Epica – The Solace System

La sublime magnificenza del metal sinfonico riprodotta da quella che ad oggi è la migliore realtà del genere, anche per questo l’ep risulta imperdibile.

The Holographic Principle è passato come una cometa, una brillante stella che ha illuminato la scena symphonic metal nel 2016 e come una cometa si è portato inevitabilmente dietro la sua splendente coda.

Infatti, questo nuovo The Solace System non è altro che un ep di sei brani, scritti dal gruppo nel periodo in cui la creazione del precedente e bellissimo full length era nella sua fase più fulgida.
Ovviamente, l’opera è pur sempre un ep di canzoni scritte nel recente passato e trovano la loro collocazione proprio come eredità del capolavoro licenziato dal gruppo lo scorso anno, quindi il sound non si discosta dalla produzione più recente del gruppo.
Nessuna novità e tanta buona musica, niente di più e niente di meno, da parte dei symphonic metallers olandesi, che confermano lo stato di grazia nel periodo della nascita di The Holographic Principle e piazzano sul mercato un degno epilogo.
Visto in questa dimensione The Solace System è l’ennesima mezzora di musica metallica e sinfonica ai suoi massimi livelli, colma di cori epici, sinfonie magniloquenti accompagnate da un power metal moderno e dall’impatto di un treno, con la Simmons che ci sfida a trovarle un difetto anche piccolissimo ed il gruppo che gira a mille come un perfetto bolide metallico.
La sublime magnificenza del metal sinfonico riprodotta da quella che ad oggi è la migliore realtà del genere, anche per questo l’ep risulta imperdibile, composto com’è da una manciata di canzoni sopra la media (la title track, la potente ed epico sinfonica Fight Your Demons e Wheel Of Destiny in particolare) risulta imperdibile.
La Simmons, al riguardo ha dichiarato alla stampa: “All’inizio della stesura di ‘The Holographic Principle‘ ci siamo resi conto di avere un enorme numero di canzoni. Quelle che non entravano perfettamente nell’album sono ora disponibili per voi in un EP speciale. Spero vi piacciano quanto piacciono a noi“. Speranza esaudita.

Tracklist
1.The Solace System
2.Fight Your Demons
3.Architect Of Light
4.Wheel Of Destiny
5.Immortal Melancholy
6.Decoded Poetry

Line-up
Simone Simons – vocals
Isaac Delahaye – guitars
Mark Jansen – guitars, growls
Coen Janssen – synthies, piano
Ariën van Weesenbeek – drums
Rob van der Loo – bass

EPICA – Facebook

Empty Chalice – Emerging is Submerging – The Evil

Le sonorità offerte da A. lavorano ai fianchi, costringono a pensare e lasciano un retrogusto amaro, rivelandone la grande profondità e la capacità di incidere sullo stato d’animo dell’ascoltatore.

Nello scorso dicembre avevamo parlato di Music For Primitive, album uscito a nome Gopota, creatura musicale che vede coinvolti Antonio Airoldi e e Vitaly Maklakov.

Il primo (che qui si firma come A.) si ripropone oggi alla nostra attenzione con il secondo atto di questo progetto denominato Empty Chalice, con il quale continua imperterrito l’opera di disturbo sonoro brillantemente proposta in quell’occasione.
Emerging is Submerging – The Evil mostra tratti più inquietanti che minacciosi e qui l’ambient opprime stendendosi come un velo di cenere sulle nostre percezioni sensoriali, proiettando nella mente un immaginario grigio ed opalescente.
Le vibrazioni sonore creano un flusso che potrebbe essere la riproduzione dell’ansito di un pianeta entrato nei suoi ultimi millenni (se non secoli) di vita, ma anche quello di chi sta rannicchiato nel proprio guscio, rifiutando di confrontarsi con un’umanità che precipita inconsapevole verso la sua estinzione; dico potrebbe, perché il bello di un espressione musicale così ermetica è proprio la sua capacità di offrire diverse chiavi di lettura che possono differire non poco a seconda della sensibilità di chi ascolta.
L’album, che esce per l’etichetta Industrial Ölocaust Records, si snoda lungo un’ora di ambient che vive di un rumorismo meno accentuato, specialmente nelle prime due tracce Look Into My Eyes e Muffled Scream, arrivando persino ad offrire dei barlumi melodici sotto forma di parti corali disturbate da campionamenti ed effetti nella magnifica Sidereal, episodio più breve del lotto.
Molto più caratterizzate da pulsioni death industrial sono invece Emerging Is Submerging e Stolen Breaths and Destroyed Hope, titoli che restituiscono in maniera piuttosto evidente quel senso di soffocamento che paradossalmente aumenta a dismisura, allorché si cerca appunto di emergere venendo ricacciati verso il basso da una realtà divenuta insostenibile.
Emerging is Submerging – The Evil è un esempio eloquente di quanto una musica che si muove nel solco degli album della mai abbastanza rimpianta Cold Meat Industry possa essere ben più annichilente e, a suo modo violenta, di molti dischi di metal estremo; le sonorità offerte da A. lavorano ai fianchi, costringono a pensare e lasciano un retrogusto amaro, rivelandone la grande profondità e la capacità di incidere sullo stato d’animo dell’ascoltatore.

Tracklist:
1.Look into my eyes
2.Muffled Scream
3.Sidereal
4.Emerging is submerging
5.Stolen breaths and destroyed hope

Line-up:
A.

EMPTY CHALICE – Facebook

Old James – Speak Volumes

Mezzora abbondante, quanto basta per premere nuovamente il tasto play e rituffarci in questa tempesta di suoni vintage.

Debutto adrenalinico di questo giovane trio canadese chiamato Old James che, con sfrontata irriverenza, ci colpisce ai bassifondi con Speak Volumes, un concentrato di hard rock vecchia scuola tripallico, deliziosamente funky e blues quanto basta per risultare a tratti irresistibile.

Mezzora abbondante, quanto basta per premere nuovamente il tasto play e rituffarci in questa tempesta di suoni vintage: ne esce un album perfetto nella sua scolastica dinamica, che tradotto vuol dire far divertire con il volume a manetta e una buona vena ritmica che varia come la voce, ora grintosa ora più sorniona ma pronta ad esplodere.
I riff sono devoti ai mostri settantiani, mentre l’approccio moderno ne fa un giusto compromesso ed un ottimo ascolto sia per le vecchie che per le nuove generazioni di rocker.
Brian Stephenson (voce e basso), Andy Thompson (chitarra) e Chris Stephenson (batteria) ci presentano un primo album che fa intravedere ottime potenzialità, piacevole all’ascolto e ruffiano il giusto nel saper amalgamare tra le note delle varie Don’t Put It on Me, Words as Weapons e Salutations, Led Zeppelin e Red Hot Chili Peppers, Deep Purple e Van Halen nello stesso candelotto di dinamite con la miccia accesa da una scintilla hard & heavy.
In un periodo nel quale un certo tipo di hard rock ha ripreso a viaggiare a mille sul mercato discografico, gli Old James sono pronti a ritagliarsi il loro spazio.

Tracklist
1. Don’t Put It on Me
2. Lemons
3. Words as Weapons
4. So Real
5. Salutations
6. Bass-Ik Instincts
7. Kill Off the Rose
8. Master Imploder
9. Eugene
10. Speak Volumes

Line-up
Brian Stephenson – Lead Vocals, Bass Guitar
Andy Thompson – Lead Guitar
Chris Stephenson – Drums/Backing Vocals

OLD JAMES – Facebook

Throne Of Heresy – Decameron

Un gran bel disco di black/death scandinavo, per esecuzione, intensità e propensione melodica, realmente da godersi dalla prima all’ultima nota.

Spostiamoci per una volta, almeno per quanto mi riguarda, nei territori del black death melodico e chi, meglio di una band svedese, poteva offrire un’interpretazione ottimale del genere?

I Throne Of Heresy sono attivi da qualche anno e hanno già pubblicato, con questo Decameron, tre album di ottima fattura, ma indubbiamente l’opera di cui ci occupiamo si rivela un progetto piuttosto ambizioso, trattandosi di un concept sulla peste (altrimenti detta morte nera, che guarda caso corrisponde anche al genere musicale offerto) scritto dal vocalist Thomas Clifford.
Musicalmente parlando, l’approccio melodico della band di Linkoping porta ad un livello superiore l’impatto delle pulsioni estreme, offrendo una buona varietà stilistica abbinata alla produzione continua di chorus trascinanti.
L’opener The Shores of Issyk-Kul si rivela già un buon esempio di quanto riserveranno i Throne Of Heresy raccontando l’esordio e la propagazione dell’epidemia: se il brano in questione vive di un notevole impatto melodico, Siege Of Caffa è invece una travolgente cavalcata destinata a lasciare il segno (e giustamente la band ci ha costruito sopra un video); notevole anche la title track, resa epica ed evocativa nella sua parte iniziale dal contributo vocale dell’ospite Karl Beckman (King of Asgard/ex-Mithotyn), così come Alvastra con il suo crescendo conclusivo, ma Decameron vive comunque di una buona compattezza che mantiene il livello costantemente medio alto con i suoi ritmi incalzanti gratificati da una ottima produzione opera di Magnus Andersson (bassista dei Marduk).
Un gran bel disco per esecuzione, intensità e propensione melodica, realmente da godersi dalla prima all’ultima nota.

Tracklist:
1. The Shores of Issyk-Kul
2. Pax Mongolica
3. Siege of Caffa
4. The Plague Ships
5. Decameron
6. Liber Secretorum
7. JÑrtecken
8. A Silent Vigil
9. Alvastra
10. The Pale Burden

Line-up:
Mathias Westman – Drums
Tomas Göransson – Guitars
Björn Ahlqvist – Bass
Thomas Clifford – Vocals
Lars Björkens – Guitars

THRONE OF HERESY – Facebook

Kval – Kval

Kval è un lavoro che a molti potrà apparire obsoleto ma che, in realtà, racchiude molto dell’essenza di quelli che furono i primi passi del black metal atmosferico, e questo è già di per sé un buon motivo per ascoltarlo, se non bastasse un impatto melodico tutt’altro che trascurabile.

Se si dovesse trovare un album che esemplifichi per i neofiti cosa sia il black metal atmosferico, credo che questo primo passo autointitolato della one man band finnica Kval sia perfetto in tal senso.

In realtà, a ben vedere, questo non sarebbe a tutti gli effetti il full length d’esordio, visto che si tratta della versione ri-registrata dell’album Kuolonkuu, edito con il nome Khaossos nel 2015 e oggi rimesso in circolazione dalla Hypnotic Dirge con una nuova copertina e l’aggiunta di una breve traccia strumentale.
Da quanto premesso, si capisce quanto sia stata opportuna questa operazione, visto che qui siamo al cospetto di un’interpretazione del genere senz’altro ossequiosa dei dettami di Burzum e Forgotten Woods, come da note di presentazione, ma che va anche oltre offrendo una serie di brani capaci di catturare l’attenzione e di avvolgere con il loro approccio molto tradizionale e ricco di ottime intuizioni melodiche appoggiate sul classico ronzio di sottofondo, caratteristica di gran parte delle produzioni novantiane.
Kval strepita in lingua madre testi colmi di negatività sopra un tappeto di black che fa della sua linearità il proprio punto di forza: la produzione che opprime la voce è la normalità, in un lavoro che si snoda su ritmi costantemente compassati, con brani segnati da spunti melodici che vengono reiterati fino ad ottenere l’assuefazione desiderata: il musicista finlandese, però, sa anche fermare la sua ragionata corsa inserendo qualche passaggio acustico o piazzando tastiere minimali ma irresistibili come in quella che fu la title track nella prima stesura, Kuolonkuu.
L’album vede come fulcro quattro tracce che da sole vanno ben oltre la mezz’ora di durata (oltre a quella appena citata, la magnifica Sokeus, Harheinen e Polkuni Vailla Suuntaa) visto che, assieme allo strumentale inedito Kaiku Tyhjyydesta, in chiusura ed apertura si trovano due brani ambient (Usva e Toisella Puolen): Kval è un lavoro che a molti potrà apparire obsoleto ma che, in realtà, racchiude molto dell’essenza di quelli che furono i primi passi del black metal atmosferico, e questo è già di per sé un buon motivo per ascoltarlo, se non bastasse un impatto melodico tutt’altro che trascurabile.

Tracklist:
1 – Usva
2 – Sokeus
3 – Harheinen
4 – Kaiku Tyhjyydesta
5 – Polkuni Vailla Suuntaa
6 – Kuolonkuu
7 – Toisella Puolen

Line up:
Kval

KVAL – Facebook

Lâmina – Lilith

L’album alterna brani stoner doom devastanti e potenti ad altri in cui l’effetto delle sostanze illegali che la temibile dea ci ha fatto ingurgitare con l’inganno fanno il loro sporco effetto, così da catapultarci in un mondo onirico e sabbatico

E’ un vero peccato non essere più precisi su questa fenomenale band portoghese, al primo full length che risulta un piccolo gioiellino di stoner doom psichedelico, onirico, mistico e magico.

Quattro rocker ed un incantesimo che dura dal 2013, anno di nascita del gruppo composto da Vasco Duarte (chitarra e voce), Sérgio Costa (chitarra), Katari (batteria) e Filipe Homem Fonseca (basso).
Lilith, figura mitologica dalle varie forme a seconda della terra e del popolo che la abita, ma nelle credenze ebraiche trasformata in un demone femmineo simbolo di adulterio, stregoneria e lussuria, è la protagonista di questo trip stoner doom con la psichedelia che entra nelle nostre teste e ci procura un incantesimo, costringendoci ad una danza rituale, un sabba sotto l’effetto della magia di questa anima nera, dalla bellezza ipnotizzante.
L’album alterna brani stoner doom devastanti e potenti ad altri in cui l’effetto delle sostanze illegali che la temibile dea ci ha fatto ingurgitare con l’inganno fanno il loro sporco effetto, così da catapultarci in un mondo onirico e sabbatico: musicalmente siamo vicini al doom sabbatiano modernizzato dagli effetti collaterali dello stoner, mentre i venti minuti di Maze ci avvolgono tra le spire del serpente satanico e Psychodevil alimenta le truppe dell’ hard rock vintage, anch’esse invitate alla festa malefica.
In The Warmth Of Lilith chiude l’album con una lunga e travagliata marcia verso l’inferno, un incedere inesorabile e lentissimo, una marcia verso la morte terrena e la dannazione eterna in compagnia di Lilith…

TRACKLIST
1. Cold Blood
2. Big Black Angel
3. Evil Rising
4. Maze
5. Psychodevil
6. Education For Death
7. In The Warmth Of Lilith

LINE-UP
Vasco Duarte – Guitars, Vocals
Sérgio Costa-Guitars
Katari- Drums
Filipe Homem Fonseca- Bass

LAMINA – Facebook

Humanity Zero – Withered In Isolation

Per una band giunta al suo ottavo full length certi difetti potrebbero essere ineludibili, anche se concediamo agli Humanity Zero una prova d’appello visto il loro recente approdo al genere suonato in Withered in Isolation.

I greci Humanity Zero hanno una storia piuttosto curiosa: nati agli albori del secolo come progetto solista di Dimon’s Night, dopo essersi trasformati in una band a tutti gli effetti hanno iniziato, dal 2008 in poi, a pubblicare un album all’anno (con puntualità più svizzera che ellenica) fino al 2014: tutti questi full length prendevano come punto di riferimento certo death metal tecnico e nel contempo brutale, partendo dai Death per arrivare agli Immolation, ma non credo con particolari riscontri se, fino ad oggi, il nome di questa band mi era del tutto ignoto.

L’ipotesi è suffragata dal fatto che, dopo un inusuale silenzio durato tre anni, gli Humanity Zero sono tornati con un volto del tutto diverso, spostando in maniera decisa il proprio sound verso il death doom e puntando il mirino questa volta sui My Dying Bride, soprattutto quelli con Martin Powell in formazione, ai quali l’accostamento si addice ancor più per l’utilizzo del violino suonato da Stelios.
Il ruolo del violinista è una novità nella formazione, così come quella vocalist Johnie Panagiotidis, mentre il leader (chitarra, batteria e tastiere) continua ad avvalersi alla chitarra solista di Vaggelis Vee Kappa: il risultato che ne scaturisce non è del tutto deprecabile, anche se manca della necessaria organicità.
In buona sostanza, all’interno dei cinquanta minuti di Withered in Isolation si palesano spunti interessanti ma che spesso paiono gettati lì senza un disegno preciso, andando ad accavallarsi con riff sovente rallentati come da copione, o che talvolta riprendono le accelerazioni di un tempo, e interventi di un violino che sicuramente si segnala come l’aspetto più peculiare e positivo nell’insieme: queste ultime caratteristiche riportano, in effetti, allo stile dei primi My Dying Bride, dei quali purtroppo gli Humanity Zero non possiedono la necessaria percentuale di talento compositivo.
In un album che guadagna la sufficienza, se non altro per una svolta stilistica mai scontata e a suo modo coraggiosa, all’interno di una tracklist delineata da una certa perfettibilità a livello sia esecutivo che di songwriting, si segnalano episodi validi come l’atmosferica Reveries of My Stained Mind e l’evocativa Solitary Confinement, ma anche un brano davvero sconclusionato quale Blood Redemption.
Per una band giunta al suo ottavo full length certi difetti potrebbero essere ineludibili, anche se concediamo agli Humanity Zero una prova d’appello visto il loro recente approdo al genere suonato in Withered in Isolation.

Tracklist:
1. Withered in Scars
2. Away from the Light
3. Reveries of My Stained Mind
4. Fading in a Cryptic Obscurity
5. Solitary Confinement
6. Horrendous Growls
7. Blood Redemption
8. The Dungeon
9. Premonition

Line up:
Dimon’s Night – Drums, Guitars, Keyboards
Vaggelis Vee Kappa – Guitars (lead)
Stelakis – Violin
Johnie Panagiotidis – Vocals

HUMANITY ZERO – Facebook

The Great Discord – The Rabbit Hole

Non ci sono pause in The Rabbit Hole, nel senso che la musica di altissimo livello non concede distrazioni all’ascoltatore lasciando che la band di Linköping ci travolga e ci scaraventi nel suo mondo portatore sia di tempeste estreme che di splendide aperture melodiche.

Sono sempre più convinto, nel mio ormai mezzo secolo di vita abbondante, che le persone che non amano la musica non abbiano mai sviluppato emozioni ed una sensibilità che permetta loro di far proprie le brutture che sconvolgono sempre più l’umanità

Ci sono ovviamente le eccezioni che confermano la regola, ma come si può amare un lavoro come The Rabbit Hole se non si possiedono quelle corde emozionali per cui dopo tanti anni le braccia si riempiono di pelle d’oca all’ascolto delle note alternative/progressive create dai The Great Discord, sentendosi più ricchi?
Perché, e questo invece non è un semplice punto di vista ma un’assoluta verità, ci vuole un’animo sensibile per godere delle trame del gruppo svedese, all’apparenza semplici ma splendidamente intricate come nella migliore tradizione progressive, estreme come un ottimo esempio di death metal melodico e a tratti addirittura dall’appeal pop alternative.
Fia Kempe è la straordinaria interprete della musica dei The Great Discord, una cantante che fa dell’interpretazione il suo punto di forza, ora grintosamente metallica, poi splendidamente melodica ed evocativa, al servizio di un sound alquanto originale e mai ripetitivo.
Ispirato concettualmente al’opera di Lewis Carrol, l’album si sviluppa in quaranta minuti di musica rock/metal a 360°, progressivamente sopra le righe, dark senza essere gotica come di moda di questi tempi ed assolutamente letale, mentre metal e pop si danno battaglia dentro di noi, ora strattonati da braccia metalliche dure come il ferro e poi cullati da atmosfere dark/rock o melodie radiofoniche che si fanno spazio in un lavoro ritmico sopraffino.
Non ci sono pause in The Rabbit Hole, nel senso che la musica di altissimo livello non concede distrazioni all’ascoltatore lasciando che la band di Linköping ci travolga e ci scaraventi nel suo mondo portatore sia di tempeste estreme che di splendide aperture melodiche.
Il singolo Darkest Day è solo un piccolo punticino nel vasto mondo dei The Great Discord, mentre mai come questa volta il consiglio è di fermarsi, concedersi un po’ di tempo e lasciarsi rapire dalla magia della musica.

Tracklist
1.Dimman
2.Noire
3.Gadget
4.Darkest Day
5.Tell-Tale Heart
6.The Red Rabbit
7.Neon Dreaming
8.Downfall
9.Cadence
10.Omen
11.Persona

Line-up
Fia Kempe – Vocals
Aksel Holmgren – Drums
André Axell – Guitars
Gustav Almberg – Guitars
Rasmus Carlson – Bass

THE GREAT DISCORD – Facebook

Airbound – Airbound

Airbound non delude le attese e ci regala un lotto di brani frizzanti e vivaci, splendidamente melodici e legati alla tradizione, ma con uno spirito moderno che lo accompagna tra le impervie vie del nuovo millennio musicale.

Nel nostro paese si suona dell’ottimo hard rock melodico, ne abbiamo avuto la conferma quest’anno con una serie di uscite che sono risultate delle vere gemme per gli appassionati del genere, due fra tutte i bellissimi lavori omonimi degli Shining Line (ristampato dalla Street Symphonies Records) e dei Viana, uscito anch’esso per la label nostrana.

Una nuova etichetta (Art Of Melody Music) è  stata fondata dai ragazzi dell’Atomic Stuff proprio per dare spazio ai suoni AOR e il primo lavoro che riempirà di calde note melodiche l’autunno dei melodic rockers in giro per Europa e Giappone (dove uscirà via AnderStein Music) è il debutto omonimo degli Airbound.
Prodotto dal gruppo con l’aiuto di Oscar Burato, responsabile di mixaggio e masterizzazione, Airbound risulta un ottimo ritorno tra le braccia dell’hard rock melodico di ispirazione statunitense, tra chitarre graffianti, aperture melodiche da arena rock e letali e pompose tastiere che impreziosiscono ed accompagnano la straordinaria voce del singer Tomàs Borgogna, in passato al microfono dei Borgogna Band con un album licenziato per Steelheart Records.
Per questo debutto il gruppo non si è fatto mancare niente e a valorizzare questa raccolta troviamo una manciata di ospiti, tutti musicisti della scena melodica come Sven Larsson (Street Talk, Raintimes, Room Experience), Davide “Dave Rox” Barbieri (Wheels Of Fire, Raintimes, Charming Grace, Room Experience), Mario Percudani (Hungryheart, Shining Line, Ted Poley, Axe) e Josh Zighetti (Hungryheart, Charming Grace).
L’album non delude le attese e ci regala un lotto di brani frizzanti e vivaci, splendidamente melodici e legati alla tradizione, ma con uno spirito moderno che lo accompagna tra le impervie vie del nuovo millennio musicale, pieno di contraddizioni e sconvolto da un’urgenza legata alle migliaia di uscite che investono il mercato nell’era del web.
Allora non rimane che sedersi, chiudere gli occhi e provare a sognare tra le note dell’opener Have A Good Time, dell’emozionante Till The End, dell’iper melodica Don’t Fade Away e dell’atmosferica Runaway.
La parola fine a questo piccolo gioiellino la mette Seven Seas, ballata che fa battere il cuore e che ci riporta all’inizio dell’album: impossibile non premere nuovamente il tasto play per tornare a godere di questo bellissimo debutto.

Tracklist
01. Have A Good Time
02. The Sun Tomorrow
03. Till The End
04. You Live & You Learn
05. Don’t Fade Away
06. Zhaneta
07. Runaway
08. Wasted World
09. She’s A Girl
10. Seven Seas
11. Till The End (Cinematic Version – Japanese Bonus Track)

Line-up
Tomás Borgogna – Vocals & Backing Vocals
Lorenzo Foddai – Guitars & Backing Vocals
Angelo Sasso – Bass & Backing Vocals
Alessandro Broggi – Keyboards & Backing Vocals
Riccardo Zappa – Drums & Percussions

AIRBOUND – Facebook

, pieno di contradizioni e sconvolto da un’urgenza legata dalle migliaia di uscite che investono il mercato nell’era del web.

Spectral Voice – Eroded Corridors of Unbeing

Eroded Corridors of Unbeing è un lento e penoso trascinarsi lungo un sentiero scosceso e dall’approdo ancor meno accogliente rispetto al punto di partenza, un luogo dove l’orrore non può essere descritto a parole.

Dopo una serie di demo e di split a partire dal 2014, gli statunitensi Spectral Voice giungono al primo full length rivelandosi una delle sorprese più piacevoli dell’anno.

Il death doom proposto dalla band di Denver, composta per tre quarti, batterista/cantante escluso, da componenti dei deathsters Blood Incantation, è di matrice prettamente d’oltreoceano, rivelandosi quindi una sorta di tratto d’unione tra il death asfissiante degli Incantation (…appunto) e il doom più estremo e per lo più privo di sbocchi melodico in quota Evoken / Disembowelment.
Fin dalle prime note, l’operato degli Spectral Voice appare volto a creare atmosfere plumbee e minacciose, con le corde degli strumenti ribassate all’inverosimile per creare una muraglia di impenetrabile e tenebrosa incomunicabilità, senza disdegnare neppure disturbati sussulti di matrice ambient.
Il brano più lungo del lotto, Visions Of Psychic Dismemberment, costituisce a ben vedere la summa del buon lavoro compositivo degli Spectral Voice, ma tutto il resto del lavoro si colloca sullo stesso piano, risultando monolitico ma di notevole spessore ed intensità; del resto, quando i nostri si spingono dalle parti degli Evoken, anche il sound acquista un minimo di respiro grazie a più limpidi arpeggi chitarristici (Lurking Gloom e Terminal Exhalation Of Being) senza perdere nemmeno per un attimo la sua presa mefitica sulla psiche dell’ascoltatore.
Eroded Corridors of Unbeing è un lento e penoso trascinarsi lungo un sentiero scosceso e dall’approdo ancor meno accogliente rispetto al punto di partenza: lungo gli “erosi corridoi” veniamo condotti con passo vacillante in un luogo dove l’orrore non può essere descritto a parole, in ossequio al metodo narrativo utilizzato da Lovecrat, la cui opera potrebbe risultare perfettamente complementare ad un approccio musicale di questo tenore.
Davvero un ottimo disco, che gli estimatori delle band citate quali possibili numi tutelari degli Spectral Voice non dovrebbero farsi sfuggire.

Tracklist:
1. Thresholds Beyond
2. Visions Of Psychic Dismemberment
3. Lurking Gloom (The Spectral Voice)
4. Terminal Exhalation Of Being
5. Dissolution

Line-up:
J. Barrett – Bass
P. Riedl – Guitar
E. Wendler – Drums and Voice
M. Kolontyrsky – Guitar

SPECTRAL VOICE – Facebook

Lilyum – Altar Of Fear

Il black metal per i Lilyum non è solo un rivestimento musicale, bensì l’espressione di un modo d’essere, la naturale conseguenza dell’attrazione fatale per tutto quanto sia oscuro e comunque avulso dai conformismi.

I Lilyum sono da oltre un decennio una delle migliori espressioni del black metal italiano, nonché probabilmente anche una delle più sottostimate in relazione al valore espresso, all’interno di un percorso musicale che giunge con Altar Of Fear al settimo full length.

Kosmos Reversum, che della band è l’anima ed il fondatore, non è tipo da curarsi più di tanto di tutto questo, perché ben conosce le sfaccettature dell’ambiente musicale essendovi coinvolto anche in altre vesti, e giustamente prosegue a testa alta per la propria strada, lasciando che a parlare sia la sua musica, un black che continua ad esibire gli aspetti tradizionali del genere con una brillantezza ed una competenza tali da non farlo mai apparire obsoleto.
Altar Of Fear, del resto, arriva dopo due ottimi lavori come Glorification Of Death e October’s Call, e non sorprende affatto quindi la qualità che i Lilyum continuano ad esibire, nonostante le sostanziali novità nella line up: intanto, l’interruzione del sodalizio con il vocalist Xes, iniziato con Crawling In The Past nel 2010, poteva non risultare del tutto indolore visto, che a mio avviso, parliamo di uno dei migliori interpreti in campo black (come continua a dimostrare con gli Infernal Angels), ma il ritorno di Lord J. H. Psycho (anche chitarra, basso e tastiere), che aveva ricoperto il ruolo nei primi due full length Ultimatum e e Fear Tension Cold, non lo fa rimpiangere nonostante la differenza di stile che riconduce il tutto ad un più classico screaming in vece del growl del suo predecessore; infine, il nuovo album segna anche l’ingresso stabile in formazione del batterista Frozen (anche negli ottimi siciliani Krowos) dopo che questi aveva prestato la sua opera come session man nel periodo a cavallo tra i due decenni.
Tutto questo, non so quanto incidentalmente, porta ad un inasprimento delle sonorità rispetto al recente passato, mettendo in luce un approccio più diretto ma non meno efficace: del resto il black metal per i Lilyum non è solo un rivestimento musicale, bensì l’espressione di un modo d’essere, la naturale conseguenza dell’attrazione fatale per tutto quanto sia oscuro e comunque avulso dai conformismi, anche se abbiamo visto quanto, in questi ultimi anni, il genere sia stato manipolato e restituito in maniera diametralmente opposta allo spirito che animava i suoi creatori.
Altar Of Fear è, però, tutt’altro che una rappresentazione becera e minimale del black, in quanto risulta curato nei suoi dettagli, eseguito e prodotto come dovrebbe essere un disco di questo tipo e lasciando che i suoni giungano alle orecchie dell’ascoltatore con le proprie ruvidezze e senza essere edulcorati, pur essendo ugualmente contraddistinti da una loro pulizia: l’opener Alkahest è una dimostrazione eloquente di quanto appena affermato, nel suo svilupparsi con la giusta dose di cattiveria ed attitudine, e questa sarà la tendenza di un lavoro comunque per nulla monolitico, visto che i Lilyum non disdegnano passaggi più ragionati, spesso ai limiti dell’ambient, come avviene nel collegamento tra la fine di The Watchers’ Departure e l’inizio di Voices From The Fire, oppure dimostrano un gusto melodico di prim’ordine, pur se compresso sempre da una ritmica frenetica, racchiuso nelle atmosfere della magnifica Tomorrows Worth Erasing.
Anche la conclusiva Siege The Solar Towers, con i suo anomali dieci minuti di durata, può essere presa ad emblema di quello che non si può definire un nuovo corso per i Lilyum, bensì la fruttuosa ricerca di soluzioni differenti senza che venga meno la continuità stilistica ed il tratto personale che Kosmos Reversum è sempre riuscito a conferire al sound della sua band.
Pertanto non posso che ribadire quanto già dichiarato inizialmente, esortando chiunque apprezzi il black nella sua vera essenza a non perdere l’occasione di ascoltarne una delle sue più autentiche e coinvolgenti raffigurazioni.

Tracklist:
1.Alkahest
2.Siege the Solar Towers
3.The Watchers’ Departure
4.Voices from the Fire
5.Tomorrows Worth Erasing
6.Stain of Salvation
7.Siege the Solar Towers

Line-up:
Kosmos Reversum – rhythm and lead guitars, clean guitars on 6
Lord J. H. Psycho – vocals; bass guitar, lead, harmony and clean guitars, ebow, synthesizers, samples and ambience, additional rhythm guitars on 2, 5 and 7
Frozen – drums and percussion

LILYUM – Facebook

Hands of Orlac / The Wandering Midget – Split

Split d’altri tempi questo lavoro licenziato dalla Cruz Del Sur Music, che ci presenta due affascinati realtà provenienti dal mondo del doom, Hands Of Orlac e The Wandering Midget.

Split d’altri tempi questo lavoro licenziato dalla Cruz Del Sur Music, che ci presenta due affascinati realtà provenienti dal mondo del doom, Hands Of Orlac e The Wandering Midget.

I primi sono un quartetto per metà svedese e per metà italiano, attivo dal 2009 e con una manciata di lavori alle spalle tra cui due album sulla lunga distanza, il primo omonimo del 2011 e il secondo uscito nel 2014 ed intitolato Figli Del Crepuscolo.
Capitanati dalla voce della strega The Sorceress, la band affronta la materia con l’approccio tutto italiano al genere, tradotto in un doom progressivo ispirato agli anni settanta, dai rimandi horror e mistico/occulti sulla scia dei vari Balletto di Bronzo, Biglietto per l´Inferno e Goblin.
Due i brani presentati più due intermezzi suggestivi che vanno ad incorniciare un’atmosfera liturgica, con litanie mefistofeliche ed un’ abbondante puzzo di zolfo tra la terra smossa del cimitero immerso nella nebbia: molto suggestivi e rappresentativi del genere del quale nello stivale siamo maestri, anche se la band sembra essersi spostata definitivamente nel paese scandinavo.
Un brano solo, ma di ben venti minuti, per i più classici The Wandering Midget, doom metal band finlandese attiva dal 2005 e anch’essa con due album alle spalle, The Serpent Coven e From the Meadows of Opium Dreams, rispettivamente usciti nel 2008 e nel 2012.
Il trio di Lappeenranta è la classica doom metal band dalle influenze ottantiane e delle band Hellhound, storica etichetta di genere che tra gli ultimi due decenni del secolo scorso vantava tra le sue fila band del calibro di The Obsessed, Count Raven, Saint Vitus e Revelation tra gli altri.
Il sound non si discosta di molto dai gruppi citati, un mid tempo monolitico ed evocativo che nella sua lunga durata varia quel tanto che basta per fare arrivare con soddisfazione in fondo all’ascolto, potente e cadenzato, ma soprattutto classico e metallico per piacere sia agli amanti della musica del destino che agli heavy metallers.
Un buon split, dunque, utile per far conoscere due realtà profondamente diverse ma entrambe meritevoli d’attenzione.

Tracklist
1.Hands of Orlac – Curse of the Human Skull
2.Hands of Orlac – Per Aspera
3.Hands of Orlac – From Beyond the Stars
4.Hands of Orlac – Ad Astra
5.The Wandering Midget – Where We March the Vultures Follow

Line-up
Hands Of Orlac:
The Templar – Bass
The Sorceress – Flute, Vocals
The Clairvoyant – Drums (2011-present)
Alex Moraitis – Guitars

The Wandering Midget:
Thomas Grenier – Bass, Vocals
Jonathan Sprenger – Drums
Samuel Wormius – Vocals, Guitars, Effects

THE WANDERING MIDGET – Facebook

Arch Enemy – Will To Power

Tutto sommato Will To Power è un buon ritorno, offrendo la miglior parte di sè nel lavoro melodico delle due chitarre e continuando la tradizione che vede il gruppo come il massimo esponente di un certo tipo di metal estremo, anche se gli straordinari album licenziati tra le seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio sono ormai un lontano ricordo.

Inutile girarci intorno, l’uscita del nuovo album degli Arch Enemy è senz’altro l’evento clou di questo autunno, parlando di death metal melodico.

Gli ormai padroni assoluti del genere tornano a distanza di tre anni da War Eternal, lavoro che, pur non toccando vette memorabili a livello qualitativo, portava con sè una novità tutt’altro che trascurabile con la partenza di Angela Gossow e l’arrivo dietro al microfono del gruppo di Michael Amott della bravissima e bellissima singer canadese Alissa White-Gluz.
Will To Power è il secondo lavoro con la nuova cantante, diventata in poco tempo il simbolo della band riempiendo le copertina delle riviste di settore, e vede l’entrata in formazione dell’ex-Nevermore Jeff Loomis, axeman straordinario che ha valorizzato non poco le trame musicali di questo nuovo album.
Rispetto ai precedenti lavor,i dunque, gli Arch Enemy, pur continuando la loro missione nel genere, acquistano un valore aggiunto non da poco e ne sfruttano le doti accentuando la parte melodica con un lavoro chitarristico davvero sopra le righe.
E i due nuovi entrati risultano quindi le armi con cui la band vuole conquistare nuovi e vecchi fans, lasciando che le chitarre brucino tra le dita di un Loomis perfettamente calato nella nuova dimensione, una vocalist che rabbiosa offre una prestazione ecellente con l’aggiunta di parti pulite molto convincenti (Reason To Believe).
Il resto della truppa composta dalla notevole sezione ritmica composta dai veterani Sharlee D’Angelo (basso) e Daniel Erlandsson (batteria), non ha cedimenti e l’album parte a razzo con due missili metallici come The Race e Blood In The Water, biglietto da visita niente male per i nuovi Arch Enemy.
Va detto che non tutto è perfetto in Will To Power, perchè qualche brano arranca nello stare al passo con una buona metà della tracklist, come per esempio il singolo The Eagle Flies Alone, scelta non proprio azzeccata per rappresentare un’ opera che, tutto sommato, riesce a mantenere su buoni livelli la reputazione di un gruppo che a tratti fatica in studio ad essere esplosivo e devastante come nella dimensione live.
Will To Power è un buon ritorno, offrendo la miglior parte di sé nel lavoro melodico delle due chitarre e continuando la tradizione che vede il gruppo come il massimo esponente di un certo tipo di metal estremo, anche se gli straordinari album licenziati tra le seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio sono ormai un lontano ricordo.

Tracklist
1. Set the Flame to the Night
2. The Race
3. Blood in the Water
4. The World is Yours
5. The Eagles Flies Alone
6. Reason to Believe
7. Murder Scene
8. First Dat in Hell
9. Saturnine
10. Dreams of Retribution
11. My Shadow and I
12. A Fight I Must Win

Line-up
Michael Amott – Guitars
Daniel Erlandsson – Drums
Sharlee D’Angelo – Bass
Jeff Loomis – Guitars
Alissa White-Gluz – Vocals

ARCH ENEMY – Facebook

Kings Will Fall – Thrash Force.One

I Kings Will Fall scendono dalle Alpi del Tirolo, con attitudine sfrontata, per portare guerra e distruzione con nove bombe che piovono dal cielo.

Thrash metal from the Alps, così si presentano i Kings Will Fall, quartetto altoatesino attivo dal 2013 per volere del batterista Lukas Gross e del bassista Daniel Vanzo, presto raggiunti dal cantante Fabian Jung e dal chitarrista Rene Thaler.

Thrash Force.One è il secondo lavoro, considerato l’ep Death Comes Early uscito due anni fa, album che ha dato alla band la possibilità di farsi conoscere tra l’Italia e la vicina Austria: vi troviamo thrash metal vecchio stampo, reso ancora più violento dall’uso del growl di stampo death e soluzioni punk hardcore, con ritmiche indiavolate che il quartetto usa in abbondanza nel loro debutto sulla lunga distanza.
I Kings Will Fall scendono dalle Alpi del Tirolo con attitudine sfrontata, per portare guerra e distruzione con otto bombe che piovono dal cielo, più la cover di We Are Motörhead ad accompagnare i titoli di coda di questo attacco fulmineo e letale portato anche da Toxic War, Endless Pain e Buster.
Slayer e la sacra triade teutonica sono le ispirazioni maggiori di questi massacratori di padiglioni auricolari chiamati Kings Will Fall, consigliati ai fans accaniti del thrash metal di scuola ottantiana e dai consumatori di metal estremo violento, diretto e senza fronzoli.

Tracklist
1.In Dead & Mud & Misery
2.Toxic War
3.Shots for Glory
4.Burn All Fuel
5.Endless Pain
6.Damage Crown
7.Buster
8.Gängster 1948
9.We Are Motörhead (Motörhead cover)

Line-up
Daniel Vanzo – Bass, Vocals (backing)
Lukas Gross – Drums
Rene Thaler – Guitars
Fabian Jung – Vocals

KINGS WILL FALL – Facebook

Big Wolf Band – A Rebel’s Story

Portato in alto dai Big Wolf Band da Birmingham (Inghilterra), monicker scritto in bella mostra sull’artwork ispirato alla vecchia scuola, il blues è come chi lo suona, fiero come il grande Lupo, famelico di carne e sangue.

Signore e signori, stasera sul palco virtuale di MetalEyes IYE si suona rock blues, di quello che farebbe smuovere il fondoschiena di un elefante, sanguigno e prepotente come lo sguardo lascivo di una matura “signora” incontrata in quei locali dove la musica accompagna le effusioni ambigue degli astanti, tra l’odore di whiskey e tabacco.

Portato in alto dai Big Wolf Band da Birmingham (Inghilterra), monicker scritto in bella mostra sull’artwork ispirato alla vecchia scuola, il blues è come chi lo suona, fiero come il grande lupo, famelico di carne e sangue.
Attiva dal 2014 e nata per volere del chitarrista cantante Jonathan Earp, la band debutta con un album entusiasmante, blues che si allea con il rock per viaggiare tra l’inghilterra e gli States dove tutto nasce, un’ora di musica tra il diavolo e Mephisto, persi nella penombra, prima che le magiche note che escono a fiumi dagli strumenti di questo fenomenale chitarrista e dai suoi compari che rispondono ai nomi di Tim Jones (batteria), Mick Jeynes (basso) e Paul Brambani alle tastiere, ci faccia alzare e sbattere ciondolanti tra i tavoli, trovando un appiglio sicuro nei seni della signora dai lineamenti solcati da troppi anni di vita.
Chitarra che parla, urla, sbraita e fa le coccole, tasti d’avorio che partono come treni verso il nulla per tornare come tappeti dove basso e batteria inventano tempi e dettano regole.
Ma queste sono storie di ribelli e allora anche la sei corde taglia le corde che la legano ad uno spartito per farci sognare, mentre la voce di Earp racconta, per mezzo di un lotto di brani bellissimi come l’opener Heaven’s Got The Blues e Done Wrong By You, inizio bruciante di A Rebel’s Story.
Hot Blooded Woman è un rock adrenalinico che il blues rivolta come un calzino, mentre Earp fa il fenomeno con la sei corde, per poi regalare tragiche ed intimiste emozioni con la soffusa Darkest Of My Days.
Long Time Mary è un irresistibile blues/soul dove le pazzie sono da attribuire al piano di Brambani e l’album viaggia che è un piacere, alternando un sound vicino a Bonamassa ad un’emozionante musica nera in arrivo da strade polverose che portano alla perdizione.
Rolling With Thunder, One More Time, Love That Hurts riempiono la stanza di sapori metallici, classici quando l’odore del sangue si mischia con manici di chitarre sudate e il grande lupo ci regala ancora emozioni, prima di guardarci negli occhi un’ultima volta ed allontanarsi, ci sono territori da conquistare e ribelli a cui raccontare le proprie storie con l’aiuto del blues.

Tracklist
1.Heaven’s Got The Blues
2.Done Wrong By You
3.Hot Blooded Woman
4.Darkest Of My Days
5.Long Time Mary
6.Rolling With Thunder
7.One More Time
8.A Rebel’s Story
9.Been Here Too Long
10.Love That Hurts
11.I Don’t Love You
12.Love Isn’t free
13.If I Ever Loved Another Woman

Line-up
Jonathan Earp—Guitar / Vocals
Tim Jones—Drums
Mick Jeynes— Bass
Paul Brambani— Keyboards

BIG WOLF BAND – Facebook

Atriarch – Dead as Truth

La band ribadisce la bontà della sua arte, continuando il suo desolato, apocalittico e personale percorso artistico.

Non hanno bisogno di un’opera di lunga durata gli statunitensi Atriarch per ribadire, dopo tre full length, la bontà del loro percorso artistico sempre monolitico, atmosferico e soprattutto molto personale.

Anche il cambio del chitarrista, ora Joshua Dark al posto di Brooks Blackhawk, non ha sostanzialmente modificato la trama sonora imbastita dal quartetto che rimane carica di oscura atmosfera ed è frutto di una commistione di post-punk, nera darkwave, black doom e lampi di deathrock; grande lavoro della sezione ritmica dove la batteria è molto varia e potente ed il suono del basso sempre presente e poderoso sposta, forse, il suono su atmosfere più darkwave e post punk, meno su suoni metallici. Tale sensazione non scalfisce nel modo più assoluto l’essenza dell’arte del quartetto; fin dal primo brano Inferno si è chiamati a immergersi nelle tenebre più oscure, i ritmi sono lenti, ritualistici, apocalittici e scandiscono allucinazioni in cui orizzonti plumbei e confusi si scontrano in un universo desolato. La voce potente e declamatoria di Lenny Smith ci accompagna narrandoci di storie di violenza, odio, disperazione e morte. La musica degli statunitensi, di Portland, incastonando il meglio di certa ossessiva darkwave (Bauhaus, Killing Joke) in strutture black e doom crea una interpretazione decisamente unica del suono estremo, generando sublimi muri di suono che in Dead ricordano anche maestosità come i Joy Division dove …”love is lost, life forgot, nothing left inside”. Gli altri quattro brani per un totale di poco più di mezz’ora affondano e penetrano nell’anima di noi ascoltatori generando un’energia devastante, purificatrice per un mondo dolente incapace di risollevarsi dalle sue miserie.

Tracklist
1. Inferno
2. Dead
3. Devolver
4. Void
5. Repent
6. Hopeless

Line-up
Andy Savage – Bass
Joshua Dark – Guitars
Maxamillion Avila – Drums
Lenny Smith – Vocals

ATRIARCH – Facebook

Threshold – Legends Of The Shires

I Threshold sono tornati con uno degli album più riusciti della loro lunga carriera, un’opera mastodontica che non potrà sicuramente mancare nelle classifiche di fine anno riguardanti il metal dalle ispirazioni progressive.

In questi ventitre anni che separano il capolavoro Psychedelicatessen da Legends Of The Shires in molti si sono chiesti che fino avesse fatto Glynn Morgan, cantante che aveva dato voce alla splendida musica dei Threshold in quell’album per poi sparire, sostituito dal pur bravo Damian Wilson e dal compianto Andrew “Mac” McDermott, scomparso per una grave malattia nel 2011.

Dopo così tanto tempo e tra lo stupore dei fans del gruppo inglese, Morgan ricompare come per magia e si piazza dietro al microfono di una delle migliori prog metal band del pianeta, posto che gli compete visto che la sua voce non ha perso un grammo di carisma e grinta, virtù che avevano caratterizzato la sua performance sul secondo album del gruppo britannico.
Con i due mastermind Karl Groom e Richard West saldi ai loro posti dietro chitarre e tastiere, i Threshold targati 2017 si presentano con Johanne James alle pelli e Steve Anderson al basso a completare la line up e dare vita a questa monumentale opera, divisa in due cd per più di ottanta minuti di mirabile progressive d’alta scuola.
Non è solo il ritorno dello storico cantante a donare una nuova giovinezza ai Threshold ed una freschezza insperata a Legends Of The Shires, questa volta il songwriting risulta davvero sopra le righe, permettendo all’album di piazzarsi molto in alto in una potenziale classifica delle opere fin qui licenziate dai progsters inglesi, sempre dominata dallo splendido lavoro del 1994.
Glynn Morgan è tornato, dunque, e la sua voce graffia come ai bei tempi fin dal singolo Small Dark Lines, un brano diretto e metallico perfetto per rompere il ghiaccio tra il cantante ed i vecchi fans, in trepidazione e spasmodica attesa nei due minuti e rotti dell’intro The Shire (part 1).
Poi l’album parte per lidi progressivi entusiasmanti, tra schiaffi metallici ed aperture melodiche in cui Morgan può scatenare tutta la sua potenza melodica ed interpretativa: musicalmente quindi i Threshold sono tornati a suonare metal prog nella sua concezione più classica ed emozionante, come nella suite The Man Who Saw Through Time, primo brano che fa spellare le mani per gli appalusi.
Il primo cd si conclude con i virtuosismi di On The Edge, mentre il secondo supporto ottico si apre con la seconda parte di The Shire, un brano semiacustico che nel refrain riporta alla mente la superba Innocence di Psychedelicatessen.
Spettacolare e moderna si rivela Snowblind e grande musica progressiva è quanto offre Lost In Translation, ma anche quest’album arriva purtroppo alla fine, mentre le note di Swallowed ci salutano con uno struggente passaggio chitarristico di un Groom decisamente ispirato.
I Threshold sono tornati con uno degli album più riusciti della loro lunga carriera, un’opera mastodontica che non potrà sicuramente mancare nelle classifiche di fine anno riguardante il metal dalle ispirazioni progressive.

Tracklist
CD 1
1. The Shire (Part 1)
2. Small Dark Lines
3. The Man Who Saw Through Time
4. Trust The Process
5. Stars And Satellites
6. On The Edge

CD 2
7. The Shire (Part 2)
8. Snowblind
9. Subliminal Freeways
10. State Of Independence
11. Superior Machine
12. The Shire (Part 3)
13. Lost In Translation
14. Swallowed

Line-up
Glynn Morgan – vocals
Karl Groom – guitars
Richard West – keyboards
Steve Anderson – bass
Johanne James – drums

THRESHOLD – Facebook

GlerAkur – The Mountains are Beautiful Now

Questa è musica che travalica i generi, andando a scandagliare la sensibilità di un pubblico il cui sentire, inevitabilmente, da un certo momento in poi si muoverà in perfetta sincronia con quello dell’autore, raggiungendo quello che è il fine ultimo dell’arte, almeno nell’accezione più alta che noi conosciamo.

Abbiamo fatto conoscenza con i GlerAkur poco più di unno fa, parlando dell’ep Can’t You Wait, con il quale il musicista islandese Elvar Geir Sævarsson aveva messo in mostra la sua innata sensibilità artistica.

The Mountains Are Beautiful Now è un album che contiene musica composta inizialmente per l’opera teatrale Fjalla-Eyvindur & Halla, tratta dall’opera di Jóhann Sigurjónsson definita tra le più importanti testimonianze letterarie fuoriuscita dall’isola in epoca moderna.
A Sævarsson era stato proposto inizialmente di fare uscire un lavoro contenente la fedele riproduzione della musica utilizzata per la rappresentazione al National Theatre (dove il nostro lavora come fonico) ma, in seguito, il tutto è stato realizzato rendendolo un album slegato in qualche modo dall’aspetto visivo e registrato da una band vera e propria.
Ciò che ne scaturisce è un’opera magnifica che, senza smarrire la sua indole originaria di supporto alle azioni degli attori sul palco, offre circa tre quarti d’ora di musica ambient con ampie aperture atmosferiche e diverse incursioni da parte di sonorità più robuste, accentuate dall’utilizzo contemporaneo di una doppia batteria.
Una scelta, questa, della quale si evince la ragione d’essere ascoltando la già edita Can’t You Wait, con il suo fantastico crescendo percussivo, e la conclusiva Fagurt er á fjöllunum núna, che nella seconda metà esplode in un delirante death-industrial; per il resto, salvo la più tenue HallAlone, le meravigliose Augun Opin e Strings si avvalgono di atmosfere prevalentemente acustiche che avvolgono l’ascoltatore, trasportandolo nei paesaggi unici di una delle terre più particolari ed affascinanti del pianeta.
Lo stesso sound targato GlerAkur del resto non potrebbe che arrivare dall’Islanda, una nazione che, proporzionalmente al numero di abitanti, ha prodotto un numero consistente di musicisti in grado di segnare la scena musicale contemporanea (Bjork e Sigur Ros su tutti) grazie a proposte realmente peculiari ed innovative.
Fortunatamente Sævarsson ha seguito il suo istinto che lo ha spinto a completare questa operazione dalla quale è scaturita una gemma preziosa come The Mountains are Beautiful Now: questa è musica che travalica i generi, andando a scandagliare la sensibilità di un pubblico il cui sentire, inevitabilmente, da un certo momento in poi si muoverà in perfetta sincronia con quello dell’autore, raggiungendo quello che è il fine ultimo dell’arte, almeno nell’accezione più alta che noi conosciamo.

Tracklist:
1.Augun Opin
2.Can’t You Wait
3.HallAlone
4.Strings
5.Fagurt er á fjöllunum núna

GLERAKUR – Facebook