Paganizer – World Lobotomy

Il classico disco che non cambierà il corso della storia ma del quale i cuori metallici, magari un po’ più datati come il mio, hanno sempre dannatamente bisogno …

I Paganizer sono una delle tante death metal band svedesi la cui attività ha preso il via nel secolo scorso: con World Lobotomy arrivano al nono album, come sempre all’insegna di un death old school che potrebbe essere tranquillamente utilizzato come esempio di ortodossia del genere.

L’instancabile Rogga Johansson è reduce da un altra ottima prova, risalente allo scorso anno con i The Grotesquery con i quali, grazie alla compartecipazione di Kam Lee, esplorava anche a livello lirico il lato più orrorifico del death; in questa occasione, oltre ai suoi taglienti riff ci gratifica anche di un growl profondo quanto convincente, dimostrando che i Paganizer sono fondamentalmente la “sua” band, nonostante la miriade di altri progetti che lo vedono coinvolto. World Lobotomy si fa apprezzare per il senso di coesione tra i musicisti che traspare dalle note, agevolato in tal senso dal fatto, non così scontato, che tre quarti della band facevano parte della line-up che incise il demo d’esordio nell’ormai lontano 1998. I quaranta minuti di aggressione sonora risultano così tutt’altro che stantii, seppure devoti ad un sound che a qualcuno potrà apparire sorpassato; per assurdo brani devastanti come la title-track, la “carcassiana” You Call It Deviance o Hunt Eat Repeat, solo per citarne alcuni, risultano piacevolmente freschi nonostante provengano da molto lontano, a livello di attitudine e di ispirazione; nessuna concessione a tentazioni moderniste, nessun rallentamento, nessuno scampolo di facili melodie, il tutto supportato da una produzione adeguata. Il classico disco che non cambierà il corso della storia ma del quale i cuori metallici, magari un po’ più datati come il mio, hanno sempre dannatamente bisogno …

Tracklist :
1. Prelude to the Lobotomy
2. World Lobotomy
3. The Sky on Fire
4. Mass of Parasites
5. As Blood Grows Cold
6. Ödeläggaren
7. You Call It Deviance
8. As the Maggots Gather
9. Trail of Human Decay
10. The Drowners
11. The Last Chapter
12. Hunt Eat Repeat

Line-up :
Jocke Ringdahl – Drums
Andreas ‘Dea’ Carlsson – Guitars
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Dennis Blomberg – Bass

PAGANIZER – pagina Facebook

Abysmal Grief – Feretri

Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana.

Arrivando un po’ in ritardo sull’uscita di questo disco, si rischia inevitabilmente di essere ripetitivi o, ancor peggio, di fare un bignamino di tutte le recensioni già uscite.

Ciò che mi resta, a questo punto, è provare a parlare, da genovese, di una band della mia città che perpetua un filone musicale che, all’ombra della Lanterna, trae ispirazione da un immaginario agli antipodi della modernità, fatto com’è di riferimenti ai mitici sceneggiati tv in bianco e nero e all’horror all’italiana, più Fulci-Bava che Argento, e lo dimostra scegliendo come copertina un’immagine tratta da uno dei rivalutati B-movies dei primi anni ’70.
In una città che si sta decomponendo seppellita dalla crisi, prima ancora morale che economica, avvilita dall’ignavia dei governanti e aggrappata alle sorti di un porto che fatica a reggere l’accresciuta competitività della concorrenza, gli Abysmal Grief come sfondo per le loro (rare) foto promozionali non scelgono, come parrebbe logico, i monumenti funebri di Staglieno, simbolo decadente della nobiltà di una Superba che ha cessato di esistere da decenni, bensì i piccoli cimiteri di periferia o di campagna, nei quali anonimi resti contrassegnati da una semplice croce faticano a ritagliarsi spazio tra le erbacce e l’incuria volte a simboleggiare, anch’esse, un degrado che appare irreversibile.
Seguendo la strada tracciata, perlomeno a livello di immaginario retrospettivo, dai Malombra prima e da Il Segno Del Comando poi, gli Abysmal Grief esorcizzano il terrore della morte nel miglior modo possibile, ovvero con un doom malsano e dai tratti antichi, nel quale è un magnifico hammond a condurre le macabre danze contrappuntato da un basso pulsante e, talvolta, dominante anche su una chitarra che, quando si ritaglia spazio in versione solista, lascia sempre il segno; a piantare gli ultimi chiodi sulla bara è, idealmente, la voce di Labes C. Necrothytus che ricorda in senso lato quella del grande Carl McCoy, almeno nell’impostazione, passando da tonalità baritonali ad un growl profondo ma sempre comprensibile, e nella capacità di comunicare il funesto contenuto lirico dei brani.
Questo disco mostra un volto diverso, più orrorifico e morboso, del doom, che in tutte le sue versioni mantiene le proprie caratteristiche di musica per pochi, e pazienza se la sua visibilità a livello di media è nulla e se, conseguentemente, chi organizza i concerti fatica a riempire locali anche piccoli; il doom è un modus vivendi (e non “moriendi” come potrebbe erroneamente pensare qualcuno) e per suonarlo ed ascoltarlo è necessaria una sensibilità diversa che consente di godere di sensazioni e vibrazioni psichiche precluse alla maggioranza delle persone.
Feretri in definitiva, corrisponde per filo e per segno a ciò che ogni appassionato avrebbe voluto ascoltare dagli Abysmal Grief; l’insinuante e malefica tastiera che pervade questi tre quarti d’ora di grande musica si è incuneata nel mio cervello e non ha nessuna intenzione di abbandonarlo in tempi brevi.
Lungi da tentazioni sciovinistiche, si può tranquillamente affermare che un disco con tali caratteristiche poteva estrarlo dal cilindro solo una band italiana.
Letteralmente imperdibile.

Tracklist :
1. Lords of the Funeral
2. Hidden in the Graveyard
3. Sinister Gleams
4. Crepusculum
5. The Gaze of the Owl
6. Her Scythe

Line-up :
Lord Alastair – Bass
Regen Graves – Guitars, Drums
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Attractha – Engraved

“Engraved” mette in evidenza una band dalle notevoli potenzialità e dalla sufficiente personalità in grado di regalare soddisfazioni a chi apprezza il metal nella sua veste più classica.

I brasiliani Attractha appartengono all’affollata categoria di band che, a causa di varie vicissitudini legate all’instabilità della line-up, riescono solo dopo diversi anni di attività a presentare al pubblico il frutto del proprio impegno.

In questo caso, il quartetto paulista , con l’Ep intitolato Engraved, fornisce un assaggio di quello che dovrebbe essere il full-length d’esordio programmato entro la fine di quest’anno.
La musica prodotta dai nostri è un heavy metal ricco di diverse sfumature che vanno dall’hard rock al prog-metal, passando per il grunge e l’heavy classico, facendo sì che le quattro tracce proposte possiedano una certa immediatezza che rende davvero piacevole l’ascolto.
Darkness, scelta come singolo per il lancio dell’Ep, mette subito in evidenza sia le ottime doti tecniche del quartetto sia la buona prestazione vocale di Marcos De Canha, ma ancora meglio è la successiva The Choice, dotata di una splendida linea melodica.
Più ordinarie per quanto valide la semi-ballad Blessed Life, impreziosita comunque da un bellissimo assolo di Ricardo Oliveira, e la conclusiva Beginning, dagli evidenti rimandi novantiani.
Engraved mette in evidenza una band dalle notevoli potenzialità e dalla sufficiente personalità in grado di regalare soddisfazioni a chi apprezza il metal nella sua veste più classica.

Tracklist :
01. Darkness
02. The Choice
03. Blessed Life
04. Beginning

Line-up :
Marcos da Canha – Vocals
Ricardo Oliveira – Guitars & vocals
Guilherme Momesso – Bass
Humberto Zambrin – Drums & vocals

ATTRACTHA – Facebook

Soundcloud – The Choice

Crest Of Darkness – In The Presence Of Death

“In the Presence of Death” si rivela un esempio di black-death credibile e da ascoltare con senza alcuna remora.

Ingar Amlien è quasi mio coetaneo ed è anche per questo che, oltre a rispettarlo incondizionatamente, lo ricordo perfettamente negli anni novanta come bassista della power prog band Conception, in grado di riscuotere un certo successo in quegli anni.

Poco prima della registrazione di “Flow”, il disco che sancì la fine di quell’esperienza, Ingar aveva già gettato le basi del suo progetto estremo Crest Of Darkness con la pubblicazione dell’Ep “Quench My Thirst”. Da allora sono passati diciassette anni e altri cinque album ma l’indomito musicista norvegese non ha ancora perso la voglia di proporre la propria musica mantenendosi, come sempre, su buoni standard.
In the Presence of Death arriva dopo ben sei anni di silenzio e ci mostra una band in forma soddisfacente e capace sovente di svincolarsi da formule compositive trite e ritrite: basti ascoltare la parte finale di Demon Child, con una chitarra liquida poggiata su una magnifica base ritmica, per rendersene conto.
E’ innegabile, comunque, che il black dalle venature death dei Crest Of Darkness resti ancorato alla tradizione ma, il fatto che Amlien abbia trascorso gli anni migliori della propria carriera in una band piuttosto lontana da queste sonorità si sente eccome; non è certo un caso, quindi, che il basso sia molto più percepibile rispetto ad altre uscite del genere e che il disco si faccia apprezzare anche per una, pur sempre relativa, pulizia del suono volta a valorizzare le ottime doti dei musicisti.
Va da sé che i brani migliori siano proprio i mid-tempo, come la già citata Demon Child e le corrosive Welcome to My Funeral e From the Dead, anche se il disco è apprezzabile nel suo insieme, favorito da una durata non eccessiva e da una discreta fruibilità dei brani, nonostante la musica dei Crest Of Darkness non si possa certo considerare melodica.
Se alla carriera della band norvegese è forse mancato il disco in grado di consentire il salto di qualità, non si può certo sottovalutare la coerenza e l’onestà della sua proposta; In the Presence of Death ne è l’ulteriore riprova, rivelandosi un esempio di black-death credibile e da ascoltare con senza alcuna remora.

Tracklist :
1. Intro
2. In the Presence of Darkness
3. Demon Child
4. Redemption
5. The Priest from Hell
6. Welcome to My Funeral
7. Womb of the Wolf
8. Vampire Dreams
9. From the Dead
10. The Day Before She Died

Line-up :
Ingar Amlien – Vocals, Bass, Guitars
Kjetil Hektoen – Drums
Rebo – Guitars (lead)
Jan Fredrik Solheim – Guitars (rhythm)

CREST OF DARKNESS – Facebook

Kaledon – Altor: The King’s Blacksmith

I Kaledon dimostrano come sia possibile, anche dopo anni di attività, continuare a progredire e a migliorarsi quando la passione rende l’incisione di un nuovo disco la finalizzazione di un processo creativo e non la periodica timbratura di un cartellino.

I Kaledon sono sulle scene ormai da diversi anni proponendo un power sinfonico dalle forti sfumature epiche; Altor: The King’s Blacksmith è già il loro settimo full-length ma è il primo dopo la conclusione della saga strutturata sui sei capitoli che hanno contrassegnato la passata produzione, anche se rimane collegato alle tematiche passate visto che il concept è incentrato sul fabbro del re, uno dei personaggi (pur se minori) presenti nella loro “Legend Of The Forgotten Reign”.

Al di là dell’aspetto concettuale, ciò che preme evidenziare è la notevole caratura di quest’ultimo lavoro, che appare come un riuscitissimo tributo ad un genere che, troppo spesso invece, è afflitto da un’asfittica ridondanza; a detta della stessa band, l’essere stati in tour per gran parte del periodo successivo alla pubblicazione di “Chapter VI”, ha portato ad una naturale evoluzione sia dal punto di vista tecnico sia da quello compositivo. Dopo una canonica intro, Childhood apre alla grande grazie a uno splendido incipit chitarristico in grado di restare impresso a lungo nella memoria; la successiva Between The Hammer And The Anvil è un classico brano power che unisce con buon equilibrio ritmo e melodia. My Personal Hero è un altro brano dal buon impatto mentre Lilibeth è una ballad invero un pò zuccherosa; A New Beginning apre la parte finale del disco che d’ora in poi mostra il volto migliore dei Kaledon: questo è un altro brano davvero riuscito nel quale va evidenziato l’ottimo lavoro delle tastiere. Kephren è un esempio calzante di come il songwriting si sia attestato su livelli ragguardevoli, mentre Screams In The Wound possiede una certa drammaticità di fondo che lo rende l’ideale antipasto del botto finale costituito da A Dark Prison, autentico gioiello impreziosito dalla presenza di un nome che non ha bisogno di presentazioni come quello di Fabio Lione. Un evidente progresso rispetto al precedente full-length, unito al ritorno a sonorità più dirette e maggiormente votate ad un più classico power melodico, fa di Altor: The King’s Blacksmith un lavoro che, pur non essendo epocale, rappresenta la migliore risposta a chi pensa che questo genere abbia ormai poco o nulla da dire. I Kaledon, al contrario, dimostrano come sia possibile, anche dopo anni di attività, continuare a progredire e a migliorarsi quando la passione rende l’incisione di un nuovo disco la finalizzazione di un processo creativo e non la periodica timbratura di un cartellino.

Tracklist:
1. Innocence
2. Childhood
3. Between the Hammer and the Anvil
4. My Personal Hero
5. Lilibeth
6. A New Beginning
7. Kephren
8. Screams in the Wind
9. A Dark Prison

Line-Up:
Paolo Lezziroli – Bass, Vocals
Alex Mele – Guitars (lead)
Tommaso Nemesio – Guitars (rhythm)
Daniel Fuligni – Keyboards
Marco Palazzi – Vocals
Luca Marini – Drums

KALEDON – Facebook

Nocte Obducta – Umbriel (Das Schweigen Zwischen Den Sternen)

I Nocte Obducta del 2013 hanno poco a che vedere con quelli dello scorso decennio ma la loro trasformazione in una band dalle sonorità più intimistiche ed eleganti, non significa necessariamente un sensibile abbassamento del livello qualitativo della proposta

Nella scorsa decade i Nocte Obducta sono stati tra i massimi rappresentanti di quel black metal avanguardistico e atmosferico che, in Germania, ha sempre trovato terreno fertile.

Dopo il presunto scioglimento del 2006, successivamente alla registrazione di “Sequenzen Einer Wanderung” (pubblicato poi nel 2008), parte della band diede vita ad un nuovo progetto denominato Dinner Auf Uranos e il risultato fu un ottimo lavoro come “50 Sommer – 50 Winter”, nel quale la componente estrema del sound presente nella band madre veniva messa del tutto da pate.
Quella che pareva essere la fine della storia per il combo di Mainz, come sovente accade, si è trasformato invece in un periodo di stand-by interrotto nel 2011 dall’uscita di “Verderbnis – Der Schnitter Kratzt An Jeder Tür”, seguito infine dal recente Umbriel (Das Schweigen Zwischen Den Sternen), oggetto di questa recensione.
Dopo diversi ascolti si può affermare con certezza che l’unica cosa sbagliata in questa operazione è stato l’utilizzo della vecchia identità: infatti, Umbriel ha pochi tratti comuni sia con il primo lavoro post-reunion sia con i vecchi capolavori, apparendo piuttosto come il logico successore proprio di “50 Sommer – 50 Winter” (collegamento suffragato anche dalla presenza, non casuale, di una lunga traccia intitolata proprio Dinner Auf Uranos).
Ovviamente il confronto con i due “Teil …” e con lo stesso “Sequenzen …” sarebbe poco corretto e persino impietoso: qui stiamo parlando, in sostanza, di una band differente per scelte stilistiche e, in parte, anche per attitudine; pertanto, l’unico modo per effettuare una disamina obiettiva di Umbriel è quello di dimenticarsi del monicker stampato sulla copertina.
Gli elementi black, che tutto sommato appaiono come un effimero collegamento al passato della band, sono confinati fondamentalmente alla sola Mehr Hass, ma è nel resto del disco che i Nocte Obducta mostrano il loro (nuovo) volto migliore, all’insegna di un dark ombroso ed evocativo, che spesso va a intrecciarsi con passaggi di stampo post-metal
Piaccia o meno tale svolta, un brano come Leere è indiscutibilmente un autentico gioiello intriso di un lirismo decadente che non può lasciare indifferenti; anche l’opener Kerkerwelten – Teil I, lo strumentale 01-86 Umbriel e Ein Nachmittag Mit Edgar seguono, sia pure con qualche variazione sul tema, questo andamento malinconico e decisamente introspettivo .
Piuttosto contraddittorie, invece, la già citata Dinner Auf Uranos e la relativa “reprise” strumentale, che si perdono in qualche superfluo passaggio ambient , con il solo risultato di appesantire un disco che, sia per la lunghezza sia per i contenuti, proprio scorrevolissimo non è.
Nulla da eccepire, invece, sulla bella chiusura affidata a Kerkerwelten – Teil II , che si lascia andare nei suo ultimi minuti a dolenti melodie di matrice doom.
I Nocte Obducta del 2013, quindi, hanno poco a che vedere con quelli dello scorso decennio ma la loro trasformazione in una band dalle sonorità più intimistiche ed eleganti, non significa necessariamente un sensibile abbassamento del livello qualitativo della proposta e, al tirare delle somme, gli aspetti positivi superano di gran lunga quelli negativi; si tratta, semplicemente, di recepirne i contenuti musicali con un differente approccio mentale: solo così sarà possibile apprezzare senza porre alcuna pregiudiziale l’operato di quella che resta, sempre e comunque, una band di grande valore.

Tracklist :
1. Kerkerwelten – Teil I
2. Gottverreckte Finsternis
3. 01-86 Umbriel
4. Dinner auf Uranos
5. Mehr Hass
6. Leere
7. Ein Nachmittag mit Edgar
8. Reprise Dinner auf Uranos
9. Kerkerwelten – Teil II

Line-up :
Heidig
Marcel
Matze
Stefan
Flange
Torsten

NOCTE OBDUCTA – pagina Facebook

Right To The Void – Kingdom Of Vanity

I Right To The Void sono una giovane band francese che esordisce su lunga distanza con questo disco di prossima uscita intitolato Kingdom Of Vanity.

I ragazzi della Linguadoca ci regalano quaranta muniti di aggressione sonora a base di un death-core-thrash sicuramente ben eseguito e ben prodotto ma con il difetto d’essere piuttosto ripetitivo: la ricetta viene riproposta, di fatto, in ogni brano, con partenza a razzo, triggerate a manetta, alternanza tra screaming e growl per un risultato che potrebbe ricordare i primi In Flames, privati però di gran parte della componente melodica del loro sound. La forza d’impatto dei Right To The Void è comunque rimarchevole e Kingdom Of Vanity è un lavoro tutt’altro che disprezzabile, ciò che colpisce in negativo è essenzialmente la scarsa identità dei singoli brani all’interno della tracklist. Il chitarrista Gauthier sembra quasi voler centellinare i propri assoli ed è un vero peccato, vista l’incisività che mostra in tali frangenti; la base ritmica svolge in maniera competente il proprio lavoro mentre Guillame si sgola alternando costantemente i due stili vocali, facendosi preferire comunque quando opta per il growl. Il finale del disco riserva le cose migliori rappresentate dalla titletrack, dotata di un bel tiro e decisamente coinvolgente e, soprattutto, dal brano di chiusura, We Have Failed, un titolo che per fortuna non corrisponde all’esito finale di Kingdom Of Vanity. In quest’ultima occasione i ragazzi transalpini mostrano cosa potrebbero fare se solo provassero ad uscire con maggiore frequenza dal proprio canovaccio sonoro, sia con qualche sapiente rallentamento sia con un occhio di riguardo all’aspetto melodico del songwriting. Quindi, parafrasando l’ultimo titolo, è lecito affermare che i Right To The Void non hanno affatto fallito, lo dimostra l’encomiabile intensità che pervade l’intero lavoro, d’altra parte, però, possono e devono variare maggiormente la loro proposta per ritagliarsi uno spazio adeguato nella scena metal europea.

Tracklist:
1.Like A Disease
2.Phoenix
3.World Decay
4.A Black Conclusion
5.War Of Glory
6.In Oblivion
7.Reborn From Ashes
8.Again And Again … Until The End
9.Kingdom Of Vanity
10.Stay
11.We Have Failed

Line-up :
Guillaume – Vocals, Bass
Paul – Guitars
Gauthier – Guitars
Hugo – Drums

RIGHT TO THE VOID – Facebook

Aosoth – IV : An Arrow In Heart

Gli Aosoth hanno raggiunto uno status invidiabile grazie a una discografia costellata di album convincenti all’insegna di un black avanguardistico di non facile fruizione ma di grande profondità e consistenza.

E’ difficile, nel parlare di questo lavoro, potersi sottrarre all’obbligo di fare un cenno alla scena black francese, che di certo è, tra tutte, quella che nel complesso appare maggiormente proiettata verso il lato avanguardistico del genere.

Bastino nomi come Blut Aus Nord (anche se negli ultimi lavori la componente estrema è stata sensibilmente ridotta), Deathspell Omega, Merrimack, senza dimenticare Decline Of The I e Spektr, per intuire quali siano i contenuti all’interno di questo quarto full-length effettivo degli Aosoth. Rispetto ad alcune delle band citate, sicuramente la componente black appare predominante (la sperimentazione a pieno regime si trova solo nei due Broken Dialogue) ma è evidente, fin dalla notevole title-track posta in apertura, che di melodia nell’ora di musica proposta dai parigini se ne troverà poca ed spesso sopraffatta da un involucro sonoro non convenzionale. Il brano in questione mostra una band oggettivamente dalle grandi capacità e dalle idee molto chiare, nonostante un songwriting che tende più ad alienare l’ascoltatore che non a scuoterlo o a cullarlo; la difficoltà per chi si approccia a questa particolare variante del black è quella di mantenere alto il livello di attenzione perché i nostri, quando rallentano ingannevolmente l’andatura, lo fanno tramite partiture ossessive che paiono essere il preludio della fine salvo poi riesplodere repentinamente. Confesso che questo tipo di proposte inizialmente tendono a respingermi e, dopo qualche ascolto, parto deciso con l’idea di evidenziarne più i difetti che i pregi, ma qualcosa mi spinge a perpetuarne l’ascolto finché, alla fine, di aspetti realmente negativi da riportare ne restano ben pochi, mentre l’aura maligna che pervade ogni nota finisce per penetrare definitivamente sottopelle. Il disco si chiede così com’era iniziato, ovvero con un altro lungo e ipnotico brano, Ritual Marks Of Penitence in grado di lasciare definitivamente il segno, anche grazie a un bellissimo video che chiarisce, qualora ci fossero stati dubbi, quale sia il rapporto degli Aosoth con la religione tradizionale. IV – An Arrow In Heart è un’opera di sicuro valore per una band che, dopo un decennio di carriera, ha raggiunto uno status invidiabile grazie a una discografia costellata di album convincenti all’insegna di un black avanguardistico di non facile fruizione ma di grande profondità e consistenza.

Tracklist:
1. An Arrow in Heart
2. One With the Prince with a Thousand Enemies
3. Temple of Knowledge
4. Under the Nails and Fingertips
5. Broken Dialogue 1
6. Broken Dialogue 2
7. Ritual Marks of Penitence

Line-up :
MkM – Vocals
BST – All instruments
INRVI – Guitars

AOSOTH – Facebook

Black Capricorn – Born Under The Capricorn

Con i cagliaritani Black Capricorn il doom tricolore trova un’altra grande band, in grado di combattere ad armi pari con i magnifici Doomraiser.

Con i cagliaritani Black Capricorn il doom tricolore trova un’altra grande band, in grado di combattere ad armi pari con i magnifici Doomraiser.

Born Under The Capricorn è un disco dall’intensità sorprendente, nel quale oscurità, esoterismo, sonorità limacciose e incursioni psichedeliche si mescolano creando una perfetta alchimia. Il trittico iniziale, accomunato dalla presenza del Capricorno nel titolo di ogni brano, regala mezz’ora di musica di livello eccelso, fatta di riff potenti, spesso rallentati allo spasimo e atmosfere dall’elevato tasso lisergico, grazie ad un sapiente dosaggio della componente psichedelica. Peraltro, le tracce, pur essendo accomunate da tali caratteristiche, differiscono comunque tra loro: mentre Tropic Capricorn mostra diverse affinità stilistiche con “Erasing The Remenberance” dei già citati doomsters romani (la voce di Matteo, però, è più affine a quella di un Matt Pyke piuttosto che a quella di Nicola Rossi), Born Under The Capricorn si rivela come la vera summa dell’omonimo album racchiudendo nei suoi impressionanti sedici minuti tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un brano doom e, infine, Capricornia, con tanto di intro di launeddas (strumento a fiato tipico della Sardegna) è in grado di frantumare in via definitiva la fievole resistenza dell’usurato rachide cervicale degli appassionati di più antica militanza. Tutt’altro che trascurabili, comunque, anche i due brani di chiusura, Double Star Goatfish e Scream Of Pan, anche se leggermente meno intensi rispetto a quelli che li hanno preceduti: va detto che l‘ultima traccia si muove sorprendentemente su territori tali da trasformare i Black Capricorn in una versione ultradoom degli Alice In Chains, una combinazione ideale per chi, come il sottoscritto, ha vissuto in tempo reale i fasti della formidabile band di Seattle. Born Under The Capricorn è un disco che chiunque si definisca appassionato di doom deve far proprio ascoltandolo fino alla consunzione; c’è da augurarsi, quindi, che la band sarda decida di rimettersi in viaggio (pur con tutte le problematiche logistiche che possiamo ben immaginare) per presentare dal vivo questo magnifico lavoro.

Tracklist:
1. Tropic Capricorn
2. Born Under the Capricorn
3. Capricornia
4. Double Star Goatfish
5. Scream of Pan

Line-up :
Matteo – Vocals, Synths
Andrea – Guitar (lead)
Fabrizio – Guitar (rhythm)
Virginia – Bass
Rachela – Drums

BLACK CAPRICORN – Facebook

The Howling Void – Runa

Dopo tre dischi nel segno di un funeral doom dai tratti atmosferici, i The Howling Void decidono di esplorare nuove strade con il chiaro intento di ritrovare un ulteriore impulso dopo il poco convincente full-length risalente allo scorso autunno.

Nell’esaminare The Womb Beyond the World, infatti, non si poteva fare a meno di notare che la creatività di Ryan (unico titolare del progetto) sembrava essersi progressivamente affievolita e, per assurdo, l’aver pubblicato un esordio di indiscutibile valore come “Megaliths Of The Abyss” pareva aver provocato nel musicista statunitense l’ansia di non riuscire più ad esprimersi a quei livelli. Il recente disco uscito per la Solitude era formalmente impeccabile, ma incapace di trasmettere emozioni all’ascoltatore, difetto tutt’altro che marginale per un genere fondato sul pathos come il funeral doom. Per fortuna, però, quella che era apparsa come un’irreversibile stasi creativa è stata smentita dal contenuto di questo breve Ep, fatto di due sole tracce per poco più di un quarto d’ora di durata, sufficienti però per mostrare la ritrovata vena di Ryan, nonché la sua ammirevole onestà nel rifiutare l’appiattimento su standard compositivi confortevoli ma privi di alcun tipo di sbocco. Certo, il cambio di rotta è netto quanto sorprendente, se pensiamo che, ascoltando Irminsûl e Nine Nights, il primo accostamento che viene in mente è quello con i Moonsorrow: è pacifico, però, che il retaggio doom dei The Howling Void non viene meno e che l’elemento folk inserito in tale contesto possiede, comunque, uno sviluppo diverso rispetto a quello dei maestri finnici, nei quali la base estrema è invece riconducibile al black metal. La scelta di Ryan implica, dunque, la rinuncia totale al growl, rimpiazzato da clean vocals sufficientemente evocative, ma soprattutto il recupero di una vena melodica sacrificata nell’ultima uscita a scapito di interlocutori passaggi di stampo ambient. Tutto questo non può che essere salutato con favore da chi, solo quattro anni fa, aveva individuato The Howling Void come uno dei nomi emergenti della scena doom; infatti, è tutto sommato lecito pensare che questo cambio di rotta non verrà considerato come un’abiura delle proprie radici, visto che le caratteristiche peculiari del sound non vengono del tutto meno, pur se veicolate in maniera differente. Bene così, dunque, per il bravo Ryan; con queste premesse il prossimo full-length potrebbe rilanciare in maniera definitiva le quotazioni del suo progetto.

Tracklist :
1. Irminsûl
2. Nine Nights

Line-up : Ryan – All Instruments, Vocals

THE HOWLING VOID – Facebook

Officium Triste – Mors Viri

La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom

Avevamo lasciato gli Officium Triste qualche mese fa alle prese con “Immersed”, split album condiviso con i tedeschi Ophis, che aveva una volta di più esibito la fedeltà della storica band olandese al death-doom più ortodosso.

Mors Viri conferma pienamente quanto sopra, ma ciò che colpisce favorevolmente è la qualità elevata della proposta, aspetto preponderante in un contesto dove spazio per inventarsi qualcosa, oggettivamente, ce n’è ben poco. La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom: questo è bastato e avanzato per fare degli Officium Triste una delle realtà europee più amate dagli appassionati del genere, e pazienza se talvolta certa critica “avanguardista” si sia mostrata ingenerosa nei loro confronti. Mors Viri dovrebbe far ricredere anche i più scettici, mostrando una band nel pieno della propria maturità e in grado di sciorinare tre quarti d’ora abbondanti di musica priva di cedimenti, che esibisce il meglio in apertura e chiusura del lavoro: infatti, sia Your Fall From Grace che Like Atlas vanno annoverati di diritto tra i migliori brani mai composti dai doomsters di Rotterdam. Non che tutto ciò che sta nel mezzo sia trascurabile: Burning All Boats And Bridges si segnala per un finale dalle dolenti cadenze funeral, To The Gallows si snoda sulle tracce di “My Charcoal Heart”, uno dei brani storici dei nostri, con il quale ha in comune l’efficace ricorso alle clean vocals; Your Heaven, My Underworld costituisce l’unico episodio che esula, almeno in parte, dal consueto canovaccio compositivo, grazie a melodie sicuramente di fruizione più immediata ed un mood neppure troppo oscuro, se raffrontato al resto del disco. The Wounded And The Dying, al contrario, pur essendo comunque un brano più dinamico e ritmato in alcune sue parti, si inserisce nei tipici canoni stilistici della band olandese, mentre One With The Sea è l’immancabile brano che fa leva sull’aspetto emozionale, abbinando il recitato a un tenue tappeto pianistico. Le malinconiche note di Like Atlas chiudono in maniera esemplare un lavoro davvero inattaccabile; del resto dagli Officium Triste costituiscono lo zoccolo duro del death-doom e dimostrano come la coerenza, la competenza e la genuina passione per il genere proposto siano, sempre e comunque, sinonimo di qualità.

Tracklist :
1. Your Fall from Grace
2. Burning All Boats and Bridges
3. Your Heaven, My Underworld
4. Interludium 0
5. To The Gallows
6. The Wounded and the Dying
7. One with the Sea (Part II)
8. Like Atlas

Line-up :
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard de Jong – Guitars
Pim Blankenstein – Vocals
Lawrence Meyer – Bass
Bram Bijlhout – Guitars
Niels Jordaan – Drums

OFFICIUM TRISTE – Facebook

Zgard – Astral Glow

Zgard è un progetto pagan black metal del prolifico musicista ucraino Yaromisl, che con Astral Glow giunge al terzo disco in poco più di un anno.

Ammetto subito di non essere in possesso di elementi sufficienti per poter fare un raffronto attendibile con le opere precedenti, di certo però, Astral Glow si rivela un lavoro sorprendente per maturità compositiva e per la carica evocativa che sprigiona da ogni nota.

La musica degli Zgard si muove su un’ideale di linea di contatto tra i Moonsorrow ed i Negura Bunget/Dordeduh: con questi ultimi il polistrumentista ucraino condivide non solo l’amore per sonorità folk affidate ad un uso particolare del flauto, ma anche per la natura incontaminata dei Carpazi (in un’epoca che disdegna l’insegnamento della geografia, è bene ricordare come, nel suo sviluppo, la catena montuosa attraversi sia l’Ucraina sia la Romania). I ritmi proposti sono impostati su dei mid-tempo nei quali la chitarra ricerca sovente linee malinconiche, talvolta accompagnate da solenni momenti corali (Stars in the Night Sky), ma anche quando la velocità aumenta non viene mai meno la componente bucolica, ottimamente rappresentata, come detto, dal flauto suonato da Hutsul. Il disco offre il suo meglio probabilmente nella parte iniziale, nella quale spiccano due gioielli come l’opener Balance In Universe e l’altrettanto lunga ed emozionante Letargy Dream, ma va detto che una lieve perdita di intensità nel complesso di un lavoro della durata di circa settanta minuti si può considerare un peccato veniale. Intendiamoci, gli Zgard non raggiungono le vette compositive pressoché inarrivabili dei maestri finnici e la loro musica appare meno intrisa dell’alone di spiritualità che contraddistingue le band di Hupogrammos e Sol Faur, ma proprio la sua maggiore immediatezza rende Astral Glow un lavoro piacevole da ascoltare, anche ripetutamente. Promozione a pieni voti, quindi, per la creatura di Yaromisl e, considerando il suo ritmo di un full-length ogni sei mesi, è lecito attendersi in tempi brevi ulteriori e stimolanti novità.

Tracklist :
1. Balance in Universe
2. When Breakin Down All the Ideals
3. Letargy Dream
4. Stars in the Night Sky
5. Old Woods
6. Astral Glow
7. Return to the Void
8. When Time Comes to Go Away

Line-up : Yaromisl – Guitars, Vocals, Keyboards, Mouth Harp, Programming, Lyrics

Hutsul – Flute

ZGARD – pagina Facebook

Carved – Dies Irae

L’interessante uso delle tastiere e la voglia di non appiattirsi su modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che mette a frutto l’intensa attività live svolta dai Carved a supporto di nomi prestigiosi della scena metal italiana.

Interessante il potenziale esibito dagli spezzini Carved con questo loro esordio su lunga distanza.

Il death melodico proposto dai nostri, infatti, differisce senza dubbio dagli schemi consueti e, pur condividendone la catalogazione di sottogenere e la data di pubblicazione del disco, per esempio, non hanno neppure troppi punti in comune con i compagni d’etichetta Kruna.
In effetti, come accade, sia pure con modalità diverse, alla band friulana, tutto sommato anche i Carved aderiscono solo a tratti agli stilemi classici della scuola svedese, prendendo come possibile riferimento, specialmente nei brani più sinfonici, i Dark Lunacy, pur mostrando rispetto a questi una ridotta componente orchestrale; azzarderei anche, per attitudine e varietà compositiva, una certa affinità con i primi due lavori dei tedeschi Pyogenesis, usciti a metà degli anni ’90.
Dies Irae si snoda pertanto in maniera snella alternando, nei suoi quaranta minuti scarsi, brani dalla notevole forza evocativa, quali Echo Of My Cinderella, The Perfect Storm e Black Lily Of Chaos, ad altri episodi più diretti ma non privi di azzeccati inserti melodici (Enter The Silence, Scripta Manent, Ashes Of A Scar).
Un interessante uso delle tastiere e la voglia di non omologarsi più di tanto a modelli precostituiti rendono meritevole d’attenzione questo lavoro che, peraltro, mette a frutto l’intensa attività live svolta a supporto di nomi prestigiosi (uno su tutti, i corregionali Necrodeath), anche perché questo pare essere solo il primo passo di un percorso che potrebbe riservare alla band ligure non poche soddisfazioni.

Tracklist :
1. Dies Irae (Praeludium)
2. Echo of My Cinderella (The Final Symphony)
3. Enter the Silence
4. Scripta Manent (Bullshit)
5. The Perfect Storm
6. At the Gates of Ice
7. Ashes of a Scar 0
8. Black Lily of Chaos
9. A New World (Postludium)

Line-up :
Nicola Paganini – Bass
Francesco Daniele – Drums
Alessio Rossano – Guitars
Alessandro Ferrari – Guitars
Mattia Nuti – Keyboards
Cristian Guzzon – Vocals

CARVED – Facebook

DGM – Momentum

Dopo uno, cinque, dieci ascolti di “Momentum”, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”.

Dopo uno, cinque, dieci ascolti di Momentum, alla fine non si può evitare di chiedersi cosa possano avere i DGM in meno di Dream Theater, Symphony X, Vanden Plas e compagnia: oggettivamente nulla, si direbbe, se non un monicker senza dubbio molto meno “pesante”.

Considerate le prove non sempre esaltanti messe in scena negli ultimi anni da alcune delle band citate, non sarebbe male che, almeno gli appassionati italiani, volgessero con maggiore attenzione lo sguardo alla più vicina “città eterna” invece che oltreoceano o verso le fredde lande nordeuropee.
Se è vero che il suono della band laziale è oggettivamente accostabile ai Symphony X , va anche rimarcato il fatto che qui non si sta parlando di epigoni dell’ultima ora dato che entrambi i gruppi si sono formati attorno alla metà degli anni novanta.
La presenza di Russell Allen nella traccia d’apertura Reason è una dimostrazione della comunione d’intenti tra le due band e, nel caso specifico, il contributo dell’illustre ospite è senz’altro pregevole, ma il fatto stesso che non spicchi più di tanto dimostra anche l’enorme qualità della prestazione vocale offerta da Mark Basile in quest’album.
In Momentum viene messo in scena il repertorio ideale di una band che suona prog metal: un caleidoscopio di fughe tastieristiche e delicati passaggi pianistici (Emanuele Casali), riff rocciosi e assoli dal grande impatto melodico (Simone Mularoni, noto ai più anche come rinomato producer), con il valore aggiunto di una base ritmica perfetta (Andrea Arcangeli e Fabio Costantino) e, come detto, un cantante che non mostra un solo attimo di cedimento.
Non resta che godersi senza alcuna remora questo magnifico disco, che si snoda tra accelerazioni irreali (per la tecnica esibita) e passaggi più orecchiabili che, solo in occasione di Repay sfociano in un formato simil-ballad; forzando un pò la mano con i paragoni, si potrebbe affermare che i DGM si collocano in perfetto equilibrio, a metà strada tra le spigolosità metalliche dei Symphony X ed il gusto melodico della prima prova solista di Allen in coppia con l’altro “mostro” Jorn Lande (“The Battle”), insediandosi in un territorio nel quale la band romana mostra d’avere ben pochi rivali.
Considerando che l’uscita di Momentum coincide con un altro eccellente esempio di prog metal, come l’album degli Odd Dimension, la Scarlet esibisce in un colpo solo un’invidiabile coppia d’assi; speriamo solo che la crisi economica che continua a mortificare i nostri portafogli non costringa qualcuno a dover fare una scelta dolorosa, sacrificando in ogni caso dei lavori che, per la qualità esibita, non meritano davvero d’essere accantonati, fosse anche solo momentaneamente.

Track-list :
1. Reason
2. Trust
3. Universe
4. Numb
5. Pages
6. Repay
7. Chaos
8. Remembrance
9. Overload
10. Void
11. Blame

Line-up :
Mark Basile – Vocals
Fabio Constantino – Drums
Andrea Arcangeli – Bass
Simone Mularoni – Guitars
Emanuele Casali – Keyboards

DGM – Facebook

Worstenemy – Revelation

I Worstenemy, in questa prima uscita su lunga distanza, hanno sicuramente sfruttato al meglio l’esperienza e le influenze accumulate in oltre un decennio di attività, anche per questo è lecito attendersi in tempi più brevi una conferma della bontà della loro proposta.

I sardi Worstenemy hanno alle spalle una storia piuttosto lunga, iniziata addirittura nel secolo scorso sia pure con un diverso monicker, ma solo dopo oltre quindici anni giungono finalmente alla realizzazione del loro primo full-length.

Se i tempi necessari per arrivare a questo fatidico passo sono stati oggettivamente un po’ lunghi, bisogna anche dire che il risultato vale in tutto e per tutto l’attesa: Revelation è un disco di death metal di grande valore, radicato nel solco della tradizione estrema del genere e, quindi, più orientato al versante brutal che non a quello melodico. Il trio proveniente da Oristano ci regala un lavoro di grande sostanza, nel quale ogni nota ha una sua precisa funzione e nessuno spazio viene concesso ad inutili orpelli stilistici. Mario Pulisci è il motore della band, essendo autore sia del growl efferato volto a dilaniare le viscere dell’ascoltatore, sia dei macigni che vengono rovesciati sul suddetto malcapitato sotto forma di riff densi e distruttivi come una colata lavica; la base ritmica, precisa d essenziale è ad opera del batterista Andrea Fodde e della bassista Elena Zoccheddu. Senza voler scomodare i grandi nomi, Revelation ha tutte le carte in regola per divenire anche un prodotto da esportazione, non avendo, appunto, alcunché da invidiare a produzioni straniere ben più reclamizzate; va sottolineato che qui non si ci si limita ad una semplice e monolitica aggressione sonora, la band sarda quando vuole alzare il piede dall’acceleratore lo fa sempre con cognizione di causa mostrando una tecnica di prim’ordine, come accade in Karnak (nome della prima incarnazione del band) ed in War Of Hate . I Worstenemy, in questa prima uscita su lunga distanza, hanno sicuramente sfruttato l’esperienza e le influenze accumulate in oltre un decennio di attività, anche per questo è lecito attendersi in tempi più brevi una conferma della bontà della loro proposta; per ora godiamoci questo splendido lavoro che ogni vero appassionato del death più genuino non può e non deve ignorare.

Tracklist :
1. V.I.T.R.I.O.L.
2. Revelation
3. Arms of Kali
4. Strange Life
5. The Fallen
6. Karnak
7. The Redeemer Is a Liar
8. War of Hate
9. Black Storm
10. New Enemy

Line-up :
Elena Zoccheddu – Bass
Andrea Fodde – Drums
Mario Pulisci – Vocals, Guitars

WORSTENEMY – Facebook

 

Who Dies In Siberian Slush – We Have Been Dead Since Long Ago

Secondo uscita su lunga distanza per i moscoviti Who Dies In Siberian Slush, dopo il buon esordio “Bitterness Of The Years That Are Lost” datato 2010.

Il nuovo parto della band guidata da E.S. (Evander Sinque) si colloca nella scia del suo predecessore senza rappresentarne, di fatto, un’evoluzione vera e propria: We Have Been Dead Since Long Ago è il classico nero monolite dalle sembianze funeral death doom che, volendo fornire un indirizzo di massima a chi intenda approcciarlo, si colloca più sulla scia dei tedeschi Worship che non su quelle dei concittadini Comatose Vigil o Abstract Spirit.

Infatti, non aspettatevi le dolenti aperture melodiche caratteristiche del funeral doom russo, visto che i WDISS badano maggiormente ad un impatto di matrice death, accentuato dalla rinuncia all’uso delle tastiere. Non per questo il lavoro è trascurabile, brani lunghi e avvolgenti come, per esempio, In A Jar e The Spring possiedono più di un momento degno di nota, ma ciò avviene, guarda caso, proprio quanto le chitarre tracciano linee melodiche che spiccano proprio perché normalmente sacrificate all’interno del disco a favore di riff più rocciosi. Come detto, We Have Been Dead Since Long Ago paga forse il confronto con il suo predecessore che, senza dubbio, aveva dalla sua una superiore freschezza compositiva, oltre a una maggiore linearità di fondo. Discorso a parte lo merita un brano come Funeral March n°14, sicuramente affascinante pure nel suo incedere grottesco, ma oggettivamente un pò fuori contesto a livello stilistico; provate a immaginare una banda che, nell’accompagnare il defunto nel corso del suo ultimo viaggio, suoni una marcia funebre come se fosse un brano funeral doom: esperimento apprezzabile ma solo parzialmente riuscito Complessivamente questo lavoro merita senz’altro l’attenzione da parte degli appassionati delle frange più estreme del doom, ma la sensazione che resta è quella di un’opera incompiuta, dove passaggi di grande impatto emotivo si confondono con altri più manieristici. L’impressione finale è quindi, quella di un disco di passaggio: gli Who Dies In Siberian Slush hanno le potenzialità per fare molto meglio e non ho dubbi che ci riusciranno in futuro; per ora solo una sufficienza piena, ma con la certezza che si può fare senz’altro meglio di così.

Tracklist:
1. The Day of Marvin Heemeyer
2. Refinement of the Mould
3. In a Jar
4. The Spring
5. Funeral March №14
6. Of Immortality

Line-up:
E.S. – Guitars, Vocals
Flint – Guitars (lead)
A.S. – Drums
Tragisk – Bass

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Aylwin / Zinvmm – Aylwin / Zinvmm

Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.

Curioso split album che vede impegnate due band piuttosto lontane tra loro per estrazione geografica e musicale.

Gli Aylwin sono un duo californiano dedito ad un post-black atmosferico che si colloca sulla scia degli Wolves in The Throne Room: dopo un intro ambientale, Hymns mostra subito sonorità interessanti e avvolgenti, con un bel tema melodico violentato dalla doppia cassa e dal consueto screaming sgraziato ma efficace, mentre Hymns II esordisce sconfinando in territori depressive per poi riacquistare un ritmo parossistico nella sua fase centrale e sfumare in un finale di stampo ambientale. Hymns III non modifica in maniera sensibile le coordinate sonore e chiude in maniera positiva la parte dedicata alla band statunitense che, seppure parzialmente penalizzata da una registrazione rivedibile, mostra potenzialità assolutamente da non sottovalutare.
La one-man band spagnola Zinvmm occupa gli ultimi tredici minuti dello split album con una sola traccia, Beith, che ci trasporta verso sonorità di tipo ambient folk dal sapore ancestrale. Nonostante venga naturale il riferimento a realtà quali Burzum et similia, la componente mediterranea del sound prende piacevolmente il sopravvento anche grazie all’uso di una strumentazione non convenzionale ma sempre appropriata.
Split interessante, dunque, e due nomi da tenere senz’altro sotto osservazione.

Tracklist:
1. Aylwin – The imaged engraved (intro)
2. Aylwin – Hymns
3. Aylwin – Hymns II
4. Aylwin – Remain in trance (Evening Ritual)
5. Aylwin – Hymns III
6. Zinvmm – Beith

AYLWIN – Facebook
ZINVUMM – Facebook

Infinite Translation – Masked Reality

Quaranta minuti di rara intensità che spiccano decisamente in un panorama nel quale la recente riscoperta e rivalutazione del thrash fornisce talvolta risultati asfittici e oggettivamente sopravvalutati.

Scrivere una recensione per dischi come quello degli Infinite Translation è un compito dannatamente facile e tremendamente complesso allo stesso tempo: facile, quando la musica che si sta ascoltando piace e le parole sgorgano dalla penna (o per meglio dire dalla tastiera) in maniera spontanea; complesso, se è praticamente impossibile non ribadire considerazioni esposte inevitabilmente in precedenza già da qualcun altro.

Perchè, diciamoci chiaramente come stanno le cose, un album come Masked Reality l’abbiamo già sentito decine di volte in passato, con titolo e monicker diversi stampati sulla copertina, ma inspiegabilmente (o forse no …) continua a piacerci in ogni occasione come se fosse la prima.
Il thrash metal dei francesi Infinite Translation è saldamente ancorato alla tradizione, ma ciò non impedisce alla band di Lille di risultare ugualmente fresca e attuale; se si evita di cercare a tutti i costi l’originalità dove, oggettivamente, non se ne sente neppure la necessità e si prova, invece, a concentrare l’attenzione in maniera oggettiva sul risultato finale, non si possono che trarre giudizi esclusivamente positivi.
Fin dall’opener Malicious Mental Oppression il treno impazzito guidato da Max Maniac travolge tutto e tutti senza lesinare una stilla di energia; brani dall’impatto devastante si susseguono senza soluzione di continuità nel solco tracciato da Exodus, Nuclear Assault, Destruction e co., mettendo a serio repentaglio l’ormai usurato rachide cervicale di chi scrive.
Nel solco della tradizione del genere troviamo anche la denuncia contro le storture della società contemporanea, ben rappresentata da una classica copertina raffigurante in primo piano un volto che, per quanto reso ancor più grottesco nelle sue fattezze, assomiglia in maniera evidente al ben noto Joseph Ratzinger, mentre le pecore dalle fattezze umane collocate sullo sfondo non è difficile immaginare a chi si riferiscano …
Quaranta minuti di rara intensità che spiccano decisamente in un panorama nel quale la recente riscoperta e rivalutazione del thrash fornisce talvolta risultati asfittici e oggettivamente sopravvalutati.

Tracklist :
1. Malicious Mental Oppression
2. Destined to Death
3. Join the Masses
4. Killing Sollution
5. I’ll Love You Dead
6. Lead to Madness
7. Life of Submission
8. The Boat Can Leave Now
9. Masked Reality

Line-up :
Jon Whiplash – Bass, Backing Vocals
Fish Killer – Drums
Max Maniac – Lead Guitars, Vocals
Guillautine – Rhythm Guitars, Backing Vocals

INFINITE TRANSLATION – Facebook

Mental Torment – Mental Torment

Un growl efficace e un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di “On The Verge …” un disco riuscito e convincente.

Un’altra band ucraina si affaccia alla ribalta della scena doom-death sotto l’egida della Solitude e, come avvenuto di recente per i connazionali quali Embrace Of Silence e Narrow House, la cosa non può che essere salutata con piacere.

Purtroppo non è stato possibile raccogliere informazioni più dettagliate sui Mental Torment, lasciamo quindi che sia la musica contenuta in On The Verge … a descriverne le caratteristiche salienti.
Maelstrom e My Torment, i primi due veri brani dopo la breve intro, mostrano un songwriting creativo, sempre alla ricerca di atmosfere oscure e malinconiche senza indugiare troppo in passaggi interlocutori che, spesso, chi ha poco o nulla da dire tende ad aggiungere con l’unico intento di allungare a dismisura il brodo.
Un growl efficace ed un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di On The Verge … un disco riuscito e convincente.
Sento già qualche vocina sullo sfondo lamentarsi della poca originalità della proposta della band di Kiev, ma l’unica risposta possibile è questa: se qualcuno dimostra la capacità di creare composizioni in grado di emozionare e soddisfare chi ama questo genere non va certamente stigmatizzato perché altri sono riusciti prima in questo intento, piuttosto andrebbe solo incoraggiato e ringraziato per questo.
Cold Rusted Flame e Tragedy sono altri due episodi splendidi che si inseriscono nel solco tracciato dagli Officium Triste (come giustamente suggerisce la scarna bio in mio possesso), mentre sono meno d’accordo sull’accostamento con Mourning Beloveth e, soprattutto, Saturnus ma citerei invece, come ulteriore e più probabile affinità, i Frailty dello splendido “Melpomene”.
On The Verge … è un altro buonissimo esempio di death-doom, eseguito con gusto e competenza, proveniente dalle fredde ma prolifiche lande dell’estremo est europeo.

Tracklist :
1. The Path To Shining (intro)
2. Maelstrom
3. My Torment
4. Unspoken Word
5. Cold Rusted Flame
6. I See This End
7. Tragedy
8. The Drowned Man