5 Star Grave – The Red Room

The Red Room è assolutamente da non perdere: travolgente, personale ed irriverente risulterà una vera bomba per chi ama i generi che vanno a creare questa miscela pericolosamente esplosiva.

A tratti irresistibile, il nuovo album dei 5 Star Grave lascia le sicure strade del thrash per inseguire quelle meno ovvie di una riuscita commistione tra thrash, rock ‘n’ roll e punk rock e che, viste le tematiche, potremmo definire horror metal/rock ‘n’ roll.

Licenziato dalla Sliptrick Records, The Red Room è il terzo lavoro di una band che nel 2018 compie dieci anni di attività con l’attuale monicker (precedentemente Ground Zero), avendo all’attivo due full length (Corpse Breed Syndrome e Drugstore Hell) e potendo contare sulla presenza nel ruolo di vocalist di Claudio Ravinale, conosciuto per la sua militanza negli ottimi Disarmonia Mundi.
The Red Room non lascia tregua, è tutto un susseguirsi di riff travolgenti che sanno di hard rock, si trasformano in veloci cavalcate thrash ma non perdono assolutamente quell’irriverenza punk rock (o rock ‘n’ roll se preferite) che ne determinano la riuscita ed il travolgente appeal.
Non c’è scampo, le natiche cominciano a vibrare, la testa a prendere di mira il muro per poi rompersi tra la polvere dell’intonaco, mentre l’opener Hic Sunt The Motherfuckers risveglia dal lungo letargo mostri, vampiri e zombie e l’unica nostra alternativa è scappare per non finire in mano alle truppe della notte.
Once Upon A Time fa venire voglia di dimenarsi sopra una tomba mentre Alice esce dalla cripta e ci invita alla danza sfrenata guardando negli occhi del mostro.
Hell On Heels sembra mollare leggermente il tiro con il suo acustico ricamo, ma è un attimo perché il brano si trasforma in un mid tempo che richiama, in un unico brano, The Cult, Misfits e AC/DC.
For Better Or Worse è una deflagrazione thrash/punk e There Is No Heaven, con la sua atmosfera dark, rompe l’incantesimo ed invita tutti a tornare nelle proprie cripte, catacombe e casse brulicanti di vermi.
The Red Room è assolutamente da non perdere: travolgente, personale ed irriverente risulterà una vera bomba per chi ama i generi che vanno a creare questa miscela pericolosamente esplosiva.

Tracklist
1.Hic Sunt The Motherfuckers
2.Eat You Alive
3.Once Upon A Time
4.The Ballad Of The Vampire
5.Alice
6.Through The Eyes Of The Monster
7.He Never Died
8.Hell On Heels
9.For Better Or Worse
10.There Is No Heaven

Line-up
Claudio Ravinale – vocals
Andrea Minolfi – bass, vocals
Thierry Bertone – guitars
Alessandro Blengino – guitars
Hervè De Zulian – synth
Domenico Fazzar – drums

URL Facebook
https://www.facebook.com/5SGOfficial

Row Of Ashes – Let The Long Night Fade

Let The Long Night Fade è un album con il quale si può faticare ad entrare in sintonia ma, allorché ciò accade, avendo l’accortezza di non limitarsi ad un approccio frettoloso, si squarcia improvvisamente il velo su una band poco convenzionale e dal potenziale non ancora del tutto espresso in questo lavoro.

Gli inglesi Row Of Ashes appartengono alla notevole scuderia della Third I Rex, etichetta che propone con buona regolarità band appartenenti ad una cerchia che abbraccia, approssimativamente, generi come black, doom e post metal, il tutto offerto in forme mai scontate.

Questo gruppo londinese, al proprio primo passo su lunga distanza, non fa eccezione rispetto a queste buone abitudini, con un album come Let The Long Night Fade che non può certo lasciare indifferenti.
Indubbiamente l’elemento che rende peculiare l’operato dei Row Of Ashes è la voce di Eliza Gregory, non tanto per questioni di genere bensì per l’intensità a tratti esasperata che la ragazza mette nella propria interpretazione: da toni carezzevoli e timbriche quasi adolescenziali (Let The Long Night Fade e 2.5907786999999987 55.6852689) si passa senza soluzione di continuità ad urla belluine capaci di esprimere una rabbia che ha poco da invidiare ai migliori interpreti del settore.
La band ne asseconda l’operato con un approccio molto essenziale e ruvido, anche quando i ritmi si placano come nei due brani citati, mantenendo sempre sotto traccia una tensione palpabile pronta ad esplodere quando il wattaggio si incrementa: in questi casi il tutto viene espresso con uno sludge hardcore dissonante (The Hunt And The Herd, Dual Wounds) oppure lasciando qualche spazio a barlumi melodici (Descending, Mass Strandings).
Let The Long Night Fade è un album con il quale si può faticare ad entrare in sintonia ma, allorché ciò accade, avendo l’accortezza di non limitarsi ad un approccio frettoloso, si squarcia improvvisamente il velo su una band poco convenzionale e dal potenziale non ancora del tutto espresso in questo lavoro, a tratti convulso ma dall’enorme carico di inquietudine.
La conclusiva False Teeth racchiude efficacemente entrambe le anime dei Row Of Ashes, con la furia che monta lentamente come l’onda di un mare che da calmo si fa tempestoso, e quando questo avviene è ormai troppo tardi per mettersi in salvo.

Tracklist:
1.Let The Long Night Fade
2.The Hunt And The Herd
3.Gravesend
4.Descending
5.2.5907786999999987 55.6852689
6.Mass Strandings
7.Dual Wounds
8.False Teeth

Line-up:
Will Turner-Duffin – Guitar
Eliza Gregory – Vocals/Lyrics
Dan Arrowsmith – Drums
Chris Wilson – Bass

ROW OF ASHES – Facebook

Suicidal Causticity – The Human Touch

La scena estrema nazionale è assolutamente da seguire e la conferma arriva da lavori come The Human Touch, quindi separatevi dall’esterofilia che vi opprime e fate la conoscenza con i Suicidal Causticity.

Ecco un’altra band italiana che nel metal estremo dice la sua alla grande, tanto che il suo secondo album intitolato The Human Touch prende a calci nel deretano molte produzioni estere anche più blasonate.

Nati più o meno sei anni fa, e con all’attivo il debutto The Spiritual Decline uscito nel 2013, i Suicidal Causticity, dopo varie vicissitudini e cambi in corsa nella formazione, ma anche tanti palchi solcati in compagnia di realtà nazionali e straniere, riesce a trovare un minimo di stabilità, rifinita dall’entrata in formazione di Edoardo Scali, ultimo importante tassello prima che The Human Touch veda la luce sotto l’ala dell’ Amputated Vein Records a metà di questo anno.
E l’album risulta una terribile mazzata brutal death, debitrice nei confronti della scena statunitense, ma in grado di trasmettere personalità e convinzione da gruppo di peso.
Prodotto benissimo, The Human Touch, pur nella sua inumana violenza, tipica del death metal più brutale e nel suo schema predefinito (l’alternanza di furiosi blast beat e veloci ripartenze con mid tempo pesantissimi) appare scorrevole e perfettamente in grado di intrattenere senza tirare la corda: i brani si riconoscono uno dall’altro e nel genere ciò risulta segno di maturità artistica ben consolidata, oltre a non scendere mai sotto un livello di violenza esecutiva che mantiene l’album nella parte più estrema del genere.
Una raccolta di brani che non lascia scampo (Estuary Abomination, Affluent of Woe, The Rates-Dead River Call), porta l’album verso un giudizio più che buono e la consapevolezza di avere di fronte un gruppo di alto livello.
La scena estrema nazionale è assolutamente da seguire e la conferma arriva da lavori come The Human Touch, quindi separatevi dall’esterofilia che vi opprime e fate la conoscenza con i Suicidal Causticity.

Tracklist
1. Diamond Grinder Spring
2. Estuary Abomination
3. Affluent of Woe
4. The Choral Brooke
5. The Rates – Full River Cry
6. The Rates – Dead River Call
7. Cascade of Mutilations
8. Chimaera Canal
9. Lynn

Line-up
Nikolas Gorgo Bruni – Vocals
Elia Murgia – Guitars
Edoardo Scali – Guitars
Dario Lastrucci – Bass guitars
Thomas Passanisi – Drums

SUICIDAL CAUSTICITY

Cardinals Folly – Deranged Pagan Sons

I Cardinals Folly producono di nuovo uno dei dischi dell’anno in ambito doom e heavy.

Dalla patria dei suoni estremi arriva questa gran band di doom classico, suonato un po’ più velocemente rispetto al canone.

I Cardinals Folly sono una sicurezza per gli amanti dei suoni più tenebrosi e lascivi, con riff che compiono cerchi perfetti, con il marchio di fabbrica del doom classico. Cambi di tempo, suoni granitici e momenti più lenti e tenebrosi, tutto il repertorio del doom classico specialmente quello anni ottanta ma anche molto di più. Sotto le ceneri dei Cardinals Folly cova molto di più, dato che è ben presente l’heavy metal specialmente nella sua variante NWOBHM, ma anche qualche momento tendente al black metal classico, il tutto fatto benissimo. Certamente la spina dorsale del disco è composta da un doom classico e monolitico, dei St.Vitus più veloci e penetranti, possessori di indubbio talento. Dischi come Deranged Pagan Sons danno sensazioni molto forti, e si fa ascoltare dall’inizio alla fine, perché le canzoni hanno molte cose dentro di loro. Questa coproduzione Nine Records e Argonauta Records è fino ad ora il loro punto più alto, ed è senza punti deboli, molto solido, ben suonato e ben prodotto. Le chitarre sono clamorose anche nei momenti più lenti e meditativi, dove esce il fortissimo legame con i Black Sabbath, ma è un punto di partenza perché poi i Cardinals Folly sviluppano musica da par loro, ed è un bellissimo sentire. Queste chitarre, con un suono molto doom classico e la voce forte, possente ma melodica che entra in questo modo sono davvero una gioia, e non solo per i palati fini del genere, ma anche per chi subisce il terribile fascino della musica tenebrosa, anche se non è facile spiegare l’amore per il doom, perché è una cosa da provare.
I Cardinals Folly producono di nuovo uno dei dischi dell’anno in ambito doom e heavy.

Tracklist
1.Worship Her Fire
2.Dionysian
3.Deranged Pagan Sons
4.The Island Where Time Stands Still
5.Three-Bladed Doom
6.Suicide Commando
7.I Belong In The Woods
8.Secret of the Runes

Line-up
Mikko Kääriäinen – bass, vocals
Juho Kilpelä – guitar
Joni Takkunen – drums

CARDINALS FOLLY – Facebook

PÄNZER – The Fatal Command

The Fatal Command non è un album qualsiasi, è la bibbia dell’hard & heavy tradotta nella lingua di Schmier, ovvero heavy thrash metal tripallico fornito da una band autrice di un a prova d’insieme da bucare montagne con la sola potenza degli strumenti.

Prendi una manciata di musicisti storici della scena heavy/thrash, mettili in una saletta con strumenti, carta e penna, e il disco è servito: potente, veloce, epico e melodico, tagliente come una katana ed assolutamente metallico come nella migliore tradizione del genere.

Pura goduria per le orecchie di un vecchietto cresciuto a pane e metal (ma non solo) e che quando si ritrova al cospetto di queste sonorità sgrana gli occhi, comincia a dimenarsi e la pelle accenna un colore verdognolo come un famoso super eroe della Marvel.
A proposito di super, con i Panzer siamo nella lunga lista dei super gruppi ed i protagonisti sono: Schmier (basso e voce) dei Destruction, Pontus Norgren (chitarra) in forza agli svedesi Hammerfall, Stefan Schwarzmann (batteria) ex di Accept, Helloween e Running Wild e V.O. Pulver (chitarra).
The Fatal Command non è un album qualsiasi, è la bibbia dell’hard & heavy tradotta nella lingua di Schmier, ovvero heavy thrash metal tripallico fornito da una band autrice di un a prova d’insieme da bucare montagne con la sola potenza degli strumenti.
Non un assolo che non si accompagni davanti allo specchio in un esaltante momento di ignoranza metallica alla massima potenza, non un brano che non abbia un riff, una ritmica o un chorus incalzante, questo è The Fatal Command e la sua track list che fin dall’opener Satan’s Hollow vi terrà inchiodati davanti allo specchio a scimmiottare pose da guitar heroes o ad urlare chorus, con pugno chiuso e fierezza che esplode da tutti i pori.
We Can Not Be Silenced, Afflicted, il mid tempo potentissimo di Skullbreaker, Mistaken ma dovrei nominare tutta la track list ben evidenziata sotto l’articolo: The Fatal Command è vietato ai deboli di cuore, tutti gli altri sono invitati alla battaglia metallica, parola di MetalEyes.

Tracklist
1. Satan’s Hollow
2. Fatal Command
3. We Can Not Be Silenced
4. I’ll Bring You The Night
5. Scorn And Hate
6. Afflicted
7. Skullbreaker
8. Bleeding Allies
9. The Decline (And The Downfall)
10. Mistaken
11. Promised Land

Line-up
Stefan Schwarzmann – Drums
Schmier – Bass, Vocals
Pontus Norgren – Guitars
V.O. Pulver – Guitars

PANZER – Facebook

Sons Of Apollo – Psychotic Symphony

I Sons Of Apollo hanno dato vita ad un album duro come l’acciaio, forgiato nell’olimpo e ricevuto dai noi mortali come dono dagli dei, drammatico, tragico, intenso ed oscuro come i nuvoloni che coprono in cielo la reggia dalla quale Zeus decide della sorte degli uomini.

Un intro orientaleggiante, fusa tra le trame dell’opener God Of The Sun, ci invita all’ascolto di questo bellissimo lavoro intitolato Psychotic Symphony, debutto del supergruppo Sons Of Apollo di cui fanno parte autentici mostri del pentagramma progressivo e metallico mondiale come Mike Portnoy alle pelli, Derek Sherinian alle tastiere, Billy Sheehan al basso, Ron “Bumblefoot” Thal alla chitarra ed Jeff Scott Soto dietro al microfono.

Non sappiamo attualmente se i Sons Of Apollo rimarranno un progetto estemporaneo o si trasformeranno in una band vera, ma alla luce di questa raccolta di brani si fa spazio in noi la speranza che questo inumano sodalizio artistico possa avere un seguito.
Psychotic Symphony è un lavoro straordinario per intensità, sagacia compositiva e la perfetta coesione tra l’elemento tecnico (qui ai massimi livelli) e quello emozionale.
I figli del dio greco, infatti, hanno dato vita ad un album duro come l’acciaio, forgiato nell’olimpo e ricevuto dai noi mortali come dono dagli dei, drammatico, tragico, intenso ed oscuro come i nuvoloni che coprono in cielo la reggia dalla quale Zeus decide della sorte degli uomini.
Un Soto stratosferico fa il fenomeno (e mette i brividi) su brani nati per stupire, ma lasciati nelle mani dell’emotività, dunque non mero esercizio di stile, ma spettacolare dispiegamento di mezzi per regalare musica metal fuori categoria.
Molto più vicina ai Symphony X che ai Dream Theater (tanto per fare due nomi scomodi), la musica dei Sons Of Apollo si può certo chiamare prog metal, dove metal sta per una forza dirompente, una tempesta di suoni nella quale i fulmini sono prodotti dalla chitarra di Thal, la pioggia ritmica incessante dalla coppia Portnoy/Sheehan, le trombe d’aria dagli intrecci tastieristici di Sherinian ed i tuoni da un Soto novello Zeus.
E allora perdetevi negli undici minuti della già citata God Of The Sun, monumentale brano d’apertura che ci scaraventa nella lotta intestina tra gli dei, mentre la diretta Coming Home conferma l’atmosfera battagliera dell’opera.
Labyrinth, la semi ballad Alive, la conclusiva, mastodontica e strumentale Opus Maximus (dall’inizio epic/doom) traccia che con l’opener risulta la coppia d’assi di Psychotic Symphony, ribadiscono il valore di un lavoro da non perdere assolutamente se siete amanti del metal progressivo.

Tracklist
1 God of The Sun
2 Coming Home
3 Signs of The Time
4 Labyrinth
5 Alive
6 Lost In Oblivion
7 Figaro’s Whore
8 Divine Addiction
9 Opus Maximus

Line-up
Mike Portnoy – drums and vocals
Derek Sherinian – keyboards
Billy Sheehan – bass
Ron “Bumblefoot” Thal – guitar and vocals
Jeff Scott Soto – vocals

SONS OF APOLLO – Facebook

Mork – Eremittens Dal

Eremittens Dal non può essere considerato fondamentale ma neppure derubricato come rappresentazione esclusivamente derivativa: aderente ai codici del genere forse anche più degli stessi padri fondatori, Mork è la fotografia in bianco e nero di un genere che mantiene una sua funzione sia quando espresso tramite spinte innovative, sia quando chi lo suona si pone quale sorta di guardiano e garante della sua ortodossia.

Con il terzo lavoro targato Mork, progetto solista del norvegese Thomas Eriksen, il black metal torna alla casa natia riprendendo le sue sembianze originarie.

Il discorso si potrebbe anche chiudere qui, perché con tali premesse non è certo arduo intuire cosa ci si debba attendere da Eremittens Dal, resta solo da provare a capire quale valenza attribuire a un lavoro di questo tipo e se possa valere la pena di immergersi nel suo ascolto.
La risposta a quest’ultimo quesito è affermativa, perché a fronte di un’originalità pari a zero abbiamo anche a che fare con un musicista che conosce alla perfezione la materia ed opta per esibirne la forma più ortodossa, non per mera convenienza o scarsa ispirazione, ma esclusivamente perché è ciò che corrisponde al suo sentire.
Da tutto questo scaturisce un album a suo modo prevedibile, con un’alternanza regolare tra rallentamenti ed accelerazioni, ma con alcune tracce notevoli come la title track, intrisa da un’austera solennità, e Hedningens Spisse Brodder e Forsteinet I Hat, trascinanti episodi in quota Darkthrone.
Eremittens Dal non può essere considerato fondamentale ma neppure derubricato come rappresentazione esclusivamente derivativa: aderente ai codici del genere forse anche più degli stessi padri fondatori, Mork è la fotografia in bianco e nero di un genere che mantiene una sua funzione sia quando espresso tramite spinte innovative, sia quando chi lo suona si pone quale sorta di guardiano e garante della sua ortodossia.
Tutto ciò finisce per erigere un muro difficilmente valicabile all’interno della cerchia dei potenziali fruitori, collocando da un lato chi accetta l’esistenza del black metal solo se pervaso da spinte avanguardiste o sperimentali, e dall’altra chi ritiene che il compito del genere sia quello di veicolare senza mediazioni il senso di misantropica malinconia che è comune a chi lo suona e a chi lo ascolta: personalmente mi colloco da quest’ultima parte, e ciò mi fa apprezzare non poco l’operato di Thomas Eriksen.

Tracklist:
1. Hedningens Spisse Brodder
2. Holdere Av Fortet
3. Forsteinet I Hat
4. Eremittens Dal
5. I Hornenes Bilde
6. Likfølget
7. Et Rike I Nord
8. I Enden Av Tauet
9. Mørkets Alter
10. Gravøl

Line-up:
Thomas Eriksen

MORK – Facebook

Across The Atlantic – Works Of Progress

Il pop punk in questa maniera lo sanno fare solamente in America, ed è un qualcosa che va fortissimo nelle radio punk e metal, specialmente quelle del circuito dei college.

Gli Across The Atlantic vengono fuori dal tumultuoso underground texano, e più precisamente da San Antonio.

La loro proposta musicale è un pop punk con spruzzate di post hardcore, con molta energia e rivolto principalmente ad un pubblico giovanile. Le linee melodiche di Works Of Progress tengono molto bene e il disco scorre facilmente, con ritornelli e stacchi che rimangono in testa, e con un gran sapore di dolcezza. Il pop punk in questa maniera lo sanno fare solamente in America, ed è un qualcosa che va fortissimo nelle radio punk e metal, specialmente quelle del circuito dei college. Negli Across The Atlantic possiamo trovare oltre a tutto ciò anche una buona dose di post hardcore, specialmente nei giochi di rimando fra voce melodica e voce più grezza. La composizione del disco è di buon livello, i texani hanno già capito molto bene cosa può funzionare e cosa no, e dalla loro hanno una notevole energia. Questo lavoro piacerà a chi già segue questo genere e ha dimestichezza, e farà sicuramente nuovi proseliti per chi si avvicinerà a queste sonorità con questo disco. La Sharptone Records, sussidiaria della Nuclear Blast Records, sta costruendo un roster interessante di gruppi che spaziano dal metalcore al pop punk e post hardcore come appunto gli Across The Atlantic. Un disco come Works Of Progress mancava in questa carrellata, ed è anche figlio del gran lavoro che ha fatto per emergere questo gruppo che ha tutte le carte in regola per spiccare il volo.

Tracklist
1. Prelude
2. Playing For Keeps
3. Sundress Funeral
4. Cutting Corners
5. Chin Up
6. 24 Hours
7. Word of Mouth
8. Self (less)
9. Starting Over
10. Blind Eyes
11. Works Of Progress

Line-up
Jay Martinez- Vocals
Jason Lugo- Guitar
Julio Bautista- Guitar
Jayy Garza- Bass
Cody Cook- Drums

ACROSS THE ATLANTIC – Facebook

Jac Dalton – Powderkeg

Powderkeg è un buon lavoro, la voce del leader è sanguigna il giusto e le melodie sono perfettamente inserite in un contesto rock che non fa mancare una buona dose di grinta.

Jac Dalton è un singer americano trapiantato in Australia, Powderkeg è il suo terzo album uscito originariamente nel 2015 ma arrivato da noi solo quest’anno e ristampato in autoproduzione.

L’album segue di ben cinque anni, nella prima versione, il precedente Icarus album che aveva fatto conoscere Dalton agli amanti dell’ hard rock melodico.
Accompagnato da una band di tutto rispetto, Dalton è tornato ripresentando Powderkeg, opera scritta a quattro mani con il chitarrista e leader dei rockers Ice Tiger Graham Greene, anche se ad oggi la line up risulta rivoluzionata rispetto a quella protagonista sull’album.
Powderkeg risulta comunque un buon album di hard rock ottantiano, grintoso, melodico e composto da un lotto di buone canzoni tra Whitesnake era cotonata e il primo Bon Jovi.
Greene sembra abbia scritto più della metà dei brani e il sound mostra una vena improntata sulla sei corde tra hard rock melodico, ottime atmosfere nate nella polverosa frontiera (i Bon Jovi di Blaze Of Glory) e quel tocco di blues in un classic rock che rimanda al serpente bianco, quello che mordeva pulzelle tra le vie di Los Angeles.
Blow Me Away con un hard rock pregno di watt, l’irresistibile arena rock di Can’t Unrock Me, l’aor di Just Enough To Believe, primo pezzo da novanta di Powderkeg, così come la title track, che sembra scritta dal Coverdale in stato di grazia del best seller 1987 e One Heart/One Land, ballad dal sapore southern tra Bon Jovi ed i Poison di Every rose has its thorn.
Insomma cari amanti dell’ hard rock melodico ottantiano, Powderkeg è un buon lavoro, la voce del leader è sanguigna il giusto e le melodie sono perfettamente inserite in un contesto rock che non fa mancare una buona dose di grinta.

Tracklist
01. PowderKeg
02. Blow Me Away
03. Roll With The Punches
04. Sweet Emotion
05. Just Enough To Believe
06. HardCore SuperStar
07. Can’t UnRock Me
08. Let It Go
09. One Heart/One Land
10. When I’m Alone With You

Line Up
Jac Dalton – Vocals
Graham Greene – Guitars, B.vocals
Annemieke Heijne – Guitars, B.Vocals
Jim Awram – Bass
Troy Brazier – Drums
Jason Dohrmann – Keyboards, Bass, B.vocals
Donna Greene – Percussions, B.vocals

JAC DALTON – Facebook

Grave Pleasures – Motherblood

Motherblood è una perfetta ed ideale immersione nelle sempre gradite ed attuali sonorità del post punk/ dark wave: i Grave Pleasures riprendono tutto il meglio dell’epopea sviluppatasi nell’ultimo ventennio del secolo scorso e la restituisce con un piglio moderno ma non troppo, preservandone con cura le fondamentali linee guida.

Seconda uscita su lunga distanza per i Grave Pleasures, band anglo-finnica già conosciuta nei primi anni del decennio con il monicker Beastmilk.

Motherblood è una perfetta ed ideale immersione nelle sempre gradite ed attuali sonorità del post punk/ dark wave: la band guidata dal vocalist Mat McNerney riprende tutto il meglio dell’epopea sviluppatasi nell’ultimo ventennio del secolo scorso e la restituisce con un piglio moderno ma non troppo, preservandone con cura le fondamentali linee guida.
Motherblood è un viaggio in una macchina del tempo che non odora di stantio e i riferimenti più o meno marcati agli eroi dei primi anni ottanta (The Cure), ai successivi campioni della gothic wave (Sisters Of Mercy) e ai continuatori della specie in versione più pop (Echo & The Bunnymen), sopraggiungono sotto forma di una serie senza soluzione di continuità di potenziali hit che non lasciano tregua né lo spazio a considerazioni sulla freschezza o sull’opportunità di una simile proposta.
I Grave Pleasures propongono soprattutto, con grande maestria, quella forma canzone che certi odierni epigoni dell’epoca talvolta perdono di vista: l’impressione è che questo mix di musicisti dal diverso background (pensiamo solo che Juho Vanhanen, co-autore assieme al vocalist di gran parte del materiale, fa parte dei grandi Oranssi Pazuzu) abbia raggiunto l’ideale quadratura del cerchio con quest’album che regala musica allo stesso tempo cupa e ballabile, drammatica ed ariosa.
Arrivate alla quarta traccia, Joy Through Death, molte band avrebbero solo cercato di scrivere altrettanti brani con funzione di riempitivo, paghe di una tale espressione qualitativa: due bombe come Infatuation Overkill e Be My Hiroshima non si compongono né per caso né tutti i giorni, ma i Grave Pleasures offrono ancora una mezza dozzina di canzoni trascinanti tra le quali spiccano Mind Intruder e le conclusive Deadenders e Haunted Afterlife.
Non si deve commettere l’errore di pensare che l’approdo alla Century Media equivalga ad un’accentuazione commerciale dell’approccio dei nostri: ovviamente Motherblood è un album di notevole fruibilità, ma lo è solo per chi conserva dentro di sé quel seme oscuro gettato a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 e che non ha mai smesso di far germogliare le proprie funeste infiorescenze.
Del resto l’approccio alla materia dei Grave Pleasures si sorregge sull’equilibrio tra le varie componenti del sound, con le diverse anime che si intrecciano in un morboso abbraccio senza che l’una finisca mai per prevalere sull’altra; troppo spesso il post punk del nuovo secolo è caratterizzato da una grande attenzione per la forma che finisce per restituire un’oscurità solo di facciata: con i Grave Plesaures questo non accade e gli orfani delle grandi band ottantiane possono avvicinarsi a Motherblood con la certezza di vedere ampiamente ripagata lo loro fiducia.

Tracklist:
01. Infatuation Overkill
02. Doomsday Rainbows
03. Be My Hiroshima
04. Joy Through Death
05. Mind Intruder
06. Laughing Abyss
07. Falling For An Atom Bomb
08. Atomic Christ
09. Deadenders
10. Haunted Afterlife
11. There Are Powers At Work In This World

Line up:
Mat McNerney – Vocals
Juho Vanhanen – Guitars
Aleksi Kiiskilä – Guitars
Valtteri Arino – Bass
Rainer Tuomikanto – Drums

GRAVE PLEASURES – Facebook

Vessel Of Light – Vessel Of Light

Vessel Of Light è qualcosa di profondamente americano, con quel suono potente, chiaro e dal groove forte che ti tiene incollato allo stereo, grazie anche al notevole talento del duo.

A volte sembra che alcune cose o situazioni vengano fuori dal nulla, ma se si analizza maggiormente il tutto si nota che le strade tracciate in precedenza sarebbero confluite in un cammino comune.

Questo è il caso dei Vessel Of Light, un duo composto da Dan Lorenzo (già negli Hades, Non–Ficition, e The Cursed), e Nathan Opposition, cantante degli Ancient VVisdom, con i quali condividono l’etichetta Argonauta Records.
Tutto cominciò quando Dan Lorenzo scrisse un annuncio sulla rivista del New Jersey Steppin’Out, mettendosi in contatto con Nathan Opposition. Dan considerava fino a quel momento terminata la sua carriera di chitarrista, mentre Nathan lo considerava uno dei migliori architetti di riffs di chitarra in giro per il mondo. Così quando Nathan chiese a Dan di scrivere delle canzoni lui non potè rifiutare, ed ecco il risultato. Questo disco omonimo è un concentrato di maestosi giri doom di chitarra, con un cantato magnifico di Nathan Opposition. Vessel Of Light è qualcosa di profondamente americano, con quel suono potente, chiaro e dal groove forte che ti tiene incollato allo stereo, grazie anche al notevole talento del duo.
Le canzoni sono costruite con un andamento deciso e al contempo etereo, si viaggia con potenza, attingendo dalla tradizione americana di questo suono. Non ci sono pause o momenti di smarrimento, ma si ondeggia la testa per tutta la durata del disco, che è solido come una pietra che rotola e che sposta l’aria già prima di arrivare a destinazione. Vessel Of Light possiede un mojo doom blues che ne fa un’opera unica e lo fa ascoltare dall’inizio alla fine.
Strade fatte per incrociarsi e per diventare giganteschi vortici musicali.

Tracklist
01. “Where My Garden Grows”
02. “Dead Flesh And Bone”
03. “Meant To Be”
04. “Descend Into Death”
05. “Living Dead To The World”
06. “Vessel Of Light”

Line-up
Dan Lorenzo
Nathan Opposition

VESSEL OF LIGHT – Facebook

Darkfall – At The End Of Times

I Darkfall offrono furia metallica, estrema ed oscura, un lavoro chitarristico di buona presa e ritmiche che affondano gli artigli tanto nel thrash metal quanto nel più frenato ma potentissimo death.

Dalla splendida cittadina di Graz arrivano i Darkfall, entità estrema che si aggira per il territorio austriaco da metà anni novanta.

Pur con così tanti anni di attività il gruppo ha licenziato una manciata di lavori minori e un solo album sulla lunga distanza, quel Road To Redemption uscito quattro anni fa e che ora trova il suo degno successore con At The End Of Times, album composto da dieci bombe sonore sempre in bilico tra thrash metal e melodic death.
Il risultato non può che essere buono anche per via di un’ottima produzione ed un songwriting che non abbassa la guardia pur svolgendo il suo compito lungo cinquantadue minuti, non pochi per un lavoro del genere.
I Darkfall offrono furia metallica, estrema ed oscura, un lavoro chitarristico di buona presa e ritmiche che affondano gli artigli tanto nel thrash metal quanto nel più frenato ma potentissimo death, così da offrire un lavoro per tutti i gusti, anche se a mio parere più vicino ai palati dei fans del death melodico.
Soilwork ed At The Gates, oscurati da passaggi evil e veloci fraseggi thrash, questo è il riferimento proposto da brani come l’opener Ride Through The SkyThe Way Of Victory che, come suggerisce il titolo, porta con se un’atmosfera epica che ricorda gli Amon Amarth.
La lunga Ashes To The Gods, l’intro sinfonico e maligno di Welcome The Day You Die, sono più che fulgidi esempi della musica prodotta dal gruppo austriaco con questo At The End Of Time, album che si colloca tra le migliori uscite offerte dall’underground metal in questi ultimi mesi dell’anno, per quanto riguarda il genere.

Tracklist
01. Ride Through The Sky
02. The Breed Of Death
03. The Way Of Victory
04. Deathcult Debauchery
05. Ashes Of Dead Gods
06. Your God Is Dead
07. Blutgott
08. Welcome The Day You Die
09. Ash Nazg – One Ring
10. Land Of No Return MMXVII

Line-up
Thomas Spiwak – Vocals
Sascha Ulm – Guitars, Vocals
Stephan Stockreiter – Guitars
Markus Seethaler – Bass, Guitars
Thomas Kern – Drums

DARKFALL – Facebook

Suffer In Silence – Beautiful Lies

Un album intenso e coinvolgente nella suo essere estremo, suonato e cantato ottimamente da un Patrick Amati notevole dietro al microfono ed autore di un lavoro chitarristico di grande spessore.

La Sliptrick Records ci regala un altro ottimo lavoro tutto italiano, confermando l’ottimo fiuto in un po’ tutti i generi della grande famiglia metallica.

Con i Suffer In Silence si parla di devastante death metal con un uso perfetto delle melodie che non inficiano la resa brutale dell’opera.
Beautiful Lies è il terzo album di questa one man band capitanata dal polistrumentista Patrick Amati, aiutato alla batteria dal fido Filippo Cicoria ed in fase di produzione da Neil Grotti e Mat Lehmann degli storici Electrocution.
Un album intenso e coinvolgente nella suo essere estremo, suonato e cantato ottimamente da un Patrick Amati notevole dietro al microfono ed autore di un lavoro chitarristico di grande spessore.
Solos classici, chitarre acustiche spagnoleggianti, furia tempestosa in stile blackened death metal scandinavo, riff schiacciasassi ed un lavoro alle pelli da piovra, fanno di Beautiful Lies un lavoro sorprendente, con le canzoni che  passano una dietro l’altra senza il minimo intoppo, mentre la voglia di premere di nuovo il testo play a fine corsa è più che legittima.
Bellissime le parti acustiche che compaiono come spiriti malinconici tra il caos ragionato che Amati ha creato in brani, a tratti devastanti, come l’ opener Nostalgia, la splendida Eternal Slaves, solcata da una parte atmosferica creata dalle chitarre acustiche, mentre Lost è uno strumentale da brividi e la cover di The Four Horsemen chiude le ostilità e ci congeda da questo ottimo musicista e dal suo splendido lavoro.
Dark Tranquillity e Dissection sono stati sicuramente due dei maggiori ascolti nel passato di Patrick Amati, ma il sound di Beautiful Lies è molto di più di un riferimento a questi grandi nomi.

Tracklist
1.Nostalgia
2.Forced To Hate
3.Eternal Slaves
4.Live With No Tomorrow
5.S.I.S.
6.Lost
7.Zero Respect
8.Dreams Of Glory
9.The Four Horsemen

Line-up
Patrick Amati – Vocals, Guitars, Bass, Synth / Album Guest:
Filippo ‘Ciko’ Cicoria – Drums

SUFFER IN SILENCE – Facebook

Arabs In Aspic – Syndenes Magi

L’operato degli Arabs In Aspic appare sostanzialmente come un’oasi di purezza, una sorta di valicamento di un portale spazio temporale capace di far rivivere emozioni antiche.

Quando il monicker di una band contiene la parola “aspic” e il genere offerto è il progressive, scatta inevitabilmente l’associazione di idee con uno dei tanti capolavori dei King Crimson.

Se poi, fin dalle prime note della title track, non si fa nulla per nascondere la devozione per la creatura frippiana, con i primi cinque minuti che omaggiano brani come, appunto, Larks’ Tongues In Aspic, Pictures Of A City e Easy Money, in una maniera così esplicita da apparire per assurdo del tutto limpida ed onesta, è evidente che gli Arabs In Aspic riavvieranno il consueto ed irrisolto dibattito che verte sull’utilità o meno di riproporre sonorità la cui genesi risale, ormai, a quasi mezzo secolo fa.
In fondo, la vita dei musicisti che si dedicano oggi a questo genere non è facile, almeno in Italia: l’appassionato di vecchia data, salvo rare eccezioni, si è fermato nella migliore delle ipotesi alla fine degli anni ’70, rigettando a priori qualsiasi proposta proveniente da band di formazione recente e presenziando regolarmente i concerti dei pochi reduci rimasti o, piuttosto, quelli delle numerose (e spesso ottime, bisogna ammetterlo) cover band dei gruppi storici; chi è approdato all’ascolto del prog nel nuovo secolo, invece, è più probabile che possa apprezzare maggiormente un diverso approccio, prendendo come punto di riferimento gruppi che in qualche modo contaminano il genere con robuste iniezioni metalliche.
Ecco perché, paradossalmente, una riproposizione così fedele alla tradizione, come è quella offerta dalla band norvegese, merita il massimo rispetto, visto che dietro non ci può essere alcun calcolo di tipo commerciale ma, semmai, uno smisurato amore per quelle sonorità che cambiarono non poco la vita a chi nacque negli anni ‘50 e ‘60.
L’approccio alla materia degli Arabs In Aspic è rispettoso, competente e a tratti commovente: la title track, posta in apertura dell’album, come già detto, dissipa qualsiasi dubbio su quali possano essere i contenuti dell’album, con il suo veleggiare  spedito grazie alla spinta di possente vento crimsoniano.
Le altre due tracce che vanno a comporre la tracklist di Syndenes Magi si intitolano Mörket 2 e Mörket 3, si sviluppano complessivamente per circa mezz’ora e cambiano parzialmente le coordinate sonore, non tanto per un’ipotetica modernizzazione del sound ma, piuttosto, per il loro aprirsi alla ricerca di nuove fonti di ispirazione che, in particolare nelle parti chitarristiche e per l’approccio vocale, portano direttamente ai Pink Floyd.
A proposito della voce, i nostri decidono di utilizzare la lingua madre, scelta che potrà anche apparire opinabile visto che il norvegese non è certo idioma di grande musicalità, ma che in quest’occasione conferisce al tutto un minimo di peculiarità.
La lunga traccia di chiusura conferma tutto quanto ci si poteva prefigurare in base ai venti minuti di musica offerti in precedenza, offrendone altrettanti nei quali la qualità complessiva non scende mai sotto la soglia dell’eccellenza, al netto dei riferimenti espliciti che si palesano di volta in volta (i vocalizzi femminili sono per esempio un rimando ai Pink Floyd di The Great Gig In The Sky), che devono essere visti, appunto, come un rispettoso omaggio e non come una comoda scorciatoia compositiva.
Gli Arabs In Aspic, infatti, sono molto di più che degli abili copisti, e la loro forza è la grande coerenza, quella che in certi passaggi fa stentare a credere che Syndenes Magi sia stato pubblicato in un’epoca come quella odierna, nella quale la sensibilità ed il romanticismo sono sentimenti sempre più sopraffatti dalla protervia di un’umanità che prosegue inconsapevole la propria folle corsa verso il baratro.
Ecco, quindi, che l’operato degli Arabs In Aspic appare sostanzialmente come un’oasi di purezza, una sorta di valicamento di un portale spazio temporale capace di far rivivere emozioni antiche, provocando forse anche un po’ di nostalgia, mista al piacere di ritrovare ancora oggi qualcuno in grado di evocare quelle stesse sensazioni proponendo meritoriamente musica scritta di proprio pugno.

Tracklist:
1.Syndenes magi
2.Mörket 2
3.Mörket 3

Line up:
Jostein Smeby: Guitars, Vocals
Stig Jørgensen: Keyboards, Organs
Erik Paulsen: Bass, Vocals
Eskil Nyhus: Drums

ARABS IN ASPIC – Facebook

Hourswill – Harm Full Embrace

In questi anni che hanno visto il prog metal allargare i suoi orizzonti facendovi confluire gruppi dal sound vario e moderno, gli Hourswill confermano il loro valore potendo sicuramente essere considerate tra le band, per così dire, tradizionali, pur aderendo ad di un tipo di musica aperto ad ogni tipo di approccio ed influenza.

Fortunatamente non si sono persi nei meandri dell’underground europeo i portoghesi Hourswill, usciti tre anni fa sotto l’ala della Ethereal Sound Works con Inevitable, debutto sulla lunga distanza in cui la band proponeva un prog metal debitore dei soliti mostri sacri del genere, ma comunque piacevole e ben suonato.

Tornano quindi con il nuovo album, qualche aggiustamento nella formazione ed un sound che si è fatto più personale, ed estremo, guardando alla scena statunitense con le influenze che spaziano dai Nevermore ai Dream Theater e a quella scandinava di Morgana Lefay e Tad Morose: Harm Full Embrace ci presentatra l’altro il nuovo vocalist Leonel Silva, grintoso e molto interpretativo, sulla scia di Warrel Dane. .
Quello che gli Hourswill  perdono in potenza lo ritrovano nelle melodie progressive, confermando la loro padronanza della materia, esibita con una tecnica sufficiente per ricamare buoni cambi di tempo e solos e nel saper tenere ben salde le briglie di un genere che può portare ad esagerare, smarrendo facilmente la forma canzone.
Gli Hourswill non le mandano certo a dire ed anche questo secondo lavoro mantiene un approccio molto heavy:  brani come l’opener Children Of The Void, Liberty Theory e la notevole Everyday Sage mostrano un buon feeling con il genere e una serie di intuizioni che ne fanno un tris di tracce coinvolgenti, oscure e tragicamente teatrali.
In questi anni che hanno visto il prog metal allargare i suoi orizzonti facendovi confluire gruppi dal sound vario e moderno, gli Hourswill confermano il loro valore potendo sicuramente essere considerate tra le band, per così dire, tradizionali, pur aderendo ad di un tipo di musica aperto ad ogni tipo di approccio ed influenza.

Tracklist
1.Children of the Void
2.Blinding Light
3.Mass Insanity
4.Liberty Theory
5.Everyday Sage
6.Social Disease
7.At Harms Embrace
8.Abyss Syndrome

Line-up
Rodrigo Louraço – Guitars
Leonel Silva – Vocals
Pedro Costa – Bass
Nuno Peixoto – Drums
José Bonito – Guitars

HOURSWILL

Night – Raft Of The World

Raft Of The World è un album godibile specialmente se gli ‘anta li avete passati da un pezzo, essendo composto da un lotto di brani che è una specie di passeggiata tra la fine degli anni settanta e l’entrata nel decennio d’oro per la nostra musica preferita.

Attivi dal 2011 arrivano al terzo full length i Night, band svedese della quale vi avevamo già parlato sulle pagine metalliche di InYourEyes.

Sei anni e tre lavori, non male di questi tempi, con il nuovo Raft Of The World che sposta leggermente il sound del gruppo verso un hard & heavy vecchia scuola: del sound dei Night rimane dunque la forte impronta tradizionale a rimarcare la voglia di classico delle nuove generazioni metalliche, di cui questi svedesi fanno sicuramente parte.
Non più o non solo heavy metal maideniano è quello che troviamo nelle trame dei brani di questo nuovo lavoro, ma un’ispirazione più concentrata sul finire degli anni settanta e su band classic hard rock come Thin Lizzy e UFO.
Nel frattempo il cambio di etichetta ed il numero dei componenti portato a quattro sono le altre novità che Raft Of The World regala a coloro ai quali non sono sfuggiti i precedenti album, vintage e classici come impone la tendenza di questo periodo.
Così, lasciata indietro l’influenza new wave of british heavy metal per un hard & heavy classico e molto melodico, i Night si ripresentano in buona forma, complice un buon songwriting e tanta melodia in brani di rock duro e maturo, dove la band più che ricercare il chorus vincente si concentra sulle ritmiche e su un lavoro chitarristico di scuola UFO, molto ben congegnato.
Raft Of The World è un album godibile, specialmente se gli anta li avete passati da un pezzo, composto da un lotto di brani che, dall’opener Fire Across The Sky in poi, è una specie di passeggiata tra la fine degli anni settanta e l’entrata nel decennio d’oro per la nostra musica preferita.

Tracklist
1.Fire Across the Sky
2.Surrender
3.Under the Gallows
4.Omberg
5.Time
6.Strike of Lightning
7.Winds
8.Coin in a Fountain
9.Where Silence Awaits

Line-up
Highway Filip – Bass, Guitars
Burning Fire – Vocals, Guitars
Joseph Max – Bass
Dennis Skoglund – Drums

URL Facebook
https://www.facebook.com/nightbandofficial/

Arckanum – Den Förstfödde

Den Förstfödde chiude degnamente una parabola artistica lunga e qualitativa, e non si sa se il termine di un ciclo possa essere propedeutico all’inizio di un’altra stimolante vicenda musicale; vada come vada, resta solo da attribuire il doveroso plauso a Shamaatae per quanto offerto in tutti questi anni.

Nono full length per Shamaatae e la sua creatura Arckanum, un traguardo importante ed ulteriore tassello posto in quasi un quarto di secolo di storia.

Il musicista svedese ha trovato il suo momento di massimo fulgore nello scorso decennio, in particolare con un album eccellente come ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ, nel quale era riuscito a mettere insieme una sequenza di brani trascinanti con il loro connubio tra la ruvidezza del black e le incisive linee melodiche.
Den Förstfödde dovrebbe essere, secondo quanto dichiarato dallo stesso Shamaatae, l’ultimo atto targato Arckanum e, pur con un certo dispiacere per tale decisione, è innegabile che migliore epilogo non ci sarebbe potuto  essere.
L’album, che liricamente continua a sviscerare un immaginario pagano ed occulto, con riferimenti ampi e mai banali all’affascinante mitologia nordica, mostra una freschezza compositiva che era venuta leggermente meno in lavori come Sviga læ, Helvítismyrkr e Fenris kindir, ai quali sono seguiti quattro anni di silenzio interrotto, appunto, da Den Förstfödde.
La title track apre il lavoro in maniera impressionante, rivelandosi quale sorta di colonna sonora di un arcaico rituale pagano che poi sfocia in un finale pesantemente intriso di doom psichedelico; da ciò si può già intuire che questi tre quarti d’ora non saranno basati esclusivamente sull’ortodossia black metal, ma lasceranno sfogare diversi rivoli creativi di Shamaatae, anche se, dopo l’intenso strumentale Nedom Etterböljorna, si torna ai fasti di ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ con l’inarrestabile crescendo di Likt Utgårds Himmel, primo dei quattro brani che vedono, proprio come avvenne anche in quell’album, il fondamentale contributo chitarristico di Set Teitan (già nei Dissection e negli Aborym, oltre chitarrista live dei Watain), nostro connazionale ma ormai svedese d’adozione.
Ofjättrad, canzone dotata di un chorus micidiale, incrementa il valore ed il pathos del disco nel quale l’inquieto  intermezzo Ginnmors Drott prepara il terreno alla deflagrante Låt Fjalarr Gala, altra traccia killer di un album che si avvia purtroppo verso la fine a grandi passi, prima con il disturbato black’n’roll di Du Grymme Smed e poi con l’epico incedere della lunga traccia Kittelns Beska, suggello conclusivo dell’opera e (salvo ripensamenti da parte di Johan “Shamaatae” Lahger) di una storia musicale come quella degli Arckanum, nome fondamentale per lo sviluppo della scena black metal svedese, nonostante non abbia mai raggiunto, anche a causa di una minore esposizione mediatica derivante dalla sua natura di one man band, la fama di gruppi quali Dark Funeral, Marduk e Watain, senza tenere conto ovviamente degli inarrivabili Dissection.
Den Förstfödde chiude degnamente una parabola artistica lunga e qualitativa, e non è dato sapere se il termine di un ciclo possa essere propedeutico all’inizio di un’altra stimolante vicenda musicale; vada come vada, resta solo da attribuire il doveroso plauso a Shamaatae per quanto offerto in tutti questi anni.

Tracklist:
1. Den Förstfödde
2. Nedom Etterböljorna
3. Likt Utgårds Himmel
4. Ofjättrad
5. Ginnmors Drott
6. Låt Fjalarr Gala
7. Du Grymme Smed
8. Kittelns Beska

Line-up:
Shamaatae

Guests:
Set Teitan – Guitar in 3. 4. 6. 7.
Darby Laghe – Birch Trumpet in 8.
Ljuder Stefan Westberg – Violin in 5.

ARCKANUM – Facebook/

Demon Eye – Prophecies And Lies

Le tracce che compongono l’album non sono mai troppo doom o troppo psichedeliche, la potenza è bilanciata e l’hard rock vintage comanda le operazioni così da mantenere una linea per tutta la durata, senza picchi clamorosi ma pure senza cadute ragguardevoli.

Si palesano sonorità heavy doom che, come una pioggia nera, creano un’alluvione di atmosfere vintage: il mercato in questi ultimi anni, non ha smesso un attimo di proporre agli amanti dell’ hard rock sabbathiano nuove opere ed altrettante band, molte autentiche sorprese, altre più ordinarie ma comunque in grado di risvegliare maghi, streghe e folletti in giro per il mondo.

I Demon Eye sono un quartetto del North Carolina attivo da cinque anni, il loro nome è ispirato dal famoso brano dei Deep Purple ed arrivano al terzo full length dopo l’esordio Leave The Light licenziato nel 2014 ed il precedente Tempora Infernalia uscito un paio di anni fa.
Anche il sound di Prophecies And Lies si stabilizza su un hard rock settantiano che, a braccetto con il doom, balla intorno al fuoco intonando canti e riti psichedelici, sicuramente non originale ma indubbiamente piacevole.
Le tracce che compongono l’album, infatti, non sono mai troppo doom o troppo psichedeliche, la potenza è bilanciata e l’ hard rock vintage comanda le operazioni così da mantenere una linea per tutta la durata, senza picchi clamorosi ma pure senza cadute ragguardevoli.
Prophecies And Lies scivola via e si consuma come un falò che alle prime luci dell’alba si spegne inesorabilmente, lasciando un gradevole odore di legna e i partecipanti al rituale si allontanano, con ancora nelle orecchie le note di In The Spyder’s Eye, Dying For It e la conclusiva Morning’s Son, parentesi zeppeliniana dell’album.
Per il resto si viaggia su tempi dettati da Pentagram, Sabbath e compagnia di sacerdoti metallici, mentre la luce del giorno nasconde gli incantesimi e le magiche pozioni preparate tra il buio e le ombre che le fiamme creano, alimentate dal sound dei Demon Eye.

Tracklist
1. The Waters and the Wild
2. In the Spider’s Eye
3. The Redeemer
4. Kismet
5. Infinite Regress
6. Dying For It
7. Politic Devine
8. Power of One
9. Vagabond
10. Prophecies and Lies
11. Morning’s Son

Line-up
Erik Sugg – Vocals,Guitars
Larry Burlison – Guitars
Paul Walz – Bass
Bill Eagen – Drums, Vocals

DEMON EYE – Facebook

Onirism – Sun

La ragion d’essere di Sun risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci.

Eccoci alle prese con un nuovo progetto solista, denominato Onirism, appartenente alla scuderia Naturmacht Productions.

Come gran parte del roster della label tedesca, anche la creatura del canadese Antoine Guibert va ad esplorare territori contigui al black metal, nello specifico quelli maggiormente imparentati con sonorità ambient ed atmosferiche.
In tal senso, questo ep intitolato Sun, che arriva dopo un full length ed un altro ep, non apporta particolari novità e la sua ragion d’essere risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci, apparendo talvolta un po’ “plastificate”.
Nel complesso Sun è comunque un lavoro valido, specie se si apprezzano scelte stilistiche di questo tipo, la cui essenza è basata su tenui melodie appena sporcate dallo screaming e da qualche accelerazione: in effetti la manifestazione d’intenti esibita con un simile monicker viene ampiamente realizzata nei fatti, mettendo sul piatto una mezz’ora abbondante di musica sognante e talvolta dal sentore cinematografico.
Dallo scrigno della Naturmacht negli ultimi tempi è uscito decisamente di meglio, ma il confronto risulta sfavorevole al bravo Antoine più per meriti altrui che per demeriti propri: To The Unknown e la title track sono per esempio due ottimi brani, dalle atmosfere ariose impreziosite da ottimi spunti solisti che depongono a favore delle doti di questo musicista del Quebec, al quale fa difetto forse solo qualche punto in più di “cattiveria”.
Sun è un’opera senz’altro gradevole e a tratti gratificante, ma l’eccellenza dista ancora diversi gradini.

Tracklist:
01.Floating
02.To the Unknown
03.Heart of Everything
04.Attraction
05.Sun

Line-up: Vrath

ONIRISM – Facebook