Bloodstrike – In Death We Roth

Qualità media più che sufficiente per entrare nel cuore dei fans, i brani di In Death We Roth sprigionano aggressività e attitudine, confermando le buone impressioni avute lo scorso anno.

Lo scorso anno ci eravamo occupati dell’esordio autoprodotto di questa ottima band statunitense, capitanata dalla devastante voce di miss Holly Wedel, singer death coi fiocchi, dotata di un growl da far impallidire molti dei suoi colleghi maschi, ed intenta a valorizzare il sound del gruppo, un metal estremo di derivazione old school dai
richiami allo tsunami scandinavo abbattutosi sul mondo metallico nei primi anni novanta.

Necrobirth risultava così un ottimo biglietto da visita per il gruppo di Denver, composto da tre brani di pesantissimo death metal classico, ed infatti la band ha trovato una label pronta a licenziare il primo lavoro sulla lunga distanza, e In Death We Roth vede la luce tramite la Redefining Darkness Records in questa ultima parte dell’anno.
L’album consta di undici brani, compreso la title track, già apparsa sull’ep dello scorso anno e la cover di un brano dei seminali Grave (Soulless) a ribadire la totale devozione dei cinque musicisti americani all’old school scandinavian death metal.
Death metal aggressivo e feroce, un tornado che si abbatte senza pietà e affonda gli artigli nella carne degli amanti del genere come un coltello nel burro, undici lame affilate che tagliano, squartano e dilaniano, un arcobaleno di tutte le tonalità del nero, tra classiche bordate e improvvise accelerazioni.
Qualità media più che sufficiente per entrare nel cuore dei fans, i brani di In Death We Roth sprigionano aggressività e attitudine, confermando le buone impressioni avute lo scorso anno.
Ottima la coppia d’asce che sforna riff su riff, da tregenda la sezione ritmica e superba la prestazione della Wedel al microfono, fanno di questo primo lavoro, un’opera estrema riuscita, ben inserita nel ritorno in auge dei suoni classici, iniziata da un paio d’anni nell’underground e dove i Bloodstrike trovano la propria consacrazione.
I brani dalla tensione altissima, creano un monolito sonoro notevole, ma non si fatica ad arrivare agevolmente in fondo al cd, i clichè e le varie influenze sono ben evidenti tra i meandri di songs come l’opener Abomination, Cancer Among Man, Bells Of Death e Silent Killer, perciò cari miei deathsters, Entombed, Grave e Dismember continuano ad essere i totem a cui verrete legati e torturati dal gruppo statunitense.
Ottima conferma…avanti così.

TRACKLIST
01. Abomination
02. Putrefied Rapist
03. In Death We Rot
04. Cancer Among Men
05. Death Storm
06. Maggots for a Whore
07. Bells of Death
08. Bloodrotten
09. S.S.B. (Sex, Satan, Beer)
10. Silent Killer
11. Soulless (Grave Cover)

LINE-UP
Holly Wedel- Vocals
Jeff Alexis- Guitars
Joe Piker- Guitars
Rhiannon Wisniewski – Bass
Ryan Alexander Bloom – Drums

BLOODSTRIKE – Facebook

Ephyra – Along The Path

Le buone prove dei musicisti e l’ottima produzione (che per il lavori targati Bakerteam è una costante), fanno di Along The Path un’opera convincente e consigliata a tutti gli amanti del genere proposto.

La scena estrema nazionale si riempe ogni giorno di più, di realtà coinvolgenti in ogni sottogenere di cui è composta, dando l’impressione finalmente, di un mondo unito e compatto, visto che i suoi protagonisti, si scambiano favori e si ospitano a vicenda sui propri lavori.

Un mondo quello del metal che più di ogni altro, in questi anni di discesa verso l’abisso di mediocrità, che sembra coinvolgere la razza umana, acquista ancora più valore con i suoi principi e la sua voglia di fratellanza, fiero portavoce di un life style che nella vita normale sembra ormai una chimera.
Gli Ephyra sono un gruppo lombardo (Como) al secondo lavoro, uscito per l’ottima Bakerteam, etichetta nostrana che nel metal è sinonimo di qualità, si sono formati una decina d’anni fa e hanno esordito nel 2013 con il full length Journey.
Il loro sound è strutturato su di un ruvido folk metal, dai tratti estremi, con l’anima death ben in evidenza, così da risultare epico, drammatico e guerresco.
Perfettamente bilanciate l’uso delle due voci, con la dolce ugola della vocalist Nadia Casali a duettare in armonia con il growl di Francesco Braga, in un epico rincorrersi tra lo spartito dell’album e in un sali e scendi di atmosfere che non lasciano una sola nota al folk da locanda, ma tengono alta la tensione epico/oscura anche nei momenti di apparente calma data dagli strumenti classici.
Graditi ospiti danno il loro supporto affinché Along The Path sia un album imprescindibile per chi ama il genere, Lisy Stefanoni (Evenoire), Davide Cicalese (Furor Gallico),Silvia Bonino (Folkstone) e Mattia Stancioiu che ha anche registrato il tutto agli Elnor Studio.
Il guerriero alla ricerca della propria strada da intraprendere nella vita e sempre in lotta con le trappole che il destino gli tende, potrebbe essere la storia di ognuno di noi, guerrieri senza spade e scudi, ma in continua guerra con la vita di tutti i giorni e Along The Path potrebbe essere la colonna sonora di chi non si arrende e continua per la propria strada fiero e mai domo, come un cavaliere d’altri tempi.
Melodie folk e sfuriate death accompagnano il nostro eroe in questo viaggio, non c’è tregua, nessuna apertura, solo epicità, e tanta convinzione nei propri mezzi per la band lombarda che regala ottime cavalcate di death metal melodico e bellissime parti folk celtiche, mantenendo un’elevata qualità nel songwriting per tutto il lavoro.
Sinceramente ho trovato l’album, a suo modo originale, l’alchimia creata tra la parte folk e quella metallica viaggia in perfetta simbiosi, così come le voci e chiaramente ne guadagnano i brani che hanno in On At One, Cruel Day, Last Night e Land’s Calling le parti cruciali e a mio avviso le songs trainanti di questo ottimo album.
Le buone prove dei musicisti e l’ottima produzione (che per il lavori targati Bakerteam è una costante), fanno di Along The Path un’opera convincente e consigliata a tutti gli amanti del genere proposto.

TRACKLIST
1.Melancholy Rise
2.Human Chaos
3.All At Once
4.Cruel Day
5.Flaming Tears
6.Hope
7.Last Night
8.Riding With The Sun
9.Land’s Calling
10.No Dream
11.Alive

LINE-UP
Nadia Casali – Vocals
Francesco Braga – Vocals
Matteo Santoro – Guitars & Choirs
Paolo Diliberto – Guitars & Choirs
Alessandra Biundo – Bass
John Tagliabue – Drums

EPHYRA – Facebook

Crimson Chrysalis – Enraptured

Il nuovo lavoro supera e di tanto le più rosee aspettative sui Crimson Chrysalis, incoronando René Van Den Berg come una delle migliori interpreti del rock sinfonico internazionale.

Due anni fa Crimson Passion Cry giunse come biglietto da visita per questa ottima band sudafricana, capitanata dalla bravissima René Van Den Berg, passionale e carismatica singer, dotata di una splendida voce e valorizzata da un buon lotto di canzoni.

Accompagnata dalla sempre presente Elben Schutte e da un manipolo di ottimi musicisti, la band di Pretoria, licenzia questo secondo lavoro, qualitativamente superiore al già buon debutto e assolutamente sopra le righe per interpretazione e songwriting.
La musica dei Crimson Chrysalis rimane elegante e raffinata, un symphonic rock d’autore, ma questa volta accompagnata da una forte connotazione sinfonica e drammatica, valorizzata dall’interpretazione di Rene e dall’intervento di graditi ospiti che mettono l’accento ad un’opera sontuosa.
Con tutti i crismi per essere considerata(musicalmente) un’opera rock, Enraptured dilaga tra orchestrazioni, accenni metallici, ed ottime e sentite ballate, dove a farla da padrona è la prova della cantante sudafricana, interprete praticamente perfetta, macchina emozionale alla pari della musica creata, a tratti magniloquente ed epica, molte volte nobile ed elegante.
Una raccolta di brani che producono valanghe di brividi, forti di uno stato di grazia in tutte le sue componenti, Enraptured vive di momenti musicali altisonanti, ad iniziare dalle due songs che vedono impegnate le ospiti di cui accennavo, Andrea Casanova( Rainover) sulla splendida Elegy e Jessica Mercy (Anaria) sulla bombastica Burning Fire With Fire.
Il resto è Symphonic Rock da applausi dall’opener Soul Stalker, passando per Sacred Vow, Fear, la ballad Virgin Death e la chiusura lasciata alla cover di Poison, famoso brano del mostro sacro Alice Cooper in versione sinfonica e dark.
Il nuovo lavoro supera e di tanto le più rosee aspettative sui Crimson Chrysalis, incoronando Rene Van Den Berg come una delle migliori interpreti del rock sinfonico internazionale.

TRACKLIST
01. Soul Stalker
02. Surrender
03. Elegy (ft. Andrea Casanova)
04. Sacred Vow
05. Infinity
06. Burning Fire With Fire (ft. Jessica Mercy)
07. Enlightenment
08. Fear
09. The Raven
10. Virgin Death (The classical rendition)
11. Grace
12. Poison

LINE-UP
Keyboards and programming: Elben Schutte
Guitars: Mauritz Lotz, Cobus Schutte
Bass: Cobus Schutte, Denny Lalouette
Drums & percussion: Vinnie Henrico
Strings: Serge Cuca, Miro Chakaryan, Jacques Fourie, Camelia Onea, Waldo Luc Alexander, Evert van Niekerk, Lizelle le Roux, Leoni Greyling, Dorota Drews (violin); Vladimir Ivanov, Judith Klins, Violetta Miljkovic (viola); Susan Mouton, Carel Henn, Maciej Lacny, Laurie Howe, Toni Ivanov, Kerryan Wisniewski (cello)
Solo cello: Susan Mouton
Solo violin: Serge Cuca, Miro Chakaryan
French horn: Shannon LaBonte Armer
African drummers on “Burning fire with fire”: Thabo Legae, Mandla Ngwenya, Enock Hlatswayo, Bonginkosi Ngwenya, Gregory Mkhabela.
Xhosa vocals on “The Raven”: The Gugulethu tenors
Strings & French horn scoring & sheet music: Marlene Hay & Evert van Niekerk
Lead vocals: René van den Berg, except “Elegy” ft. Andrea Casanova (Rainover) & “Burning fire with fire” ft. Jessica Mercy (Anaria).
Backing & choir vocals: Ruan Xen, René van den Berg & Elben Schutte, Amryl Twigg, Elzanne Crause, Adolph de Beer

CRIMSON CHRYSLAIS – Facebook

Поезд Родина / Funeral Tears – Frozen Tranquility

Buon split album proveniente dalla sempre attiva scena dell’est europeo, con protagoniste due realtà del funeral doom minori, ma non per questo trascurabili come Поезд Родина e Funeral Tears.

Buon split album proveniente dalla sempre attiva scena dell’est europeo, con protagoniste due realtà del funeral doom minori, ma non per questo trascurabili come Поезд Родина e Funeral Tears.

La prima band (la cui traslitterazione nel nostro alfabeto diventa Poezd Rodina) è un duo formato dal russo Andrey T., che si occupa di tutti gli strumenti, e dall’ucraino Eugene, che presta il proprio aspro screaming; nel caso dei Поезд Родина parlare di funeral doom è forse un po’ forzato, visto che nel loro sound affiorano non pochi elementi che riportano direttamente al depressive più malato e melanconico.
Un discorso che tutto sommato si può fare in parte anche per la one man band Funeral Tears del russo Nikolay Seredov che, sebbene si muova su territori più propriamente doom, mantiene comunque quei tratti disperati tipici del DSBM
Detto questo, per amor di precisione e per non ingenerare equivoci di sorta in chi si apprestasse all’ascolto, Frozen Tranquillity si rivela un lavoro ispirato, capace di esibire un mood doloroso, spesso in maniera lancinante e sempre con una certa continuità; mediamente più lunghi, i brani dei Поезд Родина sono più atmosferici e dall’impatto maggiormente drammatico, mentre quelli dei Funeral Tears sfruttano frequentemente il contributo della chitarra solista per spingere sul lato malinconico del genere proposto, con una prestazione vocale da parte di Seredov che si fa preferire rispetto a quella del suo dirimpettaio.
Nel complesso, i brani migliori di ciascuna band sono forse i primi in scaletta, Ледяная Голгофа e Разливая по венам усталость, ma se non vengono raggiunti picchi memorabili va detto che il livello medio si mantiene sempre su standard piuttosto buoni, facendo sì che entrambi i nomi entrino di diritto tra quelli da tenere sotto stretta osservazione in occasione di un prossimo full length.

Tracklist:
1.Поезд Родина – Ледяная Голгофа
2.Funeral Tears – Разливая по венам усталость
3.Поезд Родина – Всего лишь смерть
4.Funeral Tears – Eternal Tranquility
5.Поезд Родина – Мертві квіти
6.Funeral Tears – Hope

Line-up:
Поезд Родина
Andrey T. – All instruments, Lyrics
Eugene – Vocals

Funeral Tears
Nikolay Seredov – Everything

FUNERAL TEARS – Facebook

Gaijin – Gaijin

Ottima partenza e piccolo assaggio delle capacità del gruppo Indiano, che potrebbe riservare grosse soddisfazioni agli amanti del genere, specialmente per quelli che seguono le vicende musicali del metallico paese asiatico.

Mumbai, tra i meandri della megalopoli indiana si aggirano entità che si nutrono di metal estremo che, sempre più voraci, crescono a dismisura, invadendo, come un virus il mercato underground metallico, quello più violento ed estremista.

I Gaijin fanno parte di questa covata malefica, ed arrivano anche loro, dopo un’onorata gavetta al primo parto discografico, sotto forma di un ottimo ep di tre brani roboanti, veloci e tecnicissimi.
Un metal estremo che travolge a colpi di technical death metal, dalle indubbie risorse, suonato dannatamente bene e neanche troppo cervellotico.
Il quintetto ha stoffa da vendere e lo dimostra subito, completando l’ep con un brano in chiusura strumentale (Anamnesis) roba da band navigata, non certo da pischelli al primo vagito discografico.
Labirinti ed intrecci chitarristici( Jay Pardhy e Vinit Jani, davvero bravi con le sei corde), evidenziano una personalità debordante, il sound, strutturato su devastanti prove di forza della sezione ritmica(Karan Oberoi al basso e Ajit Singh al drumkit) che, non contenta, arricchisce la sua prova con fenomenali cambi di tempo ed elergisce potenza ed un mood progressivo che coccia con il growl brutale del buon Malcolm Soans.
Dead Planet e Meiosis accentuano il vortice in cui il gruppo asiatico ci scaraventa, siamo nel death metal tecnico, quindi niente smancerie e via per scale e solos virtuosissimi, lasciando che le influenze o meglio, le ispirazioni(Obscura, Cynic e Cannibal Corpse), escano dai solchi dell’album in tutta la loro inesauribile potenza.
Ottima partenza e piccolo assaggio delle capacità del gruppo Indiano, che potrebbe riservare grosse soddisfazioni agli amanti del genere, specialmente per quelli che seguono le vicende musicali del metallico paese asiatico.

TRACKLIST
1. Dead Planet
2. Meiosis
3. Anamnesis

LINE-UP
Malcolm Soans – Vocals
Vinit Jani – Guitar
Jay Pardhy – Guitar
Karan Oberoi – Bass
Ajit Singh – Drums

GAIJIN – Facebook

Heathen Beast – Trident

Benissimo ha fatto la Transcending Obscurity a prendersi cura della distribuzione di questa compilation che riassume il lavoro di un grande gruppo.

L’India è ormai un laboratorio sempre attivo dove nascono creature musicali in tutte le frange metalliche, se si parla di suoni estremi poi c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Death metal, brutal e come in questo caso black, sono i generi dove quella terra lontana, produce ottimi gruppi in abbondante quantità, molto conosciuti nei paesi asiatici, troppo poco considerati in Europa, dove gli amanti della musica dura sono da sempre poco inclini alle novità di casa loro, figuriamoci se si tratta di band fuori dal solito circuito Europa/Stati Uniti.
Gli Heathen Beast sono una band di Calcutta, dopo aver dato alle stampe un tris di mini cd , immettono sul mercato questa compilation dove sono compresi tutti e tre i lavori prodotti, andando a formare un album completo, opera sopra le righe che conferma la qualità della musica estrema prodotta nel loro paese d’origine.
Black metal feroce, ateo come ben sottolineato dalla band, una denuncia contro tutte le religioni, la politica e il livello sociale in cui letteralmente annega il paese Indiano, con la loro città, sorta di megalopoli dove la povertà è ai minimi storici da sempre e la violenza dilaga.
Un inferno, un antro dove l’uomo si divora l’anima e si nutre dei suoi simili, Calcutta esprime il lato peggiore del genere umano, lasciato a se stesso e dove la vita non vale neppure un pasto caldo, le malattie dilaniano corpi e menti e solo pochi riescono a sopravvivere ad una calamità che non ha fine.
La Band tutto questo lo trasporta in musica, elargendo metal estremo di spiccata personalità tra la tradizione black e ottime parti dove la loro cultura esce allo scoperto e si amalgama perfettamente al sound devastante, costruito dal gruppo.
Grandiose le ritmiche di questo lavoro, riprese dalla musica tradizionale(The Carnage Of Godhra) che fanno da tappeto a solos di lancinante black metal rabbioso, ed ottime le parti più in linea con la musica metallica, con uno scream talmente disperato, violento e vissuto da mettere i brividi(Carvaka anche alla sei corde)
Il gruppo il meglio di sé lo dà quando riesce ad uscire dai soliti binari estremi, con questa alleanza tra metal e musica popolare che rende le songs davvero clamorose.
Un lavoro straordinario quello fatto da Mimamsa alle pelli, accompagnato dal basso di Samkhya, mai sentito sinceramente un gruppo black con una varietà così accentuata nelle ritmiche, ed enorme il lavoro del chitarrista/cantante, una belva ferita, un urlo bestiale che trasuda puro odio iconoclasta.
Religious Genocide è disturbante nella sua inumana violenza, Ayodhya Burns è un crescendo tragico dove la chitarra accenna riff classici, violentati dalla voce abrasiva del singer, Gaurav Yatra (The Aftermath) nel suo violento incedere riesce a trasmettere un mood progressivo, mentre le percussioni disegnano ricami di musica orientaleggiante per quasi sette minuti di spettacolare musica metallica.
Benissimo ha fatto la Transcending Obscurity a prendersi cura della distribuzione di questa compilation, che riassume il lavoro di un grande gruppo.

TRACKLIST
1. Blind Faith
2. Religious Genocide
3. Ayodhya Burns
4. Drowning of the Elephant God
5. Contaminating the Ganges
6. Bakras to the Slaughter
7. The Carnage of Godhra
8. Ab Ki Baar Atyachaar
9. Gaurav Yatra (The Aftermath)

LINE-UP
Samkhya Bass
Mimamsa Drums
Carvaka Vocals, Guitars

HEATHEN BEAST – Facebook

Skip Rock – Take it or Leave it

Un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera

Duri a morire, il film del regista Sam Raimi, vedeva un nutrito numero di pistoleri duellare in un fantomatico torneo ad eliminazione in una imprecisata cittadina di confine, tra polvere sudore, cowboy dalla mano veloce e palloni gonfiati dalla fine segnata.

Al primo tocco di campana le pistole fumavano ed il risultato era sempre lo stesso, un morto in più e il vincitore che passava il turno in un susseguirsi di confronti da dead or alive.
La colonna sonora di questo western che richiamava non poco la tradizione tutta italiana nel genere, conosciuta come spaghetti western, avrebbe potuto essere tranquillamente questo album, il secondo dei tedeschi Skip Rock, hard rock band che unisce il genere di estrazione classica alla AC/DC e richiami al southern rock e alla tradizione western.
Il gruppo tedesco si definisce metal cowboys, ed in effetti la loro musica richiama le colonne sonore dei film di genere, rafforzata da ruvide iniezioni di rock’n’roll direttamente dalla terra dei canguri e classiche atmosfere southern.
Una Band da raduno, musica per rudi bikers di frontiera, portatori di un’attitudine che fonda le sue radici nella libertà e nella cultura on the road, quaranta minuti da ascoltare con il boccale sempre pieno e la bottiglia di whiskey per finire di bruciare gole arse dal fumo e dalla polvere, sopravvissute a chilometri macinati sulle calde strade di frontiera.
Molto più divertente e scorrevole quando il gruppo ci va pesante, alzando il volume dei propri strumenti( Death or Glory, Motorcycle Man II, Hell Is On Fire) meno quando il sound guarda troppo all’ovest e la musica si avvicina pericolosamente al puro southern rock ( non basta un richiamo al nostro Morricone, o semplici e poco emozionali semiballad, per suonare ottima musica southern/western).
Insomma un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera, una buona band da da raduni tra omaccioni barbuti, donzelle borchiate, birra a fiumi e colt sempre cariche.

TRACKLIST
1. Intro
2. Tell me why
3. Death or Glory
4. Jesse James
5. Outlaws
6. Motorcycle Man II
7. Rich’n’Nazty
8. Hell is on Fire
9. Too Young
10. Take it or leave it

LINE-UP
Marc Terry – Vocals
Darius Dee – Guitars
Patrick Paul – Bass
Jan Skirde – Drums

SKIP ROCK – Facebook

Mutonia – Wrath Of The Desert

Wrath Of The Desert conferma tutto quello che di buono si era detto e scritto sul gruppo laziale in occasione del primo lavoro

Magari vi siete lasciati sfuggire il debutto di questa band laziale, uscito lo scorso anno, un ottimo esempio di stoner rock, legato ancora da un filo sottilissimo al rock alternativo, secondo amore del gruppo, dopo gli esordi come band punk.

Magari siete esterofili incalliti e pensate che nel nostro paese lo stoner non viene suonato come negli States.
Magari questa volta, incuriositi e convinti dalle mie umili righe, darete un ascolto a Wrath Of The Desert, secondo lavoro dei Mutonia, trio della provincia di Frosinone, con un talento innato nel creare atmosfere desertiche, stonate e allucinate.
Non hanno perso tempo i Mutonia, e dopo i buoni riscontri del precedente Blood Red Sunset, tra Aprile e Giugno di quest’anno si sono rinchiusi in studio, per continuare il viaggio, persi nel deserto della Sky Valley in compagnia delle anime perdute che, all’imbrunire, sotto l’effetto del sole e di erbe dalle proprietà terapeutiche, ma dagli effetti collaterali stonati, compaiono tra i rovi portati dal vento caldo, o tra i pugni di sabbia che scivola tra le dita, mentre le note grasse dei brani di Wrath Of The Desert, invitano a danzare ciondolanti tra scorpioni e serpenti a sonagli.
Il trio non perde un’oncia della sua carica rock, ma, rispetto al primo lavoro, è forte l’atmosfera rituale che aleggia nelle songs che compongono quest’altro bellissimo omaggio al rock statunitense degli ultimi anni, interpretato da tre musicisti, Matteo De Prosperis (chitarra e voce), Fabio Teragnoli (basso) e Maurizio Tomaselli (batteria) che in quanto a feeling e attitudine ne hanno da vendere.
E allora ecco che questa raccolta di nuovi brani, spazza il deserto come la tromba d’aria che raffigurata nella copertina( illustrata da Sara Terpino), mette in subbuglio il lento trascorrere del tempo, quasi fermo nel luogo invivibile per antonomasia, almeno per l’uomo.
To Three To Four, aperta dal basso pulsante ed ipnotico del buon Teragnoli, ci invita ancora una volta lungo l’arida terra dove la band trae ispirazione, subito è tangibile la totale metamorfosi del gruppo, che lascia alle spalle come detto gli ultimi accenni all’alternative e si ripresenta come una perfetta macchina stoner, confermata dal singolo Lonely Soul, un brano che sprizza Queen Of The Stone Age da tutti i pori.
Come nel primo album la sensazione di jam si insinua in noi come un serpente nella tana di un ratto, si succedono brani dal forte impatto come Meth e Thunderstone, ma il flash sabbatico e rituale di Among The Gale And The Desert, risulta il colpo mortale all’ultimo neurone sano, bruciato da questo magnifico trip, che lento e inesorabile sale alla testa e porta con se immagini allucinate di chi visse quei luoghi, ed ormai è perso tra la polvere portata dal vento.
Coward alterna agitazione ritmica a frenate doom settantiane, mentre il finale dell’album è lasciato a The Prodigal Son, hard rock stonato e devastante ed una delle song più lineari del disco.
Wrath Of The Desert conferma tutto quello che di buono si era detto e scritto sul gruppo laziale in occasione del primo lavoro, ora tocca a voi supportare questi figli del deserto, che hanno tutte le carte in regola per non far rimpiangere i maestri americani, ottima conferma.

TRACKLIST
1. To Three To Four
2. Lonely Soul
3. Still (Yourself)
4. M.E.T.H.
5. Thunderstorm
6. Among The Gale And The Desert
7. Meat For Voltures
8. Coward
9. The Prodigal Son

LINE-UP
Matteo De Prosperis – guitar/vocals
Fabio Teragnoli – bass
Maurizio Tomaselli – drums

MUTONIA – Facebook

Of Spire & Throne – Sanctum in the Light

Ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.

Dopo diversi EP ed un split album, gli scozzesi Of Spire & Throne decidono finalmente di realizzare il loro primo full length, mettendo a serio repentaglio la salute mentale dei loro potenziali ascoltatori con uno sludge/doom al quale la definizione di “pachidermico” va persino un po’ stretta.

Il lato fangoso e caliginoso del genere viene qui portato alle estreme conseguenze ma il tutto, quasi magicamente, nel corso della sua oretta scarsa di durata riesce a non annoiare mai, complice un impatto ruvidamente spontaneo che provocherà al massimo qualche mal di testa dovuto al pesante oscillare della scatola cranica e di tutto il suo nobile contenuto.
Qui ogni nota è ribassata e distorta all’ennesima potenza ma, grazie alla produzione di Chris Fielding e alla masterizzazione di James Plotkin, la resa sonora è perfettamente commisurata agli intenti bellicosi della band di Edimburgo (ovviamente se siete alla ricerca di suoni leccati passate comunque oltre …): tre brani lunghissimi (il quarto, Fathom, è leggermente più breve e dai tratti sperimentali, ma non per questo meno pernicioso), nei quali affiora di tanto in tanto una voce che non fa presagire alcunché di rassicurante, inchiodano l’ascoltatore alla poltrona esibendo senza mediazioni il frutto di anni di escavazioni all’interno degli anfratti più putridi.
In fondo non c’è molto altro da raccontare di quest’opera monolitica, in grado di oscurare in un attimo anche gli scenari più bucolici: ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.
Nel corso di alcuni (presunti) barlumi di lucidità ho pensato che se Lee Dorrian e Gary Jennings non fossero già stati nella fase iniziale del loro trip psichedelico, forse Forest Of Equilibrium avrebbe potuto suonare molto simile a Sanctum in the Light, di sicuro come pesantezza questo lavoro non è da meno, anche se in quel caso si parla sempre e comunque di una pietra miliare del genere: però non è che gli Of Spire & Throne ci vadano poi così lontani, provare per credere ….

Tracklist:
1.Carrier Remain
2.Fathom
3.Upon the Spine
4.Gallery of Masks

Line-up:
Matt Davies – bass, vocals
Ali Lauder – guitar, vocals, bass, synth, harmonium
Graham Stewart – drums, guitar, synth

Guillaume Martin – guitar

OF SPIRE AND THRONE – Facebook

Within Silence – Gallery Of Life

Gallery Of Life di fatto è un buon disco di genere, certo siamo in anni di carestia per il power metal, il disco se fosse uscito una quindicina d’anni fa avrebbe fatto parlare molto di sé, purtroppo di questi tempi certe sonorità hanno perso fascino tra gran parte dei fans e degli addetti ai lavori.

Negli ultimi tempi una pioggia torrenziale di power metal è caduta sulla mia scrivania, grazie sopratutto al gran lavoro della Ulterium Records, etichetta specializzata nel melodic power e nel metal classico, con un buon fiuto per band dalle evidenti potenzialità.

Ed è così che si passa con disinvoltura a descrivere album estremi, tra diavoli e violenza tout court, a gruppi che fanno della religione cristiana lo spunto per i loro testi come i Within Silence.
Poco male, anzi, aver a che fare con i due rovesci della medaglia metallica varia e rende affascinante il lavoro del recensore, che non giudica ma descrive le varie atmosfere e chiaramente la musica contenuta nelle opere che ascolta.
Il gruppo proveniente dalla Slovacchia arriva al debutto con Gallery Of Life, album di arioso e positivo power metal melodico sulla scia dei gruppi scandinavi, dunque niente di nuovo, ma ascoltando il disco ci si trova di fronte una buona band, che prende spunto dalle opere dei vari Stratovarius e Sonata Arctica, per avvicinarsi a tratti agli Hammerfall nei brani tirati e più classici, dove le tastiere lasciano alle chitarre il compito di trascinarci in mezzo ad uragani metallici dalle ottime atmosfere epiche.
Il gruppo ha tutto per non sfigurare nel panorama metallico dalle reminiscenze classiche: un buon cantante (Martin Klein), una coppia d’asce agguerrita (Richard Germanus e Martin Cico) ed una sezione ritmica che cavalca purosangue lanciati in lunghe cavalcate di epico e nobile power metal (Filip Andel al basso e Peter Gacik alle pelli).
E’ pur vero che l’album difetta in personalità, le songs seguono perfettamente i cliché del genere, ma siamo al debutto e se il gruppo perde qualcosa per colpa di un songwriting che segue i binari dove corrono le band storiche, acquista punti per una raccolta di brani prodotti benissimo e ben suonati, melodicissimi e di facile assimilazione.
Ottime The Last Droop Of Doom dove le due asce sono protagoniste di un gran lavoro ai solos e Love Is Blind ed Anger and Sorrow, cavalcate power metal, epiche, veloci e inarrestabili.
Gallery Of Life di fatto è un buon disco di genere, certo siamo in anni di carestia per il power metal, il disco se fosse uscito una quindicina d’anni fa avrebbe fatto parlare molto di sé, purtroppo di questi tempi certe sonorità hanno perso fascino tra gran parte dei fans e degli addetti ai lavori.
Rimane l’underground a scaldare i cuori dei defenders sparsi per il globo…..pugno al cielo e gloria al signore.

TRACKLIST
1. Intro
2. Silent Desire
3. Emptiness of Night
4. Elegy of Doom
5. The Last Drop of Blood
6. Love is Blind
7. Anger and Sorrow
8. Judgement Day
9. The World of Slavery
10. Road to the Paradise
11. Outro

LINE-UP
Martin Klein – Vocals
Richard Germanus – Guitars, Vocals
Martin Cico – Guitars
Filip Andel – Bass
Peter Gacik – Drums

WITHIN SILENCE – Facebook

The Sickening – Sickness Unfold

Sickness Unfold è il classico album da ascoltare come fosse una lunga jam estrema, lasciando che i vari passaggi entrino in noi e ci annodino le budella, prima che il ventre esploda in una cascata di sangue e viscere.

Una band estrema norvegese dal sound americano, questi sono i The Sickening, brutal death metal band al secondo lavoro uscito per la Xtreem Records.

Il trio di Kristiansund sono più di dieci anni che tortura e sevizia senza pietà, eppure la discografia si ferma ad un demo, uscito nel 2007 e a due full length: il primo uscito nel 2009 dal titolo Death Devastation Decay e questo massacro ultra tecnico, al secolo Sickness Unfold.
Mezz’ora di soluzioni tecniche intricate al servizio di un sound, dirompente e vorticoso, lasciano il segno sull’ascoltatore, trascinato in un mondo di morte dal gruppo scandinavo che, come detto, volge lo sguardo alla lontana america, per infarcire il proprio sound di soluzioni che richiamano i Suffocation e i Deeds Of Flesh.
Niente di male, il brutal dei nostri raccoglie ovazioni la dove, le trame del sound si fanno intricate e colme di soluzioni mai troppo banali.
Una furia difficile da tenere a bada, il sound del gruppo vola alla velocità della luce, con prove eccezionali dei musicisti all’opera, che non ne vogliono sapere di rallentare la folle corsa, e si inventano passaggi difficilissime ma assolutamente fluidi.
E qui sta il bello di questo lavoro: il tempo scorre, persi nei labirinti estremi creati dal gruppo, dotato di una tecnica individuale spaventosa ed un talento innato per la forma canzone.
Growl brutale e assassino (Pål “Markspist” Bjerkestrand, anche alla sei corde) e cambi di ritmo a velocità inumana da parte di una sezione ritmica dotata di una bravura che ha del clamoroso (Neeraj Kasbekar al basso e Espen “Beist” Antonsen alle pelli) sono le migliori virtù di questo trio di pazzi, geniali musicisti che strapazzano lo spartito a colpi di metal estremo sopra le righe.
Il classico album da ascoltare come fosse una lunga jam estrema, lasciando che i vari passaggi entrino in noi e ci annodino le budella, prima che il ventre esploda in una cascata di sangue e viscere.
Per gli amanti del genere, un gran bel disco da non farsi mancare nella propria brutale discografia.

TRACKLIST
01. Sickness Unfold
02. Fixed On Killing
03. Unnamed Horror
04. Throat Hole Ejaculation
05. Lord Of Decay
06. A Mind Deranged
07. Powertool Sodomy
08. Suffer For My Pleasure
09. Consumed By Hate
10. Abort (The Fetus) (Vile Cover)

LINE-UP
Pål “Markspist” Bjerkestrand – Voce, chitarra
Neeraj Kasbekar – Basso, voce
Espen “Beist” Antonsen – Batteria

THE SICKENING – Facebook

Ennui – Falsvs Anno Domini

Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del funeral-death doom.

Nuovo album per i georgiani Ennui, da qualche anno alla ribalta nella scena doom con il loro sound di matrice funeral/death doom e dei quali ho avuto il piacere e l’opportunità di seguire il percorso musicale fin dai primi passi corrispondenti con l’album d’esordio Mze Ukunisa del 2012.

A questo punto della loro storia, David Unsaved e Serj Shenghelia non potevano più nascondersi in quanto da loro era lecito attendersi un album che non solo desse continuità a quanto già fatto, ma che garantisse un decisivo e definitivo salto di qualità.
Per fare questo i due musicisti di Tblisi, passati nel frattempo dalla MFL Records di Evander Sinque, che ha avuto il grande merito di sdoganarli, alla Solitude Productions, intanto hanno ritenuto di avvalersi in pianta stabile di un terzo elemento che si dedicasse alla sezione ritmica e individuato, niente meno, che in Daniel Neagoe, sua maestà “il growl” nonché mastermind degli Eye Of Solitude, dei Clouds e coinvolto in mille altri progetti di livello assoluto (peraltro, il musicista di origine rumena ha anche curato personalmente masterizzazione e mixaggio dell’album).
Ma David e Serj non si sono accontentati dell’ingaggio di un nome così pesante, anzi … : scorrendo la lista degli ospiti che hanno fornito il loro contributo alla riuscita del disco troviamo gente come Greg Chandler (Esoteric), Don Zaros (Evoken), Sameli Köykkä (Colosseum) e AKiEzor (Abstract Spirit e Comatose Vigil), quasi a voler chiamare a raccolta, simbolicamente, i nomi storici della scena a fornire una sorta di imprimatur all’opera.
Questo spiegamento di forze ha prodotto il risultato sperato: Falsvs Anno Domini è l’album definitivo degli Ennui, quello che consentirà loro di passare dallo status di ottima band futuribile a quello di realtà consolidata in grado di riscrivere la storia del genere negli anni a venire.
Rispetto all’ultimo lavoro il sound si è spostato maggiormente verso un death dooom dai toni aspri ma non privo di aperture melodiche e atmosferiche: l’aura che avvolge il sound degli Ennui appare però molto più cupa e minacciosa che in passato, in ossequio ad un contenuto lirico che non lascia soverchie speranze riguardo alle redenzione di un’umanità avviata all’ineluttabile autodistruzione, ancor più morale che materiale.
Forbidden Life apre l’album in maniera invero piuttosto anomala, con un suono di chitarra che ricorda maledettamente quello di The Figurhead dell’immortale capolavoro Pornography targato Cure: un caso ? Forse, ma non c’è dubbio che nessuno meglio di Smith ha preconizzato, all’inizio degli anni ottanta, l’inizio del decadimento dell’umanità, raccontando il disagio di chi a vent’anni si sentiva un centenario precoce.
Il brano poi si apre in maniera più canonica, mantenendo un andamento piuttosto malinconico , ma è con la successiva The Apostasy che Falsvs Anno Domini prende definitivamente quota, grazie a sonorità molto vicine a quelle dei Colosseum dell’indimenticato Juhani Palomaaki: momenti più aspri si alternano a funerei rallentamenti e ad ampie aperture nelle quali la chitarra tesse magnifiche e dolenti melodie.
Con TheStones Of The Timeless arriviamo al fulcro dell’intero album, laddove viene espresso oltre un quarto d’ora di pura disperazione, con uno screaming che prende il posto del più canonico growl ed una parte finale in cui, inconsciamente o meno, l’ingresso di Daniel negli Ennui si fa sentire tramite un crescendo melodico che è tipico marchio di fabbrica degli Eye Of Solitude: in definitiva, una meraviglia …
Dopo questi quaranta minuti di doom ai suoi massimi livelli, ce ne attendono circa altrettanti certamente non da meno per intensità e capacità evocative, con in particolare altre due tracce splendide come No Home Beneath the Stars, sedici minuti che volano via tra ricami chitarristici in un’atmosfera, almeno inizialmente, un po’ meno da tregenda ed un altro finale da brividi, e la title track, più vicina per sonorità alla scuola ex sovietica con i suoi toni cupi e solenni allo stesso tempo: la chiusura ossessiva sta a simboleggiare l’annientamento di ogni vana speranza, una sorta di reiterazione all’ennesima potenza della rabbia che assale chi si trova al cospetto di un degrado apparentemente senza limiti.
Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del genere: Falsvs Anno Domini è un altro grandissimo album in un settore musicale che, pur trattando prevalentemente della morte, è paradossalmente più vivo che mai, in un “anno domini” che ha visto il ritorno, dopo anni di silenzio, di giganti quali Shape Of Despair e Skepticism, oltre che dei meno noti Tyranny; la band georgiana dimostra che le nuove leve sono già all’altezza della situazione e in grado di alimentare nel migliore dei modi un genere capace di fornire emozioni uniche.

Tracklist:
1. Forbidden Life
2. The Apostasy
3. The Stones of the Timeless
4. When our Light Dies Forever
5. No Home Beneath the Stars
6. Falvs Anno Domini

Line-up:
David Unsaved – guitars, vocals, keyboards.
Serge Shengelia – guitars, vocals.
Daniel Neagoe – drums, bass.

ENNUI – Facebook

Tranquillizer – Des Endes Anfang

Primi Dark Tranquillity e Dissection sono i gruppi di maggiore ispirazione per la band, a cui auguro quella stabilità che potrebbe favorire una presenza più costante sul mercato

La Germania continua ad essere da anni la patria dei suoni metallici, dall’hard rock al metal estremo la tradizione metal è ben radicata nel popolo tedesco, ed i vari generi continuano a trovare nuovi estimatori proprio nella terra posta al centro dell’Europa.

Non solo come si potrebbe pensare l’heavy classico o il più tradizionale power metal, ma anche le frange più estreme hanno sempre trovato terra fertile da quelle parti, sia per quanto riguarda il numero di fans che di gruppi dediti al genere.
I Tranquillizer sono una band di Francoforte attiva dal 2008, ma arrivata solo ora al primo lavoro sulla lunga distanza, lasciando alle spalle un ep targato 2011.
Dunque ci hanno messo un po per entrare in modo deciso sul mercato, ma il risultato non è affatto male e Des Endes Anfang accontenterà una buona fetta degli amanti del death metal melodico dai richiami black e fortemente influenzato dall’onnipresente scena scandinava.
Il quintetto tedesco sempre in difficoltà per i vari cambi di line up che, in questi anni, ne hanno rallentato la carriera nel mondo metallico underground, si presenta con un buon esempio di metal estremo melodico, strutturato sull’alchimia tra black e death, ma reso vario ed interessante da ottime cavalcate di classico metal dai tratti epici e dark, che conferisce al sound un’aurea oscura e drammatica.
Le veloci parti ritmiche, si attorcigliano come serpenti in amore, a solos melodici, ottimi stacchi acustici e refrain trascinanti, le songs non perdono molto in impatto lungo la durata del lavoro, certo non mancano i difetti, ma sono ben bilanciati da una forma canzone ben strutturata.
Appunto, i difetti : non tutto funziona perfettamente, per esempio l’ottimo scream, viene accompagnato da un growl in stile brutal che non ci azzecca un granché con la proposta del combo tedesco e in alcuni casi il fantomatico già sentito affiora tra le tracce di questo Des Endes Anfang, contribuendo a far scendere un poco il valore dell’album, che rimane comunque un’opera prima dignitosa.
Primi Dark Tranquillity e Dissection sono i gruppi di maggiore ispirazione per la band, a cui auguro quella stabilità che potrebbe favorire una presenza più costante sul mercato, mentre ai fans del melodic death un ascolto al disco è consigliato, visto che potrebbero trovare in Des Endes Anfang qualcosa di sufficiente per crogiolarsi tra i cliché del genere.

TRACKLIST
1. Agonie
2. Eine andere Welt
3. Bestie Krieg
4. Werde Zu Staub
5. Kapitulation
6. Blutrot
7. Welk
8. Ins Licht
9. Seelenreiter

LINE-UP
Madelaine Kühn – Bass
Johannes Gauerke – Vocals (lead), Trombone, Drums
Aleksander Vetter – Guitars
Fabian Wohlgemuth – Guitars, Vocals
Nico Dunemann – Drums

http://www.facebook.com/pages/Tranquillizer/139894089390032

Eldritch – Underlying Issues

L’ennesimo capolavoro di una band unica, che sicuramente ha raccolto molto meno di quello che, in termini di qualità, ha dato alla nostra musica

Era la primavera di quest’anno, quando la band di Terence Holler e Eugene Simone calarono a Genova in quel dell’Angelo Azzurro nel giro di date a supporto del bellissimo Tasting The Tears, ultima splendida opera di una delle band più importanti nel panorama metal nazionale degli ultimi vent’anni.

Il cantante, con tanto di stampelle a causa di un infortunio, diede spettacolo così come i suoi compagni per un concerto degno della fama del gruppo, ma purtroppo davanti a pochi intimi.
La solita storia dell’Italia metallara, a grandi gruppi seguono pochi adepti, specialmente dal vivo e se si esce fuori dalla solita Lombardia, così che Terence non si sprecò in critiche taglienti un po’ a tutta la scena e la sensazione del sottoscritto fu di rabbia e frustrazione, comune a quella espressa dal singer italo americano.
Rabbia e frustazione, sentimenti ed emozioni di cui il nuovo lavoro è pregno, sempre nel segno degli Eldritch, ed allora sfuriate metalliche di thrash moderno, esagerate parti di tastiera, tra melodie e fughe incalzanti, sezione ritmica che travolge, sei corde che urlano o ammaliano in arpeggi che nella loro complessità entrano in noi come il caldo vento meridionale e linee vocali che ancora una volta rimettono in fila i singer di genere come farebbe un bambino con i suoi soldatini.
Underlying Issues è tutto qui, o meglio, è quello che il povero recensore carpisce nella moltitudine di suoni, emozioni, atmosfere e sfumature che la band toscana immette nella sua splendida musica.
Molto più duro del precedente lavoro, il nuovo album presenta un gruppo che, dopo venticinque anni di carriera ed una decina di dischi alle spalle, riesce nella non facile impresa di risultare fresca, determinata, convincente nel portare avanti il proprio sound, senza scendere a compromessi ed elargendo lezione di metal dal taglio prog, moderno, a tratti violento, ma stupefacente nel regalare melodie che valorizzano tutto il mondo musicale creato, anche in questo lavoro.
Un anno è passato da Tasting The Tears, neanche troppo, anzi pochissimo al giorno d’oggi, eppure la band non scende sotto una media altisonante, che ne dimostra il talento disumano, una macchina perfetta per creare musica metallica, nobile ed elegante anche quando le sei corde di Rudj Ginanneschi e Eugene Simone violentano lo spartito o la sezione ritmica (Raffahell Dridge alle pelli e Alessio Consani al Basso) scambiano i propri strumenti per martelli pneumatici, spaccando tutto con una forza ed una tecnica disarmante.
Canzoni: qualunque sia la loro forma, i refrain da memorizzare, le melodie che ipnotizzano sono sempre li, nascoste da questo mare in burrasca che butta sulla costa onde di note fiaremente progressive pur nella loro violenza e ci costringono, ancora una volta, a battere le mani a questi splendidi musicisti.
Prodotto benissimo, così che il suono arrivi potentissimo e pulito, Underlying Issues vive di undici composizioni che hanno nelle parti più furiose il loro punto di forza, ed allora lasciatevi travolgere da Changing Blood, Danger Zone, All And More, The Face I Wear, The Light e la conclusiva, devastante Slowmotion K Us.
Nel mezzo, meraviglie prog metal che contribuiscono a fare del nuovo album l’ennesimo capolavoro di una band unica, che sicuramente ha raccolto molto meno di quello che, in termini di qualità, ha dato alla nostra musica preferita, eppure ancora qui a dispensare arte a chi, ancora una volta, da molti anni di essa si nutre.

TRACKLIST
1.Changing Blood
2.Danger Zone
3.Broken
4.All and More
5.The Face I Wear
6.To the Moon and Back
7.Bringers of Hate
8.The Light
9.Piece of Clarity
10.Before I Die
11.Slowmotion K Us

LINE-UP
Eugene Simone – Guitars
Terence Holler – Vocals
Raffahell Dridge – Drums
Rudj Ginanneschi – Guitars
Alessio Consani – Bass

ELDRITCH – Facebook

Manipulation – Ecstasy

Ecstasy è un lavoro compatto e debordante che unisce con ottimi risultati tradizione e modernità

Ecco un album che accomuna spirito classico e death moderno in un concentrato di estrema putrescenza sonora.

Ecstasy è il nuovo lavoro dei polacchi Manipulation, band non di primo pelo, essendo attiva dall’ormai lontano 2001 e con i primi due lavori usciti a distanza di cinque anni: The Future of Immortality primo album licenziato nel 2007, ed il secondo, Passion dato alle stampe tre anni fa.
Il nuovo album uscito per Satanath Records risulta un monolito estremo di inumana violenza, ben bilanciata tra sfuriate di detah metal classico e robuste soluzioni deathcore, per un risultato di indubbia devastazione sonora.
Un mood oscuro, permea tutto l’album, sconvolto da soluzioni tecniche sopra la media e da un songwriting che non perde mai il filo conduttore, che porta ed eleva questa raccolta di songs violente e devastanti, convincendo a più riprese.
Brani che spazzano via tra il growl dall’impronta core di Brużyc, la varia e funzionale sezione ritmica, che passa con disinvoltura da blast beat di scuola classica e tremende e cadenzate bordate core(Bysiek al basso e Kriss alle pelli) con le chitarre che, dalla loro, si aggirano tra la struttura delle songs piene di famelico spirito estremo, torturate da Rado.Slav e Vulture .
Registrato in Polonia nei Monroe Sound Studio, Ecstasy esplode come un’atomica e gli echi di queste dieci bombe sonore si dilatano come il fungo atomico, tanta è la potenza che il gruppo emana.
Una macchina distruttrice, che senza fermarsi travolge, massacra e uccide senza pietà con una forza dirompente, tecnica e malata, lasciando indietro molte delle realtà più blasonate del genere, anche d’oltreoceano terra dove la musica del combo trae le sue ispirazioni.
Album da spararsi tutto d’un fiato per godere della sua immane potenza, tra cui si distinguono spettacolari tracce come l’opener Insomnia, The Paradigm of Existence, Temples of Vanity e la title track posta in chiusura.
Ecstasy risulta così un lavoro compatto e debordante, che unisce con ottimi risultati tradizione e modernità, dategli un ascolto.

TRACKLIST
1. Insomnia
2. Sic Itur ad Astra
3. Lifetime
4. Bad Boy
5. The Paradigm of Existence
6. Sunset over Vatican
7. Temples of Vanity
8. Burn Motherfuckers!
9. Dźwięk upadku
10. Ecstasy

LINE-UP
Rado.Slav – Guitars
Bysiek – Bass
Kriss – Drums
Vulture – Guitars
Brużyc – Vocals

http://www.facebook.com/manipulation.net/

Isaak – Sermonize

Sermonize è l’avanguardia della Genova Pesante e lo sarà per un bel pezzo.

Tornano impetuosamente gli Isaak, gran gruppo genovese di stoner rock e tanto altro.

Sermonize è a partire dalla fantastica copertina di Richey Beckett un disco potente e fresco, con un fortissimo gusto di southern. Personalmente quando ascolto gli Isaak mi sembra che siano stati fra i pochissimi gruppi che abbiano recepito pienamente la lezione dei Kyuss, ovvero rendono benissimo la sensazione di deserto che era nella musica degli americani. Infatti questo disco ha un groove desertico e caldo che lo rende speciale. Di gruppi stoner o dintorni ve ne sono moltissimi, ma la sensazione di movimento e di compattezza che hanno questi genovesi lo hanno in pochi. La loro musica compie evoluzioni melodiche immersa nella calda sabbia del deserto e quando meno te lo aspetti scatta fuori dalla sua tana per azzannarti alla gola, ed ucciderti dolcemente. Già il disco di debutto era stato ottimo, ed ancora prima i Gandhi’s Gunn, la loro incarnazione pre Isaak, erano passi avanti. Sermonize porta il discorso ad uno se non due livelli superiori, sia per la composizione diventata più dura e personale, che per l’esecuzione più intensa che mai.
Gli Isaak hanno acquistato malizia e scaltrezza, riuscendo a rendere il disco un fortino senza punti deboli, dove tutti fanno il loro compito alla perfezione suonando uno stoner rock che in Italia non fa nessuno e che avrà sicuramente molta eco anche all’estero, visti anche i numerosi concerti fuori dai nostri confini che hanno fatto.
Sermonize colpisce a fondo e come un’endorfina ne vorresti ancora ed ancora.
Melodie e compattezza, sono questi i punti di forza del disco, che si può ascoltare su livelli differenti, ponendo l’accento su di un giro di chitarra o su una rullata particolare, se non sulla gran voce di Giovanni Boeddu in costante crescita . Da registrare l’entrata nel gruppo di Gabriele Carta al basso al posto di Massimo “ Maso “ Perasso, l’uomo Taxi Driver che proprio insieme agli Isaak fa parte di quel gruppo di persone che hanno fatto tanto per la Genova pesante, portando grandi gruppi e proponendo ottima musica in maniera accessibile a tutti.
Sermonize è l’avanguardia della Genova pesante e lo sarà per un bel pezzo.

TRACKLIST
1 – Whore Horse
2 – The Peak
3 – Fountainhead
4 – Almonds & Glasses
5 – Soar
6 – Showdown
7 – Yeah (Kyuss)
8 – Lucifer’s Road (White Ash)
9 – Lesson n.1
10 – The Frown Reloaded
11 – The Phil’s Theorem
12 – Sermonize

LINE-UP
Giacomo H Boeddu :Vocals
Andrea Tabbì De Bernardi : Drums / Vocals
Francesco Raimondi : Guitars
Gabriele Carta : Bass

ISAAK – Facebook

Rapture – Crimes Against Humanity

Difficile uscire dalla cerchia dei fans del genere per la giovane band greca, anche se non credo sia per loro una priorità, l’attitudine e l’impatto fanno ben sperare per un futuro magari non di primo piano ma ben saldo nello stile proposto

Si torna a parlare di metal estremo proveniente dalla Grecia e dalla sua capitale (Atene), con questo buon debutto che farà la gioia dei fans del death/thrash old school.

La band in questione sono i giovani Rapture, metallari che da tre anni recano danni nella scena estrema della capitale e giunti al debutto sotto Witches Brew dopo due releases minori( i due ep Gun Metal del 2013 e 2014 Promo).
Il quartetto devoto al metal estremo di estrazione classica, si aggiunge a molte band che, a livello underground hanno contribuito al ritorno delle sonorità old school, perciò aspettatevi ritmi serrati, solos velocissimi torturatori di chitarre, incendiate sull’altare del metal ottantiano e una spiccata predisposizione per atmosfere death oriented, che accentuano ancora di più la vena estrema del gruppo.
Accompagnati da testi che spaziano dal puro horror alla violenza sociale e politica, i brani di Crimes Against Humanity non lasciano scampo e aggrediscono senza pietà, lasciando che la furia thrash del gruppo esca prepotentemente dai solchi del disco.
Pur giovani i musicisti coinvolti ci sanno davvero fare, la produzione è ottima e l’album, composto da songs tutte su buoni livelli, hanno in Laboratories of Infection( scelta come singolo/video), Suicidal cannibalism e Spiritual Paralysis i brani punta, trascinanti e diretti, un vero massacro.
Siamo nei territori estremi cari agli Slayer, gruppo di maggior influenza per il gruppo Greco, che non nasconde la propria ispirazione, anzi la scrive col sangue sullo spartito di Crime Against Humanity, lasciando al death qualche rallentamento che varia e rende ancora più potente l’assalto sonoro prodotto.
Difficile uscire dalla cerchia dei fans del genere per la giovane band greca, anche se non credo sia per loro una priorità, l’attitudine e l’impatto fanno ben sperare per un futuro magari non di primo piano ma ben saldo nello stile proposto, che ha ancora moltissime frecce nel proprio arco a dispetto di chi lo vorrebbe morto e sepolto.
Come si dice in questi casi: buona la prima.

TRACKLIST
1. Laboratories of Infection
2. Unit of Total Destruction
3. Born Dead
4. Suicidal Cannibalism
5. Transorbital Lobotomy
6. Borderline Disorder
7. As Darkness Falls
8. Spiritual Paralysis
9. Sadistic Shredding of Flesh

LINE-UP
Stamatis Petrou – Bass,Vocals
Nikitas Melios – Guitars,Vocals
Apostolos Papadimitriou – Guitars, Lead Vocals
Giorgos Melios – Drums,Vocals

http://www.facebook.com/ThrashRapture

Worldview – The Chosen Few

Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.

Giunti all’esordio sulla lunga distanza, gli americani Worldview, aiutati da una manciata di musicisti su cui spicca Oz Fox degli Stryper, confezionano un lavoro di power metal statunitense, ma dalle molte atmosfere europee, raffinato, mai troppo potente ma dal buon gusto melodico.

La band californiana ha nell’ugola del vocalist Rey Parra, il suo asso nella manica, che asseconda con un songwriting ispirato, magari non originalissimo ma molto piacevole.
Atmosfere orientaleggianti(Mortality), drammatiche parti power/prog tipiche del metal d’oltreoceano, ed un gusto per le melodie nobilitate da una vena prog danno al disco un tono adulto e fanno di The Chosen Few un buon esordio, anche se le influenze compaiono a tratti ben visibili tra i solchi del disco, da ricercare specialmente nei Kamelot di Roy Khan.
Niente di male, l’album scorre mantenendo questi clichè, la band difficilmente corre,le ritmiche si mantengono cadenzate, marciando al suono tenuto da tastiere dal mood progressivo.
Quando la luce metallica si accende, ne escono power song dal taglio epico come Prisioner Of Pain, ottima song che non disdegna tasti d’avorio dal taglio settantiano e chorus che rimandano all’hard & heavy di ottantiana memoria.
I musicisti ci sanno fare non poco con gli strumenti, le tastiere disegnano arabeschi progressivi su eleganti parti ritmiche, mentre la chitarra si rende protagonista di solos ben incastonati nelle varie parti dell’album.
Quando l’hard rock melodico prende il sopravvento, sempre arricchito da orchestrazioni di natura prog ecco che i danesi Royal Hunt fanno capolino nella bellissima Two Wonders.
Affidato alle mani di Bill Metoyer (W.A.S.P, Slayer) The Chosen Few gode di un ottimo suono, che esce pulito e cristallino, cosi da raffinare ulteriormente le songs proposte dal gruppo di Los Angels.
Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico, dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.
Lo spiegamento di forze, sia alla consolle, che negli ospiti che appaiono con un loro contributo nei vari brani dell’album, non sono stati sprecati e The Chosen few risulta un’ottima opera prima per la band losangelina.

• Autore
Alberto Centenari

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• ETICHETTA

TRACKLIST
01. Mortality
02. Illusions of Love
03. Back in Time
04. The Mirror
05. Why?
06. Prisoner of Pain
07. Two Wonders
08. Walk Through Fire
09. The Chosen Few

LINE-UP
Johnny Gonzales – Drums, Percussion
Todd Libby – Bass guitar, Keyboards
George Rene Ochoa – Guitars, Keyboards, Background Vocals
Rey Parra – Lead Vocals

Special guests
Oz Fox [Stryper] – Lead guitar on “Back in Time” (2nd lead)
Les Carlsen [Bloodgood] – Bridge vocals on “The Chosen Few”
Larry Farkas [ex. Vengeance Rising] – Lead guitar on “Prisoner of Pain” (1st lead)
Jimmy P Brown II [Deliverance] – BGV on “The Mirror” (2nd and 3rd chorus)
Ronson Webster – Keyboards, Background Vocals
Armand Melnbardis [Rob Rock] – Piano on “The Chosen Few”, Violin on “Back in Time”
Niki Bente – Female vocals on “The Chosen Few”

WORLDVIEW – Facebook