Vàli – Skogslandskap

Musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene.

Dimenticate l’inconcludente ripetitività di certo ambient o la spiritualità a buon mercato di gran parte della musica new age; se volete provare ad ascoltare composizioni strumentali in grado di accarezzare il vostro udito facendovi riappacificare con l’universo intero, anche se farete un pò di fatica nel pronunciarlo, Skogslandskap fa al caso vostro.

Risulta senza dubbio più semplice memorizzare il nome dell’artista che si cela dietro l’omonimo progetto, il norvegese Vàli che, con la sua chitarra acustica supportata di volta in volta da altri quattro magnifici musicisti, ci regala tre quarti d’ora di musica delicata quanto emozionante. Skogslandskap è suddiviso in quindici brevi tracce che si susseguono senza che affiori nemmeno per un attimo il senso di noia o di assuefazione ad un tipo di sound normalmente a rischio da questo punto di vista; basta ascoltare l’opener Nordavindens Klagesang , un gioiello che dà il via a questo viaggio all’interno delle foreste norvegesi nell’arco di tempo compreso tra il tramonto e l’alba successiva, per percepire quanto la musica prodotta da Vàli rifugga stucchevoli tecnicismi rivelandosi, invece, una magica successione di suoni capaci di muoversi all’unisono con la natura circostante. Il cammino per il quale Vàli ci conduce, si snoda armonioso tra i mormorii delle piante, lo zampettare frenetico degli animali notturni, l’effluvio inebriante della terra bagnata dall’umidità notturna per concludersi con i quattro minuti finali di Morgenry, un concentrato di pura magnificenza e di commovente poesia che rende ineluttabile la necessità di riascoltare dalla prima traccia questo capolavoro. Skogslandskap riprende il discorso laddove si era interrotto ben nove anni fa con “Forlatt”, facendo apparire breve come un soffio di vento un lasso di tempo oggettivamente piuttosto lungo. Riscoprire quel disco è pertanto doveroso, come pure lo è ascoltare questa musica senza tempo, capace di ricondurci al nostro naturale status di ospiti del pianeta, che più ci si addice rispetto a quello di usurpatori di un regno che non ci appartiene.

Tracklist:
1 Nordavindens Klagesang
2 I Skumringstimen
3 Gjemt Under Grener
4 Langt I Det Fjerne
5 Mellom Grantraer
6 Himmelens Groenne Arr
7 Et Teppe Av Mose
8 Sevjedraaper
9 Dystre Naturbilder
10 Flytende Vann
11 Stein Og Bark
12 Lokkende Lyder
13 Skyggespill
14 Roede Blader
15 Morgengry

Line-up : Vàli – All Instruments

Guests:
Rosamund Brown – Cello
Marit Charlotte Steinum – Flute
Kjetil Ottersen – Piano
Mira Ursic – Violin

VALI – Facebook

Plateau Sigma – White Wings Of Nightmares

Viene un po’ difficile spiegare, a qualcuno che non l’ha mai provato, il brivido malinconico che regala un certo doom metal, quella dolce decadenza, morte eppur poesia.

Provenienti dall’estremo lembo di Liguria che si chiama Ventimiglia, i Plateau Sigma nascono alla fine dell’inverno del 2010 per iniziativa di Manuel Vicari e Nino Zuppardo.

Manuel ha appena interrotto la sua militanza negli Screaming Jesus, un gruppo di dark wave, e con i Plateau Sigma torna alle sue radici doom. Il loro suono è un doom venato di death ed heavy metal, molto vicino allo stile francese anni ottanta. Ci sono parti cantate in growl quando l’atmosfera si appesantisce, ed invece parti cantate molto bene nei passaggi più atmosferici. I Plateau Sigma riescono benissimo nell’intento di regalare emozioni all’ascoltatore, portandoci ora in lande desolate, ora in profonde tombe. In questi ultimi tre anni il gruppo si è sicuramente evoluto, questo disco è già maturo e contiene composizioni studiate molto bene. Viene un po’ difficile spiegare, a qualcuno che non l’ha mai provato, il brivido malinconico che regala un certo doom metal, quella dolce decadenza, morte eppur poesia. Come ritorno alle scene della Beyond Prod. non c’è niente male, anzi gran colpo. Ventimiglia entra prepotentemente nella mappa del doom metal, e lo fa con un’eccellenza.

Tracklist:
1. In the air
2. Lunar stream hypnosis
3. Dreaming to dissolve
4. The cult of Mithra
5. Maira and the Archangel

Line-up:
Nino Zuppardo – Drums, Vocals
Manuel Vicari – Guitars, Vocals
Francesco Genduso – Guitars, Vocals
Maurizio Avena – Bass

PLATEAU SIGMA – Facebook

Taketh – Ignorance Is Strength

Questo secondo full-length dei Taketh, che giunge a ben otto anni dal quello d’esordio, potrebbe segnare l’inizio di una fase nuova della carriera per gli svedesi, autori di una prova assolutamente gradevole pur se non ancora degna d’essere tramandata ai posteri.

Ignoranza è forza, ci urlano in faccia i Taketh e, in fondo, come dare loro torto, sia che si voglia intendere la cosa in senso negativo (essere disinformati o comunque “ignorare” i problemi altrui sotto certi aspetti può aiutare a vivere meglio), sia che invece il significato venga associato all’ambito musicale, dove viene definito “ignorante”, in senso positivo, chi suona in maniera spontanea e senza porsi troppi problemi di carattere estetico o formale.

La band svedese è in circolazione da oltre un decennio, prima con il monicker Pergamon e, dal 2003, con quello attuale; vista la provenienza geografica non è così sorprendente scoprire che i nostri sono dediti ad uno degli stili musicali che a quelle latitudini è nato, cioè il death melodico. In effetti, i poco rassicuranti cinque figuri di Linköping ci spiazzano parzialmente con l’incipit elettronico dell’opener Moving One, e il brano stesso, scelto dalla band come signolo, ci porta a spasso per insidiosi sentieri vicini al metalcore, con tanto di ritornello con (rivedibile) voce pulita; nonostante questo però, si intuisce ugualmente che non tarderemo ad ascoltare episodi molto più canonici ed oggettivamente riusciti, dai chiari rimandi ai campioni indiscussi del genere quali i Dark Tranquillrty. Alla band guidata dai fratelli Dahl va riconosciuta la volontà di ricercare qualche sbocco compositivo meno canonico ma l’operazione spesso non riesce del tutto, pur risultando comunque lodevole (vedere la già citata Moving One o Your Master, con le sue parti corali); molto meglio, quindi, quando vengono esplorati territori conosciuti facendo venire meno qualsiasi effetto sorpresa ma colpendo efficacemente con brani inappuntabili come Burning o 1984. Il buon David prova a variare per quanto possibile la gamma vocale a sua disposizione e il resto della band ci dà dentro con sufficiente convinzione, ma appare comunque evidente che il livello raggiunto dai modelli compositivi di riferimento si trova ancora diversi passi più avanti; ciò nonostante, questo secondo full-length dei Taketh, che giunge a ben otto anni dal quello d’esordio, potrebbe segnare l’inizio di una fase nuova della carriera per gli svedesi, autori di una prova assolutamente gradevole pur se non ancora degna d’essere tramandata ai posteri …

Tracklist:
1. Moving On
2. We Are Slaves
3. Your Master
4. In Memory
5. Burning
6. Flaws
7. Innocent Again
8. Inside of Me
9. 1984
10. Mind Numbing Crap

Line-up :
David Dahl – Vocals
Mikael Lindquist – Bass
Johan Dahl – Drums
Atahan Tolunay – Guitar
Johan Ejnarsson – Guitar

TAKETH – Facebook

Ataraxie – L’Etre et La Nausée

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

L’Etre et La Nausée, ultima fatica discografica del quartetto transalpino, dovrebbe essere portato ad emblema della capacità di esibire sfumature diverse da parte di un genere musicale che, essenzialmente per comodità ma talvolta in maniera semplicistica, viene definito funeral doom. Infatti, appiccicare tale etichetta a quest’album appare assai riduttivo perché, se è vero che non mancano rallentamenti ai limiti dell’asfissia, passaggi talmente densi ed opprimenti che il sangue quasi fatica a trasportare ossigeno al cervello, dall’altra abbiamo momenti nei quali viene sprigionata una rabbia quasi ferina e dagli accenti disperati, ma capace di stemperarsi un attimo dopo in delicati quanto instabili ricami acustici. Per una volta, in questo genere di lavori, l’elemento in più, quello capace di evocare i differenti stati d’animo, è proprio la voce di Jonathan Thery, in grado di interpretare (nel senso vero del termine) le liriche contenute nei brani, passando con eccellente versatilità dal growl più profondo ad un lancinante screaming ai confini del depressive, oppure modulando la voce in una sorta di punto d’incontro tra questi due stili senza dimenticare i passaggi quasi sussurrati che accompagnano i momenti più rarefatti del lavoro. L’Etre et La Nausée consta di quattro lunghi brani più un breve strumentale, suddivisi in due cd per un totale di un’ora e venti di musica al contempo avvolgente e straniante, che rappresentano l’ennesimo travagliato viaggio nei meandri della nostra psiche, un luogo dove in ogni individuo si nasconde il mostro in grado di generare debolezze, paure e rimpianti, in definitiva tutte le sensazioni che ci assalgono nel preciso momento in cui proviamo a porci qualche quesito appena più profondo rispetto alla routine del nostro vivere quotidiano. “La Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza” scrive Sartre in quello che è il suo romanzo più noto, e gli Ataraxie, che fin dal titolo dell’album citano il loro illustre compatriota, rappresentano come meglio non potrebbero, tramite la loro musica, lo sgomento che si impadronisce di un individuo allorché realizza quanto il suo passaggio terreno non solo sia effimero ma addirittura insignificante, se valutato da un punto di vista universale. Per una volta preferirei evitare di affrontare quest’opera “track by track” in maniera tradizionale: L’Etre et La Nausée va vissuto dall’ascoltatore nella sua interezza e con l’opportuna dedizione; gli Ataraxie indulgono in ben poche concessioni o aperture melodiche e proprio per questo, quando ciò accade, assumono ancor più valore all’interno dell’album. Ma se avrete la pazienza e la tenacia di dedicare all’ascolto diverse ore del vostro tempo, scoprirete che il brano preferito in prima battuta, la volta successiva verrà soppiantato da un altro; così, se la prima volta amerete l’opener Procession Of The Insane Ones per la sua capacità d’essere terribilmente “pesante” anche nelle sue fasi acustiche, successivamente sarà Face The Loss Of Your Sanity ad incantarvi per la sua anima profondamente death, poi sarà il turno di Dread The Villains, che in ”soli” undici minuti si rivela un’ideale sintesi delle doti del quartetto di Rouen, finendo poi per godere appieno della sfibrante bellezza dell’infinita Nausee. Come i connazionali Monolithe, anche gli Ataraxie, svincolandosi parzialmente dai consueti schemi compositivi, hanno impresso alla loro carriera una svolta decisiva che consentirà loro d’entrare di diritto nel gotha del doom metal.

Tracklist:
1. Procession Of The Insane Ones
2. Face The Loss Of Your Sanity
3. Etats d’Âme
4. Dread The Villains
5. Nausée

Line-up :
Jonathan Théry – vocals, bass
Frédéric Patte-Brasseur – guitars
Sylvain Esteve – guitars
Pierre Sénécal – drums

ATARAXIE – Facebook

Graveyard Of Souls – Shadows Of Life

L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

I Graveyard Of Souls sono una band spagnola di recente formazione dedita a un death-doom melodico dagli evidenti rimandi novantiani.

Raul e Angel, che non sono certo musicisti alle prime armi e che sono attivi anche con le death band Authority Crisis e Mass Burial, in questo loro disco d’esordio sfogano evidentemente il loro lato più malinconico, oltre all’esplicita devozione verso le sonorità che portarono in auge, tra gli altri, i primi Tiamat (quelli fino a “Clouds”), i Crematory e, per chi se li ricorda, i Godgory.
Quindi più che di death-doom, per Shadows Of Life, potrebbe essere più appropriato parlare di death melodico, però nella sua accezione più oscura e comunque piuttosto lontana da quello che conosciamo anche come “Gothenburg Sound”.
Detto questo, l’esordio dei Graveyard Of Souls non arriverà a stravolgere le gerarchie dei sottogeneri citati, ma si segnala come un’opera ben più che dignitosa anche se, probabilmente, si rivelerà di maggiore interesse per i “diversamente giovani”, come il sottoscritto, che vissero quell’epoca già in età adulta.
Il lavoro della coppia iberica si fa apprezzare per la sua genuinità, unita ad una serie di melodie azzeccate, il tutto realizzato tramite un approccio piuttosto naif e privo di particolari raffinatezze stilistiche ma ugualmente efficace: brani come la title-track o la successiva Dreaming Of Some Day To Awake convincono grazie a linee chitarristiche capaci di imprimersi nella memoria senza eccessive difficoltà e la stessa cover di Mad World dei Tears For Fears, operazione dal notevole rischio di effetto boomerang, viene proposta in una maniera piuttosto credibile.
L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

Tracklist :
1. Genesis
2. Shadows of Life
3. Dreaming of Some Day to Awake
4. Memories of the Future (We Are)
5. Follow Me
6. Mad World
7. Solitude’s My Paradise
8. Dead Earth
9. There Will Come Soft Rains

Line-up :
Raúl
Angel

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

HellLight – No God Above, No Devil Below

La scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringono la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta.

Ho amato da subito la musica degli HellLight, fin da quel “Funeral Doom” (titolo programmatico anche se per certi versi fuorviante), secondo full-length nel quale, pur tra diverse imperfezioni, la band paulista mostrava un potenziale melodico ed evocativo in grado di esplodere da un momento all’altro.

Il successivo “…And Then, The Light Of Consciousness Became Hell…” aveva confermato quelle impressioni, rafforzate da un evidente progresso dal punto di vista della tecnica strumentale e della produzione. Tutto ciò faceva pensare che il quarto album sarebbe potuto essere quello della definitiva consacrazione ma, pur essendo stato compiuto un ulteriore passo avanti, non è andata proprio così, perché quei piccoli difetti strutturali che gli HellLight si trascinano dietro fin dagli esordi non sono ancora del tutto scomparsi. Intendiamoci, No God Above, No Devil Below, è un bellissimo disco, straconsigliato a chi apprezza il doom nella sua versione più melodica, malinconica ed accessibile, ma l’impressione che resta, al termine di questi quasi 80 minuti di musica, è quella di una band che non è ancora riuscita a compiere il passo decisivo per raggiungere un livello prossimo a quello dei Saturnus, tanto per restare nel medesimo ambito stilistico, anche se mi rendo conto che non stiamo parlando di un qualcosa alla portata di tutti. Pregi e difetti della band guidata dal chitarrista e cantante Fabio De Paula sono essenzialmente racchiusi negli oltre venti minuti complessivi della title-track e della successiva Shades Of Black: uno spiccato senso melodico al servizio di meste partiture tastieristiche, l’alternanza tra un profondo growl ed una stentorea voce pulita, ritmiche pachidermiche e assoli di chitarra di stampo classico nonché di eccellente gusto e fattura. Sfido chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità a non commuoversi ascoltando l’incipit di Shades Of Black, il tipico brano che da solo vale un intero disco, peccato che la scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringano la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta. Perché, diciamocela tutta, ogni volta che Fabio De Paula decide di prodursi nelle sue evoluzioni chitarristiche riesce a regalare momenti realmente indimenticabili, e questo è sicuramente un significativo punto di contatto con i Saturnus; ma, mentre in questi ultimi Thomas Jensen si limita saggiamente ad esibire, oltre al proprio profondo growl, soltanto alcune parti recitate, negli HellLight l’uso delle clean vocals appare forzato se non addirittura superfluo, visto che già la sola struttura compositiva dei brani contribuisce a creare emozioni in abbondanza. Il resto dell’album segue di norma uno schema consolidato, con brani contraddistinti da una lunga e più pacata parte introduttiva che sfocia in un finale nel quale si erge a protagonista la sei corde del leader , fatta eccezione per Path Of Sorrow, con la sua struttura di stampo autenticamente funeral; tutto ciò rischia talvolta di appesantire l’ascolto di No God Above, No Devil Below, anche se per chi apprezza il genere la cosa si rivelerà un piacevole sacrificio. Forse sono stato eccessivamente critico nei confronti degli HellLight, e ciò che mi ha trasmesso davvero questo loro ultimo lavoro lo mostra chiaramente il voto piuttosto elevato assegnatogli; purtroppo, però, in un’ottica di ricerca del meglio, non si può sorvolare su quei particolari che, per ora, impediscono il definitivo decollo ad una band capace di creare con una simile naturalezza melodie talmente coinvolgenti. Ma, si sa, a volte il troppo amore rende le persone particolarmente esigenti …

Tracklist :
1. Intro
2. No God Above, No Devil Below
3. Shades of Black
4. Unsacred
5. Legacy of Soul
6. Path of Sorrow
7. Beneath the Lies
8. The Ordinary Eyes

Line-up :
Fabio De Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums

HELLLIGHT – Facebook

Varego – Blindness Of The Sun

Ritornano i liguri Varego, con un ep di quattro pezzi.

Questo ep è un capolavoro per intensità, varietà, è un’epifania esoterica. Prodotto dalla sapiente mano di Billy Anderson, già longa manus per Sleep e Eyehategod, Blindness Of The Sun è un disco che piacerà tantissimo a chi aveva già apprezzato Tvmvltvm.

Anche qui i Varego giocano benissimo con il medium del concept album, dato che Blindness Of The Sun
è la continuazione esoterica del precedente concept album. Si parte con Hesperian, un pezzo massiccio nel quale i Varego passano con disinvoltura da un genere all’altro, finendo addirittura con potenti stacchi death metal ; si può tranquillamente affermare che Hesperian sia uno dei migliori pezzi mai composti dai ragazzi liguri: “hesperian” è l’occidente, la linea dalla quale sorge il Sole, luogo femminino di concezione.
Legata alla precedente traccia da un outro/intro arriva Secrets Untold, dove continua il tono epico di questo ep, con la chitarra che descrive un riff in stile doom, ma molto più veloce, confermando che lo stile chitarristico di Gero e di Alberto è inconfondibile. Alla batteria c’è il solito grandissimo lavoro di Simone Lepore, che congiuntamente a Marco Damonte al basso fa sempre faville. Al terzo minuto di questa traccia c’è uno stacco che fa diventare il pezzo molto arioso, per poi tornare alla consueta durezza poco dopo. Rimane nell’aria un sentore di rivelazione, di segreto svelato.
Nel terzo pezzo i Varego si avvalgono della speciale collaborazione del sassofonista Giovanni Sansone, già con Casino Royale e La Crus, che aggiunge alla canzone un sapore molto speciale. Con l’aggiunta di questo sax free jazz, i Varego ci fanno intravedere la possibilità che la loro carriera sfoci nella sperimentazione, cosa auspicabile, poiché i ragazzi possiedono tutti i requisiti necessari.
Davvero un gran bel pezzo, un vero volo del nostro io.
Per il quarto e definitivo pezzo ecco arrivare la sacerdotessa Jarboe: per chi non la conoscesse, basti dire che è stata la fondatrice degli Swans, e che tutta una certa scena musicale, dai Neurosis ai A Perfect Circle, l’ha avuta come straordinaria collaboratrice. Ascoltando Of Drowning Stars potrete comprendere meglio il concetto. Questa canzone è come un summa di tutto ciò che hanno creato fino ad adesso i Varego, che già hanno nei loro ranghi la grande voce di Davide Marcenaro, ma con Jarboe si arriva sulle stelle. Il tappeto sonoro è in puro stile Varego, mentre il cantato della signora americana è celestiale e terribile al tempo stesso, come potrebbero essere delle stelle sommerse.
Ci troviamo quindi di fronte ad uno dei migliori dischi mai usciti in Italia in un ambito musical-esoterico che non ha nulla di commerciale, ma è anzi un viaggio iniziatico, per chi desidera intraprenderlo. Quattro pezzi che hanno al loro interno un numero infinito di mondi e di aperture verso altre dimensioni. Da rimarcare anche, per chiudere un cerchio già perfetto, la magnifica copertina di Marco Castagnetto, un’altro che s’intende di aprire mondi e dimensioni.

Tracklist:
1 Hesperian
2 Secrets Untold
3 The flight of the I
4 Of drowning stars

VAREGO – Facebook

Demonic Death Judge – Skygods

Una prova sorprendente per qualità e chiarezza delle idee riversate in questa cinquantina di minuti che volano via in un amen, proprio grazie alla capacità dei finnici di comporre brani dotati di profondità, pur senza rivelarsi eccessivamente ostici ai primi ascolti.

I Demonic Death Judge provengono dalla Finlandia e la loro proposta è incentrata su uno sludge/doom dai tratti avvincenti e soprattutto dotato di un notevole groove.

Il quartetto nasce nel 2009 da una costola degli industrial deathsters Total Devastation, il che tutto sommato fa capire quale sia la versatilità dei nostri, alle prese con generi oggettivamente piuttosto distanti tra loro. Skygods è il secondo full-length, che segue a poca distanza il pregevole esordio “The Descent”, e ne parliamo solo ora nonostante sia uscito effettivamente negli ultimi mesi dell’anno scorso. In quest’album, contrariamente a quanto potrebbe far pensare il retaggio musicale del quartetto, lo sludge assume sembianze tutto sommato accessibili, ovviamente relativizzando il tutto, mostrando un approccio alla materia fresco e accattivante. Difficile non restare coinvolti da brani come la title-track, la successiva Salomontaari dagli accenni blues, la lisergica Knee High, la sabbathiana Aqua Hiatus o la splendida ed oscura Pilgrimage, posta in chiusura del lavoro. Una prova sorprendente per qualità e chiarezza delle idee riversate in questa cinquantina di minuti che volano via in un amen, proprio grazie alla capacità dei finnici di comporre brani dotati di profondità, pur senza rivelarsi eccessivamente ostici ai primi ascolti. Skygods è un disco vivamente consigliato a tutti coloro che apprezzano questo tipo di sonorità, sicuramente non ne resteranno delusi.

Tracklist :
1. Skygods
2. Salomontaari
3. Latitude
4. Knee High
5. Aqua Hiatus
6. Cyberprick
7. Nemesis
8. Pilgrimage

Line-up :
Pasi Hakuli – Bass
Lauri Pikka – Drums
Saku Hakuli – Guitars
Jaakko Heinonen – Vocals

DEMONIC DEATH JUDGE – Facebook

Helrunar / Árstíðir Lífsins – Fragments: A Mythological Excavation

“Fragments: A Mythological Excavation” è uno split album, nato dalla collaborazione tra le due label tedesche Prophecy Productions e Vàn Records, che vede impegnate due band forse non troppo conosciute dalle nostre parti ma sicuramente di grande spessore artistico.

Fragments: A Mythological Excavation è uno split album, nato dalla collaborazione tra le due label tedesche Prophecy Productions e Vàn Records, che vede impegnate due band forse non troppo conosciute dalle nostre parti ma sicuramente di grande spessore artistico.

Parliamo degli Helrunar, senz’altro più noti anche perché attivi da ben oltre un decennio, anch’essi tedeschi, e degli Árstíðir Lífsins, combo dalla formazione recente che racchiude musicisti provenienti da diverse nazioni del nord Europa: li accomuna, oltre il genere suonato, anche una passione e una conoscenza tutt’altro che superficiale della mitologia nordica (e non solo, come vedremo).
Entrambe dedite a una forma di black epico, atmosferico e dalla forte componente etnica, le due band colgono questo occasione per presentare ognuna un lungo brano che ne ribadisce una volta di più le capacità già espresse in passato.
Lo split si apre con Wein Fur Polyphem degli Helrunar, i quali , attraverso il proprio leader Skald Draugir, spostano la loro attenzione verso la mitologia mediterranea, affrontando quello che probabilmente ne è il poema più conosciuto, l’Odissea. Il brano è un perfetto esempio di musica colta ed evocativa a 360 gradi: nel suo quarto d’ora si alternano parti corali, passaggi di enorme impatto caratterizzati da riff, ora chirurgici, ora capaci di evocare il fascino mai sopito delle gesta di Ulisse e dei suoi compagni di avventura.
Gli Árstíðir Lífsins, se come già detto si possono considerare in qualche maniera appartenenti allo stesso filone dei propri compagni di split, in realtà spostano ancora più l’asticella verso il lato maggiormente malinconico e sinfonico del genere; intendiamoci, qui non abbiamo a che fare con tastiere bombastiche bensì con strumenti classici che si integrano alla perfezione con le sfuriate di matrice black. Ammetto colpevolmente di non conoscere quanto composto in passato da questa magnifica band, ma il livello compositivo di Vindsvalarmál è tale da indurmi a pensare d’essermi perso qualcosa di importante.
In questi venti minuti la band condotta dal polistrumentista Stefan ci conduce per mano nel mondo dei miti norreni e il tutto avviene con la competenza e la cognizione di causa che proviene solo da uno studio approfondito della materia (lo stesso vale anche per Skald Draugir): tutto ciò trova nella musica il suo naturale sbocco rendendo questo brano una vera e propria perla, superiore al già di per sé notevole contributo degli Helrunar.
Devo dire che ho sempre considerato gli split album alla stregua di opere minori e dal carattere un po’ dispersivo, ma non posso che approvare al 100% quest’operazione, che ci consegna mezz’ora abbondante di ottima musica, oltre ad aumentare l’attesa per le prossime uscite su lunga distanza delle due band.

Tracklist :
1. Helrunar – Wein für Polyphem
2. Árstíðir Lífsins – Vindsvalarmál

Line-up :
Helrunar:
Skald Draugir – Vocals
Alsvartr – Drums, Bass
Discordius – Guitars, Vocals

Árstíðir Lífsins:
Stefán – Guitars, bass, vocals & choirs
Árni – Drums, viola, double bass, vocals & choirs
Georg – Vocals & choirs
Marsél – Vocals & choirs
Sveinn – Piano, keyboards & effects
Kristófr – Percussions & choirs
Tómas – Choirs
Teresa – Vocals
Kristín – Organ

HELRUNAR – Facebook

ARSTIDIR LIFSINS – Facebook

Black Oath – Ov Qliphoth And Darkness

“Ov Qliphoth And Darkness” è l’ennesimo grande disco doom metal pubblicato da una band italiana.

Dire che l’Italia in questo momento è una delle avanguardie della scena doom mondiale potrebbe apparire un eccesso di ottimismo o, nel peggiore dei casi, un incontrollabile attacco di sciovinismo: forse non sarà così dal punto di vista quantitativo, ma sotto l’aspetto qualitativo le nostre band non temono davvero confronti.

Per evitare di scontentare o dimenticare qualcuno non sciorinerò l’elenco piuttosto lungo dei nomi che, in questi ultimi anni, hanno dato alle stampe lavori di elevato spessore e che, non a caso, hanno ricevuto maggiore attenzione e risonanza all’estero che non in casa nostra, ma per i veri appassionati sarebbe tutto sommato un’operazione inutile.
In questo novero entrano di diritto i Black Oath, realtà dalla storia ancora relativamente breve ma già ricca di uscite in vari formati: questo Ov Qliphoth And Darkness è di fatto solo il loro secondo full-legth e non fa che rafforzare le positive impressioni destate con l’esordio “The Third Aeon” risalente a due anni fa.
Il doom della banda milanese afferisce al ramo più classico del genere, quello, per intenderci, che fa propria la lezione di Candlemass, Pentagram, Saint Vitus e compagnia, il tutto insaporito però da quel’oscuro fascino esoterico che dalle nostre parti è una regola e non un’eccezione.
In fondo la ricetta dei Black Oath non è affatto sconvolgente: brani lenti ma non dai tratti pachidermici, che seguono una linea melodica ben precisa, assecondata da un cantato sobrio, lineare, ma assolutamente efficace, a cura dell’ottimo A.Th.
Dopo la consueta intro, For His Coming apre le danze con un brano evocativo quanto in linea con la tradizione, e lo stesso si può dire anche per le altrettanto convincenti Sinful Waters e Scent Of A Burning Witch.
Witch Night Curse viene introdotta da una cupa tastiera (che ricorda i mai abbastanza rimpianti Cultus Sanguine) per poi dipanarsi in una lenta marcia verso l’abisso, mentre A.Th. continua ad evocare con maestria riti terrificanti ed oscuri.
Drakon, Its Shadow Upon Us fa il paio con il brano precedente per la sua carica evocativa e sembra lecito affermare che questo quarto d’ora complessivo di musica rappresenti al meglio le capacità indiscutibili del trio.
La title–track e la conclusiva (in tutti i sensi…) … My Death sono le tappe finali dell’ennesimo, affascinate viaggio musicale senza ritorno verso l’ignoto.
Nonostante il meritato elogio alla scena doom nostrana con il quale ho iniziato la recensione, nel cercare però qualche affinità con altri dischi usciti recentemente, collocherei Ov Qliphoth And Darkness nello stesso segmento stilistico dell’altrettanto valido “Doominicanes” dei polacchi Evangelist.
Ma, in casi come questi, i termini paragone sono utili solo per fornire un’idea approssimativa a chi non avesse ancora avuto la ventura di ascoltare qualche frammento di questo pregevole lavoro che, per quanto inevitabilmente devoto a chi in passato ha già percorso questo cammino misterioso e costellato di dolore, ha ben impresso il marchio di fabbrica della band che lo ha composto e inciso.

Tracklist :
1 – Esbat: Lamiae Sinagoge Pt 2
2 – For His Coming
3 – Sinful Waters
4 – Scent Of A Burning Witch
5 – Witch Night Curse
6 – Drakon, Its Shadow Upon Us
7 – Ov Qliphoth And Daekness
8 – …My Death

Line-up :
A.Th – Vocals, Guitars
Paul V – Bass
Chris Z – Drums, Clean Guitars, Synth
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Cold Insight – Further Nowhere

Chi ha apprezzato l’operato di Sebastien negli Inborn Suffering e nei Fractal Gates, si avvicini comunque senza indugi a a questo progetto di sicuro interesse e ragguardevole qualità, in attesa di seguirne i prossimi sviluppi.

Sebastien Pierre è un musicista francese, conosciuto soprattutto per la sua militanza negli Inborn Suffering e nei Fractal Gates, che non ha certo il timore di lanciarsi in nuovi e stimolanti progetti.

I Cold Insight nascono diversi anni orsono come solo project, con l’intento tutt’altro che celato di unire le atmosfere malinconiche del death-doom con quelle sonorità post-metal che hanno fatto la fortuna, tra gli altri, dei connazionali Alcest. Further Nowhere, che andiamo ad esaminare in quest’occasione, non è il vero e proprio full-length, bensì una pre-produzione alla quale manca, inoltre, la parte vocale, ed è testimonianza tangibile di questa “provvisorietà” la sua reperibilità esclusivamente on-line, ma di certo la sua divulgazione è stata utile al musicista transalpino per cogliere umori e reazioni degli appassionati. Nonostante la sua veste di “work in progress” questo abbozzo di album merita ugualmente d’essere ascoltato perché, in primis, a differenza di molte altre uscite dello stesso tenore, ha il pregio di non annoiare mai, ma soprattutto perché Sebastien va dritto all’obiettivo con brani contraddistinti da melodie e ritmi ben memorizzabili, tralasciando tentazioni di stampo ambient o sperimentali. In una track-list priva di momenti deboli spiccano le splendide armonie dell’opener The Light We Are, della lunga Sulphur (che si fa ricordare anche per gli eleganti sprazzi elettronici che si fanno strada tra riff vigorosi) e la sognante Even Dies A Sun. A differenza di molti altri progetti solisti dalle caratteristiche prevalentemente strumentali (almeno per ora), i Cold Insight possiedono una vena più oscura e riflessiva, naturale se la musica è composta da un musicista dal retaggio death-doom come Pierre, e ciò finisce per conferire al lavoro una compattezza ed un’intensità sconosciuta in operazioni che, invece, troppo spesso optano per un minimalismo sonoro fine a se stesso. Tirando le somme, si può affermare che a Further Nowhere, per ora, manca solo “la parola”, e siamo davvero curiosi di vedere cosa potrà riservarci il prodotto finito. Chi ha apprezzato l’operato di Sebastien negli Inborn Suffering e nei Fractal Gates, si avvicini comunque senza indugi a a questo progetto di sicuro interesse e ragguardevole qualità, in attesa di seguirne i prossimi sviluppi.

Tracklist :
1. The Light We Are
2. Midnight Sun
3. Sulphur
4. Close Your Eyes
5. Above
6. Rainside
7. Stillness Days
8. Even Dies A Sun
9. Distance
10. I Will Rise
11. Further Nowhere

Line-up :
Sebastien Pierre – All instruments, Vocals

COLD INSIGHT – Facebook

Doomraiser / Caronte – Split

Uno split che si rivela un’autentica chicca per gli appassionati, oltre che un prezioso e gradito antipasto in grado di lenire l’attesa per le prossime prove su lunga distanza di due band dallo status ormai consolidato.

Piatto decisamente succulento, questo split album che vede alle prese due delle punte di diamante della scena doom tricolore, i romani Doomraiser ed i parmensi Caronte.

Dopo tre lavori che l’hanno imposta all’attenzione non solo in ambito nazionale, la band della capitale propone un lungo brano che tutto sommato riassume quella che è stata la sua progressione stilistica in questi anni: elementi di doom primordiale vanno ad amalgamarsi con quelle pulsioni psichedeliche che hanno caratterizzato in particolare l’ultimo “Mountain Of Madness”: in Dream Killers viene evidenziato un ottimo equilibrio tra le varie componenti del sound che appare, soprattutto nella parte iniziale, più diretto del solito; come sempre da rimarcare la prestazione di Nicola “Cynar” Rossi, capace di offrire senza sbavature diversi range vocali. La proposta dei Caronte su articola invece su due brani che, pur mantenendo ben saldo il trademark della band, esplorano in maniera differente la materia stoner psichedelica che i nostri sanno maneggiare sempre con maestria: più lineare e fruibile al primo impatto Tales From The Graves, traccia oscura e avvolgente, resa ancor più affascinante dal sapiente uso dell’hammond, mentre maggiormente disturbata da pesanti influssi dark-esoterici appare Journey Into The Moonlight, brano cangiante nel quale, quando il sound si distende nei suoi passaggj più evocativi, l’interpretazione vocale di Dorian Bones ricorda da vicino per intensità quella del miglior Danzig. Uno split che si rivela, quindi, un’autentica chicca per gli appassionati, oltre che un prezioso e gradito antipasto in grado di lenire l’attesa per le prossime prove su lunga distanza di due band dallo status ormai consolidato.

Tracklist :
1. Doomraiser – Dream Killers
2. Caronte – Back from the Grave
3. Caronte – Journey into the Moonlight

Line-up :
Doomraiser
Cynar – Vocals
Drugo – Guitar
Willer – Guitar
BJ – Bass
Pinna – Drums

Caronte
Tony Bones – Guitars
Mike De Chirico – Drums
Henry Bones – Bass Dorian
Bones – Vocals

DOOMRAISER – Facebook

CARONTE – Facebook

Infinita Symphonia – Infinita Symphonia

Gli Infinita Symphonia vanno ad aggiungersi al cospicuo numero di band tricolori dedite ad un heavy metal dai tratti sinfonici e lo fanno senza sfigurare al cospetto dei nomi più celebrati della scena.

Gli Infinita Symphonia vanno ad aggiungersi al cospicuo numero di band tricolori dedite ad un heavy metal dai tratti sinfonici e lo fanno senza sfigurare al cospetto dei nomi più celebrati della scena.

Il sound della band nettunese unisce in maniera efficace power e prog, mantenendo comunque sempre connotati alquanto melodici senza per questo risultare necessariamente stucchevoli. L’opener If I Could Go Back è un perfetto esempio di ciò che riserverà il resto dell’album, trattandosi di un brano immediatamente memorizzabile e lo stesso dicasi per la successiva (e ancor più efficace) The Last Breath; il quartetto laziale pare trovarsi perfettamente a proprio agio con brani di questo tipo, e lo stesso accade con una ballad come l’emozionante In Your Eyes (a noi una canzone con questo titolo deve piacere per forza …) dal vago sentore Shadow Gallery, nella quale Luca Micioni, coadiuvato da una voce femminile, sfodera una prestazione di assoluto rilievo. Pregevoli anche Fly, non solo per il contributo vocale del “mostro sacro” Michael Kiske, e la coinvolgente Waiting For A Day. La chiusura di quest’album autointitolato è affidata a Limbo, degno epilogo per un lavoro che, pur essendo forse un po’ “leggerino” per chi è abituato a sonorità più robuste, mostra una sorprendente crescita dopo ogni ascolto, denotando una tenuta sulla lunga distanza non sempre rinvenibile in uscite di questo genere. Se cercate novità epocali passate pure oltre, altrimenti, se vi “accontentate” di ascoltare del buon metal melodico, suonato con gusto e padronanza della materia, gli Infinita Symphonia fanno sicuramente al caso vostro.

Tracklist :
1. If I Could Go Back
2. The Last Breath (Slideshow)
3. Welcome to My World
4. Drowsiness
5. In Your Eyes
6. Fly
7. Interlude
8. Waiting for a Day of Hapiness
9. X IV
10. Limbo

Line-up :
Luca Micioni – Vocals
Gianmarco Ricasoli – Lead Guitar & Backing Vocals
Alberto De Felice – Bass & Backing Vocals
Ivan Daniele – Drums

Tethra – Drown Into The Sea Of Life

Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Dopo un Ep ed un intensa attività dal vivo nel corso di questi ultimi anni, i Tethra approdano al full- length d’esordio che costituisce, contemporaneamente, anche la prima uscita per la nuova label milanese House of Ashes Prod.

Nata dall’incontro tra il chitarrista Belfagor (Horrid) e il cantante Clode (ex-Coram Lethe), la band, completata da Miky (Vexed) alla batteria e dall’ultimo entrato, Giuseppe al basso , pur essendo relativamente di recente formazione è in realtà composta, come si può intuire, da musicisti esperti e Drown Into The Sea Of Life ne è la logica conseguenza. La musica dei Tethra prende le mosse dai Candlemass più evocativi ammantandosi sovente di ombrose atmosfere death-doom, senza concedere ammiccamenti a facili melodie ma mostrando in prevalenza un volto plumbeo pur se non propriamente funereo; i brani, infatti, pur essendo ovviamente caratterizzati da ritmi lenti, non debordano mai in un’opprimente pesantezza.
Dopo la canonica intro strumentale, Sense Of The Night inaugura l’album presentando Clode alle prese con profonde tonalità in stile Ribeiro, caratteristica che nel corso del lavoro riproporrà con buoni risultati, in costante alternanza a vocals più stentoree ed al growl .
Questo brano, così come il successivo Drifting Islands, brilla per la sua forza evocativa e si rivela l’indicatore attendibile di un songrwriting in grado di coinvolgere adeguatamente l’ascoltatore.
Più ritmata è, invece, Vortex Of Void, anche se è evidente che il concetto di velocità in un disco di questo tipo è del tutto relativo, mentre la title-track si mostra come la traccia più elaborata, con diversi cambi di tempo, la consueta varietà vocale e ottime linee chitarristiche
Se Ocean Of Dark Creations è caratterizzata da un bel contributo del basso, strumento che viene messo in bella evidenza dalla produzione a cura dello stesso Clode e di Mat Stancioiu, la successiva Ode To A Hanged Man si fa ricordare per un incipit dal sapore epico, anche se si rivela leggermente inferiore a livello di coinvolgimento emotivo rispetto al contesto.
Questo tribolato viaggio in acque perigliose (i testi dell’intero album hanno come tema portante il mare e l’oceano) si conclude con End Of The River, degno finale di un lavoro convincente anche se di non semplicissima assimilazione.
Cio che piace dei Tethra è proprio questa loro scelta di mantenersi in linea con l’ortodossia del genere, aspetto che può penalizzare la fruizione del disco durante i primi ascolti ma che finisce per svelare la sua oceanica profondità nelle successive occasioni.
Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Tracklist :
01 Intro
02 Sense Of The Night
03 Drifting Islands
04 Vortex Of Void
05 Drown Into The Sea Of Life
06 The Underworld
07 Ocean Of Dark Creations
08 Ode To A Hanged Man
09 End Of The River

Line-up :
Miky – Drums
Belfagor – Guitars
Clode – Vocals
Giuseppe – Bass

TETHRA – pagina Facebook

Procession – To Reap Heavens Apart

“To Reap Heavens Apart” conferma i Procession come un delle band guida dell’attuale scena doom.

I cileni Procession, con “The Cult Of Disease” e “Destroyers Of The Faith”, si erano già imposti all’attenzione come una delle realtà emergenti nella scena doom e, chiaramente, ciò rendeva piuttosto elevate le aspettative per il loro nuovo full-length: attese che non sono state assolutamente deluse visto che To Reap Heavens Apart conferma l’assoluto valore di questa band.

Questi quaranta minuti di musica sono capaci di toccare le corde giuste, mescolando l’influsso dei grandi nomi del passato con riferimenti a band non necessariamente legate all’ortodossia doom, ma restando sempre in linea con un genere che per raggiungere gli appassionati non ha certo bisogno di assumere connotazioni stravaganti; Felipe Plaza è un cantante che possiede il dono di un timbro vocale capace di raggiungere i meandri più reconditi dell’anima, e lo stesso si più dire dell’operato alla chitarra dello stesso leader, coadiuvato nell’occasione da Jonas Pedersen. Il punto di di partenza per i Procession sono sempre stati e sono tutt’ora senza ombra di dubbio i Candlemass, e non è certo un caso che Felipe, assieme al bassista Claudio Botarro Neira, abbia scelto la Svezia come attuale base completando la line- up con due musicisti nord-europei: il già citato chitarrista danese e il batterista svedese Uno Bruniusson. La forza di questa band risiede nell’innata propensione a creare atmosfere evocative, con quella freschezza che ormai nei maestri e in molti dei loro seguaci più illustri è venuta man mano scemando: in To Reap Heavens Apart non c’è spazio per passaggi dispersivi o interlocutori e la stessa The Death Minstrel, che pure si stacca parzialmente dal canovaccio stilistico del disco per la sue ritmiche catacombali introdotte da una lunga parte acustica, non appare assolutamente un corpo estraneo all’interno della track-list. Conjurer e Death & Judgement ci mostrano i Procession che avevamo conosciuto nel precedente disco, mentre la title-track si abbevera di influenze inattese, ricordando in certi momenti addirittura i Primordial, con un Felipe Plaza in versione Alan Averill. Il lavoro si chiude nel migliore dei modi con la splendida Far From Light, una lunghissima e dolente cavalcata che non può lasciare indifferente chi ama queste sonorità: l’interpretazione vocale di Felipe è da brividi, specie negli ultimi minuti, quando il tema portante, già accennato nella parte centrale, tocca altissime vette emotive. Se qualcuno ritiene che questo disco meriti una valutazione inferiore perché non possiede la sufficiente originalità, forse non ha ancora capito bene che il doom, pur nelle sue diverse forme, non è un semplice genere musicale bensì un rito catartico il cui accesso è riservato ai soli ascoltatori forniti della necessaria sensibilità; To Reap Heavens Apart è, semplicemente, il lavoro che conferma i Procession come una delle band migliori del momento.

Tracklist:
1. Damnatio Memorae
2. Conjurer
3. Death & Judgement
4. To Reap Heavens Apart
5. The Death Minstrel
6. Far from Light

Line-up :
Claudio Botarro Neira – Bass
Uno Bruniusson – Drums
Jonas Pedersen – Guitars
Felipe Plaza Kutzbach – Guitars, Vocals

PROCESSION – Facebook

Aborym – Dirty

Gli Aborym confermano con questo loro sesto disco il raggiungimento di uno status di tutto rispetto conquistato grazie a dischi talvolta accolti in maniera controversa, tutti accomunati però da una mai sopita voglia di sperimentare soluzioni non convenzionali.

Gli Aborym sono da oltre un decennio una realtà consolidata nel versante più sperimentale del metal. Fabban ha sviluppato un percorso musicale del tutto personale arrivando a una forma di black avanguardistico con il quale ha mostrato in ogni sua uscita un volto diverso rispetto al precedente lavoro.

Parlando di Dirty, si nota subito che possiede sembianze meno claustrofobiche rispetto a “Psychogrotesque” (2010), essendo stata abbandonata la componente ambient a favore del versante elettronico del sound. Il risultato è una creatura multiforme, in grado di passare in pochi secondi da sfuriate di black old style a passaggi dove ritmiche di matrice EBM si impadroniscono della scena, quasi mai però in maniera definitiva: quest’alternanza costante delle atmosfere è un autentico marchio di fabbrica della band italiana.
Dirty martella implacabilmente per tutti i suoi cinquanta minuti di durata, rivelandosi un’esperienza imperdibile per gli ascoltatori dalla mentalità più aperta: infatti, chi ha la fortuna di avere nelle proprie corde generi come il black, l’industrial e l’elettronica avrà di che divertirsi.
Peraltro, nonostante un impatto tutt’altro che rassicurante, non è azzardato affermare che questo lavoro forse è anche quello (relativamente) più immediato che gli Aborym abbiano mai composto, considerando che ogni traccia possiede passaggi che riescono a fare centro anche dopo pochi ascolti.
Il brano che meglio può sintetizzare il contenuto di Dirty è, probabilmente I Don’t Know, che in meno di cinque minuti mostra la versatilità di Fabban e soci: un avvio all’insegna di un blast-beat furioso sovrastato da una base elettro-black da paura, un breve rallentamento con clean vocals, ripartenza e chiusura affidata ad un evocativo assolo di chitarra.
Il valore aggiunto del lavoro è, pero, quello di possedere una sua unicità, oltre ad una qualità che chi si è cimentato in questa forma musicale raramente ha raggiunto, o perché indulgendo troppo sul versante elettronico e sperimentale oppure esibendo una vocazione caciarona e smaccatamente alla ricerca di soluzioni ad effetto. Ciò che traspare da quest’album è la rappresentazione di un malessere globale, che non risparmia alcun appartenente al genere umano, il cui destino sembra segnato in maniera ineluttabile; ma gli Aborym scelgono di non piangersi addosso bensì di reagire esibendo un feroce quanto amaro disincanto.
Dalla Irreversible Crisis (economica ma ancor più di valori) che attanaglia “questo mondo che ci vuole fottere” come ripete ossessivamente Fabban nel brano d’apertura, il percorso attraverso le macerie di un’umanità allo sbando non può che concludersi con l’estinzione della stessa e la fine del pianeta che l’ha ospitata, quasi una liberazione sancita da The Day The Sun Stop Shining .
Gli Aborym confermano con questo loro sesto disco il raggiungimento di uno status di tutto rispetto conquistato grazie a dischi talvolta accolti in maniera controversa, tutti accomunati però da una mai sopita voglia di sperimentare soluzioni non convenzionali.
Da segnalare anche la presenza di un secondo cd contente due tra i brani più noti dei nostri in versione riarrangiata, oltre ad alcune cover tra le quali citerei “Hurt” , brano dei Nine Inch Nails noto anche per la sua struggente interpretazione fornita da Johnny Cash.

Tracklist :
Disc 1
1. Irreversible Crisis
2. Across the Universe
3. Dirty
4. Bleedthrough
5. Raped by Daddy
6. I Don’t Know
7. The Factory of Death
8. Helter Skelter Youth
9. Face the Reptile
10. The Day the Sun Stop Shining

Disc 2
1. Fire Walk with Us (new version)
2. Roma Divina Urbs (new version)
3. Hallowed Be Thy Name (Iron Maiden cover)
4. Comfortably Numb (Pink Floyd cover)
5. Hurt (Nine Inch Nails cover)
6. Need for Limited Loss (new track)

Line-up :
Fabban – Bass, Keyboards, Vocals
Faust – Drums
Paolo Pieri – Guitars, Keyboards, Programming

ABORYM – pagina Facebook

Svartsyn – Black Testament

Le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti, Ornias conduce la sua macchina infernale verso un’apocalisse ineluttabile, senza sorprendere né deludere, semplicemente continuando a proporre con coerenza e competenza la propria musica e senza svendere malignità in versione plastificata.

Spiace davvero che certi dischi talvolta vengano giudicati negativamente a causa di una presunta immobilità stilistica, mente altri, aventi analoghe caratteristiche di fedeltà al genere proposto, vengano portati ad esempio di integrità artistica.

Probabile che un tale equivoco possa coinvolgere anche questo settimo full-length, in quasi vent’anni di onorata carriera, degli Svartsyn, ovvero del musicista svedese Ornias, che di fatto ha sempre gestito la band come un suo personale progetto. Black Testament è, essenzialmente, ciò che ogni appassionato del black più ortodosso vorrebbe ascoltare: atmosfere maligne condotte da una screaming feroce, nessuno svolazzo tastieristico o compiacimento melodico, solo dosi massicce di misantropia riversate in un songrwriting statico quanto si vuole, ma ugualmente dotato di grande fascino. Le variazioni sul tema sono pressoché inesistenti, Ornias conduce la sua macchina infernale verso un’apocalisse ineluttabile, senza sorprendere né deludere, semplicemente continuando a proporre con coerenza e competenza la propria musica e senza svendere malignità in versione plastificata (brani come Carving A Temple e Rising Beast son lì a dimostrarlo). Se tutto ciò sia sufficiente per poter considerare Black Testament un disco riuscito, pur se lontano dai capolavori del genere, dipende dalle aspettative di ciascuno: per quanto mi riguarda la quarantina di minuti da dedicare all’ascolto di questo lavoro sono senz’altro ben spesi.

Tracklist :
1. Intro
2. Revelation in the Waters
3. Venom of the Underworld
4. Demoness with Seven Names
5. Carving a Temple
6. Eyes of the Earth
7. Rising Beast
8. Black Testament

Line-up : Ornias – All Instruments, Vocals

SVARTSYN – Facebook

Ecnephias – Necrogod

La caratteristica di schiudersi lentamente e di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore è una peculiarità dei grandi dischi.

A circa un anno e mezzo dalla pubblicazione di un lavoro magnifico come “Inferno”, gli Ecnephias si ripresentano con un nuovo disco per il quale le aspettative erano piuttosto elevate: lo stesso Mancan, nel presentare il nuovo lavoro, come è suo costume non si è certo nascosto dietro dichiarazioni di facciata, proclamando con convinzione che Necrogod sarebbe stato il miglior album mai inciso dalla sua band.

Se è vero che affermazioni di questo tenore sono all’ordine del giorno in occasione di nuove uscite in campo discografico, va detto subito che quanto affermato dal musicista lucano corrisponde in tutto e per tutto alla realtà.
Per gli Ecnephias, sulla spinta degli ottimi riscontri ricevuti nel recente passato, sarebbe stato facile riproporre una sorta di “Inferno 2” ma è sufficiente conoscere la loro storia per escludere subito questa possibilità: qui si parla di una band che, partita dal black dai tratti comunque evocativi degli esordi, si è evoluta nel corso degli anni verso una forma di heavy metal oscuro e malinconico, dalle ampie sfumature dark, in maniera analoga a quanto fatto, sia pure in un arco temporale più ampio, dai Moonspell (che, assieme a Rotting Christ e Septic Flesh, sono sempre stati per Mancan degli espliciti punti di riferimento).
Sarebbe un grave errore, però, attendersi una versione fedele ma sbiadita della band portoghese: gli Ecnephias rielaborano le svariate influenze musicali (dichiarate e non) assimilate nel corso degli anni dal proprio leader (nonché dal suo storico sodale Sicarius) dando vita a un prodotto che possiede, in tutto e per tutto, un marchio di fabbrica inconfutabilmente e immediatamente riconoscibile.
Se, in Inferno, il retaggio estremo faceva ancora capolino a tratti all’interno dei singoli brani, in Necrogod tutto ciò lascia posto a una forma di heavy metal dalle tinte fosche per atmosfere e attitudine, mentre ogni residua pulsione riconducibile al black sembra essere stata interamente convogliata da Mancan nel suo rinato progetto Abbas Taeter.
Dopo premesse di questo genere, sarebbe lecito attendersi un lavoro orecchiabile o di facile presa e, invece, dopo i primi ascolti accade esattamente l’opposto : Necrogod gode infatti di una profondità inattesa e, per questo motivo, potrebbe risultare ingannevole per chi inconsciamente vi si avvicinasse attendendosi episodi più immediati, sulla falsariga di “A Satana” o “Chiesa Nera”.
E’ possibile che la rinuncia totale all’uso dell’italiano abbia avuto un suo peso nel rendere maggiormente complessa l’assimilazione dei brani, ma non c’è dubbio che la caratteristica di schiudersi lentamente, di concedersi all’ascoltatore solo dopo diversi passaggi nel lettore, sia una peculiarità dei grandi dischi.
Chi riuscirà a non affrontare Necrogod in maniera superficiale, otterrà in cambio la possibilità di godersi un affascinante viaggio musicale incentrato, a livello lirico, sulle divinità conosciute ed adorate in epoca pre- cristiana: così, nei quasi cinquanta minuti di durata del disco, Mancan ci guida in un percorso storico-religioso che include le antiche divinità mediorientali (Baal, Ishtar, Inanna), il serpente piumato dei Maya (Kukulkan), la mitologia greco-egizia (Ade, Osiride, Anubi, Horus), la terribile dea indiana Kali, il mostruoso Leviatano di biblica memoria e la magica ritualità del Voodoo.
Ma passiamo ad eseminare in maniera più approfondita l’aspetto che più ci preme, ovvero la musica: il disco è inaugurato da una breve traccia strumentale che fa già presagire il nuovo corso degli Ecnephias: atmosfere sempre più evocative arricchite da elementi etnici e tribali, in ossequio alle tematiche trattate,
In occasione del primo impatto con Necrogod i due brani che sicuramente colpiscono di più sono The Temple of Baal-Seth, in possesso di un ritmo trascinante ed un chorus in portoghese condotto da Mancan in maniera esemplare, e Voodoo, dove l’evidente citazione dei Rotting Christ è in realtà volta ad omaggiare l’ospite Sakis, che presta la sua voce inconfondibile a una traccia entusiasmante, all’interno della quale la chitarra assume in certi frangenti accenti maideniani.
La title-track e Leviathan mostrano il volto più violento degli Ecnephias, anche se la componente melodica non viene certo messa in secondo piano, ma è evidente che il proprio meglio la band potentina lo offre negli episodi maggiormente coinvolgenti sul piano emotivo, quando la ritualità delle invocazioni alle divinità si amalgama naturalmente a fughe chitarristiche di grande intensità ad opera di Nikko, il tutto punteggiato dall’elegante lavoro alle tastiere di Sicarius e dalla possente e precisa base ritmica a cura di Miguel José Mastrizzi e Demil. Così, se Ishtar assume diverse sembianze musicali nel corso del suo dipanarsi, in ossequio alla mutevolezza di colei che per i sumero-babilonesi era allo stesso tempo dea del cielo, della terra e degli inferi, Kukulkan e Anubis si svelano progressivamente mostrando tutta la capacità di Mancan e soci nell’ideare canzoni dove il growl e i riff di matrice estrema si sposano naturalmente con clean vocals profonde e poggiate su melodie apparentemente suadenti, ma costantemente avvolte da un velo di oscurità.
L’esempio migliore di quanto appena affermato è Kali Ma, un brano che esplode in tutta la sua sfolgorante bellezza solo dopo diversi ascolti, quasi che la temibile divinità in esso rappresentata avesse voluto celare il più a lungo possibile il proprio conturbante fascino.
Winds Of Horus è un’altra traccia strumentale, posta in chiusura, sulla quale scorrono idealmente i titoli di coda di un lavoro che merita di essere riascoltato più volte per assaporarne appieno le fragranze più nascoste.
Necrogod non solo raggiunge ma supera il livello già altissimo raggiunto dagli Ecnephias con “Inferno”; sicuramente per la band lucana questo si può considerare il lavoro della definitiva maturità e rappresenta il raggiungimento di uno status che non va considerato, però, un punto d’arrivo, bensì una base consolidata dalla quale proseguire la costante progressione stilistica e compositiva.
Non è blasfemo affermare che, per il valore dei suoi ultimi due lavori, il combo lucano può collocarsi attualmente all’altezza della più volte citata triade ellenico-lusitana; la vera sfida ora, per Mancan, sarà piuttosto quella di eguagliarne o, quantomeno, avvicinarne la longevità artistica.

Tracklist :
1. Syrian Desert
2. The Temple of Baal-Seth
3. Kukulkan
4. Necrogod
5. Ishtar – Al-‘Uzza
6. Anubis – The Incense of Twilight
7. Kali Ma – The Mother of the Black Face
8. Leviathan – Seas of Fate
9. Voodoo – Daughter of Idols
10. Winds of Horus

Line-up :
Mancan – Guitars, Vocals, Programming
Sicarius – Keys and Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass

ECNEPHIAS – Facebook

PTSD – A Sense Of Decay

I PTSD con A Sense Of Decay forniscono una prova decisamente buona, anche se ho la sensazione che la loro proposta possa attecchire più oltreoceano che non all’interno dei nostri confini

I PTSD (acronimo di lingua inglese che sta per Post Traumatic Stress Disorder) sono una band marchigiana attiva dal 2005 e A Sense Of Decay è il loro secondo full-length dopo l’esordio “Burepolom” risalente a cinque anni fa.

La musica proposta in questo lavoro è un discreto mix di influenze che, dopo un’opportuna frullata, si può definire in maniera alquanto vaga alternative metal; le band di riferimento citate in sede di presentazione sono 30 Secconds To Mars, Alice In Chains, Sistem Of A Down e Breaking Benjamin: sinceramente non conosco in maniera così approfondita i primi e gli ultimi per poter fare una verifica attendibile ma, a naso, direi che i PTSD sono senz’altro meno commerciali di entrambi, mentre l’accostamento ai più noti mostri sacri della scena, se può valere con la band di Seattle in qualche armonia vocale e nell’utilizzo di melodie dal retrogusto malinconico, con il combo armeno-americano non riesco a trovare alcuna affinità evidente se non l’attitudine al crossover tra generi diversi.
Detto questo. il disco è senz’altro valido e, pur collocandosi a una certa distanza da quelli che sono i miei ascolti abituali, l’ora di musica contenuta in A Sense Of Decay mi ha piacevolmente colpito, poiché presenta diversi momenti di livello piuttosto elevato, come nell’opener Event Horizon e, in particolare, nell’intensa Solar Matter Loss. Azzeccata e molto ben eseguita la cover del brano di Anastacia Heavy On My Heart e molto interessante anche il remix del già citato brano d’apertura; del resto la crescita di questa band appare evidente anche esaminando i particolari: la produzione a cura di un nome pesante come Jim Caruana e il contributo in sala d’incisone da parte di uno dei batteristi più quotati della scena, quel Marco Minnemmann , attualmente impegnato anche con gli Ephel Duath.
Henry Guy possiede un bel timbro vocale, sporcato sporadicamente dal un growl avente la sola funzione di supporto, attorno al quale vengono costruiti brani dalla fruizione piuttosto immediata ma non per questo scontati.
In sintesi, i PTSD con A Sense Of Decay forniscono una prova decisamente buona, anche se ho la sensazione che la loro proposta possa attecchire più oltreoceano che non all’interno dei nostri confini ma, vista la notevole differenza dei due mercati, non è detto che questo per i nostri sia una cattiva notizia, anzi …

Tracklist:
1. Event Horizon
2. A Reason To Die
3. Parasomnia
4. Staring The Stormwall
5. Suicide Attitude
6. A Sense Of Decay
7. Breathless
8. Solar Matter Loss
9. By A Thread
10. Heavy On My Heart (Anastacia cover)
11. ……If?
12. Event Horizon (Forgotten Sunrise rmx)

Line-up :
Henry Guy – Vocals
Yorga – Lead Guitars
Jason – Rhythm Guitars
Rob Star – Bass
Marco Minemann – Drums

PTSD – pagina facebook

Evoke Thy Lords – Drunken Tales

Gli Evoke Thy Lords, dopo il gothic doom dell’esordio datato 2008, hanno decisamente mutato pelle trasformandosi in questa creatura dai tratti cangianti e in grado di evocare, grazie all’uso intensivo ma appropriato del flauto, sensazioni dall’alto tasso lisergico.

Quel ristretto manipoli di sventurati che abitualmente legge le mie recensioni  credo abbia intuito che, quando parlo di doom, tendo a diventare più integralista del peggiore dei talebani.

Partendo dal presupposto che questo genere musicale deve semplicemente fluire dal cuore di chi lo suona per approdare direttamente a quello di chi lo ascolta, rigetto l’idea che possa diventare oggetto di contaminazioni pseudo avanguardistiche, utili solo a compiacere chi il doom lo snobba a prescindere. Nonostante questa mia premessa, i siberiani Evoke Thy Lords sono riusciti a fare breccia in questa spessa corazza protettiva proprio perché gli elementi innovativi inseriti nel loro sound, sono tutt’altro che futuristici ma provengono, di fatto, da molto lontano, attingendo in gran parte alla tradizione del prog più psichedelico. Di per sé, questo, potrebbe non sembrare una novità così dirompente se non fosse che la conduzione dei brani, invece d’essere affidata, come sempre accade, alla chitarra, lascia ergersi a protagonista il flauto di Irina Mirzaeva. Chiunque ricordi l’utilizzo di questo strumento fatto dai Cathedral nel loro ineguagliato capolavoro “Forest Of Equlibrium” può farsi in maniera più esaustiva un’idea di ciò che lo attenderà ascoltando Drunken Tales: chiaramente il tessuto sonoro dell’album non possiede i tratti catacombali proposti all’epoca dalla band di Lee Dorrian dato che qui il genere proposto è, a grandi linee, uno stoner doom quasi del tutto strumentale. Gli Evoke Thy Lords, dopo il gothic doom dell’esordio datato 2008, hanno decisamente mutato pelle trasformandosi in questa creatura dai tratti cangianti e in grado di evocare, grazie all’uso intensivo ma appropriato del flauto, sensazioni dall’alto tasso lisergico. I primi quattro brani sono quelli da prendere realmente in considerazione per verificare la bontà dell’operato della band di Novosibirsk, visto che la quinta traccia è una bonus track che, riportandoci indietro di qualche anno, è utile solo a farci capire quale sia stata l’evoluzione stilistica degli Evoke Thy Lords, nonché a mostrarci quanto questa svolta abbia fornito peculiarità ad una band che, altrimenti, avrebbe rischiato di restare confusa tra la miriade di altre proposte provenienti negli ultimi tempi dalla fredde lande sovietiche. Drunken Tales è davvero una ventata d’aria fresca (pure troppo, considerando la provenienza geografica dei nostri …)

Tracklist :
1. Routine of Life
2. Dirty Game
3. Down the Drain
4. Dregs
5. Cause Follows Effect

Line-up :
Irina Mirzaeva – Flute
Yury Kozikov – Guitars
Sergey Vagin – Guitars
Alexey Kozlov – Vocals, Bass
Alexandr Mironov – Drums

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