Jagged Vision – Death Is This World

I watt arrivano al limite in più di un’occasione, violentando l’ispirazione melodica dei Jagged Vision con dosi letali di hardcore e sludge , mentre le urla si intensificano e l’atmosfera si scalda non poco.

Partita sette anni fa come band dal sound ispirato all’hardcore, la band metallica dei Jagged Vision si è trasformata in una potentissima macchina da guerra metal/stoner, dalle dai devastanti rallentamenti sludge ed una forte attitudine death ‘n’ roll.

Un ep, l’esordio sulla lunga distanza targato 2014 ed ora questo devastante lavoro, intitolato Death Is This World, potente e melodico il giusto per non farsi dimenticare troppo in fretta nel panorama del metal dalle reminiscenze stoner, genere che riesce ancora a fare breccia nei cuori dei metal rocker modiali.
L’attitudine hardcore non è stata abbandonata del tutto dal gruppo norvegese, così come non si fanno mancare ottimi inserti melodici di stampo death scandinavo, sempre in un contesto metallico furioso, dove il gruppo spinge a tavoletta e ricorda in più di una occasione gli In Flames non ancora ammaliati dalle soleggiate coste americane (Feeble Souls).
I watt arrivano al limite in più di un’occasione, violentando l’ispirazione melodica dei Jagged Vision con dosi letali di hardcore e sludge , mentre le urla si intensificano e l’atmosfera si scalda non poco (Euthanasia, Forlorn).
Il quintetto spara dieci cannonate metalliche che fanno seri danni, con una Serpents che sbaraglia la concorrenza, un’esplosione metal/stoner/hardcore di notevole pericolosità.
Buon lavoro di genere, cattivo, melodico e devastante quanto basta per piacere non poco agli amanti di queste sonorità.

TRACKLIST
1.Betrayer
2.Euthanasia
3.Death Is This World
4.I Am Death
5.Feeble Souls
6.Emperor Of
7.Seven Seals
8.Serpents
9.Forlorn
10.Palehorse

LINE-UP
Kato Austrått -Bass
Joakim Svela – Drums
Daniel Vier – Guitars
Harald Lid – Guitars
Ole Wik – Vocals

JAGGED VISION – Facebook

Travelin Jack – Commencing Countdown

I Travelin Jack hanno saputo rielaborare le influenze dei maestri del genere, inventandosi la propria personale rivisitazione del classic rock.

Ora che l’hard rock dai rimandi settantiani è tornato definitivamente ad incendiare le notti dei rockers tra impatto rock’n’roll e splendide note blues, il dibattito si fa sempre più acceso tra i consumatori di musica, con una parte a difendere l’operato dei molti gruppi apparsi sul mercato (tanti davvero interessanti) e l’altra a criticare l’effetto nostalgia che il successo del genere comporta, dimenticando che, in fondo, è solo rock’n’roll.

Quindi lasciate a casa la voglia di criticare a priori e buttatevi a capofitto sul secondo album di questa band tedesca, dal monicker che ricorda passati eroi dell’hard rock blues (Travelin Jack mi ha subito portato alla mente Grand Funk Railroad e Creedence Clearwater Revival), con una cantante nata per essere una blues girl ed un lotto di brani a formare un altro bellissimo album di hard rock vintage, psichedelico e bluesy.
Attiva più o meno da una manciata di anni e con un primo album alle spalle licenziato nel 2015 dal titolo New World, la band dopo la firma per Steamhammer/SPV si presenta con il nuovissimo Commencing Countdown, provando così a scalzare dal trono di spade del rock di questo inizio millennio i vari Pristine, Blues Pills, The Answer e compagnia nostalgica.
Look glam alla T.Rex, una sirena blues al microfono (Alia Spaceface) e una serie di brani affascinanti che, amalgamando in un unico sound hard rock britannico, rock blues e psichedelia, si insinuano come serpenti usciti da un trip nella nostra mente e nel nostro corpo, scuotendolo dalle fondamenta, mentre le chitarre decollano, toccando pianeti dove in passato un essere di nome Ziggy partì verso la conquista della Terra.
Questa caratteristica è la differenza sostanziale tra i Travelin Jack ed i loro colleghi, la forte componente glam che si affaccia tra le trame hard blues di brani straordinari per intensità ed emozionalità, crescendo dall’opener per arrivare alla perfezione quando l’album entra nel vivo e ci regala musica rock d’alta scuola con Cold Blood, lo space rock pregno di blues di Galactic Blue, la sentita Time, il rock’n’roll di Miracles che ricorda opere rock come Tommy, il blues dannato e perdente di What Have I Done e Fire, brano marchiato da un’ interpretazione notevole della Spaceface.
I Travelin Jack hanno saputo rielaborare le influenze dei maestri del genere, inventandosi la propria personale rivisitazione del classic rock: questo è l’unico dato certo, mentre il sottoscritto prima o poi tornerà sulla Terra, forse.

Tracklist
1. Land Of The River
2. Metropolis
3. Keep On Running
4. Cold Blood
5. Galactic Blue
6. Time
7. Miracles
8. What Have I Done
9. Fire
10. Journey To The Moon

Line-up
Alia Spaceface – vocals, guitar
Flo The Fly – guitar
Steve Burner – bass
Montgomery Shell – drums

TRAVELIN JACK – Facebook

T-Roosters – Another Blues To Shout

Another Blues To Shout è composto da tredici splendide canzoni, tredici composizioni dove le note del delta prendono vita, tra il blues classico e lo swing.

Ai lettori della nostra webzine non facciamo mancare niente, partendo dal presupposto che, oltre allo zoccolo duro di metallari dai gusti estremi o classici, ci sia pure (come è nel nostro spirito) chi ama la buona musica a prescindere dagli stili che formano la grande famiglia del rock.

E non può mancare il blues, capostipite di tutto quello che si ascolta ai nostri giorni, specialmente ora che, come negli anni settanta, il rock ha ripreso la strada della frontiera che porta al delta del grande fiume, là dove tutto è nata tra il profumo del tabacco ed il tintinnio delle catene.
Quello che non sapete è che i protagonisti di questo viaggio/sogno tra le rive del Mississippi sono i T-Roosters, band di bluesmen italiani giunti al loro al quarto album in circa un decennio di attività.
Another Blues To Shout è composto da tredici splendide canzoni, tredici composizioni dove le note del delta prendono vita, tra il blues classico e lo swing: poco rock dunque, ma un affascinate percorso musicale nel blues delle origini, dove l’armonica diventa a tratti l’assoluta protagonista di sanguigne e ribelli boogie woogie songs e il ritmo instancabile ricorda le lunghe serate fuori dalle povere case degli schiavi, che esorcizzavano la fatica di lunghe giornate nei campi con interminabili e straordinarie jam.
Scritto a due mani da Paolo Cagnoni e Tiziano Galli (testi, musiche e produzione), Another Blues To Shout conferma l’ottima reputazione del gruppo nella scena del genere, non solo nel nostro paese visto l’exploit dello scorso anno quando i T-Rooster hanno strappato una posizione di tutto rispetto al Blues Contest “IBC”, concorso di blues internazionale tenutosi a Memphis.
L’opener Lost And Gone, i brividi suscitati dall’atmosfera accaldata e rustica della splendida Morning’ Rain Blues, lo swing protagonista di Naked Born Blues e il rock’n’roll dei pionieri nella straordinaria Livin’ On Titanic, sono solo una parte del tesoro musicale che scoprirete ascoltando Another Blues To Shout, un album passionale come solo questo genere sa essere.

Tracklist
1 Lost And Gone
2 Morning Rain Blues
3 I Wanna Achieve The Aim
4 On This Life Train
5 Naked Born Blues
6 Sugar Lines
7 Beale Street Bound
8 Livin’On Titanic
9 Black Star Blues
10 Still Walkin’ Down South
11 Missing Bones
12 The Way I Wanna Live
13 I’m Rolling’ Down Again

Line-up
Tiziano “Rooster Tiz” Galli – Voce e Chitarre
Giancarlo “Silver Head” Cova – Batteria e Background Vocal
Luigi “Lillo” Rogati – Basso, Contrabbasso e Background Vocal
Marcus “Bold Sound” Tondo – Armoniche e Background Vocal

T-ROOSTERS – Facebook

The Black Capes – All These Monsters

All These Monsters è un album che scorre via abbastanza liscio, decisamente orecchiabile e ben costruito, ma l’utilizzo stesso di quest’ultimo termine è emblematico di quanto il tutto appaia molto più pianificato che spontaneo.

Chi apprezza sonorità gothic/rock credo che stia attendendo da un pezzo qualcuno in grado di rievocare i fasti del passato: in epoca relativamente recente ci sono riusciti i The 69 Eyes, salvo perdere progressivamente in efficacia dopo i primi 2-3 notevoli lavori.

Ci provano oggi i greci The Black Capes, i quali alla band finlandese si rifanno in maniera abbastanza evidente aggiungendovi un approccio leggermente più robusto e provando talvolta ad attingere, a seconda delle sfumature scelte, da miti del passato come Type 0 Negative, The Cult e, aggiungerei, anche Sentenced.
L’operazione non fallisce ma neppure riesce al 100%, nel senso che All These Monsters è un album che scorre via abbastanza liscio, decisamente orecchiabile e ben costruito, ma l’utilizzo stesso di quest’ultimo termine è emblematico di quanto il tutto appaia molto più pianificato che spontaneo.
Qualche potenziale hit si palesa tra la decina di brani offerti dal gruppo ateniese (Purple Heart, We Will Never Die) facendo battere il piede con convinzione, ma personalmente prediligo la vena doom di Wolf Child o quella più hard rock della title track.
All These Monsters è suonato e prodotto con tutti i crismi e ben interpretato da un vocalist sufficientemente versatile come Alexander S Wamp, bravo nell’alternare un timbro più ruvido al quello più canonico in quota Jirky/Steele, ma sussistono forti dubbi sulla capacità dell’album di restare nel lettore per più di un paio di ascolti; inoltre, fermo restando che sul genere gli spazi di manovra per differenziarsi dai propri modelli non sono moltissimi, i The Black Capes, almeno per ora, paiono saltabeccare tra una e l’altra fonte di ispirazione mettendoci poco o nulla di proprio, e forse è proprio questo lo snodo sul quale dovranno lavorare maggiormennte in futuro.

Tracklist:
1.The Invite
2.Sarah The Witch
3.Wolf Child
4.Purple Heart
5.Now Rise
6.The Black Capes
7.New Life
8.We Will Never Die
9.All These Monsters
10.The Withdrawal

Line-up:
Alexander S Wamp – Vocals
Thanos Jan – Guitar
Irene Ketikidi – Guitar
Chris Rusty – Bass
Christos Grekas – Drums

Dimitri Stathakopoulos – Keys

THE BLACK CAPES – Facebook

Clouds – Destin

I quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento di Daniel Neagoe, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

E’ passato davvero poco tempo da quando mi ritrovai ad esaltare quel capolavoro di malinconia fatta musica intitolato Departe ed eccomi nuovamente alle prese con una nuova uscita marchiata Clouds, frutto dell’instancabile creatività di Daniel Neagoe.

Mai tale prolificità fu più gradita, visto che il livello del pathos resta elevatissimo anche in questa uscita intitolata Destin che, trattandosi di un ep, non consta solo di brani inediti ma anche di riedizioni di altri già usciti in precedenza.
Quello che conta, ovviamente, sono le quattro nuove tracce, ognuna di esse incisa con l’apporto di un diverso ospite alla voce capace di rendere sempre più peculiare e nel contempo completo l’operato di questo supergruppo del doom atmosferico.
In The Wind Carried Your Soul troviamo la voce angelica di Ana Carolina dei cileni The Mourning Sun (dei quali raccomando vivamente, a chi non lo conoscesse, lo splendido Último Exhalario) duettare con Daniel, creando un’alchimia vocale magica ed esaltata da un substrato melodico di rara bellezza; la successiva Fields of Nothingness è interpretata da Mikko Kotamäki (Swallow The Sun, lo specifico per chi fosse capitato qui per sbaglio …), sempre in grado di restituire ogni brano che lo vede protagonista al massimo del suo potenziale evocativo, cosa che avviene anche con questa magnifica canzone che ricorda per struttura quella interpretata da Pim Blanckenstein in Departe (Driftwood).
In Nothing but a Name la parte vocale viene affidata a Mihu, frontman dei meno conosciuti rumeni Abigail, dalla timbrica abbastanza simile a quella di Daniel: qui a fare la differenza è una melodia dolente delineata dal pianoforte e da una chitarra che si ritaglia un maggior spazio solistico rispetto al solito; il quarto e ultimo brano inedito, In this Empty Room, è quello più soprendente, soprattutto perché ci consente di scoprire una grande interprete come la cantante greca Gogo Melone (Aeonian Sorrow), in possesso di una voce versatile e del tutto personale: il duetto con il growl di Neagoe porta il sound su lidi diversi rispetto a quelli più consueti dei Clouds, conferendogli un aspetto meno cupo, sebbene sempre intriso di malinconia.
Destin nella sua fasce discendente presenta le versioni acustiche di You Went so Silent ed Even If I Fall (entrambe tratte da Doliu), che in tale veste perdono parte del loro pathos drammatico ma evidenziano come Daniel sia diventato un magnifico interprete anche quando si trova alle prese con le sole clean vocals, e la riedizione del singolo Errata, uscito nel 2015 nell’intervallo tra i due full length, che si conferma episodio di buona levatura senza raggiungere i picchi di gran parte della produzione dei Clouds.
Nel complesso, i quattro brani inediti rendono Destin un’altra tappa fondamentale per il doom atmosferico, facendo di questo progetto, cangiante in diversi dei suoi protagonisti ma sempre saldamente in mano al talento del musicista rumeno, un appuntamento frequente quanto irrinunciabile per chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. The Wind Carried Your Soul feat. Ana Carolina (Mourning Sun)
2. Fields of Nothingness feat. Mikko Kotamäki (Swallow the Sun)
3. Nothing but a Name feat. Mihu (Abigail)
4. In this Empty Room feat. Gogo Melone (Aeonian Sorrow)
5. You Went so Silent (acoustic Destin version)
6. Even if I fall (Destin version)
7. Errata (re-mixed)

Line up:
Daniel Neagoe – Vocals
Déhà – Bass
Steffan Gough – Guitars
Chris Davies – Violn
Anders Eek – Drums

CLOUDS – Facebook

Frank Capitanio – The Last Man

Con un livello che rimane alto per appeal e talento melodico, The Last Man risulta una ventata di aria fresca nel panorama del rock/pop dal piglio radiofonico.

Diciamolo francamente: siamo invasi da una moltitudine di gruppi presentati dai canali satellitari come i salvatori del rock, in coma da anni e disteso in un giaciglio aspettando il bacio di un giovane principe armato di chitarra, basso, batteria e buone idee, che possa finalmente risvegliarlo.

A noi che ci occupiamo di altre tipologie di rock, più dure e meno commerciali, fa piacere incontrare sul nostro cammino ottime realtà come Frank Capitanio, trio alternative pop/rock della provincia di Teramo, capitanata appunto dall’omonimo chitarrista e cantante, coadiuvato alla batteria da Edolo Ciampichetti e al basso da Lorenzo Marcozzi.
Quindi moderiamo i toni, lasciamo per un po’ le strade impervie dell’alternative metal o del rock vintage tanto di moda di questi tempi, per immergerci nel mondo di The Last Man, opera che passa con disinvoltura dall’alternative rock al pop con un’accentuata vena cantautorale, ricca di sfumature radiofoniche r dalle trame melodiche ed orecchiabili, ma dal tiro irresistibile.
Un album composto da belle canzoni, questo è The Last Man, a tratti più elettrico, in altri molto melodico e dall’ottimo appeal ma rock nel profondo, così come straordinariamente rock è la voce di Frank, che a molti ricorderà dMiles Kennedy (Alter Bridge) ma che sicuramente non manca di personalità e talento, assecondano quelle che sono le brillanti idee evidenziate da un ottimo songwriting.
Il sound, dunque, si muove nel sound del nuovo millennio, lasciando che le melodie prendano il sopravvento sulle graffianti trame rock che fanno comunque parte dello spartito di brani come il singolo Dena, la Soul Asylum oriented Long Away, la splendida ballad Easy e le trame ritmiche di Loser, tra melodie ed urgenza alternative.
Con un livello che rimane alto per appeal e talento compositivo, The Last Man risulta una ventata di aria fresca nel panorama del rock/pop dal piglio radiofonico.

Tracklist
1.A Reason To Fly
2.All The Time Lost
3.Dema
4.Long Away
5.Loser
6.Misery
7.Easy
8.The Last Man
9.Thank You
10.Choose The day

Line-up
Frank Capitanio – Voce, Chitarra
Lorenzo Marcozzi – Basso Elettrico, Back Vocals
Edolo Ciampichetti – Batteria, Percussioni

FRANK CAPITANIO – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=ZVrlwc1hfTk

Nicumo – Storms Arise

Storms Arise non sfigura nei confronti di End Of Silence, ma neppure fa compiere alla band quel passo in avanti a livello di personalità che sarebbe stato auspicabile dopo un lasso di tempo così dilatato.

I finlandesi Nicumo tonano con il loro secondo full length a quattro anni di distanza da quell’End Of Silence che mi aveva abbastanza ben impressionato: con Storms Arise le coordinate non mutano, nel senso che al suo interno continuiamo a trovare un rock piuttosto malinconico, ricco di melodia e con qualche accelerazione che sconfina talvolta nel metalcore.

Il fatto che, come detto, il nuovo lavoro non si discosti granché dal precedente può avere una doppia valenza, nel bene e nel male: per quanto mi riguarda credo che la verità stia nel mezzo, nel senso che Storms Arise non sfigura nei confronti di End Of Silence, ma neppure fa compiere alla band quel passo in avanti a livello di personalità che sarebbe stato auspicabile dopo un lasso di tempo così dilatato.
Nell’album, in apparenza, non c’è nulla che non vada: buone canzoni, melodie e chorus che fanno centro senza troppa fatica, ma in più di un frangente aleggia un che di posticcio che fa storcere il naso, in particolare ciò avviene quando la band finnica prova ad aumentare i giri del motore, finendo per battere in testa nel proporre alcuni brani anonimi e poco coesi con il resto della tracklist.
Esprimo un parere del tutto personale, ma credo che i fan di Sentenced ed Amorphis, due band che costituiscono gli inevitabili punti di riferimento per i Nicumo, non accoglieranno con grande favore le sventagliate di modern metal che affliggono tracce come Guilt, Unholy War (quest’ultima con tanto di ritornello melodico d’ordinanza) e If This Is Your God, I Don’t Need One.
Sono canzoni come Old World Burning, Death, Let Go, Aiolos e la lunga e conclusiva Dream Too Real, nella quale le sporcature estreme sono utilizzate con maggior raziocinio e misura, ad offrire quella che dovrebbe essere, idealmente, l’effettiva cifra stilistica della band, ma ciò avviene senza la dovuta continuità
Hannu Karppinen si conferma cantante di vaglia, non solo quanto regala la sua timbrica calda e pulita ma anche quando inasprisce i toni, e i suoi compari di certo non sfigurano; il problema vero dei Nicumo odierni è che non dispiacciono affatto ma neppure fanno sobbalzare sulla sedia, complice forse una minore ispirazione rispetto al debutto ed una maggiore consapevolezza dei propri mezzi che, per assurdo, può averli spinti ad assolvere il compito cercando di accontentare sia gli ascoltatori dal mood malinconico sia quelli più propensi alle sonorità moderne, finendo per smarrire una direzione stilistica maggiormente definita, nell’uno o nell’altro senso.
Un peccato, perché il rock melanconico alla finlandese è sempre un bel sentire, ma i Nicumo in quest’occasione lo propongono in maniera troppo intermittente.

Tracklist:
1. The Dawn
2. Old World Burning
3. Beyond Horizon
4. Unholy War
5. Death, Let Go
6. Guilt
7. Poltergeist
8. If This Is Your God, I Don’t Need One
9. Sirens
10. Aiolos
11. Dream Too Real

Line up:
Sami Kotila – Bass
Aki Pusa – Drums, Percussion
Tapio Anttiroiko – Guitars
Atte Jääskelä – Guitars
Hannu Karppinen- ocals

NICUMO – Facebook

Karkaos – Children Of The Void

Con un album di un’altra categoria, i Karkaos emergono da un underground ricco di talenti e si conquistano un posto al sole.

Furioso, bellissimo, devastante, melodico, oscuro ed epico, Children Of The Void è tutto questo e anche di più: una tempesta di note metalliche, un vento che dal nord soffia minaccioso e porta metallo estremo sinfonico di livello altissimo.

Loro sono i canadesi Karkaos, gruppo proveniente da Montreal, attivi dal 2009 con questo monicker ma sulla scena come Sinister Vengeance già dal 2003 e una discografia che si completa con un primo ep, In Burning Skies del 2011, ed il primo full length Empire licenziato tre anni fa, ora sul mercato sempre in regime di autoproduzione con questo bellissimo esempio di death metal melodico e sinfonico, in cui le orchestrazioni sono importantissime nel sound così come una verve battagliera che infonde epiche atmosfere a tutto Children Of The Void.
E’ una bellezza inoltrarsi nei meandri di questo lavoro, tra sinfonie epiche e death metal melodico che valorizzano questi cinquanta minuti tempestosi, in un turbinio di spettacolari fughe ritmiche, solos che squartano membra e voci che si rincorrono, quella splendidamente pulita della singer Viky Boyer ed il growl potentissimo e teatrale del chitarrista Vincent Harnois .
Il singolo Kolossus, la successiva Let The Curtains Fall, la title track e via una fuori l’altra, tutte le tracce che compongono Children Of The Void sono uno spettacolare invito alla battaglia, ispirate dai Bal Sagoth, dagli Amon Amarth e dai primi impareggiabili In Flames.
Con un album di un’altra categoria, i Karkaos emergono da un underground ricco di talenti e si conquistano un posto al sole, almeno sulle nostre pagine.

Tracklist:
1. Babel
2. Skymaster
3. Kolossos
4. Let the Curtains Fall
5. Pale
6. Children of the Void
7. Rêverie
8. Tyrant
9. Where Mushrooms Grow
10. Lightbearer
11. The Beast
12. Bound by Stars

Line-up:
Vincent Harnois – Guitars
Sébastien Belanger-Lapierre – Keyboards
Eddy Levitsky – Bass
Samuel Pelletier – Guitars
Viky Boyer – Vocals
Justine Ethier – Drums

KARKAOS – Facebook

Sun Of The Sleepless – To The Elements

Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, dando vita ad una forma di black metal che va a toccare vette difficilmente superabili.

Quando ci si approccia all’ascolto dell’album di una band poco conosciuta penso che tutti, istintivamente, provino a raccogliere qualche notizia sui musicisti che ne fanno parte e sulla sua discografia passata: questo, inevitabilmente, rischia di creare un pregiudizio (nel senso letterale di giudizio preventivo) nel bene o nel male, quando invece i nomi coinvolti nell’opera sono ben noti.

Confesso che, quando è partito To The Elements nel mio lettore stracolmo di album in mp3 da ascoltare per poi provare a descriverne il contenuto nel migliore dei modi, dei Sun Of The Sleepless ricordavo solo che mi erano arrivati via Prophecy Productions ma, aiutato anche da quest’ultimo indizio, ho impiegato ben poco per capire che il musicista coinvolto in questo progetto era Markus Stock, alias Ulf Thodor Schwadorf: per chi ha amato fin dalla prima ora gli Empyrium ed ha apprezzato non poco l’operato del nostro anche con i The Vision Bleak, non è difficile riconoscere l’impronta di uno degli autori maggiormente peculiari tra quelli dediti al lato più oscuro del metal.
Ed ecco scattare il pregiudizio: da quel momento in poi ti attendi di ascoltare qualcosa di speciale, capace di costringerti ad un’attenzione superiore alla media per cogliere al meglio ogni sfumatura, cosa che, per carità, si prova sempre a fare ma con risultati altalenanti, trovandosi spesso di fronte a lavori anche buoni a livello esecutivo e compositivo ma non sempre stimolanti.
Però uno come Markus Stock non può deludere, perché troppo è il talento che madre natura gli ha concesso, regalandoci  con questo suo progetto solista nato alla fine dello scorso secolo la sua personale interpretazione di un black metal che, se già di solito in terra germanica viene interpretata in maniera ben diversa e più ricercata rispetto al resto del mondo, in questo caso tocca vette difficilmente superabili; ovviamente il musicista bavarese non si dimentica d’essere il padre degli Empyrium e certi episodi più rarefatti o acustici lo stanno a dimostrare (The Burden, il cui testo è tratto dall’opera shakespeariana la Tempesta, e Forest Crown), ma nei restanti cinque brani fa sciogliere il face painting a una moltitudine di ragazzotti di buona volontà, esibendo qualcosa che rasenta lo stato dell’arte del genere, almeno per quanto riguarda il suo aspetto più atmosferico ed evocativo.
Bastano pochi secondi di Motions per immergersi nell’atmosfera austera che il marchio Sun Of The Sleepless regalerà lungo lo spartito creato per To The Elements: questo brano è uno dei più belli ascoltati nel genere negli ultimi anni, e il piede batte ai ritmi parossistici dei blast beat mentre mentre lo spirito si lascia trasportare da un crescendo melodico che si vorrebbe interminabile.
Echi di Empyrium e The Vision Black si inseguono e si fondono in una nuova ed ancora più oscura veste, passando per la superba The Owl dedicata al meraviglioso rapace notturno, per arrivare alla conclusiva Phoenix Rise, che si ammanta di una più malinconica melodia per poi chiudersi con una citazione tolkeniana tratta da La Compagnia dell’Anello.
Da un musicista di questo spessore non ci poteva attendere nulla di meno, ma ogni volta che si palesa un album di simile livello qualitativo si rinnova quel momento magico che è il piacere della scoperta e la voglia di riascoltare queste note non appena se ne avrà l’occasione …
Là fuori c’è davvero tanta grande musica, gran parte della quale il popolo degli appassionati è destinato ad ignorare stante l’impossibilità fisica di ascoltarla tutta: uno dei nostri compiti è anche far emergere ciò che davvero non può e non deve essere ignorato, come appunto questo primo full length dei Sun Of The Sleepless del  bravissimo Markus Stock.

Tracklist:
1. The Burden
2. Motions
3. The Owl
4. Where in My Childhood Lived a Witch
5. Forest Crown
6. The Realm of the Bark
7. Phoenix Rise

Line up:
Ulf Theodor Schwadorf – Everything

SUN OF THE SLEEPLESS – Facebook

Cunning Mantrap – Hazmat

It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione al sole.

Ecco un’altra ottima band dai suoni hard rock in arrivo dal centro Europa, da quelle terre germaniche dove il genere ed i suoi derivati splendono di tradizione ed il metal/rock trova la sua patria ideale.

I Cunning Mantrap sono un terzetto di rockers con un solo ep alle spalle (Dull Days), ora seguito da Hazmat, nuovo e notevole lavoro che spazia tra hard rock, grunge e stoner metal, sguaiato, bluesy e psichedelico quanto basta per lasciarlo nel lettore a far danni nelle vostre serate alcoliche.
Licenziato dalla Fastball Music lo scorso anno, MetalEyes IYE lo ripropone ai suoi lettori, che di deserto arso da una palla infuocata e vulcanici riff se ne intendono.
In verità non siamo al cospetto di chissà quale novità: il sound del gruppo tedesco segue le strade polverose di molte hard rock band del momento, ma sfido chiunque a non muovere il fondo schiena e sbattere la capoccia al ritmo di questa dozzina di brani anfetaminici, mentre gli anni settanta ed i suoi eroi ammiccano soddisfatti alle gesta di Phry McDunstan, Tobias Schmidt e Lukas Bönschen da Colonia.
It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione a un sole che illumina brani come l’opener Red, dal sound creato a Seattle e portato in terra teutonica da Weary, mentre la varia raccolta di tracce porta l’ascoltatore ad assaporare diverse atmosfere tra i cieli dove vola il dirigibile zeppeliniano, il deserto dove corre la macchina Kyuss e le pozzanghere di una piovosa città americana dove bazzicavano Alice In Chains e Soundgarden.
Hazmat è dunque un ottimo lavoro , diretto, senza fronzoli ma ricco di buone canzoni: cercatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.Red
2.Company
3.Play The Prophet
4.Uncanny Volley
5.A Light Have Should Have Shined
6.Detox
7.Weary
8.The Past
9.The Future II
10.Orange
11.Straight Outta Hand
12.The Course Of The Leaden Tongue

Line-up
Phry McDunstan – Lead guitars, bass
Tobias Schmidt – Bass
Lukas Bönschen – Drums

CUNNING MANTRAP – Facebook

Thy Art Is Murder – Dear Desolation

Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Ormai, con l’uscita di questo ultimo lavoro, la definizione deathcore per descrivere la musica degli australiani Thy Art Is Murder risulta sicuramente forzata, ma andiamo con ordine.

La band di Sydney torna con Dear Desolation quarto album in studio licenziato in Europa dalla Nuclear Blast che segna il ritorno dell’orco CJ McMahon, allontanatosi all’indomani dell’uscita di The Depression Session, split album in compagnia di The Acacia Strain e Fit for an Autopsy, ma rientrato dopo pochi mesi.
Accompagnato da un’inquietante copertina che vede ritratto un famelico lupo allattare un agnellino con l’intenzione di sbranarlo subito dopo, Dear Desolation è un buon esempio di brutal death metal ispirato da soluzioni moderne, efferato e terribile come le fauci del grande predatore.
A tratti l’oscurità pressante ed il continuo massacro vengono stemperate da soluzioni melodiche che rimangono tragiche ed infauste, mentre il vorace lupo prende le sembianze del singer, animalesco e cattivo come pochi.
Nella sua interezza l’album risulta un macigno estremo di death metal brutale e moderno, accentuato da devastanti sfuriate e mid tempo che sono muri di arrembante metallo oscuro, mentre le sei corde questa volta risultano più varie e melodiche nel gestire il proprio lavoro e l’elemento elettronico/atmosferico è presente, senza però mettere in discussione la natura brutal dell’opera.
L’ultimo lavoro dei deathsters australiani non è sicuramente di facile assimilazione, anche se la durata è nella media (una quarantina di minuti), grazie ad una tragica ed oscura anima che aleggia sui brani così da soffocare la title track, Death Dealer, Into Chaos We Climb e le altre tracce in un buio perenne di dannazione e violenza.
Più death metal che core, Dear Desolation è da considerare un buon ritorno per il quintetto australiano, una macchina estrema moderna legata da un filo neanche troppo sottile alla tradizione.

Tracklist
1. Slaves Beyond Death
2. The Son Of Misery
3. Puppet Master
4. Dear Desolation
5. Death Dealer
6. Man Is The Enemy
7. The Skin Of The Serpent
8. Fire In The Sky
9. Into Chaos We Climb
10. The Final Curtain

Line-up
CJ McMahon – vocals
Andy Marsh –
Sean Delander – guitars
Kevin Butler – bass
Lee Stanton – drums

THY ART IS MURDER – Facebook

BVDK – Architecture of Future Tribes

Un lavoro davvero particolare, ma meritevole di grande attenzione, che rappresenta l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal.

Tanto per cambiare è dalla vicina Francia che arriva l’ennesima manipolazione audace e fantasiosa della materia black metal, questa volta ad opera del trio denominato BVDK.

Una tantum il termine black non va associato solo al metal ma anche alla musica proveniente dall’Africa: in Architecture of Future Tribes avviene infatti l’audace tentativo di fondere i furiosi blast beat con elementi tribali ed elettronici, andando a formare un ibrido tanto improbabile quanto efficace; inutile specificare pertanto che qui siamo molto lontani dalle dissonanze sperimentali in quota Blut Aus Nord o Deathspell Omega, per lasciare sfogare piuttosto un’indole industrial sulla quale va ad aderire una sorprendente e melodica capace di catturare l’attenzione ogni singolo brano.
L’unico elemento riconducibile alla normalità è la voce, che strepita in maniera esasperata ed in lingua madre liriche sopraffatte, a livello di produzione, dalla furia organizzata della strumentazione; se Snatcher esibisce un volto ballabile, Nana Buluku parrebbe sfogare all’infinito un rabbioso black atmosferico, prima che il break centrale ci faccia piombare nel bel mezzo del continente nero e delle sue affascinanti nenie tribali, e se La Langue Sanglante è un notevole strumentale che mette in luce anche un buon lavoro chitarristico all’interno di un’inquietante atmosfera cinematografica, Jericho’s Pride è un crescendo emotivo che quando sembra pronto per esplodere si suddivide in velenosi rigagnoli elettro-tribali.
Psalm 32 chiude l’album risultando inferiore per suffisso numerico del brano dei Ministry, ma eguagliandolo o quasi in quanto a penetrazione ed ossessività, a suggello di un lavoro davvero particolare ma meritevole di grande attenzione, soprattutto da parte di chi ama farsi sorprendere dalle soluzioni originali che non difettano certo ai nostri cugini d’oltralpe.

Tracklist:
1. Snatcher
2. Surreptitious Cluster
3. Nana Buluku
4. La Langue Sanglante
5. Bahir Dar
6. Jericho’s Pride
7. Dar es Salaam
8. Psalm 32

Line-up:
Scree – Guitars
A-152 – Guitars, bass, electronics
Lvx – Vocals, electronics

BVDK – Facebook

Firesphere – Requiem

Una proposta fuori dai soliti schemi dettati dalla musica gothic/dark, forse ancora da registrare leggermente per rendere più fluido l’ascolto, ma che a tratti regala ottima musica avvolta dalle ombre di emozioni malinconiche ed intimiste.

I Firesphere sono un progetto, una concept band capitanata dalla cantante e tastierista giapponese Rosemary Butterfly e dal chitarrista e cantante Priest; Requiem è stato ristampato dopo solo un anno dalla Darksign Records che ha messo le mani sul gruppo e, alla luce della buona qualità della proposta, si direbbe che abbia fatto senz’altro bene.

I Firesphere potrebbero facilmente essere scambiati per il classico gruppo gothic di moda in questo periodo, invece tra le trame di questo loro primo album c’è molto di più: un rock alimentato da una vena progressiva e cinematografica, l’ elettronica che fa capolino tra le tracce ed un uso di sfumature teatrali, che si avvicina  al metal/rock d’autore.
Un concept che si alimenta di drammatica tensione mentre i vari generi usati con maestria, variano l’ascolto che si riempie di epiche atmosfere, visionari quadri dark rock e rabbiose parti industrial metal, usate con parsimonia ma presenti ed efficaci nell’economia dell’opera.
Le parti strumentali dal taglio progressivo sono il fiore all’occhiello del sound proposto dai nostri (Fate), mentre i due vocalist si scambiano il microfono e l’aria si fa pesante, operistica e magniloquente in tracce sinfoniche come In The Silence.
Immaginatevi i primi Savior Machine potenziati da dosi industriali, aperture prog metal alla Queensryche, dark rock e musica dal taglio cinematografico ed avrete idea del sound offerto dal gruppo proveniente da Orlando.
Una proposta fuori dai soliti schemi dettati dalla musica gothic/dark, forse ancora da registrare leggermente per rendere più fluido l’ascolto, ma che a tratti regala ottima musica avvolta dalle ombre di emozioni malinconiche ed intimiste.

Tracklist
1. Requiem
2. Behind These Eyes
3. Silent Darkness
4. In The Silence
5. Tonight
6. I See You
7. Release Me
8. Into My Heart
9. Calling Me
10. Fate (instrumental)
11. Come With Me
12. Bringing You Here

Line-up
Priest (Ken Pike)- vocals
Rosemary Butterfly (Ryo Utasato-Pike) – vocals
Blacksmith (Ed Dumas) – guitar
Roadblock (Tyler Colick) – guitar
Tsukime (Robert Adams) – keyboards
Asmodeus Stone (Chris Falwell) – bass
Mason (Anthony Marou) – drums

FIRESPHERE – Facebook

Inanimate Existence – Underneath A Melting Sky

Dopo le ultime prove deludenti da parte di gruppi anche più conosciuti della band californiana, Underneath A Melting Sky risulta una piccola ventata di aria fresca in un genere che ultimamente appariva sempre più asfittico.

Finalmente una band di technical death metal che, oltre a sfoggiare una tecnica invidiabile, ci riserva un concentrato di digressioni progressive ricamate da melodie sufficienti quanto basta, almeno, per non far perdere l’attenzione a chi ascolta.

Attivi dal 2010 nella zona della famosa Bay Area californiana, giungono al quarto album i deathsters Inanimate Existence, addirittura a meno di un anno dal precedente lavoro intitolato Calling For A Dream.
Archiviata la copertina fantasy che poco ha a che fare con la musica del quartetto, ma più utile forse al nuovo album di una qualsiasi band power metal, Underneath A Melting Sky ci investe con la sua intricata forza estrema, valorizzata da buone melodie ed un gusto progressivo evidenziato dalle sfumature orchestrali che attraversano molti dei brani che compongono l’album.
Niente di nuovo o clamoroso, ormai il genere non fa più notizia e i gruppi formati da talentuosi musicisti estremi spuntano come funghi, ma alla base dell’ultimo disco del gruppo statunitense c’è la voglia di non andare oltre le regole di uno spartito completamente avulso da tecnicismi fine a sé stessi di molti loro colleghi.
In Moonlight I Am Reborn, Blood of the Beggar o The Djinn, gli Inanimate Existence valorizzano l’ottima tecnica strumentale con un songwriting ben calibrato, offrendo un prodotto estremo comunque assimilabile anche da chi preferisce il death metal classico e tenendo nel dovuto conto l’essenziale forma canzone.
Dopo le ultime prove deludenti da parte di gruppi anche più conosciuti della band californiana, Underneath A Melting Sky risulta una piccola ventata di aria fresca in un genere che ultimamente appariva sempre più asfittico.

Tracklist
1.Forever to Burn
2.Underneath a Melting Sky
3.In Moonlight I Am Reborn
4.Blood of the Beggar
5.The Old Man in the Meadow
6.The Djinn
7.The Unseen Self
8.Formula of Spores

Line-up
Cameron Porras – Guitar, Vocals
Scott Bradley – Bass, Vocals
Ron Casey – Drums

INANIMATE EXISTENCE – Facebook

Secret Sight – Shared Loneliness

Un album intenso, melodico e tragicamente vitale, privo di intoppi come il fluido scorrere dell’acqua in un torrente.

Quando la new wave ed il post punk si uniscono al dark progressivo tanto in voga negli ultimi tempi, ecco che prende forma un rock emozionale nel quale trame malinconiche accompagnano l’ incedere di brani in cui si respira un epicità scovata nella vita di tutti i giorni.

Parlando di new wave non ci si può dimenticare degli anni ottanta e dei gruppi cardine del genere, ma senza fare nomi e cognomi ci crogioliamo nelle linee melodiche della voce o degli arpeggi elettrici di una chitarra vestita di nero e truccata con il mascara, leggero ma presente.
I Secret Sight da Ancona, nati dalle ceneri del progetto Coldwave e subito in pista con il debutto Day.Night.Life, tornano con questo bellissimo album , maturo, coinvolgente e armonicamente sopra le righe, una raccolta di tracce che dei generi descritti prendono il meglio e lo riassumono in un rock che vive di una grande malinconia ma che si apre anche alla speranza, mentre i più vecchi tra voi gusteranno passaggi che risulteranno familiari, ma perfettamente incastonati in un sound personale e coinvolgente.
Shared Loneliness vi ipnotizzerà, seducente e bello mentre le sue spire si avvolgeranno sempre più ad ogni brano, dall’opener Lowest Point per arrivare all’ultima nota della conclusiva Sometimes, passando tra le note che si fanno diaboliche e pregne di lucide melodie decadenti in Blindmind o nella bellissima Over, senza perdere un solo attimo dell’urgenza post punk (Stage Lights).
Un album intenso, melodico e tragicamente vitale, privo di intoppi come il fluido scorrere dell’acqua in un torrente.

Tracklist
1.Lowest Point
2.Stage Lights
3.Blindmind
4.Fallen
5.Flowers
6.Swan’s Smile
7.Over
8.Surprising Lord
9.Sometimes

Line-up
Cristiano Poli – vocals, guitar
Lucio Cristino – vocals, bass
Enrico Bartolini – drums

SECRET SIGHT – Facebook

One Eyed Jack – What’m I Getting High On?

Il trio lombardo non si nasconde certo dietro ad un dito, ti sbatte in faccia le proprie influenze e come se fossimo tutti trasportati in un locale della Seattle sfatta di rock ed eroina, ci consegna un valido tributo ad una delle scene musicali più importanti del secolo scorso.

Echi di Bleach e Nevermind, lasciati al caldo sole del deserto della Sky Valley, formano un sound massiccio e profondo, mentre il tempo si ferma e con una brusca inversione a U ci riporta ai primi anni novanta e alle perturbazioni musicali che, come la pioggia, fanno di Seattle una delle città più cupe del mondo.

Ma siamo nel 2017 e nel Nord Italia, precisamente nel bresciano dove si aggirano da qualche anno gli One Eyed Jack, tornati dopo un primo album autoprodotto con questo macigno di hard rock americano dalle ispirazioni grunge/stoner intitolato What’m I Getting High On?, licenziato dalla Fontana Indie Label 1933.
Il trio lombardo non si nasconde certo dietro ad un dito, ti sbatte in faccia le proprie influenze e come se fossimo tutti trasportati in un locale della Seattle sfatta di rock ed eroina, ci consegna un valido tributo ad una delle scene musicali più importanti del secolo scorso.
Ovviamente gli One Eyed Jack ci mettono del loro, che consiste nello stonerizzare il tutto con un basso grasso che al calore cola di liquido vischioso, presente come i riff potenti della sei corde ed il cantato malato, nervoso ma a tratti rilassato prima di esplodere in rabbiosi chorus di scuola Cobain.
Primetime, The Edge Of The Soul, l’atmosfera tirata dal basso che pulsa di Washyall, l’urgenza punk di Shitting Blood, e una presa live che non mancherà di fare vittime dall’alto di un palco fanno di What’m I Getting High On? un lavoro diretto e che ben fotografa l’influenza dei gruppi di Seattle sul rock del nuovo millennio.
L’album potrà risultare magari poco originale ma non ci sono certamente dubbi sul suo impatto.

Tracklist
1. Primetime
2. Little Junior Finally Grew A Beard
3. Soon Back Home
4. Shitting Blood
5. Sgrunt
6. The Edge of the Soul
7. Daily Abuse
8. Drama Shit
9. Washyall
10. Dog Fight

Line-up
Daniele – chitarre e voci
Giampietro – bassi
Dariored – batterie

ONE EYED JACK – Facebook

Drug Honkey – Cloak Of Skies

Un disco senz’altro interessante ma decisamente ostico, ad opera di musicisti ai quali, fondamentalmente, interessa rappresentare la realtà che si annida al di sotto dei trucchi e dei belletti, riuscendoci piuttosto bene.

Gli statunitensi Drug Honkey sono in circolazione da oltre quindici anni, nel corso dei quali hanno dato alle stampe cinque full length, ultimo dei quali è questo Cloak Of Skies, ma per assurdo sono più noti per aver annoverato tra le loro fila un nome pesante dell’underground americano come quello di Blake Judd.

Questo dimostra quanto spesso ci si fermi alle apparenze o ai semplici nomi senza provare ad andare oltre, un’operazione invece di fondamentale importanza per provare a penetrare nella spessa coltre di fango che i nostri continuano periodicamente a riversare sul’audience.
Cinque anni dopo Ghost in the Fire, la band di Paul Gillis ritorna con un lavoro all’insegna della sperimentazione psichedelica e dissonante, inserita su un’impalcatura death doom che, complice la sempre ottima copertina di Paolo Girardi, risulta un portale spalancato su un mondo parallelo per nulla rassicurante od accogliente.
Cloak Of Skies si può approssimativamente suddividere in due parti, con la prima metà che offre brani assolutamente devastanti ma non del tutto privi di barlumi di accessibilità (soprattutto nei finali delle ottime Pool of Failure ed Outlet of Hatred) e la seconda che vede il suono ripiegarsi del tutto o quasi su sé stesso, per confluire nel delirio di una title track attraversata anche dal sax dell’ospite Bruce Lamont degli Yazuka.
C’è poco da descrivere e molto da ascoltare, a patto di mantenere occhi e soprattutto orecchi ben aperti, anche se probabilmente in molti casi ciò non sarà sufficiente, visto che il tasso di incomunicabilità trasmesso dai Drug Honkey con questo lavoro si spinge ben oltre il livello di guardia, nonostante la decisione di chiudere con il remix dell’opener Pool of Failure affidato a Justin Broadrick, capace di applicare la sua geometricità al fragore della versione originale, vada a costituire un ulteriore elemento in grado di attirare l’attenzione.
Un disco senz’altro interessante ma decisamente ostico, ad opera di musicisti ai quali, fondamentalmente, interessa rappresentare la realtà che si annida al di sotto dei trucchi e dei belletti, riuscendoci piuttosto bene.

Tracklist:
1. Pool of Failure
2. Sickening Wasteoid
3. Outlet of Hatred
4. (It’s Not) The Way
5. The Oblivion of an Opiate Nod
6. Cloak of Skies
7. Pool of Failure (JK Broadrick remix)

Line-up:
Paul Gillis (Honkey Head) – Vocals, synths, samples, fx
Adam Smith (BH Honkey) – Drums
Gabe Grosso (Hobbs) – Guitar
Ian Brown (Brown Honkey) – Bass

DRUG HONKEY – Facebook