Torture Squad – Far Beyond Existence

Metal estremo crudele, cattivo e senza compromessi, partendo dall’opener Don’t Cross My path e lasciando che aggressività, ripartenze e rallentamenti si incastrino in un sound che non concede tregua:questo è Far Beyond Existence, ultimo lavoro dei Torture Squad.

Nuovo lavoro per gli storici brasiliani Torture Squad, quartetto di San paolo attivo dalla prima metà degli anni novanta e protagonista di una discografia che raccoglie, oltre ad una manciata di lavori minori, otto full length dei quali l’ultimo è questo Far Beyond Existence.

L’album è composto da dieci massacri sonori a base di death/thrash vecchia scuola, ma valorizzato da una buona produzione, dove la voce di May “Undead” Puertas lascia esterrefatti per impatto e cattiveria, la sezione ritmica è un treno in corsa (Amilcar Christófaro alla batteria e Castor al basso) e le chitarra di Renê Simionato sputa sangue metallico old school.
Va da sé che la cantante sia il fulcro, non solo d’immagine, del gruppo sudamericano: la ragazza di un orco che cerca vendetta con la rabbiosa grinta di un branco di tigri, questa è in pratica la prova della bella vocalist dei Torture Squad, sostenuta dai tre colleghi, mentre in un attimo passa la furiosa tempesta abbattutasi su di noi e portata dai venti maligni delle notevoli No Fate e Blood Sacrifice.
Kreator, Slayer e primi Sepultura si ritrtovano tra le note dell’album, ma parlare di influenze per una band nata ormai quasi venticinque anni fa è oltremodo riduttivo, quindi Far Beyond Existence va fatto proprio senza indugi, perché la squadra di tortura è tornata al lavoro e vi farà soffrire.

Tracklist
1. Don’t Cross My Path
2. No Fate
3. Blood Sacrifice
4. Steady Hands
5. Hate
6. Hero for the Ages
7. Far Beyond Existence
8. Cursed by Disease
9. You Must Proclaim
10. Just Got Paid
11. Torture in Progress
12. Unknown Abyss

Line-up
Castor – Bass, Backing Vocals
Amílcar Christófaro – Drums
Renê Simionato – Guitars
Mayara “Undead” Puertas – Vocals

TORTURE SQUAD – Facebook

Gribberiket – Sluket

Band norvegese notevolissima con forte personalità: doom, noise e black miscelati ad arte per un risultato originale e per nulla scontato.

Giusto ricordare, prima di essere inondati dalle nuove uscite del 2018, il disco d’esordio dei Gribberiket, strana creatura norvegese che nel 2013 aveva fatto uscire il demo in cassetta Knefall, ristampato poi su cd dalla Dead Seed che ora si occupa di commercializzare Sluket, il loro vero esordio, uscito sul finire del 2017.

Si tratta di un quartetto norvegese dotato di forte personalità, che li ha portati a elaborare un suono assolutamente fuori di testa, dove sono miscelati in modo urticante e malsano doom sghembo e noise, il tutto cosparso di inquietante black con rumori ed effetti a rendere il suono sinistro e intossicante; tre lunghi brani, con il corollario di due corti intermezzi, incendieranno il vostro cervello con un suono lento, distorto, fangoso, senza creare muri di suono ma lacerando lentamente i vostri sensi atterriti di fronte a tanta insanità. Le chitarre non hanno fretta, inanellano lenti riff inabissandosi in abissi di rumori e intanto il brano cresce in modo inquietante e la voce (?) strazia, squarcia, urla in norvegese terrificando l’atmosfera; la ritmica segue strade impervie creando rituali dove la tensione mozza il fiato. I sedici minuti abbondanti della final track, sublimano al meglio quanto detto, il brano è un vero e proprio “piece de resistence”, avanza inesorabile e interminabile, si alimenta delle urla che descrivono traiettorie desolanti e respingenti mentre le chitarre si inseguono e si intrecciano lente ed esasperate. Difficile descrivere a parole l’arte molto personale esibita dalla band, ma il tutto funziona bene; già il demo aveva fatto intravedere che il loro suono era originale e non aveva classici punti di riferimento. Come sempre l’underground cela band assolutamente uniche, che coltivano la loro visione incuranti del mondo che scorre attorno a loro.

Tracklist
1. Sluket
2. Gjestebud
3. See, der blev en død udbaaren
4. Med sine lidelser
5. Nytelsen og oppløsningen

Line-up:
Witchfucker Wangen – Bass
Gimp Molestor – Drums
Kybermensch – Guitars, Noises
SFS – Vocals, Guitars

Aosoth – V: The Inside Scriptures

L’annichilimento sonoro chiamato V: The Inside Scriptures dura poco più di tre quarti d’ora di musica che non dà  respiro, rovesciandoci addosso tutto il male dell’universo convenuto in cunicolo spazio-temporale che conduce alla Terra.

Ritrovo gli Aosoth dopo quattro anni abbondanti e devo ammettere che non mi sarei atteso l’ulteriore inasprimento di un sound che, già all’epoca, prevedeva ben poche concessioni melodico-atmosferiche.

Di solito il passare del tempo tende ad ammorbidire il sound di chiunque, senza che chi lo faccia possa essere stacciato di commercialità, termine che associato al metal estremo può strappare solo un amaro sorriso: si tratta di scelte che possono essere condivisibili o meno, e lo stesso vale se, in spregio ad ogni logica, ci si richiude dentro la propria torre d’avorio facendo dell’incomunicabilità il solo marchio.
A questo punto l’ascoltatore (che non si può definire certo medio, perché già l’avvicinarsi ad un lavoro degli Aosoth, cosi come di gran parte della scena black metal francese, presuppone una conoscenza della materia certo non superficiale) si trova di fronte ad un bivio con una strada che risulta già sbarrata dal rifiuto netto di queste sonorità e l’altra che, dopo pochi passi, si apre in un baratro la cui conseguente caduta preclude ogni possibilità di risalita.
Per chi decide di correre il rischio, l’ascolto di V: The Inside Scriptures può trasformarsi in’un esperienza che difficilmente non lascerà tracce: il riffing dissonante satura un sound sul quale cerca di stagliarsi lo screaming di MkM, non sempre facilmente percepibile dall’interno della bufera musicale creata dagli Aosoth.
Eppure, nonostante tutti gli indizi possano condurre ad un rigetto di questo lavoro, V: The Inside Scriptures ha l’effetto di un veleno paralizzante, peraltro di quelli della peggior specie perché, invece di darti sollievo con una fine relativamente rapida, ti costringe inerme a vedere ed ascoltare tutto ciò che accade senza poter reagire, per di più con la consapevolezza che non ci sarà un domani.
Ecco perché si riesce ad arrivare alla fine di questo album, rendendosi conto di essere stati a tratti inconsapevoli testimoni di un’esibizione di atrocità destinata ad andare in replica ancora per molto tempo, contro ogni previsione.
L’annichilimento sonoro chiamato V: The Inside Scriptures dura poco più di tre quarti d’ora di musica che non dà  respiro, rovesciandoci addosso tutto il male dell’universo convenuto in cunicolo spazio-temporale che conduce alla Terra.
Questo è (anche) il black metal, nel caso qualcuno continui a pensare che si tratti di un genere divenuto inoffensivo: peccato solo per chi non capirà quest’album, ma non lo biasimo, perché ogni volta che l’ascolto anche la mia fede vacilla pericolosamente …

Tracklist:
1. A Heart To Judge
2. Her Feet Upon The Earth, Blooming The Fruits Of Blood
3. The Inside Scriptures
4. Premises Of A Miracle
5. Contaminating All Tongues
6. Silver Dagger And The Breathless Smile

Line-up:
MkM – vocals
Bst – guitars
INRVI – bass
Saroth – second guitar
T. – session drums

AOSOTH – Facebook

Steve Remnant “Metal Remnants” – Night Of The Wolves

Veloci cavalcate, solos graffianti ed heavy, ritmiche telluriche e sfumature progressive sono le parti più importanti di questo nuovo progetto presentato dalla Volcano Records, non ci resta quindi che aspettare di sapere qualcosa di più, magari con l’arrivo di un primo lavoro sulla lunga distanza.

Ricoperto da un velo di oscuro mistero, esce per l’attivissima label campana Volcano Records il progetto del mastermind Steve Remnant, Metal Remnants, dal titolo Night Of The Wolves, ep composto da quattro brani di heavy metal melodico dalle reminiscenze old school e dagli ottimi inserti power/prog, che formano un sound classico ma allo stesso tempo al passo coi tempi.

Il progetto viene presentato come il tentativo da parte del misterioso musicista di riassumere l’essenza di un genere musicale controcorrente e profondamente antimassificato nel “suburbano”, nel “dimesso”, nel cacofonico “non farsi notare”, rispetto alla moda dell’esser sempre presenti e partecipi, protagonisti della cosiddetta civiltà moderna.
Fates Warning e primi Queensryche le band che più si sono fatte spazio nella mente del sottoscritto all’ascolto dei due singoli, (la splendida Night Of The Wolves e la graffiante The Abandon), con l’uso nel refrain del cantato in falsetto nella seconda traccia, mentre l’opener risulta un crescendo epico melodico, dalle tinte oscure e dalla raffinata eleganza progressiva.
I due brani restanti (Randome e Lydia), spostano il tiro verso un heavy/power più diretto e d’impatto aggiungendo quali fonti di ispirazione ai due già importanti nomi fatti in precedenza Iron Maiden e Judas Priest.
Veloci cavalcate, solos graffianti ed heavy, ritmiche telluriche e sfumature progressive sono le parti più importanti di questo nuovo progetto presentato dalla Volcano Records, non ci resta quindi che aspettare di sapere qualcosa di più, magari con l’arrivo di un primo lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist
1. Night of the wolves
2. The Abandon
3. Randome
4. Lydia

Line-up
Steve Remnant

VOLCANO PRMOTION – Facebook

Exalter – Persecution Automated

Con dieci brani più intro per trentacinque minuti su e giù per la Bay Area, gli Exalter confermano la loro totale devozione per il thrash statunitense e ci costringono alla difensiva con il loro esplosivo sound old school.

Fa piacere notare come i gruppi provenienti dall’Asia e di cui ci siamo occupati in passato tornino puntualmente con nuovi lavori, segno di una convinzione nei propri mezzi ed una grande passione che permette a quest ottimi musicisti di portare avanti la loro missione musicale in terre sicuramente non facili per la musica rock e metal.

Degli Exalter, per esempio, ci eravamo occupati un paio di anni fa in occasione dell’uscita del secondo ep (Obituary For The Living), all’epoca la band risultava un duo, con Tanim (voce e chitarra) e Afif (batteria) ora raggiunti in pianta stabile dal bassista Jamil.
Sotto l’ala della Transcending Obscurity il gruppo aveva licenziato due ep, il primo Democrasodomy nel 2015 e di seguito Obituary For The Living, ora raggiunti dal debutto sulla lunga distanza, questa notevole mazzata intitolata Persecution Automated.
Con dieci brani più intro per trentacinque minuti su e giù per la Bay Area, gli Exalter confermano la loro totale devozione per il thrash statunitense e ci costringono alla difensiva con il loro esplosivo sound old school.
L’album parte dalla terza traccia, Reign Of The Mafia State, il pulsante rosso dell’ottovolante metallico si inceppa e l’album non scende più da una velocità ritmica importante su cui vengono rovesciati valanghe di riff e solos di scuola Exodus, Death Angel.
Prodotto discretamente, Persecution Automated non farà sicuramente gridare al miracolo i predatori dell’arca dell’originalità, ma la straordinaria The Dreaded End, Incarceration e Pathology Of Domination vi attaccheranno e vi distruggeranno sotto una pioggia di pugni, fino a quando il vostro corpo sarà solo una massa di poltiglia sanguinante.

Tracklist
1.Intro
2.Holocaust Ahead
3.Reign of the Mafia State
4.World Under Curfew
5.The Dreaded End
6.Slaughter Cleanse Repeat
7.Incarceration
8.Grip of Fear
9.Pathology of Domination
10.Clandestine Drone Warfare

Line-up
Tanim – Guitars, Vocals
Afif – Drums, Vocals
Jamil Khan – Bass

EXALTER – Facebook

Embryo – A Step Beyond Divinity

A Step Beyond Divinity è un’opera dal taglio internazionale che incolla l’ascoltatore alle cuffie, un dirompente fiume metallico che straripa tra debordanti e possenti passaggi estremi, orchestrazioni epiche ed apocalittiche e chitarre che sanguinano melodie.

Il nuovo lavoro dei deathsters nostrani Embryo è il classico album con il quale supportare la scena metal tricolore (non solo quella estrema, ovviamente) diventa non solo un dovere ma un grande piacere.

Al quarto album la band di Cremona estrae dal cilindro l’opera perfetta, quella che prendendo il meglio dal precedente omonimo lavoro, lo porta ad un livello ancora più alto regalando cinquanta minuti di death metal moderno, in un susseguirsi di emozionanti saliscendi tra tradizione melodica e moderno death metal dal piglio apocalittico.
Le orchestrazioni questa volta raggiungono vette altissime, la parte americana del sound del gruppo è ancora più potente, un macigno estremo che dai Fear Factory prende l’atmosfera epica da fine del mondo, mentre la cascata di solos guardano sempre verso nord e al melodic death metal.
Il concept si ispira alla figura di un genio come Leonardo Da Vinci, quindi anche in questo caso la band cerca una via intellettuale ai testi per valorizzare un songwriting sopra le righe.
Il bellissimo artwork è stato lasciato nelle mani dell’artista e musicista Spiros Antoniou alias Seth Siro Anton (Septic Flesh) mentre masterizzazione, registrazione e mix sono stati eseguiti da Simone Mularoni ai Domination Studio, con la band ad affiancarsi al noto produttore e musicista italiano (DGM) in fase di produzione.
Tutto questo rende A Step Beyond Divinity un’opera dal taglio internazionale che incolla l’ascoltatore alle cuffie, un dirompente fiume metallico che straripa tra debordanti e possenti passaggi estremi, orchestrazioni epiche ed apocalittiche e chitarre che sanguinano melodie.
Vanguard For The Blind, The Greatest Plan e la devastante Leonardo spiccano sulle altre tracce, ma vi consiglio di fermarvi per un’oretta scarsa e lasciare che gli Embryo vi raccontino del Da Vinci a modo loro.

Tracklist
1. The Same Difference
2. Overwhelming your Disgust
3. Vanguard for the Blind
4. Painting Death
5. Looking for the Divine
6. Solitaria 1519
7. Leonardo
8. The Greatest Plan
9. Bastard of the Brood
10. Mouth of Shame
11. Witness of your Life
12. The Horror Carved

Line-up
Roberto Pasolini – Vocals
Eugenio Sambasile – Guitars
Simone Solla – Keyboards
Danilo Arisi – Bass
Enea Passarella – Drums

EMBRYO – Facebook

Diretone – Random Spins, Fortune Turns

Random Spins, Fortune Turns è un lavoro gradevole per chi ama il thrash suonato con un approccio tecnico/alternativo ma, forse, da una band sulla scena già da diverso tempo sarebbe stato lecito attendersi un lavoro dalla connotazione stilistica più personale.

I danesi Diretone sono una band attiva già dai primi anni del decennio e Random Spins, Fortune Turns è il loro secondo lavoro su lunga distanza.

Il gruppo di Copenhagen propone un metal alternativo che poggia le sue basi su un thrash groove che, talvolta si apre a contaminazioni southern, senza disdegnare puntate nel djent così come in classiche ballate metalliche.
Anche per questo motivo l’album appare un po’ frammentario ma è soprattutto l’impostazione vocale spiccatamente hetfieldiana di Lars Hørning a rendere i Metallica di Load e dintorni quale naturale punto di riferimento, facendo sembrare comunque più adeguati all’ambito i brani maggiormente robusti rispetto a quelli di matrice alternativa.
Per questo sia l’opener Astray sia la title track appaiono gli episodi più riusciti all’interno di una tracklist senza particolari punti deboli ma neppure impreziosita dal brano capace di fare la differenza.
Random Spins, Fortune Turns è un lavoro gradevole per chi ama il thrash suonato con un approccio tecnico/alternativo ma, forse, da una band sulla scena già da diverso tempo sarebbe stato lecito attendersi un lavoro dalla connotazione stilistica più personale.

Tracklist:
1. Astray
2. King’s Head
3. Misery Sound
4. New Dawn, New Day
5. Under the Afghan Sun
6. Random Spins, Fortune Turns
7. Wrong
8. Sylvia (Until the End)
9. Ten Years
10. Race Against Time

Line-up:
Brion Wekin – Drums
Patrick Ajasso – Guitars
Lars Hørning – Vocals, Bass
Patrick Grønbæch Christensen – Guitars

DIRETONE – Facebook

Headcrasher – Nothing Will Remain

Ristampa a lungo attesa dello storico esordio, targato 1989, di una band fondamentale nel panorama thrash-core italiano di fine anni Ottanta.

La Punishment 18, da oltre dieci anni, porta avanti un serio e professionale lavoro di valorizzazione del patrimonio underground, tanto italiano, quanto estero, specie in ambito thrash-death-black.

Ne è l’ulteriore ed eccellente riprova la realizzazione di questo Nothing Will Remain, ristampa – a lungo attesa, davvero – di un disco realmente storico del panorama nostrano, pubblicato nel 1989, e subito diventato oggetto di autentico culto. Il quartetto italiano proponeva, infatti, uno speed-thrash metal, ottimamente elaborato e notevolissimo sotto il profilo tecnico, che da un lato guardava al messaggio tradizionale (ed inevitabile) dei primi giorni della Bay Area, soprattutto ai Metallica di Kill ‘Em All, dall’altro lo contaminava con intelligenti e sempre molto costruite aperture di stampo hardcore (sia quello inglese dei Discharge, sia quello americano, di area newyorkese, il che rende gli Headcrasher apprezzabili anche da parte di quanti adorano Anthrax e Nuclear Assault). Come si diceva, i dodici brani di Nothing Will Remain sono assai strutturati e vari, ancorché rocciosi e granitici. Né mancano variazioni sul tema, come l’opener fantascientifico Blood From the Sky, il grind aspro e inatteso (di scuola Napalm Death) di F.F.W., il rap-core screziato di funk metal di Bath Man, a metà strada fra i Death Angel di Act III e i Faith No More della pietra miliare The Real Thing. Il gruppo riusciva nel non facile intento, alternando sfuriate veloci ed opportuni rallentamenti, di aggiungere qua e là una vaga attitudine fun e skate-punk ad una proposta complessiva, altrimenti, legata al miglior thrash e all’allora nascente metal-core. Un disco veramente pionieristico e personale, oltretutto si se pensa al fatto che esso risale alla fine degli Eighties, per di più in Italia. I quattro possedevano, senza dubbio, doti compositivo-esecutive superiori alla norma ed erano artefici di un sound possente e quasi epico nella sua insopprimibile rabbia di fondo. La riedizione della Punishment è resa ancor più succulenta dalla presenza di un secondo CD, che contiene i sei pezzi dell’inedito promo registrato nel 1991 e in più, come bonus-track, In Our Times, appositamente incisa, nel 2017, da tre quarti della formazione originale degli Headcrasher. Mai banali, ancora oggi, aggressivi ed articolati come i Megadeth. Ora, il pubblico ha finalmente la possibilità di riscoprire questo seminale gruppo calabrese, che, sorto nel 1984, ha fatto la storia ed ha saputo anche anche emozionare, come nella toccante e indimenticabile Good Morning Amazzonia o nell’inno Dead in the USA.

Tracklist
1. Blood From the Sky
2. Live Or Die
3. Waiting 4 an Answer
4. FFW
5. Bath Man
6. The Cemetery of the Lost Cross
7. Overlook Hotel
8. SK8 Life
9. Good Morning Amazzonia
10. Dead in the USA
11. The Final Attack
12. Flebo’s Country
13. In Our Times
14. Lost Money
15. HIV
16. Selling Happiness
17. Childhood Stairs
18. Subliminal Pain
19. Within the Mirror

Line-up
Gianpaolo Brunetti – Guitars
Claudio Gentile – Vocals
Roby Vitari – Drums
Italo Le Fosse – Bass

HEADCRASHER – Facebook

Chronic Xorn – For These Sins Who Must Die

Secondo devastante full length per gli indiani Chronic Xorn, realtà estrema proveniente da Kolkata alle prese con un death metal moderno e dai rimandi core.

Secondo devastante full length per gli indiani Chronic Xorn, realtà estrema proveniente da Kolkata alle prese con un death metal moderno e dai rimandi core.

Attivo da dieci anni, il gruppo ha partorito un ep ed il primo album, From Mercy, licenziato ormai cinque anni fa.
Non molto prolifica quindi la band indiana che arriva al decennale della sua fondazione con un full length che, in realtà, si può considerare un ep vista la durata che non supera i venticinque minuti.
Meglio corto ma buono, direte voi, e al netto dell’ascolto For These Sins Who Must Die risulta un lavoro valido; il sound del quintetto si presenta come un devastante deathcore, tecnicamente ben suonato, dalle melodie chitarristiche sugli scudi e l’uso dello scream che non lascia spazio a clean vocals come di moda nel genere ultimamente.
I Chronic Xorn alzano un muro estremo invalicabile, le ritmiche lasciano spazio alla tecnica in cambio di una marzialità saggiamente poco usata, e l’ascolto se ne giova, le varie For These Sins Who Must Die, Necropoli III e Vox Populi esplodono dagli altoparlanti come atomiche dall’impatto distruttivo e devastante.
Qualche accenno melodico nei solos dal taglio classico e tanto metal estremo di buona fattura per questo combo asiatico, peccato solo per la durata, perché con almeno altri dieci minuti di musica la band avrebbe meritato sicuramente un mezzo voto in più.

Tracklist
1.Intro – Doctrine of Hate
2.For These Sins Who Must Die
3.Necropolis III
4.Justice by the Act of Violence
5.Vox populi
6.The Last Stand

Line-up
Saptadip “Sunny” Chakraborty – Vocals
Angshuman Majumdar – Bass
Suvam Moitra – Guitars, Vocals
Biswarup Bardhan – Guitars
Dipayan Chakraborty – Drums

CHRONIC XORN – Facebook

Asylum 8 – Repressed

Nel complesso Repressed scorre abbastanza bene e si può definire a buon titolo un album divertente, in grado di far scapocciare senza dover investire troppo in impegno intellettivo ma, alla fine, quella leggerezza che è la sua forza ne diviene anche il punto debole.

In Finlandia non si vive solo di sonorità cupe e malinconiche ma c’è anche chi cerca di imprimere alla propria idea di metal qualcosa di diverso.

Gli Asylum 8, per esempio, provano a portare su un piano diverso la lezione di Rammstein e Deathstars, incrementando però la componente elettronica invece di quella metal; ciò che ne scaturisce è un interessante miscuglio di death alternative ed EDM: un’idea che immagino sia abbastanza aliena rispetto alla concezione musicale dei puristi ma che fornisce frutti pregevoli.
Per quanti mi riguarda gli Asylum 8 funzionano al meglio quando il growl si poggia su riff squadrati che vengono circondati da suoni elettronici, meno invece allorché la vena alternative prende il sopravvento con dei più canonici ritornelli con voce pulita.
Nel complesso Repressed scorre abbastanza bene e si può definire a buon titolo un album divertente, in grado di far scapocciare senza dover investire troppo in impegno intellettivo ma, alla fine, quella leggerezza che è la sua forza ne diviene anche il punto debole, facendo parzialmente smarrire quella profondità che rende un disco qualcosa in più rispetto ad un piacevole ascolto.
Gli Asylum 8 riescono in ogni caso a produrre un lavoro sicuramente non anonimo e quanto meno a suo modo originale, cosa da non sottovalutare di questi tempi.

Tracklist:
1. Disarray
2. My Lamentation
3. At the Edge of My Mind
4. Thanatophobia
5. Passing
6. Acceptance
7. Deliverance
8. True Survivor

Line-up:
Tatu Heikkinen – bass
Sami Partanen – synths
Anssi Kinnunen – guitars
Henry Hämäläinen – vocals
Sami Hynynen – guitars
Pasi Moilanen – drums

ASYLUM 8 – Facebook

Funeral Nation – Molded From Sin

Molded From Sin soddisferà gli amanti del genere, in attesa che dopo il ritorno i Funeral Nation decidano di dare un seguito allo storico debutto.

La Vic Records licenzia questa compilation di un gruppo storico dell’underground estremo statunitense, i Funeral Nation da Chicago.

Il trio di thrashers iniziò a diffondere il verbo di Satana fin dal lontano 1989 a colpi di death/thrash metal vecchia scuola, e questa esaustiva raccolta tocca le varie fasi del gruppo in quasi trent’anni dalla fondazione.
In verità la band ha avuto dal 1995 al 2012 un lungo periodo di stop e solo in questi ultimi anni ha dato un seguito al primo full length (After The Battle) e al paio di lavori minori che caratterizzarono i primi passi del bassista e cantante Mike Pahl e compagni.
Molded From Sin è la quarta compilation in pochi anni, ma i Funeral Nation risultano attivi e l’ep omonimo uscito quest’anno fa ben sperare un secondo album che gli appassionati del genere aspettano ormai da molti anni.
La proposta è assolutamente underground, il thrash metal satanista e dalle ovvie tematiche anticristiane del gruppo sposa la storia del genere, quindi si parte in quarta e veloci, rabbiosi e sadici e si corre tra le buie strade dell’inferno con un occhio allo speed/thrash europeo del decennio ottantiano (Venom e Slayer su tutti) con qualche sfumatura vicino al death.
La raccolta alterna brani diretti e senza soluzione di continuità ad altri leggermente più elaborati (Encased In Glass) e dal taglio classicamente heavy metal, ma in gran parte dell’album si continua a correre con una mano sull’acceleratore e l’altra che impugna una croce rovesciata.
Molded From Sin soddisferà gli amanti del genere, in attesa che dopo il ritorno i Funeral Nation decidano di dare un seguito allo storico debutto.

Tracklist
1.Your Time Has Come
2.State of Insanity
3.Reign of Death
4.Midnight Hour
5.Sign of Baphomet
6.Visions of Hypocrisy
7.Encased in Glass
8.Benediction of Faith
9.The Apocalypse
10.Maniac
11.Laceration
12.Before the Dawn
13.Funeral Nation

Line-up
Mike Pahl – Bass, Vocals
Chaz Baker – Guitars, Vocals
Dean Olson – Drums

FUNERAL NATION – Facebook

Kantica – Reborn In Aesthetics

Una produzione da top band, una cantante che incanta ed ammalia e cinque musicisti che formano una squadra compatta ed assolutamente vincente, sono le prime avvisaglie di un’opera ottima in ogni dettaglio, creata per far innamorare gli (ancora tanti) estimatori del power metal sinfonico.

Questa volta a regalarci cinquanta minuti di metal sinfonico, tra power e gothic in un deliro orchestrale e maestoso, sono i savonesi Kantica, band ligure al debutto su Revalve con Reborn In Aeshtetics.

Mettetevi il cuore in pace cari cacciatori dell’arca dell’originalità, perché qui si cavalca il genere giocando con tutti i suoi cliché, ma il bello è che i Kantica il gioco lo conducono con maestria lasciando l’impressione di essere al cospetto di un gruppo con molta più esperienza di quella che suggerisce l’anagrafe.
Sonorità piene e cinematografiche si specchiano sul golfo ligure prima che lo scirocco si alzi e la mareggiata porti con sé cavalcate power metal dalle ritmiche potentissime, alternandosi con pacate atmosfere gothic ed impreziosite da orchestrazioni dal piglio moderno, come negli ultimi lavori di quella che il sottoscritto considera la band regina del genere, gli Epica.
Una produzione da top band, una cantante che incanta ed ammalia e cinque musicisti che formano una squadra compatta ed assolutamente vincente, sono le prime avvisaglie di un’opera ottima in ogni dettaglio, creata per far innamorare gli (ancora tanti) estimatori del power metal sinfonico.
Dopo l’intro i primi botti portano il titolo di Fascination Of The Elements, un brano in crescendo che prepara l’ascoltatore alla maestosa atmosfera che regna nel resto dell’album con brani carichi di nobile e sinfonico metallo come And There Then Was Pain, che tanto sa di primi Temperance.
Tutto gira a meraviglia in Reborn In Aeshtetics, decine di cambi di tempo spezzano il respiro, come affrontare un mare in tempesta sulla prua di un vascello, mentre Hellborn Lust, Lovecide e Psychological Vampire confermano il mood epico sinfonico dell’album.
Un debutto per certi versi sorprendente, che conferma la sempre crescente qualità della scena tricolore in un genere dove si è ormai detto tutto e nel quale la differenza la si può fare solo in termini di songwriting e di un talento che iKantica hanno da vendere.

Tracklist
01.(Re)Born Unto Aestheticism
02.Fascination of the Elements
03.And Then There Was Pain
04.Hellborn Lust
05.Albatross
06.R.E.M. State
07.From Decay to Ascension
08.Illegitimate Son
09.Psychological Vampire

Line-up
Chiara Manese – Vocals
Matteo ‘Vevo’ Venzano – Rythm guitar
Andy ‘K’ Cappellari – Lead guitar
Fulvio DeCastelli – Bass guitar
Enrico Borro – Keyboards
Tiziana ‘Titti’ Cotella – Drums

KANTICA – Facebook

Coughdust – Worldwrench

Chi è alla ricerca di musica che sia la più pesante ed oppressiva possibile dovrebbe buttare un orecchio a questo secondo full length dei finnici Coughdust.

Worldwrench offre infatti una quarantina di minuti di sonorità distorte, dal peso specifico insostenibile anche per le strutture di una centrale nucleare, con le corde degli strumenti talmente ribassate da andare creare una sorta di rombo sul quale si stagliano le urla belluine del vocalist Murtonen.
La cosa bizzarra è che, nelle note di accompagnamento, si parla anche di stoner rock ma, francamente, qui siamo di fronte ad un death sludge doom nel quali si annidano comunque decisive particelle di groove, elemento fondamentale per rendere ascoltabile quello che sarebbe altrimenti un’impietosa mannaia calata sulle teste degli ascoltatori.
Prendendo quale termine di paragone una band dall’approccio per certi versi simile come i Primituive Man, infatti, notiamo come i Coughdust riescano a sfuggire alla ferocia monolitica esibita dagli statunitensi proprio grazie ad un idea melodica che resta molto sullo sfondo ma è ugualmente presente, quasi fosse un carattere ereditario recessivo.
Parlare dei singoli brani serve a poco, tanto dall’incipit di Serpents of the Earth fino all’ultima nota di Blind, Worldwrench esibisce l’impatto di un meteorite in grado di spostare di qualche grado l’asse di rotazione del pianeta. Basta e avanza se ci si vuole fare molto male …

Tracklist:
1. Serpents of the Earth
2. The Second Principle
3. Gripless
4. Worldwrench
5. Dead Calm
6. Blind

Line-up:
Peltokangas – Bass
Latva – Drums
Murtonen – Vocals
Hartikainen – Drums

COUGHDUST – Facebook

Forgotten Woods – The Curse of Mankind

I Forgotten Woods, nonostante la lenta e numericamente esigua produzione nel corso della loro carriera, non hanno fatto mancare la loro vicinanza a tutti gli amanti del black e del depressive che si rispettino, questa volta con la ristampa del capolavoro The Curse of Mankind.

C’è sempre un sano e più che giustificato timore reverenziale quando si parla dei Forgotten Woods, leggende nel vasto e difficile campo del depressive black metal ma che hanno sempre avuto un’attitudine verso il black vero e proprio, finendo a congiungere magistralmente i due generi, che pure sono già l’uno parte dell’altro.

Cogliamo l’occasione del remaster del secondo dei loro tre album, lo storico The Curse of Mankind, datato 1996, per tornare a parlare della band norvegese, una delle poche ancora rimaste legate alla propria essenza originaria, e che non sente il bisogno di produrre una quantità smisurata di album per soddisfare la sete dei fan, che pure c’è ed è ovviamente legittima. D’altronde, i Forgotten Woods hanno battuto l’ultimo vero e proprio colpo con Race of Cain, nel 2007. Il tempo passa in fretta, si sa, ma non per The Curse of Mankind, che dopo quasi ventidue anni ha ancora una fortissima presa emotiva sui “seguaci” della band.
Proprio per questo, in questa ristampa ogni tratto distintivo a livello musicale è stato lasciato intatto, e gli accorgimenti approntati da Rune Vedda sono pochissimi. Ciò che contava era mandare un messaggio a chi avesse nostalgia dei tempi andati, anche se tutto sono fuorché tali, apparendoci quanto mai attuali.

Tracklist
1. Overmotets Pris
2. My Scars Hold Your Dreams
3. The Starlit Waters I, The Mountain
4. With Swans I’ll Share My Thirst
5. Den Ansiktslose
6. The Velvet Room

Line-up
Olav Berland – Guitars, Drums
Rune Vedaa – Bass, Lyrics
Thomas Torkelsen – Vocals (lead)
Rune Jamne – Vocals (additional)

Deeper Down – The Last Dream Arms

Tra le trame di The Last Dream Arms si torna a respirare l’eleganza tragica e poetica del gothic/doom, con brani che si colorano di un arcobaleno dalle tinte scure che dal nero portano al grigio, creando una spessa coltre di nebbia che nasconde romantici giochi di luci ed ombre.

E’ un piacere notare come, dopo anni di predominio della parte più sinfonica e power del gothic metal, ultimamente si tornino a percorrere le strade tracciate dai gruppi storici che, nei primi anni novanta, presero a spallate il mercato con una serie di oscuri e melanconici lavori che univano atmosfere dark/gothic con la pesantezza del doom/death metal.

Dal Regno Unito ai Paesi Bassi, con qualche passaggio ancora più a nord, ma ancora lontani dal boom dei gruppi scandinavi trainati dal successo dei Nightwish, la scena di allora ha influenzato una moltitudine di band in ogni parte del mondo, tornando in questo periodo con nuove realtà e lavori bellissimi come The Last Dream Arms, debutto dei nostrani Deeper Down (monicker che ricorda l’ep dei My Dying Bride uscito nel 2006).
Il quartetto proveniente da Campobasso arriva a pubblicare il suo primo lavoro dopo qualche anno dalla nascita, alcuni assestamenti nella line up e la firma per Hellbones Records, che licenzia questo intenso tributo alla sposa morente: non c’è niente di male se il gruppo molisano guarda alla band britannica come sua primaria fonte di ispirazione, aggiungendovi l’eterea voce di Elisa e proponendoci sei brani di malinconico gothic metal, mantenendo la presenza della voce maschile, del piano ed del violino che rimembrano le trame dark di Stainthorpe e soci così come, in parte, dei primi Katatonia.
Tra le note di The Last Dream Arms si torna a respirare l’eleganza tragica e poetica del gothic/doom, con brani che si colorano di un arcobaleno dalle tinte scure che dal nero portano al grigio, creando una spessa coltre di nebbia che nasconde romantici giochi di luci ed ombre, mentre The Night Descends ci accompagna sulle vie disseminate atmosfere  soffuse, oppure tormentate dalla potenza sofferta del doom metal in The Time Road e nella title track.
The Persistence Of Memory, strumentale che avvolge l’ascoltatore nelle ombre di Anathema e Katatonia, chiude questo ottimo lavoro consigliato ai fans dei gruppi citati e agli amanti del gothic meno sinfonico e molto più raffinato e sofferto.

Tracklist
1.The Night Descends
2.The Time Road
3.The Last Dream Arms
4.Silence Kills
5.The Game of Shadows
6.The Persistence of Memory

Line-up
Giuseppe – Vocals, electric and acoustic guitar, piano, synt, drums, all music and lyrics
Luca – Rhythm & clean guitar
Alessandro – Violin
Elisa – Vocals
Roberto – Bass

DEEPER DOWN – Facebook

Rapture – Paroxysm Of Hatred

Giovani, ma con una personalità da vecchi demoni, i Rapture ci consegnano un lavoro che non mancherà di soddisfare i thrashers old school di tendenza slayerana e con più di un orecchio alle opere di Possessed, Venom e della parte più estrema del genere nel periodo ottantiano.

Death/thrash che sputa puro odio e violenza, con un sound che partendo da una base thrash old school si potenzia di cattiveria death per un risultato annichilente: questo è Paroxysm Of Hatred, nuovo lavoro dei greci Rapture, secondo full length dopo Crimes Against Humanity, uscito nel 2015, ed una manciata di ep.

Il quartetto proveniente dalla capitale ellenica non si risparmia e parte veloce e cattivo come pochi, rifilando una serie di mitragliate per una quarantina di minuti senza soluzione di continuità: questo è un death/thrash vecchia scuola che  molto deve ai primi Slayer, ma che si ricopre di una discreta gloria con questi otto brani spietati e assassini.
Odio, misantropia, orrore, guerra e morte, descritte con l’aiuto di un metal feroce ed aggressivo, suonato bene e prodotto quel tanto che basta per arrivare in fondo all’ascolto senza problemi (una virtù non da poco per il genere).
I Rapture ci sanno fare, interpretano la musica estrema con attitudine e quell’impatto necessario per convincere lungo tutto l’ascolto dell’album che forma, nella sua interezza, un assalto sonoro devastante.
Giovani, ma con una personalità da vecchi demoni, i Rapture ci consegnano un lavoro che non mancherà di soddisfare i thrashers old school appunto di tendenza slayerana e con più di un orecchio alle opere di Possessed, Venom e della parte più estrema del genere nel periodo ottantiano.

Tracklist
1.Thriving on Atrocity
2.Vanishing Innocence
3.Redemption Through Isolation
4.Paroxysm of Hatred: Procreation
5.Misanthropic Outburst
6.Taken by Apathy
7.Quintessence of Lunacy
8.Paroxysm of Hatred: Revelation

Line-up
Stamatis Petrou – Bass
Nikitas Melios – Guitars
Apostolos Papadimitriou – Guitars, Vocals
Giorgos Melios – Drums

RAPTURE – Facebook

Lloth – Athanati

In Athanati, i Lloth antepongono a tutto un’emotività che si percepisce ad ogni nota, nonostante il dolore venga esplicitato tramite un sound robusto e spesso rabbioso, per quanto ammantato senza soluzione di continuità da un afflato melodico in grado di fare la differenza.

La storia dei Lloth è legata a stretto filo con quella delle Astarte, la band con la quale brillò fulgida la stella di Maria Tristessa Kolokouri prima che gli dei dell’Olimpo decidessero di richiamarla al loro cospetto.

Questo è infatti l’iniziale monicker che una delle prime band estreme interamente al femminile utilizzò prima di quello che la fece poi conoscere agli appassionati più attenti: non a caso i Lloth sarebbero dovuti rinascere parallelamente alle Astarte, se non fosse arrivata la malattia a interrompere bruscamente un progetto volto a sviluppare ulteriormente il black death melodico di tipica matrice mediterranea.
In ossequio alla memoria di Maria i riformati Lloth hanno pubblicato lo scorso anno questo Athanati (immortale, in greco) e, guidati dal marito della musicista Nicolas Sic Maiis, sono riusciti a dar vita a cinquanta minuti di musica magnifica, intensa ed emozionante, come spesso accade quando la vis compositiva si nutre delle avversità e del tentativo di elaborare i lutti per trasformare il dolore in una forma artistica dall’impatto dirompente.
Nel fare ammenda per l’aver ascoltato Athanati solo oggi, a sei mesi dalla sua uscita, non posso fare a meno di dire che un lavoro di tale spessore non ha avuto il risalto che avrebbe meritato; davvero strano, visto che il black death melodico costruito dai Lloth è quanto di più trascinante e coinvolgente sia stato dato ascoltare negli ultimi anni, grazie ad una formula che, partendo dalle basi poste da band come Moonspell e, ovviamente, Rotting Christ e Nightfall, ne incrementa la componente epica del sound innestandovi quel senso melodico che è marchio di fabbrica delle band dell’Europa meridionale.
Ma, come sempre, le parole rischiano essere riduttive per un lavoro che non molla mai la presa, baciato com’è da un songwriting eccellente e da un’esecuzione strumentale lineare quanto impeccabile, con il growl profondo di Nicolas Sic Maiis a condurre le danze, aiutato in alcune tracce da numi tutelari della scena metal ellenica come Efthimis Karadimas, in In the Name of Love (Sacrifice), e Sakis Tolis, in Hell (Is a Place on Earth), senza dimenticare i vocalizzi offerti in Tristessa da Androniki Skoula, cantante dei Chaostar di Christos Antoniou.
Athanati offre una serie di brani splendidi, tra i quali si farebbe fatica ad estrarre dal mazzo un potenziale singolo solo per l’imbarazzo della scelta tra la title track (che trae linfa da Alma Mater dei Moonspell), Born Of Sin (per quel che vale la mia preferita) con una melodia chitarristica pressoché indimenticabile, In the Name of Love (Sacrifice), ultima traccia composta da Maria e che nell’interpretazione congiunta di Nicolas ed Efthimis finisce per renderne ancora tangibile la presenza tra di noi, Empitness (e non poteva essere diversamente con il già citato contributo di Sakis) e il conclusivo epico inno intitolato I (Dead Inside).
E se Pan,  Alles in Black e Hell (Is a Place on Earth) sono comunque bellissimi pezzi, che magari restano solo un pizzico meno agganciati alla memoria rispetto a quelli citati, vanno segnalati ancora due episodi importanti nell’economia dell’album per il loro significato intrinseco, come Archos, dedicata al figlio della coppia, dai ritmi più rallentati ed avvolgenti, ed il poetico intermezzo acustico di Tristessa.
Athanati potrà anche difettare in originalità, perché l’influenza di Rotting Christ e Nightfall è percepibile, non solo per l’imprimatur fornito all’album dai rispettivi leader, però la grandezza dei Lloth sta proprio nel far passare questo aspetto in secondo piano, anteponendo a tutto un’emotività che si percepisce ad ogni nota, nonostante il dolore venga esplicitato tramite un sound robusto e spesso rabbioso, per quanto ammantato senza soluzione di continuità da un afflato melodico in grado di fare la differenza.
Questo è un album stupendo, che lascia quale unico interrogativo quello sulla capacità dei Lloth di esprimersi nuovamente in futuro su questi livelli, quando potrebbero essere chiamati a dover comporre un’opera il cui significato non vada, come in questo caso, oltre quello prettamente musicale, anche se mi sento di scommettere sul fatto che Maria continuerà a lungo e con gli stessi esiti a fungere da Musa ispiratrice della band.

Tracklist:
1. Athanati
2. Archos
3. Pan
4. Born in Sin
5. In the Name of Love (Sacrifice)
6. Alles in Black
7. Hell (Is a Place on Earth)
8. Emptiness
9. Tristessa
10. I (Dead Inside)

Line-up:
Panthimis – Bass
Setesh – Guitars
Vaelor – Guitars
Nicolas Sic Maiis – Vocals

Guests:
Foivos Andriopoulos – Drums
Efthimis Karadimas – Vocals (additional) (track 5)
Sakis Tolis – Vocals (additional) (track 7)
Androniki Skoula – Vocals (additional) (track 9)

LLOTH – Facebook

Unshine – Astrala

Misticismo, ricordi di umanità diversa da quella attuale e con ben altre prerogative, ci fanno immergere dentro questo suono, ricercando qualcosa che possiamo far scaturire dal nostro interiore se lo vogliamo e se troviamo il giusto innesco: Astrala è perfetto per questo, oltre che essere un buon disco di metal.

Gli Unshine sono una band gothic metal a voce femminile proveniente dalla terra promessa del metal chiamata Finlandia.

Attivi dal 2000, Astrala è il loro quarto album sulla lunga distanza; gli Unshine possono essere definiti un gruppo gothic metal, ma c’è molto di più nella loro musica: il loro è uno spirito che parte dal gothic ma con una forte componente epica e fa capolino anche un po’ di folk. Gli Unshine fanno musica al cento per cento finlandese, guidati dalla bellissima voce di Susanna Vesilahti che riesce sempre a trovare il registro giusto per tutte le occasioni, in grande armonia con la parte strumentale. Gli Unshine sono un gruppo metal a tutto tondo, con le idee molto chiare e capaci di produrre dischi molto ben definiti e dalla forte personalità. Dentro Astrala ci sono momenti più veloci ed alcuni maggiormente lenti dalla grande epicità. La loro epica è di ricordo e narrazione di una Finlandia altra, diversa da quella attuale, facente parte di un mondo nel quale la magia e la spiritualità hanno un’importanza ben definita. Le storie degli Unshine sono vite di cose, persone ed entità, e la narrazione è giustamente epica anche grazie al sapiente uso delle tastiere che conferiscono un tono superiore alla musica. Gli Unshine non sono un gruppo prolifico, le loro uscite sono giustamente ben centellinate e diamo loro ragione perché la qualità di questi lavori è sempre alta ed appagante. Misticismo, ricordi di umanità diversa da quella attuale e con ben altre prerogative, ci fanno immergere dentro questo suono, ricercando qualcosa che possiamo far scaturire dal nostro interiore se lo vogliamo e se troviamo il giusto innesco: Astrala è perfetto per questo, oltre che essere un buon disco di metal.

Tracklist
01. Birch Of Fornjot
02. Kainun Kuningas
03. Jack’s Feast
04. The Masks Of Enchantment
05. Pan The One
06. Druids Are A-Coming
07. Slow Moving Creatures
08. Visionary’s Last Breath
09. Suo (Kantaa Ruumiit)
10. The Forest

Line-up
Susanna Vesilahti – vocals
Harri Hautala – guitar, synthesizer
Jari Hautala – guitar
Jukka “Stibe” Hantula – drums
Teemu “Teemal” Vähäkangas – bass

UNSHINE – Facebook

NONSUN – Black Snow Desert

Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.

Dopo circa due anni dalla sua prima uscita in autoproduzione, l’album d’esordio dei Nonsun viene pubblicato in formato cd e digitale dalla Cimmerian Shade Recordings ed in vinile dalla Dunk!Records. Per l’occasione riproponiamo la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes, anche perché vale la pena di riportare questo buonissimo lavoro all’attenzione di chi non lo avesse intercettato all’epoca.

Gli ucraini Nonsun di sicuro non si sono posti dei problemi legati alla commercializzazione del loro prodotto, nel momento di comporre l’album: se già il proporre un genere come uno sludge/drone/doom dai tratti sperimentali riduce all’osso il bacino dei potenziali ascoltatori, farlo con un doppio cd per una durata di circa un’ora e mezza equivale all’atto di piantare i chiodi su una bara in cui è stata rinchiusa ogni forma di possibile ammiccamento.
Il bello di tutto questo, però, è che il duo di Lviv riesce a mettere sul piatto un lavoro sicuramente mastodontico ma non pesante, nel senso che, fatta salva la sua natura, si rivela un ascolto impegnativo senza risultare noioso.
Del resto, uno stile musicale di questo tipo, se interpretato senza un minimo di variazioni sul tema, rischia di rimanere troppo indigesto a chiunque: Black Snow Desert non si riduce, quindi, ad una sequela interminabile di sequenze droniche ma offre anche abbondanti porzioni di sludge doom, disturbate e disturbanti quanto basta per attrarre fatalmente l’attenzione. Per assurdo, una lunghezza che potrebbe apparire quasi una forma di autolesionismo,  consente invece ai Nonsun di sviluppare ed esprimere in maniera più congrua quanto hanno da offrire.
Ben dosato ed equilibrato in tutte le sue componenti ed ottimamente eseguito dal polistrumentista Goatooth e dal batterista Alpha, Black Snow Desert è frutto di un talento compositivo che scongiura il ricorso a soluzioni sonore infinite e prive di alcuno sbocco.
Bravi pertanto i Nonsun nell’aggirare questo ostacolo, proponendosi con questo loro esordio su lunga (anzi, lunghissima …) distanza, come qualcosa in più di un semplice surrogato a Sunn O))), Earth e compagnia di sperimentatori.

Tracklist:
1.No Pity for the Beast, No Shelter for the Innocent
2.Ashes of Light, Demons of Justice
3.Peace of Decay, Joy of Collapse
4.Heart’s Heavy Burden
5.Observing the Absurd
6.Rest of Tragedy

Line-up:
Goatooth – guitars
Alpha – drums

NONSUN – Facebook