debordante. Dove poi entra in gioco una female vocals (Darkness) i Circle Of Indifference sverniciano e mettono in fila tutte le symphonic metal band del pianeta, senza dimenticare di dare una ripassatina al metallo epico che qui diventa furiosa musica guerresca, sprizzante eroicità da tutti i pori (Another Day In Paradise). Siamo di fronte ad un album che, non fosse per l’assoluta cecità del mainstreem e di molti addetti ai lavori, farebbe il pieno nelle classifiche di fine anno in ambito estremo. Se il buon Dagfinn Øvstrud si accontenta, di sicuro non mancherà nella nostra …

Tracklist:
1. Despair (Intro)
2. A Child but Not
3. Walk with Me
4. Alone
5. Shadows of Light
6. Evil
7. This Is Not the End
8. Darkness
9. Another Day in Paradise
10. Abyss
11. Push
12. Shadows of Light (Aybars Remix)
13. Hope (Outro)

Line-up:
Dagfinn Øvstrud – All instruments, Lyrics

Guests:
Brandon L. Polaris – Vocals
Tyler Teeple – Guitars (lead)
Nikky Money – Vocals (on track 8)
Aybars Altay – Additional Instruments of Aybars Remix

CIRCLE OF INDIFFERENCE – Facebook

Chaos – Violent Redemption

Ancora grande metal dall’India con i Chaos, band thrash dall’ottima tecnica e dal songwriting devastante.

Ancora grande metal dall’India, questa volta parliamo di thrash metal con una band di Trivandrum dal nome che è tutto un programma, Chaos.

Giunta all’esordio dopo un demo del 2009, la band votata al metal della Bay Area conquista con questo ottimo primo lavoro, un massacro sonoro suonato a tratti alla velocità della luce e che, quando l’andatura rallenta ci si infrange in brani cadenzati di una pesantezza infinita, suonati a meraviglia da quattro ottimi musicisti ottimi: non solo violenza, quindi, ma tanta tecnica al servizio del vecchio thrash. Anthrax, Exodus, Death Angel e tutti i mostri sacri del genere sono chiamati in ballo dalla band indiana, che raccoglie il testimone e continua a correre per strade metalliche, non esistono semafori rossi, gli ostacoli i Chaos li travolgono con una serie di super songs che in sede live devono spaccare come poche, autentici anthem dalle accelerazioni vibranti, con solos pirotecnici e ritmiche da bombardamento sopra Pearl Harbor. Grandiosa la sezione ritmica (Vishnu al basso e Rohit alle pelli), un vocalist graffiante (JK) e un chitarrista spaventoso, una macchina da guerra che non fa prigionieri con lì aggiunta di un gusto melodico sempre ben presente nei brani dell’album (Nikhil). E’ incredibile come il gruppo riesca in tracce relativamente brevi (Heaven’s Gate a parte, i brani non superano i tre minuti) a condensare un così perfetto american style thrash metal; ognuna di esse esalta e trascina in un pogo sfrenato, a cui non riuscirete a sottrarvi sotto i colpi di War Crime, Saint, Blacklash, Merchant Of Death e Self Deliverance, le preferite dal sottoscritto che avrà il suo daffare per riprendersi da cotanta meraviglia estrema. Grande band e ottimo album.

Tracklist:
1. Ungodly Hour
2. Torn
3. Game
4. War Crime
5. Saint
6. Heaven’s Gate
7. Blacklash
8. Merchant of Death
9. Self Deliverance
10. Cyanide Salvation
11. Violent Redemption

Line-up:
Vishnu – Bass
Rohit – Drums
JK – Vocals
Nikhil – Guitars

CHAOS – Facebook

Black Therapy – The Final Outcome

I romani Black Therapy sfornano un Ep clamoroso a base di melodic death metal

Scandinavian melodic death metal: quante realtà , quante band, in tutto il mondo, si avvicinano al genere che più di ogni altro, dalla metà degli anni novanta, ha donato popolarità al metal estremo? Una marea.

Ma quante di queste possono vantarsi d’essere legittimamente eredi a livello di qualità, delle band che di questo genere hanno fatto la storia? Poche.
E se, senza andare a cercare troppo in là, una di queste fosse proprio qui in Italia?
Arrivati al terzo lavoro dopo un demo, “Through This Path” del 2010, ed il full-lenght “Symptoms Of A Common Sickness” dello scorso anno, i romani Black Therapy licenziano questi stupefacenti quattro brani, racchiusi nell’ep The Final Outcome, uno scrigno contenente quattro brani da antologia, esaltanti, devastanti, ultramelodici, ottimamente prodotti e, ovviamente, dal tiro pazzesco.
Mad World è una delle più belle canzoni sentite ultimamente nel genere (cover di un brano presente nella colonna sonora del film “Donnie Darko”), brano spettacolare nel quale un giro di piano ultramelodico accompagna la band sul podio del genere, collocandosi molto vicino ai Dark Tranquillity di “Projector”.
Seguono la pianistica ed emozionante Sunset Of The Truth e l’accoppiata Black Crow / The Final Outcome che manda in visibilio l’ascoltatore di turno grazie alla prova straordinaria della band, che esibisce grandi ritmiche, solos melodici, doppie vocals ad alternare growls alla Stanne e scream, il tutto impregnato di una vena oscura tale da far impallidire la band scandinava.
Quindici minuti di melodic death metal semplicemente perfetto che, se dovessero essere confermati con il prossimo full-length, potrebbero portare la band a raggiungere vette fino a ieri considerate irraggiungibili.

Track list:
1. The Final Outcome
2. Black Crow
3. Mad World
4. Sunset of the Truth

Line-up:
Luca Soldati – Drums
Daniele Rizzo -Guitars
Lorenzo “Kallo” Carlini – Guitars
Giuseppe Massimiliano Di Giorgio – Vocals
Marco Cattaneo – Bass

BLACK THERAPY – Facebook

Black Capricorn – Cult of Black Friars

Chi è alla ricerca di sonorità leccate e iperprodotte passi oltre, i Black Capricorn fanno musica per chi è come loro, e ciò che ne scaturisce è uno dei migliori album italiani dell’anno.

Il terzo album in poco più di 3 anni consacra definitivamente i Black Capricorn come una delle band guida del doom nazionale.

Non era facile riuscire a migliorare il già ottimo “Born Under The Capricorn” e il tutto pareva reso ancor più difficile dal ritorno alla formazione a tre degli esordi, con il solo Kjxu ad occuparsi di voce e chitarra, coadiuvato dall’accompagnamento ritmico delle sorelle Piras. In effetti, la rinuncia alla voce più abrasiva di Matteo Carta poteva comportare qualche scompenso per la band cagliaritana, ma il barbuto leader, pur avendo una tonalità di minore impatto, riesce a fornire una prestazione credibile dietro il microfono, compensata in ogni caso nel migliore dei modi dal suo operato alla chitarra, con la quale sforna riff su riff senza disdegnare anche riuscite digressioni soliste. Rachela e Virginia fanno il loro consueto ottimo lavoro, ma non sono certo le doti tecniche del trio a rendere imperdibile questo lavoro, quanto la capacità di sfornare quasi un’ora di doom dalle ampie sfumature psichedeliche senza che queste divengano preponderanti, con il rischio di attenuare l’impatto più propriamente metallico del sound. Semmai, un mood più lisergico si manifesta soprattutto nel finale, dapprima con lo stoner/grunge al rallentatore di Arcane Sorcerer e poi con la più soffusa traccia conclusiva, To the Shores of Distant Stars, cantata da Rachela. Ma il cuore pulsante dell’album risiede particolarmente in tracce dalla magnifica resa quali la title-track, Hammer Of the Witches, e For The Abyss, e forse ancor più nella parte composta dalle tre tracce strumentali che arrivano una dopo l’altra, con le ritmate Riding the Devil’s Horses e Cat People a fare da ancelle al brano più coinvolgente, la splendida ed evocativa Anima Vagula Blandula, dall’incipit affidato al flauto, a richiamare i Cathederal di “Forest of Equlibrium” per staccarsene subito proseguendo con un arpeggio acustico ed un assolo di vibrante emotività. Come detto, qui non si va alla ricerca di suoni cristallini e virtuosismi assortiti: il trio fa nel migliore dei modi ciò che meglio gli riesce, ovvero proporre un sound che affonda radici profonde nelle origini del genere senza mai scadere nel manierismo; non c’è un solo passaggio inutilmente interlocutorio in Cult of Black Friars, ogni brano possiede una propria definita struttura che si giova dell’essenzialità priva di qualsiasi orpello messa in campo dalla band. Qualche purista troverà probabilmente difetti sparsi qua e là ma, francamente, chi se ne importa, questo è doom, non progmetal, e chi lo ascolta vuole godere di di sonorità plumbee, pastose, distorte e condividere passione e sudore con i musicisti. Chi è alla ricerca di sonorità leccate e iperprodotte passi oltre, i Black Capricorn fanno musica per chi è come loro, e ciò che ne scaturisce è uno dei migliori album italiani dell’anno.

Tracklist:
1. Atomium
2. Cult of Black Friars
3. Hammer of the Witches
4. Riding the Devil’s Horses
5. Animula Vagula Blandula
6. Cat People
7. From the Abyss
8. Arcane Sorcerer
9. To the Shores of Distant Stars

Line-up:
Fabrizio “Kjxu” Monni – voce, chitarra
Virginia Piras – basso
Rachela Piras – batteria, voce (traccia 9)

Guests:
Luca Catapano – chitarra (traccia 3)
Mr. Toro – chitarra (traccia 9)
Alessandra Cornacchia – flauto (traccia 5)

BLACK CAPRICORN – Facebook

]]>

Sedna – Sedna

Questo è un disco che non vi farà stare meglio e non potrà consolarvi mentre state male, è sale sulle ferite, è un dolore lento ed insinuante che vi penetra in profondità senza lasciarvi requie.

Se il nome della band prende spunto da Sedna, dea del mare per gli Inuit, raffigurata nella copertina di questo debutto omonimo, mi piace pensare che ci possa essere in parte anche un rifermento al planetoide di scoperta relativamente recente, al quale è stato attribuito questo stesso nome e che compie un’orbita ellittica attorno al Sole impiegandoci circa 11.000 anni.

La musica dei Sedna, in fondo, ben rappresenta la furia della dea ma si nutre anche dell’inquietudine provocata dalla comparazione tra la nostra limitata permanenza su questo pianeta ed il moto pressoché eterno di tutti i corpi celesti, in quello spazio sterminato che ogni uomo è incapace di immaginare senza restare schiacciato dalla propria insignificanza.
Il black/sludge metal della band romagnola è l’ideale colonna sonora del tormento, del disorientamento, con le sue sfuriate alternate a momenti di calma che sottendono quasi sempre una riesplosione di riff violenti, di urla impietose che vanno ad infrangersi nella nostra incapacità di comprendere tutto ciò che è incommensurabilmente più grande di noi.
Questo è un disco che non vi farà stare meglio e non potrà consolarvi mentre state male, è sale sulle ferite, è un dolore lento ed insinuante che vi penetra in profondità senza lasciarvi requie.
Proprio quando il chiodo conficcato nella carne pare essersi arrestato nel suo tentativo di farsi ulteriore spazio, arriva in Life _ Ritual la voce dell’ospite Stefania Pedretti, sorta di Diamanda Galas portata alle estreme conseguenze, a far ripiombare nella più cupa alienazione anche l’ascoltatore più disincantato.
A parte quest’episodio a sé stante, i tre Sons (Of The Ocean, Of Isolation, Of The Ancients) sono brani di un’intensità difficilmente descrivibile, nei quali le rare aperture melodiche sono l’ultimo vano respiro per chi sta annegando o l’illusoria visione di un’oasi per chi si è perso nel deserto.
Certo, questo genere musicale ad alcuni potrà anche apparire ripetitivo e privo di sbocchi, ma tutto sta nell’avere ben chiaro cosa si vuole ascoltare dalle band alle prese con queste sonorità; per quanto mi riguarda, ciò che propone il trio cesenate con questo suo primo passo su lunga distanza, è esattamente ciò che serve per intraprendere un opprimente viaggio nelle più recondite profondità, che siano queste rappresentate da abissi oceanici oppure da quelle ben più perigliose della psiche umana, poco importa: i Sedna hanno meravigliosamente assolto a questo loro compito.

Tracklist:
1.Sons of the Ocean
2.Sons of Isolation
3.Life _ Ritual
4.Sons of the Ancients

Line-up:
Taio – Drums
Nil – Guitars, Vocals
Elyza – Bass, Vocals

SEDNA – Facebook

Horrified – Descent Into Putridity

Esordio all’insegna del death metal old school per gli Horrified.

Esordio sulla lunga distanza per questo combo proveniente dal regno unito, devoto al death metal old school.

Gli Horrified sono una giovane band di Newcastle formatasi appena due anni fa, con all’attivo un demo dello scorso anno intitolato “Carcinogenic Feasting”; la firma con Memento Mori li porta a raggiungere il traguardo del primo full-length, un concentrato di death metal old school debitore della scena scandinava a cavallo fra gli anni ottanta e novanta. Parliamo degli albori della scena, ed infatti Descent Into Putidrity sembra proprio uscire da una cassetta demo di quei gloriosi anni, quando anche le maggiori band del genere muovevano i primi passi e gettavano le basi per uno dei più importanti generi della musica estrema. La band si muove bene tra teschi, cimiteri e putridume vario, lasciato dai cadaveri decomposti: ci sono, tra i trenta minuti di questo massacro, dei buoni spunti (Narcolepsy, Tomb Of Rebirth), il gruppo spara sette bordate estreme tutte grinta e velocità, purtroppo la produzione rimane legata agli standard di quegli anni, la batteria risente di un suono un po’ troppo piatto ed il resto risulta ovattato. Forse non siamo più abituati ad ascoltare lavori del genere, ormai abituati ad uscite iperprodotte anche nel death old school, rimane quel senso di nostalgia (per chi ha qualche capello bianco in testa) per anni che non torneranno più, quando per supportare la scena underground si premevano contemporaneamente i pulsanti start e rec per duplicare cassette su cassette. Descent Into Putridity è un prodotto che, sostanzialmente, potrà attrarre soprattutto gli estimatori dei primissimi vagiti di Entombed, Dismember ed Unleashed.

Tracklist:
1. Tomb of Rebirth
2. Narcolepsy
3. Mortally Deceased
4. Descent Into Putridity
5. Buried Among Putrified Flesh
6. Veil of Souls
7. Repugnant Degeneration

Line-up:
Matthew Henderson – Drums
Daniel Alderson – Guitars (lead) Vocals
Dan H – Bass
Ross Oliver – Guitars (lead)

HORRIFIED – Facebook

Aevum – Impressions-Il Palcoscenico Della Mente

Impressions letteralmente incanta, trattandosi di una vera e propria opera rock/metal, nella quale l’elemento elettrico supporta il suono classico in un un vortice di stili e generi, mantenendo sempre in buona evidenza una componente oscura che trascina l’ascoltatore nel mezzo di un duello all’ultimo sangue tra i vari strumenti e tra le diverse voci.

Un’opera quanto mai ambiziosa, questo viaggio musicale degli Aevum, un affascinante tuffo in atmosfere da “fantasma del palcoscenico”, misteriose come quelle di un vecchio teatro abbandonato, nel quale gli unici abitanti sono gli spettri di un mondo ormai lontano e dimenticato.

Il gruppo nasce in quel di Torino da un’idea della cantante Evelyn Moon e del pianista Richard ai quali, dopo vari avvicendamenti di line-up, si uniscono altri musicisti per formare l’assetto definitivo che consta di ben sette elementi.
Prima di questo album d’esordio, la band ha realizzato due Ep autoprodotti, “Celestial Angels” e “Nova Vita”, rispettivamente nel 2008 e 2012. Impressions letteralmente incanta, trattandosi di una vera e propria opera rock/metal, nella quale l’elemento elettrico supporta il suono classico in un un vortice di stili e generi, mantenendo sempre in buona evidenza una componente oscura che trascina l’ascoltatore nel mezzo di un duello all’ultimo sangue tra i vari strumenti e tra le diverse voci (liriche, teatrali e scream e growl), come se i vari abitanti spettrali si dessero il cambio su un palcoscenico in disuso, per vivere ancora una volta la gloria artistica di un tempo che fu.
L’etichetta gothic sta un po’ stretta a quest’album, perché a mio parere siamo davanti ad un rock sinfonico dalle forti connotazioni dark, ma pur sempre con una precisa impronta operistica, con i brani che si susseguono senza interruzioni, inframmezzati da camei strumentali che chiudono e riaprono lo scontro titanico tra i vari protagonisti del lavoro, che siano essi strumenti o voci poco importa, mantenendo l’attenzione dell’ascoltatore altissima e costringendolo a restare in balia della musica del gruppo per tutta la durata dell’album.
Sono grandiose le parti più metalliche, autentiche cavalcate nelle quali classico e moderno si fondono per regalare attimi di musica esaltante (Lost Soul), se vogliano un po’ sulla scia dei Therion ma, laddove la band svedese, specialmente nei primi album, affiancava il classico al death metal, gli Aevum sono più vicini al symphonic black, sia nelle ritmiche sia nell’uso della voce in scream.
I nove minuti di To Be Or … To Be sono da standing ovation e mi fermo qui, perché questo lavoro è composto da undici movimenti che devono essere solo ascoltati e che, tutti insieme, danno vita ad un capolavoro dal titolo Impressions, album che vola sul podio dei migliori di quest’anno che va a concludersi.

Tracklist:
1. Il palcoscenico della mente
2. Blade’s Kiss
3. Intermezzo
4. The Battle
5. Il lamento della ninfa
6. Impressioni
7. Lost Soul
8. To Be or…to Be
9. Aevum
10. Monsters
11. Adieu à la scène

Line-up:
Matt – Drums
Violet – Bass
Lord of Destruction – Guitars (lead)
Richard – Piano, Vocals (backing), Growls
Evelyn Moon – Vocals (female opera clean )
Ian – Synth and Keyboards
Hydra – Vocals (opera clean and scream)

AEVUM – Facebook

Bethlehem – Hexakosioihexekontahexaphobia

L’ultimo disco dei Betlehem, pur non essendo imprescindibile, mostra un progresso rispetto al materiale più recente pubblicato dalla storica band tedesca.

Nell’ascoltare il settimo album dei Bethlehem, a vent’anni di distanza esatti dall’esordio “Dark Metal”, non si può fare a meno di cogliere quanto la band tedesca abbia mutato nel frattempo le proprie coordinate stilistiche.

Il black-doom degli esordi è lontano nel tempo ma è anche vero che, paradossalmente, il sound ha subito gran parte delle proprie mutazioni nel corso del primo decennio, mentre il gap stilistico tra l’ultimo full-length originale (“Mein Weg”, del 2004) e quest’ultimo parto è decisamente più ridotto, non volendo tener conto della breve parentesi di fine decennio con Kvarforth al microfono, culminata con la controversa riedizione del “S.U.I.Z.ID. album” e il successivo rigurgito black dell’Ep “Stönkfitzchen”.
Hexakosioihexekontahexaphobia è un disco che mostra sicuramente un volto più raffinato e maturo dei Bethlehem: infatti, qui il leader e unico superstite della formazione originale, Jürgen Bartsch, si preoccupa soprattutto di presentare, assieme alle immancabili tracce dai tratti sperimentali, brani soprattutto in grado di catturare l’attenzione senza sforzi sovrumani da parte degli ascoltatori.
Questo almeno è quanto avviene per le prime due tracce (Ein Kettenwolf greint 13:11-18 e Egon Erwin’s Mongo-Mumu), all’insegna di un dark metal piuttosto sinuoso che l’idioma tedesco rende ancor più decadenti nel loro incedere, ma indubbiamente è il quarto brano, Gebor’n um zu versagen, che si candida come uno dei picchi dell’album, grazie ad un refrain decisamente azzeccato.
Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom (titolo notevole), riporta la band su territori sperimentali con risultati altalenanti, mentre Spontaner Freitod, dopo un furioso avvio, si trasforma ben presto in un limaccioso brano dai tratti doom.
La bella ed evocativa Höchst alberner Wichs riporta l’album ad un sound in linea con la sua parte iniziale, e l’azzeccato strumentale Ich aß gern’ Federn e la più intimista Letale Familiäre Insomnie confermano la bontà di tale scelta.
Dopo una non troppo efficace Kinski’s Cordycepsgemach, è Antlitz eines Teilzeitfreaks che ha il compit di chiudere un album che sicuramente trae giovamento dalla buona prestazione vocale di Guido Meyer de Voltaire, valido sia nelle parti pulite sia in quelle “harsh”
In definitiva, quando una band, che in passato ha fatto dell’originalità della proposta il proprio vessillo, risulta più convincente proprio nella parti maggiormente fruibili è inevitabile porsi qualche domanda ma, come detto in fase di introduzione, proprio la maturità esibita dal trio finisce per compensare, senza però riuscire a rimpiazzarla, la carica innovativa degli esordi facendo sì che, in effetti, i brani più ambiziosi ed intricati nella loro costruzione alla fine risultino soprattutto cervellotici.
In questo senso l’assimilazione del lavoro non viene agevolata da una durata che supera l’ora, anche se nel complesso si può affermare che Hexakosioihexekontahexaphobia non è certo un disco deludente e, in ogni caso, mostra un passo avanti rispetto al materiale più recente pubblicato dai Bethlehem.
Buono, ma non imprescindibile, quindi, con nota di demerito per una copertina francamente insulsa oltre che di pessimo gusto …

Tracklist:
1. Ein Kettenwolf greint 13:11-18
2. Egon Erwin’s Mongo-Mumu
3. Verbracht in Plastiknacht
4. Gebor’n um zu versagen
5. Nazi Zombies mit Tourette-Syndrom
6. Spontaner Freitod
7. Warum wurdest du bloß solch ein Schwein?
8. Höchst alberner Wichs
9. Ich aß gern’ Federn
10. Letale familiäre Insomnie
11. Kinski’s Cordycepsgemach
12. Antlitz eines Teilzeitfreaks

Line-up:
Jürgen Bartsch – Guitars, Electronics, Bass, Keyboards
Florian “Torturer” Klein – Drums, Samples
Guido Meyer de Voltaire – Vocals, Bass

BETHLEHEM – Facebook

Necroart – Lamma Sabactani

Musica oscura,adulta, i Necroart ci consegnano un album da ascoltare senza riserve, per i fans di Sadness,Samael e My Dying Bride.

Fautori di un metal estremo che negli anni novanta spopolava, i Necroart arrivano al terzo full-length di un percorso artistico iniziato all’alba del nuovo millennio, che li ha portati a licenziare tre demo nei primi quattro anni e due album, “The Opium Visions” nel 2005 e “The Suicidal Elite” nel 2010. Lamma Sabactani punta su un sound più diretto e aggressivo, pur mantenendo le coordinate stilistiche del combo lombardo, votate ad un dark metal doom, a tratti progressivo e dalle sfuriate black, oscuro e malato, una manna per i fan orfani di tali sonorità che, diciamolo, ridicolizzano tante gothic band di questi anni, con i loro suoni puliti e dalle belle fanciulle in copertina ma, in quanto ad attitudine, neanche paragonabili a gruppi come i Necroart.

Iniziando dalla copertina, di una semplicità pari ad un impatto blasfemo disarmante, la band vomita suoni oscuri e voci malate dall’impatto dark e scream di matrice black che si rincorrono su tutto l’album, le melodie toccano emozioni ormai sopite, travolte dai suoni bombastici di questi ultimi anni, come solo le grandi band di metà anni novanta sapevano regalare, ancora influenzate dal dark ottantiano e dal doom/death. E’ un piacere riscoprire tra i solchi della title-track, di Agnus Dei, di Redemption, echi dei Sadness di “Ames De Marbre” e “Danteferno”, il dark doom dei My Dying Bride e le sfuriate black dei primi Samael; teatrali e malvagiamente neri come la pece, i brani di questo album conquistano fin da subito, anche per una vena progressive che rende il tutto molto maturo. Con la loro musica oscura e adulta, i Necroart non scherzano e ci consegnano un lavoro da ascoltare e far vostro senza riserve, degni eredi di un modo di suonare musica estrema che continua ad affascinare, in barba alle mode dettate dalle regole del mainstream!

Tracklist:
1. Lamma Sabactani
2. Magma Flows
3. The Demiurge
4. Agnus Dei
5. Redemption
6. Joining the Maelstrom
7. Stabat mater
8. Of Ghouls, Maggots and Werewolves
9. Cyanide and Mephisto

Line-up:
Francesco Volpini – Bass
Marco Binda -Drums
Filippo Galbusera – Guitars
Davide Zampa – Guitars
Davide Quaroni – Keyboards
Massimo Finotello – Vocals

NECROART – Facebook

Rorcal / Process Of Guilt – Split

Un altro split 12” interessante quello che ci viene proposto da un pool di etichette, con due band dedite a sonorità a cavallo tra black-sludge-doom con una vena industrial come gli svizzeri Rorcal ed i portoghesi Process of Guilt.

Un altro split 12” interessante quello che ci viene proposto da un pool di etichette, con due band dedite a sonorità a cavallo tra black-sludge-doom con una vena industrial come gli svizzeri Rorcal ed i portoghesi Process of Guilt.

Il lato A è appannaggio degli elvetici che, in realtà, con i loro tre brani mostrano una maggiore propensione al black metal, in particolare facendo riferimento ai Blut Aus Nord dei “Memoria Vetusta”, il che corrisponde ad un’interpretazione del genere dai tratti prevalentemente avanguardistici e claustrofobici. In IX non vi sono particolari deviazioni rispetto ad un percorso violento e dissonante, mentre in XI affiora qualche rallentamento e il brano, nonostante qualche lieve concessione melodica, appare ancora più feroce rispetto al precedente; X riparte esattamente dalla fine di XI per poi sfociare in ritmi maggiormente cadenzati. Quando il testimone passa, voltando il lato, ai Process Of Guilt, si capisce subito che i lusitani interpretano il loro pesante sludge dalle sfumature industrial/postmetal nel miglior modo possibile, ovvero imprimendo al proprio sound quel marchio che avevano già proposto con successo in occasione del loro magnifico ultimo album “Fæmin”. Un impatto sonoro denso, avvolgente, dalle distorsioni portate alle estreme conseguenze rappresenta, di fatto, un muro di totale incomunicabilità che si fa musica: impietosi i primi due movimenti di Liar, mentre quello di chiusura è costituito da due minuti e mezzo di minaccioso ambient. Da notare come, alla fin fine, le band possiedano un approccio musicale non del tutto dissimile pur approdandovi da diversi versanti stilistici (i Rorcal dal black ed i Process Of Guilt dal doom), a rimarcare quanto il rapporto di collaborazione in atto tra loro da tempo abbia prodotto un reciproco arricchimento dei rispettivi sound. Uno split da avere per chi apprezza queste sonorità, ancor più appetibile per il formato 12” molto curato dal punto di vista grafico, disponibile nella (ormai classica) edizione limitata a 666 copie …

Tracklist:
Side A
1. Rorcal – IX
2. Rorcal – X
3. Rorcal – XI

Side B
4. Process of Guilt – Liar: Movement I
5. Process of Guilt – Liar: Movement II
6. Process of Guilt – Liar: Movement III

Line-up:
Rorcal
Bruno da Encarnação – Bass
Ron Lahyani – Drums
Diogo Almeida – Guitars
JP Schopfer – Guitars
Yonni Chapatte – Vocals

Process Of Guilt
Custódio Rato – Bass
Gonçalo Correia – Drums
Nuno David – Guitars
Hugo Santos – Vocals, Guitars

RORCAL – Facebook

PROCESS OF GUILT – Facebook

Wyld – Stoned

Ottimo esempio di heavy/stoner questo Ep di debutto dei parigini Wyld.

Da Parigi arriva questa band che, se confermerà le buone sensazioni avute all’ascolto di questo Ep, al prossimo giro potrebbe davvero fare il botto (qualitativamente parlando).

Loro sono gli Wyld e suonano un heavy/stoner che più americano non si può, devoti allo zio Zakk Wylde ed ai suoi Black Label Society.
Niente di nuovo, vero, ma il bello è che gli Wyld fanno tutto davvero bene presentandoci tre brani, più un’outro strumentale da applausi, votati alle sonorità d’oltreoceano, tremendamente orecchiabili e settantiani, una vera sferzata di adrenalina pura, cantati alle grande dal bravissimo Raphael Maarek.
Le coordinate dell’Ep sono appunto un heavy/stoner-ock’n’roll sparato a mille, come nell’opener Venomous Poison, oppure cadenzato e potentissimo come in Just Another Lie.
Le influenze del resto sono palesi, oltre ai BLS, le canzoni richiamano anche le ultime fatiche dei Black Stone Cherry e dei gruppi che hanno riportato in auge i suoni stonerizzati, con più di un occhio al southern dei maestri Down e Corrosion of Conformity.
Efficace e dall’ottimo impatto la sezione ritmica (Jerome Serignac al basso e Remi Choley alle pelli) e buoni i ricami delle due chitarre, tra ritmiche stonate e solos heavy/rock della coppia Chante Basma e Jeffrey Jacquart.
La title-track conferma il buon talento dei cowboys parigini e l’outro strumentale Crossroads ci dà appuntamento ad un futuro full-length che, a questo punto, diventa un passo obbligatorio per la band.
La valutazione finale risente della brevità del lavoro, ma la band transalpina conferma la buona salute dell’odierno genere guida delle sonorità provenienti dal nuovo mondo, reclamando la giusta dose di attenzione.

Tracklist:
1. Venomous Poison
2. Just Another Lie
3. Stoned
4. Crossroads

Line-up:
Raphael Maarek – Lead Vocals
Chante Basma – Rhythm Guitars, Backing vocals
Jeffrey Jacquart – Lead, Rhythm Guitars
Jérôme Sérignac – Bass Guitar, Backing vocals
Gabriel Deloffre – Drums

Darkenhöld – Castellum

Castellum è un lavoro che soddisferà chi ama un black metal rivestito di una consistente patina epic-folk.

Al loro terzo album, i francesi Darkenhöld hanno probabilmente scovato la loro pietra filosofale, sotto forma di quell’equilibrio non sempre facile da ottenere nel tentativo di amalgamare l’anima black metal e l’ispirazione epico medievale dei testi e delle melodie.

Castellum porta la band nizzarda dritta al risultato auspicato, ovvero quello di comporre un lavoro privo di apparenti punti deboli e che fa proprio della compattezza il proprio punto di forza. Sin dall’opener Strongholds Eternal Rivalry, i Darkenhöld imprimono il giusto ritmo all’album, presentandosi con un brano piuttosto tirato ma non privo di quelle aperture melodiche che più si evidenziano in tracce quali Le Castellas du Moine Brigand e Glorious Horns. Se è vero che la matrice black è quella scandinava, nelle parti in cui sono gli spunti epici a prevalere i transalpini mostrano la giusta dose di personalità, il che consente loro di affrancarsi con buona disinvoltura dal rischio di venire sopraffatti da uno sterile manierismo; alcune soluzioni possono portare alla mente anche i Bal Sagoth, ma con molta enfasi in meno sul versante sinfonico e, soprattutto, con uno screaming tipicamente black anziché il verboso recitato di Byron. Del resto le soluzioni melodiche adottate si rivelano oltremodo apprezzabili per la loro varietà, essendo affidate ora ad un tenue lavoro di tastiera, ora a strumenti acustici, oppure ancora alla chitarra solista, capace di produrre armonie di ottimo gusto, come avviene nell’ottima L’Incandescence Souterraine. In buona sostanza Castellum è un lavoro che soddisferà chi ama un black metal rivestito di una consistente patina epic-folk.

Tracklist:
1. Strongholds Eternal Rivalry
2. Le Castellas du Moine Brigand
3. Majestic Dusk Over the Sentinels
4. Glorious Horns
5. Feodus Obitus
6. Le Souffle des Vieilles Pierres
7. L’Incandescence Souterraine
8. Mountains Wayfaring Call
9. The Bulwarks Warlords
10. Medium Aevum

Line-up:
Aboth – Percussion, Drums, Keyboards
Aldébaran – Guitars, Keyboards, Bass, Choirs
Cervantes – Vocals

DARKENHOLD – Facebook

Corrosion Of Conformity – IX

Precisazione: non sono qui per convincervi che una della mie band preferite di sempre abbia fatto un album epocale, non sarebbe onesto né giusto nei vostri confronti, né voglio assolutamente, a dispetto dei santi, farvi partecipi dell’importanza che ha avuto nell’underground americano dal finire degli anni ottanta fino ai giorni nostri.

Ma, lasciatemelo dire, non considerare i Corrosion Of Conformity almeno una cult band o e magari dar mloro meno importanza di band pompate dal tirannico MTV, è peccato mortale. Ok, Mr. Pepper Keenan non appare sul disco (anche se, ad oggi in teoria, non ha ancora lasciato ufficialmente il gruppo) ma, fidatevi, IX è un album che (e non poteva essere altrimenti) spacca come pochi. I tre superstiti, Mike Dean, Reed Mullin e Woody Weatherman, che poi sono il trio originale del combo, in questo nuovo album tornano in parte alle origini, non dimenticando che, in fondo, dal debutto “Eye for an Eye” del 1984 di acqua sotto i ponti ne è passata veramente tanta e i C.O.C., nel frattempo, hanno licenziato una marea di dischi, passando dall’hardcore degli esordi allo stoner/sludge delle ultime fantastiche produzioni, rilasciando capolavori come “Blind” (il disco più metal/alternative della loro discografia) nel 1991, “Deliverance” nel 1994 (quello della svolta stoner/southern dal quale Phil Anselmo ha attinto non poco per i suoi Down) e “America’s Volume Dealer nel 2000. I tre musicisti del North Carolina, in questo ultimo album, ripassano tutta la loro discografia, confezionando un lavoro che pesca dallo stoner ma anche dal loro primo amore, quell’hardcore che fornisce al sound un tocco selvaggio che, forse, è mancato nelle ultime uscite. Un ritorno al vero spirito underground quello dei Corrosion Of Conformity, i quali con coraggio lasciano la facile strada dello stoner con iniezioni southern, che oggi sembra piacere non poco (al sottoscritto, tantissimo), optando per un approccio che torna più diretto, meno freak e in linea con le prime produzioni. Certo, la mancanza di Keenan non è cosa da poco, ma i tre musicisti vanno per la loro strada con questo bellissimo macigno che definire rock’n’roll, alla fine, non sembra un’eresia. Rock’n’roll fatto dai Corrosion Of Conformity, ovviamente, e allora: bombe hardcore su un tappeto stoner e sludge, senza soluzione di continuità, pesanti come incudini e dal groove che prende spunto dai ribelli degli stati del Sud, un sound alternative che vi entra nelle viscere per rivoltarvi come calzini, dalla micidiale Brand New Sleep, cattedrale dedicata al doom/stoner, passando da The Nectar per arrivare alla fine di questa ennesima lezione impartita dai grandi C.O.C. Finale: probabilmente non vi avrò convinto, ma secondo me quest’album farà scuola, ne riparleremo fra un paio d’anni…

Tracklist:
1. Brand New Sleep
2. Elphyn
3. Denmark Vesey
4. The Nectar
5. Interlude
6. On Your Way
7. Trucker
8. The Hanged Man
9. Tarquinius Superbus
10. Who You Need to Blame
11. The Nectar Reprised

Line-up:
Mike Dean – Bass,Vocals
Reed Mullin – Drums,Vocals
Woody Weatherman – Guitars,Vocals

CORROSION OF CONFORMITY – Facebook

The Furor – Impending Revelation

Quarto album a base di bombardamenti death/black/thrash da parte del progetto solista dell’australiano Disaster.

Attivo dal 2002, questo progetto del polistrumentista australiano Disaster (vero nome Louis Rando,  conosciuto anche come drummer degli Impiety), continua a martellare arrivando con Impending Revelation al quarto album, niente male per un musicista che con il monicker The Furor, dal 2004, anno di uscita del debutto “Invert Absolute”, mantiene con coerenza le coordinate stilistiche di un black/death devastante.

“Advance Australia Warfare” del 2005, “Assault By Fire”, Ep del 2008, “War Upon Worship del 2011 e l’altro Ep “Sermon of Slaughter” di due anni fa completano la discografia precedente di questo demonio dalle mille risorse.
Niente di inascoltato, ci mancherebbe, ma il nuovo disco in quanto ad impatto non ha nulla da invidiare a nessuno, travolgendo l’ascoltatore dall’inizio alla fine senza soluzione di continuità, rivelandosi un monumento al death/black con l’aggiunta di mitragliate thrash che spazzano via con inumana violenza tutto ciò che gravita attorno.
Davvero bravo il musicista di Perth con tutti gli strumenti, ma ovviamente in particolare alle pelli, dove risulta una macchina da guerra spaventosamente efficace; molto valido anche lo scream da vocalist di vaglia, assolutamente sul pezzo ad ogni passaggio vomitando odio apocalittico e disprezzo verso tutto e tutti.
Le influenze maggiori vanno ricercate nei primi Slayer, Destruction e nelle band old school dei generi estremi come Deicide e Darkthrone, per una miscela esplosiva di suoni estremi dall’impatto immane, foriera di distruzione e di guerra totale.
Per gli amanti delle band sopra indicate il disco è assolutamente consigliato, unico neo il songwriting che, alla lunga, risulta monocorde: si astenga dunque chi non è amante di queste sonorità, anche se brani spaccaossa come Inferno Fortification, Seven Trumpets, Black Sorcerer of Sadism e la cover slayeriana Show No Mercy sono vere chicche per gli amanti dei generi suonati a cavallo tra gli anni ottanta e il decennio sucessivo.

Tracklist:
1. Hammer Hierarchy
2. Inferno Fortificaion
3. Summoned Obscurity
4. Seven Trumpets (Ceaseless Armageddon)
5. Corpse Eclipse
6. Diabolic Liberation
7. Black Sorcerer of Sadism
8. Show No Mercy
9. The Pentagram Prevails

Line-up:
Disaster – All Instruments, Vocals

THE FUROR – Facebook

Plateau Sigma – The True Shape Of Eskatos

Questi ventimigliesi hanno una superiore capacità di comporre e stanno crescendo moltissimo da un disco all’altro.

A stretto giro di posta tornano i liguri Plateau Sigma con i loro doom che aveva impressionato positivamente già nel 2013 con “White Wings Of Nightmares”

Il loro secondo disco si addentra ancora di più nell’antro dell’umana disperazione, ovvero la nostra vita, girando il coltello nella piaga: The True Shape Of Eskatos è un disco molto bello, lungo e seducente in maniera tossica
Le composizioni sono lente ma non claustrofobiche e l’incedere è epico e di grande effetto; le voci di Manuel e Francesco si fondono mirabilmente e, in The River 1917, Efthimis Karadimas dei Nightfall compare alla voce offrendoci una grande prova.
Il disco, rispetto all’esordio, che già era un bel pezzo di inferno, è prodotto meglio ed i suoni appaiono maggiormente definiti e ulteriormente appesantiti, mostrandosi più monolitici e forti.
I Plateau Sigma sono uno dei migliori gruppi doom metal in circolazione non solo in Italia: questi ventimigliesi hanno una superiore capacità di comporre e stanno crescendo moltissimo da un disco all’altro.
In The True Shape Of Eskatos siamo sempre in territori doom ma, a mio avviso, questo lavoro è più pesante del primo che era più invece più orientato verso il lato classico.
Chi apprezza la lentezza e la pesantezza fatte a regola d’arte, qui troverà un gran disco, e non serve essere americani.
A Ventimiglia fanno un grande doom.

Tracklist:
1. The Initiation
2. Satyriasis and the Autumn Ends
3. Stalingrad
4. Ordinis Supernova Sex Horarum
5. The River 1917
6. Angst
7. Amber Eyes

Line-up:
Nino Zuppardo – Drums
Manuel Vicari – Guitars, Vocals
Francesco Genduso – Guitars, Vocals
Maurizio Avena – Bass

PLATEAU SIGMA – Facebook

Dominhate – Towards The Light

Ottimo esordio per i Dominhate: il loro “Towards the Light” sorprende rivelandosi un ottimo esempio di puro death metal.

Continuano imperterrite ad affiorare in tutto il mondo realtà dedite al puro death metal sound senza compromessi: i semi sono gettati dalle band che infiammarono gli anni novanta, quando il genere ere al massimo della popolarità, e che sono arrivate al nuovo millennio ancora cariche di energia ma, soprattutto, affiancate da notevoli discepoli che portano avanti il verbo con totale devozione al re di tutti i generi estremi.

L’Italia non è da meno, riservandoci praticamente ad ogni uscita piccoli gioielli estremi come questo devastante Towards The Light, album di debutto dei friulani Dominhate. Quaranta minuti scarsi di massacrante death metal imputridito da malsane esalazioni di Morbid Angel e Nile, foriero di dannazione eterna, estremo nella più pura concezione del termine, violentato da scariche adrenaliniche e rallentamenti di quel doom/death alla Asphix che ha fatto scuola. Il gruppo si avvale di una sezione ritmica sugli scudi per tutto l’album (Steve, basso e voce, e Slippy, batteria), con il growl ultra cavernoso di Steve che comanda le danze e che pare uscito direttamente dagli inferi, mentre le chitarre ricamano riff su riff (Alex e Jesus), impossessate dai demoni che via via attraversano il songwriting della band, ribaltato vorticosamente da sferzate d venti freddi provenienti dal mondo dei vari Nile, Morbid Angel, Hate Eternal e dei maestri olandesi. Dopo un’intro dalle gelide atmosfere, l’album entra subito nel vivo con The Light of the Last Legion, dove indiavolate accelerazioni e rallentamenti pregni di pathos evocativo ci danno il benvenuto nel mondo di Towards The Light: di qui in avanti si sale sulla giostra infernale messa in piedi dalla band che, senza tregua e con la sicurezza del gruppo navigato, mitraglia da par suo conquistandoci con la sua efferata violenza sonora. The New Wave of Domination, The First Seed (dall’intro micidiale), la furiosa Perception, King without Crown elargiscono tremende bordate estreme, sempre con una naturalezza che sorprende per un combo al primo passo su lunga distanza. Questo dei Dominhate si rivela uno dei debutti più riusciti nel genere da un po’ di mesi a questa parte, tralasciando completamente sonorità modaiole e facendo propria l’attitudine e l’impatto delle band regine del death metal.

Tracklist:
1. Towards the Light
2. The Light of the Last Legion
3. In the Principle the Great Sleep
4. The New Wave of Domination 03:30
5. The Essence of the Choice
6. The First Seed
7. Obscure the Call of Salvation
8. Perception
9. King without Crown

Line-up:
Steve – Bass, Vocals
Slippy – Drums
Alex – Guitars
Jesus – Guitars

DOMINHATE – Facebook

Helevorn – Compassion Forlorn

“Compassion Forlorn” non solo conferma la maturità compositiva acquisita dagli Helevorn ma, addirittura, li colloca ai vertici del movimento gothic-doom.

Gli Helevorn sono una delle band più longeve di una scena doom spagnola che, se non proprio dal punto di vista numerico, si dimostra assolutamente all’altezza da quello qualitativo, grazie anche ai vari Evadne, In Loving Memory ed ai redivivi Autumnal.

Dopo l’album d’esordio “Fragments”, risalente a circa un decennio fa, il successivo “Forthcoming Displeasures” aveva consolidato lo status del gruppo maiorchino, capace di esprimersi su livelli prossimi a quelli degli esponenti di spicco del genere; questo nuovo lavoro non solo conferma la maturità compositiva acquisita dagli Helevorn ma, addirittura, li colloca ai vertici del movimento gothic-doom, in virtù di un’espressione stilistica pressoché perfetta, che trova in Compassion Forlorn la sua sublimazione, mantenendo un equilibrio stupefacente tra le dolenti atmosfere del doom e le aperture melodiche del gothic. Se l’iniziale The Inner Crumble ricalca in qualche modo la struttura del brano portante del precedente lavoro, “From Our Glorious Days”, con la successiva Burden Me il sound si fa più ritmato salvo poi ritagliarsi momenti intrisi di cupa malinconia, volti a spezzare una trama musicale solo apparentemente di immediata fruizione. Looters è guidata da un pianoforte che si alterna a passaggi chitarristici formidabili, che vengono replicati all’ennesima potenza in Unified, brano capolavoro dell’album grazie alla sua strabordante vena malinconica esaltalta dalle melodie strappalacrime messe sul piatto dal bravissimo Samuel Morales. Con Delusive Eyes gli Helevorn si cimentano sul terreno dei nostri The Foreshadowing con il brano che, fosse dipeso da me, avrei scelto per essere accompagnato da un video anziché la già citata Burden Me. Infatti, il potenziale commerciale di questa traccia è smisurato, con un chorus indimenticabile ed una prestazione vocale maiuscola da parte di Josep Brunet, un cantante che oggi, nell’ipotetica classifica di rendimento congiunta tra il growl e le clean vocals, ha ben pochi rivali nel settore. I Am The Blame è un altro episodio di gothic piuttosto catchy, bello anche se leggermente inferiore per intensità al resto della tracklist, ma l’arrivo di Reason Dies Last riporta ampiamente sul proscenio le atmosfere intrise di drammaticità che il doom impone, con la dolente litania chitarristica di Samuel a tratteggiare un brano con il quale gli Helevorn portano a spasso l’ascoltatore in tutte le possibili sfumature del genere, per un risultato nuovamente esaltante. Els Dies Tranquils tiene fede al titolo chiudendo l’album con le sue atmosfere più intimiste, prima con il recitato in catalano di Josep, poi con la sentita interpretazione della vocalist irlandese Lisa Cuthbert . Cinquanta minuti di grande musica che, dopo quei tre-quattro ascolti canonici, diverranno l’irrinunciabile colonna sonora della giornata per chi ama Swallow The Sun, Saturnus e Paradise Lost: accomunare oggi a queste band gli Helevorn non è una bestemmia né un azzardo, Compassion Forlorn ne è la splendida riprova.

Tracklist:
1. The Inner Crumble
2. Burden Me
3. Looters
4. Unified
5. Delusive Eyes
6. I Am to Blame
7. Reason Dies Last
8. Els Dies Tranquils

Line-up:
Xavi Gil – Drums, Percussion
Samuel Morales – Guitars (electric, lead & acoustic)
Josep Brunet – Vocals (lead)
Enrique Sierra – Keyboards
Sandro Vizcaíno – Guitars
Guillem Calderón – Bass

HELEVORN – Facebook

Tantal – Expectancy

Expectancy raccoglie tutti gli elementi che hanno fatto diventare il death melodico uno dei generi più seguiti in ambito metallico e, senza nessuna concessione alla modernità, i Tantal realizzano un lavoro straordinario.

Ci sono vari modi per suonare dell’ottimo death melodico: partendo dalla base scandinava, in questi anni centinaia di band si sono approcciate a questo modo di fare del buon metal, molte di queste con buoni risultati, amalgamandolo a seconda dei gusti con altri generi, dando così nuova linfa a questo tipo di suono che ha portato ad una autentica rivoluzione nel panorama estremo.

Ora la moda (anche nell’underground, inevitabilmente, si segue a tratti la corrente) porta le band ad un approccio “core”, seguendo la strada di In Flames, Soilwork e dei gruppi d’oltremanica con ottimi risultati, in molti casi maggiori di quelli delle band di riferimento, ma non mancano le sorprese come i clamorosi Tantal, provenienti dalla madre Russia, freschi di firma con Bakerteam Records. Il loro secondo album, questo Expectancy, raccoglie tutti gli elementi che hanno fatto diventare il death melodico uno dei generi più seguiti in ambito metallico e, senza nessuna concessione alla modernità, realizzano un lavoro straordinario, imprimendo al sound connotazioni che vanno dal thrash al prog metal, riempiendolo di suoni sinfonici e bombastici e aggiungendoci del loro in quanto a bravura tecnica ed elevata qualità di songwriting. Se tutto questo non bastasse, oltre ad un growl potente e perfetto che ricorda il Mikael Stanne di “The Gallery”, i Tantal lasciano alla sublime voce della singer Milana Solovitskaya il compito di fare il bello e il cattivo tempo su tutto l’album, lasciando l’ascoltatore a bocca aperta, sovrastato dal talento di questa sirena dell’est. Una produzione perfetta costituisce la classica ciliegina sulla torta, ed Expectancy viaggia su livelli altissimi, con brani avvincenti tra ritmiche da Transiberiana (Mikhail Krivulets al basso e Vyacheslav Gyrovoy alle pelli) e due asce che regalano funambolici solos, tecnicamente eccelsi ma allo stesso tempo sanguigni (Dmitriy Ignatiev e Alexandr Strelnikov, anche vocalist). Questo album non fa gridare al miracolo per proprietà innovative (così sistemiamo gli amanti dell’originalità a tutti i costi) ma, in fondo, la band non fa che mettere in musica le varie influenze, che partendo appunto dai Dark Tranquillity, passano per il death e per il prog metal di Dream Theater e Symphony X; qui è la qualità che fa la differenza, marchiando un lotto di brani che, partendo da Through the Years, regala musica esaltante, suonata con grinta e classe da cinque musicisti fuori categoria. Un lavoro da ascoltare e riascoltare senza remore

Tracklist:
1. Through the Years
2. Expectancy Pt.1 (Desert in My Soul)
3. Echoes of Failures
4. In Times of Solitude
5. Nothing (Selfish Acts)
6. Pain That We All Must Go Through
7. Expectancy Pt.2 (Despair)
8. Under the Weight of My Sorrow I Crawl
9. Бей первым! (Спеть для неба…)
10. В моих глазах

Line-up:
Mikhail Krivulets – Bass
Vyacheslav Gyrovoy – Drums
Alexandr Strelnikov – Guitars, Vocals
Dmitriy Ignatiev – Guitars
Milana Solovitskaya – Vocals

TANTAL – Facebook