Reds’ Cool – Press Hard

Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.

Per chi ha troppi capelli bianchi sulla lunga chioma, o addirittura gli anni hanno lasciato il segno con larghe stempiature al posto dei riccioli neri, sa che anni fa era praticamente impossibile parlare di rock o metal guardando ad est dell’Europa.

Le prime band che si affacciarono sul mercato, furono viste con curiosità e molte volte ironia, uno scherzo parlare di musica del diavolo proveniente dalla madre Russia, o dagli stati vicini, il rock era americano o, al massimo anglosassone, certamente non figlio della steppa.
Le cose negli ultimi anni sono cambiate notevolmente e i paesi dell’est ormai tutti globalizzati, hanno cominciato a sfornare gruppi, molti davvero bravi, in ogni genere di cui il rock ed il metal si nutrono, passando agevolmente da ottime realtà estreme a gruppi di rockers dal riff facile.
I Reds’Cool, fanno parte di quella grossa fetta di musicisti immersi totalmente nell’hard rock, pescando a piene mani dalle due scuole tradizionali; quella americana e quella britannica e confezionando un buon album, chiaramente poco originale, ultra conservatore, ma splendido a livello di sound, piacevole, melodico e sanguigno il giusto per essere consigliato a tutti i fans dell’hard rock classico.
All’ascolto di questa raccolta di brani, confezionati dal quintetto di San Pietroburgo, vi passeranno davanti almeno una trentina d’anni di musica dura, sempre in bilico tra durezza e melodie, ottime songs dall’andamento cadenzato e sanguigni voli verso l’America, facendo scalo in Gran Bretagna, tra Whitesnake, Great White, UFO e compagnia di rockers.
D’altronde quando il lettore comincia a riprodurre le varie  Dangerous One, Brand New Start e Strangers Eyes, il senso di deja’vu è forte, ma viene ben bilanciato dalla buona vena dei musicisti e dall’ottima performance del vocalist, perfetto singer di razza, forgiato alla scuola dei migliori interpreti del genere(Slava Spark).
Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.
Press Hard merita senz’altro l’interesse dei rockers dai gusti old school, a cui va il mio invito all’ascolto.

TRACKLIST
1.Dangerous One
2.My Way
3.The Way I Am
4.Brand New Start
5.Strangers Eyes
6.Call Me
7.One Night
8.Love Behind
9.No More

LINE-UP
Slava Spark: vocals
Sergey Fedotov: guitar
Ilya “Lu” Smirnov: guitar, backing vocals
Dmitry “Dee” Pronin: bass, backing vocals
Andrey Kruglov: drums

REDS’ COOL – Facebook

Monastery Dead – Black Gold Appetite

Le influenze sono percepibili nei maestri Cannibal Corpse e nei Dying Fetus, la produzione rende giustizia al suono pesantissimo creato dal gruppo ed il disco fila liscio senza grosse cadute, ma altresì senza meraviglie, mantenendo una qualità sufficiente per non passare del tutto inosservato.

Nuovo lavoro per questa band estrema proveniente dalla Russia, terzo di una discografia che vede altre due opere licenziate nel corso di undici anni di attività; Victims of Senseless Massacre del 2009 e Cold and Gloom del 2012.
Il gruppo di san Pietroburgo opera nel settore del death metal che sfocia molte volte nel brutal, magari non tecnicissimo ma dall’impatto devastante.

Un aggressione feroce dunque, senza compromessi e colma di sfuriate violentissime, ad opera di una band che punta tutto sull’impatto, da tregenda della propria musica e l’effetto è convincente, specialmente per chi fa del genere la principale fonte di sostentamenti musicale.
Manca un briciole di fantasia in più per differenziarsi dalle centinaia di realtà che popolano l’universo underground estremo, ma è indiscutibile l’attitudine che la band riversa in questi trentaquattro minuti di delirio death senza compromessi.
Growl brutale e sezione ritmica che crea un wall of sound di notevole impatto sono le caratteristiche maggiori per far si che Black Gold Appetite trovi estimatori tra i fans del death metal, affrancati ed accontentati nei loro istinti da songs tremebonde come You Are Parasite, Sick Absolution, la title track e Lie, picchi qualitativi di questo lavoro estremo.
Siamo al cospetto di una band che, senza far gridare al miracolo, il suo mestiere lo fa con dovizia senza andare oltre ad un onesto compitino.
Le influenze sono percebibili nei maestri Cannibal Corpse e nei Dying Fetus, la produzione rende giustizia al suono pesantissimo creato dal gruppo, ed il disco fila liscio senza grosse cadute, ma altresì senza meraviglie, mantenendo una qualità sufficiente per non passare del tutto inosservato.

TRACKLIST
1. Global Bleeding Euphoria
2. More Power
3. You Are Parasite
4. Despairing Existence
5. Sublimation
6. Sick Absolution
7. Generation: Rats
8. Black Gold Appetite
9. Why Are You Born
10. Voracity of Madness
11. Lie
12. Digital Apocalypse
13. Gore Gods Enthroned

LINE-UP
Vadim Nikolaev – Bass
Kirill Zharikov – Drums
Nikita Volkov – Guitar
Anton Malov – Vocals
Kirill Tatarinov – Guitar

MONASTERY DEAD – Facebook

Vingulmork – Chiaroscuro

Chiaroscuro (titolo originalmente made in Italy) esce dalle casse in un’esplosione di note estreme, donandoci una buona mezzora di metal ignorante e potente.

Dalle fredde lande norvegesi arrivano a far danni i Vingulmork, attivi da più di tre anni e con un ep all’attivo nel 2014, The Long March.

Thrash metal con richiami al black è la proposta dei nostri vichinghi, un massacro perpetrato a colpi di metallici martelli nel nome di Odino e furiosi attacchi ai padiglioni auricolari, il tutto impreziosito da un riffing davvero notevole.
Le ritmiche trascinano come non mai in questo lavoro, i brani si susseguono compatti e veloci, mettendo in mostra non solo un buon songwriting ma l’ottima padronanza dei mezzi dei quattro musicisti di Oslo.
Lo scream/growl del buon Jostein Stensrud Køhn, accompagna queste nove burrasche di metal estremo con piglio e personalità, la chitarra si scaglia all’attacco dei nemici con riff e solos incendiari(Martin Kandola) e la sezione ritmica è un bombardiere impegnato a distruggere a colpi di cannonate devastanti( Simen Kandola alle pelli e Steffen Grønneberg al basso).
Ne esce un lavoro di ottimo metal estremo, ben bilanciato tra l’anima Thrash old school e quella black che, ovviamente estremizza ancora di più la musica con sfuriate estreme come l’opener Collapse and Rebuild, (I Am) The Darkness You Can touch e le alquanto esaltatanti From Promise e White Dress, Black Heart.
Poco più di mezzora, travolti da questo uragano sonoro, magari non troppo originale ma ben congegnato dal quartetto norvegese, che non ne vuole sapere di rallentare i ritmi, aggredendo l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota.
Registrato ai Toproom studios e mixato da Børge Finstad and Matias Aaveren, Chiaroscuro (titolo originalmente made in Italy) esce dalle casse in un’esplosione di note estreme, donandoci una buona mezzora di metal ignorante e potente….insomma, una goduria.

TRACKLIST
1. Collapse and Rebuild
2. Hold Your Ground
3. (I Am) The Darkness You Can touch
4. The Haunting
5. Old Hate
6. From Promise
7. Painting Lives
8. White Dress, Black Heart
9. It Will Suffice

LINE-UP
Simen Kandola Drums
Martin Kandola Guitars
Steffen Grønneberg Bass
Jostein Stensrud Køhn Vocals

VINGULMORK – Facebook

Tyranny – Aeons in Tectonic Interment

Un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.

L’aria che tira in Finlandia dev’essere sicuramente particolare: del resto il funeral doom è nato in quelle lande per mano dei Thergothon ed è stato poi perfezionato e codificato prima dagli Skepticism e poi da una serie di band eccezionali quali Shape Of Despair, Colosseum e, più recentemente, Profetus.

Più d’uno probabilmente può essersi dimenticato di un disco uscito nel 2005, intitolato Tides of Awakening, per oltre un decennio rimasta la sola testimonianza su lunga distanza dei Tyranny, band che proprio ai Profetus è collegata per la comune appartenenza di Matti Mäkelä, colui che con Lauri Lindqvist condivide le sorti di questa band ritornata improvvisamente alla ribalta con un nuovo album.
Aeons in Tectonic Interment riprende il discorso esattamente dal punto in cui si era bruscamente interrotto: il funeral dei Tyranny non è evocativo come quello di Skepticism o Shape Of Depair, ma in qualche modo va a colmare il vuoto lasciato dai Colosseum del compianto Juhani Palomäki: un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.
La voce di Lindqvist è appropriatamente inumana e si fonde con le lente partiture capaci di avvolgere in una spira di disperazione dagli effetti venefici: ma ecco che, a tratti, sporadici squarci di melodia creano angusti varchi nella spessa coltre di negatività, ove si vanno ad innestare fugaci barlumi di speranza, ancor più terribili per la loro ingannevole essenza.
La chitarra di Mäkelä non si limita a produrre riff mortiferi nella loro pachidermica lentezza ma regala anche perle di struggente dolore come nell’opener Sunless Deluge e nel meraviglioso finale di Bells of the Black Basilica, brano a dir poco monumentale per la sua terrificante bellezza.
I Tyranny rischiavano di restare derubricati allo status di band di culto, per di più in un settore che di suo è già sufficientemente di nicchia, ma con questo magnifico lavoro entrano di diritto nel gotha del funeral finlandese, il che equivale a dire mondiale, vista la già citata importanza della nazione dei mille laghi per lo sviluppo del genere.

Tracklist:
1. Sunless Deluge
2. A Voice Given unto Ruin
3. Preparation of a Vessel
4. The Stygian Enclave
5. Bells of the Black Basilica

Line-up:
Matti Mäkelä – Guitars, Vocals, Samples
Lauri Lindqvist – Vocals, Bass, Keyboards

TYRANNY – Facebook

Swallow The Sun – Songs from the North I, II & III

Quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione

Cosa può spingere un band dedita ad un genere di nicchia come il doom ad uscire con un triplo album nell’anno domini 2015, in un periodo storico di vacche più scheletriche che magre dal punto di vista commerciale?

È vero, i SwallowThe Sun sono forse oggi, tra tutte le band di riferimento del genere, quella che possiede comunque un minimo di appeal commerciale, viste le aperture a sonorità più gotiche e melodiche evidenziatesi magnificamente nel precedente Emerald Forest and the Blackbird; in più, aggiungiamo che i finnici escono oggi sotto l’egida della Century Media, a suggellare l’impressione di un’operazione comunque pianificata con cura e ben lungi da rappresentare l’espressione di un’insana bulimia creativa ma, detto ciò, la fruizione di quasi tre ore di musica di tale fatta resta comunque affare per pochi.
Se nutrire qualche dubbio sulla resa finale complessiva di una simile mole di lavoro appare più che lecito, la sua strutturazione finisce per provocare qualche rimpianto a causa di alcune scelte non del tutto condivisibili di Raivio e soci.
Il contenuto dei tre cd, infatti, è suddiviso in maniera netta in base allo stile musicale proposto, per cui troviamo un disco 1 (intitolato Gloom) che ricalca le orme dell’ultimo full length, con le sue ampie aperture melodiche ed atmosferiche, un disco 2 (Beauty) completamente acustico ed un disco 3 (Despair) che porta i Swallow The Sun a battere un terreno ostico ed esplorato solo in parte nei primi due album, come quello rappresentato dal funeral-death/doom.
Per fortuna la montagna creativa dei nostri non ha partorito un topolino, nel senso che Songs from the North I, II & III è un’opera che resterà sicuramente impressa nella memoria degli appassionati come una delle migliori dell’anno, ma non si può sorvolare sul fatto che il disco acustico si rivela il classico vaso di coccio racchiuso in mezzo a due monumentali espressioni artistiche quali Gloom e Despair.
Bastano i 9 muniti di With You Came the Whole of the World’s Tears per capire che i Swallow The Sun sono tornati senza alcuna traccia di appannamento dovuta ai tre anni trascorsi da Emerald… : l’impronta compositiva di Raivio è un marchio di fabbrica in grado di amplificare la portata emotiva delle digressioni melodiche, mentre Kotamäki è ormai una certezza assoluta anche con le clean vocals, facendo sì che l’alternanza con il growl ed uno screaming usato con maggiore parsimonia non appaia mai forzata.
Almeno fino a Heartstrings Shattering il primo disco è di livelli irraggiungibili per molti, mentre la seconda metà è lievemente meno coinvolgente, pur risultando ugualmente di altissimo spessore.
Dopo un’ora di emozioni a profusione, Beauty rappresenta un inevitabile calo di tensione: impeccabile dal punto di vista esecutivo, il secondo cd difetta proprio in quell’afflato evocativo che dovrebbe essere insito in musica prevalentemente acustica, per evitare di renderla alla lunga inoffensiva; purtroppo la sola Songs from the North si rivela all’altezza della situazione, grazie anche al contributo in lingua madre della brava Kais Vala, mentre il resto scorre in maniera anche piacevole ma senza lasciare un segno davvero tangibile.
Con le prime note di The Gathering of Black Moths, che inaugura il disco conclusivo denominato Despair, veniamo scaraventati in atmosfere plumbee, in cui solo dosati spunti melodici rappresentano una fievole fiammella di speranza.
L’interpretazione del funeral da parte dei Swallow The Sun risente comunque dell’anima gotica connaturata al loro stile musicale, per cui l’andamento è sì dolente ma mai troppo claustrofobico, e la disperazione evocata dal titolo fornito al cd appare tangibile proprio nella sua malinconica ineluttabilità.
I finnici scendono così sul terreno preferito dei campioni del genere in questi ultimi anni, sto parlando degli Eye Of Solitude, e la battaglia è tutt’altro che impari, visto che Raivio tira fuori dal cilindro un pacchetto di brani magnifici, che si sublima nella straordinaria Abandoned by the Light: qui chitarra e tastiera (sempre ad opera del bravissimo Aleksi Munter) si alternano nel proporre partiture dolenti e capace di far rabbrividire le anime che si abbeverano di queste note.

Alla fine di questa sorta di prova di resistenza all’ascolto, ciò che resta di Songs From The North è molto e non sarà facile cancellare dalla memoria la bellezza di diversi brani contenuti nella trilogia.
Volendo fare gli incontentabili, come è giusto che sia al cospetto di quella che io considero una delle band migliori in assoluto del panorama, un disco doppio sarebbe stato il giusto mezzo che ci consentirebbe di parlare di quest’opera come di un qualcosa prossimo al capolavoro: così non è perché purtroppo, anche se lo si vorrebbe ignorare, il cd acustico c’è e non lo si può omettere ai fini della valutazione complessiva.
Però, sia chiaro, quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione da parte degli estimatori di questa splendida realtà musicale chiamata Swallow The Sun.

Disc 1 – Gloom
1. With You Came the Whole of the World’s Tears
2. 10 Silver Bullets
3. Rooms and Shadows
4. Heartstrings Shattering
5. Silhouettes
6. The Memory of Light
7. Lost & Catatonic
8. From Happiness to Dust

Disc 2 – Beauty
1. The Womb of Winter
2. The Heart of a Cold White Land
3. Away
4. Pray for the Winds to Come
5. Songs from the North
6. 66°50’N, 28°40’E
7. Autumn Fire
8. Before the Summer Dies

Disc 3 – Despair
1. The Gathering of Black Moths
2. 7 Hours Late
3. Empires of Loneliness
4. Abandoned by the Light
5. The Clouds Prepare for Battle

Line-up:
Juha Raivio – Guitars
Matti Honkonen – Bass
Markus Jämsen – Guitars
Aleksi Munter – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals
Juuso Raatikainen – Drums

SWALLOW THE SUN – Facebook

Weeping Silence – Opus IV Oblivion

Chi ama il gothic doom avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Malta è una delle nazioni più piccole d’Europa ma a livello di doom metal possiede una tradizione piuttosto radicata: non a caso nell’incantevole isola del Mediterraneo si svolge fin dal 2009 un rinomato festival dedicato a questo sottogenere musicale.

Gli Weeping Silence esplorano la parte più malinconica e melodica del doom  ovvero quella ammantata di atmosfere gotiche, con la consueta dicotomia tra voce maschile e femminile.
Chiaramente, con questo tipo di premesse, chi sperava in qualcosa di particolarmente innovativo può pure passare oltre, visto che l’affollata band maltese, composta da 7 elementi, non fa altro che riproporre le sonorità portate ai massimi livelli espressivi da nomi quali Draconian o primi Within Temptation, tanto per citarne due particolarmente pesanti.
Ma Opus IV Oblivion merita ben più di un distratto ascolto perché, a fronte di una relativa orecchiabilità, la materia è trattata nel miglior modo possibile, il che si traduce in una raccolta di brani avvincenti ed emozionanti: tutto quanto è giusto attendersi da un gruppo esperto, del resto, con già altri tre full length all’attivo nel corso di una storia musicale ultracedennale.
In effetti la componente prettamente doom si rinviene più a livello attitudinale che non stilistico: qui, infatti, non troveremo rallentamenti asfissianti od atmosfere particolarmente plumbee, complici un songwriting lineare quanto efficace e la soave (ma non stucchevole) voce di Diane Camenzuli, la quale, proprio senza andare mai fuori dalle righe, ci conduce piacevolmente lungo questo cammino malinconico ma privo di eccessive ruvidezze.
Il valore dell’album risiede appunto nella sua gradevolezza che non viene mai meno, salvo una leggera opacizzazione nella parte centrale con i due episodi forse meno brillanti, In Exile e Stormbringer, e contrassegnata da aperture improvvise nel corso delle quali gli strumenti si liberano raggiungendo picchi evocativi non trascurabili: Eyes Of The Monolith, Hidden from the Sun, Bury My Fairytale possiedono appunto queste caratteristiche, anche se la ciliegina sulla torta i nostri la collocano proprio in chiusura, con la teatrale e drammatica Gothic Epitaph, splendida ed autentico manifesto sonoro del sound della band maltese.
A corollario di una tracklist di buon livello va aggiunta la prova di spessore dell’intera band: detto della vocalist, il growl di Dario Pace Taliana ha il pregio di completarne i vocalizzi senza risultare invadente, mentre il resto della truppa erige un dolente accompagnamento sonoro, impreziosito dall’ottimo lavoro alla chitarra solista di Manuel Spiteri, oltre che da una produzione di assoluta eccellenza.
In definitiva, chi ama questo genere avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Tracklist:
1. Oblivion – Darkness in My Heart Anno XV
2. Ivy Thorns upon the Barrow
3. Eyes of the Monolith
4. Hidden from the Sun
5. In Exile
6. Stormbringer
7. Transcending Destiny
8. Bury My Fairytale
9. Gothic Epitaph

Line-up:
Diane Camenzuli – Vocals (female)
Dario Pace Taliana – Vocals
Mario Ellul – Guitars
Manuel Spiteri – Guitars (lead)
Sean Pollacco – Bass
Alison Ellul – Keyboards
Angelo Zammit – Drums

 

Atrorum – Structurae

Gli Atrorum sono sorpendenti nel loro mescolare aperture ariose e lievi a passaggi decisamente massicci e grumosi, l’ascoltatore viene in alcuni momenti completamente spiazzato da momenti schizofrenici

Quando ascolti un disco come questo, la prima azione da compiere è aprire la mente. Mi spiego meglio: “aprire la mente” in questo caso significa porsi nella disposizione d’animo più ricettiva possibile, eliminare pregiudizi, preconcetti, il rapporto predeterminato tra vista ed udito e lasciarsi coinvolgere in un’opera che trattasi di un dipanarsi di stanze musicale concettualizzate in profondi rapporti di passaggio tra influenze stilistiche varie, disparate, spesso antipodiche ma amalgamate con sapienza, logica e rigore.

Gli Atrorum sono un duo proveniente da Monaco, in Baviera, attivo dal 1998, alla loro terza prova ufficiale. Non musicisti di primo pelo, quindi, ma elementi attivi dell’underground bavarese da quasi venti anni; l’esperienza maturata negli anni emerge tra le note di questo Structurae: un edificio musicale costruito con pazienza e professionalità, in cui in un universale impronta progressive marezzata di black metal sinfonico proprio di Dimmu Borgir e Borknagar, fa variegatura un impianto digitale disturbante, figlio (o nipote) del kraut-rock geograficamente legato agli Atrorum ed individuabile in reminiscenze che ricordano i primi Aborym.
Sorprendenti nel loro mescolare aperture ariose e lievi a passaggi decisamente massicci e grumosi, l’ascoltatore viene in alcuni momenti completamente spiazzato da momenti schizofrenici popolati di partiture free-jazz, come nella sorprendente Amapolas o nell’onirico confluire jazzistico del pianoforte in Menschein.
Fiore all’occhiello di questa produzione risulta il lucidissimo lavoro di postproduzione, in cui ogni velo di caratteristica strumentistica viene esaltato e reso nitido; ulteriore punto di merito è la meravigliosa impronta artistica e culturale degli Atrorum che hanno, in questo Structurae esaltato le loro composizioni poetiche con un songwriting in sette lingue diverse: inglese, francese, tedesco, russo, spagnolo, latino e greco per esplorare concettualmente la struttura e la capacità razionale e non della mente umana.

TRACKLIST
1.Menschsein
2.Große weiße Welt
3.Amapolas
4.Ψαλμός
5.Camouflage
6.Verfugung
7.Équipartition
8.Regnum Caelorum

LINE-UP
Umbra
Vatros

ATRORUM – Facebook

Black Oath – To Below And Beyond

Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riporati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.

Non è la prima volta che parlando di un album mi ritrovo a fare riferimento alla scena dark italiana, una fonte di ispirazione inesauribile, nella musica come nel cinema, specialmente negli anni settanta e ottanta, con artisti diventati oggetto di culto in tutto il mondo e punto di riferimento per chi non si accontenta di opere usa e getta, ma affascinato dall’arte,esplora l’underground, in questo caso quello del metal doom, colmo di riferimenti all’oscuro mondo dell’occulto.

L’Italia (fortunatamente) non è solo il paese dei talent show o dei film dei Vanzina, nel suo dna risiede una forte tradizione mistico occulta, esplosa negli anni settanta con registi che hanno fatto scuola, insegnando cinema horror a tutto il mondo.
Se poi, come in questo caso si parla di musica, l’importanza delle nostre band, nel dark/prog così come nel metal classico ed estremo diventa esponenziale.
I milanesi Black Oath portano avanti la tradizione italica nel genere da quasi dieci anni, il loro esordio omonimo uscì due anni dopo la fondazione in formato ep, poi altri lavori minori e due full length The Third Aeon del 2011 e Ov Qliphoth and Darkness licenziato due anni fa.
Metal classico, accenni al doom e tanta atmosfera dark sono le principali caratteristiche del sound di questo bellissimo lavoro, che affonda le radici nel dark metal prog nazionale, colmo di stupende ed oscure melodie vintage, un viaggio mistico nella musica esoterica, presi per mano dalla splendida voce di A.Th, sarcedote di questa liturgia occulta che per quasi un’ora ipnotizza e seduce.
Molto scorrevole, complice un songwriting maturo ed ispirato, To Below And Beyond è la classica opera senza tempo, lontana da facili estremismi, ma ben consolidata nella parte oscura dell’heavy metal classico, dove torna ad avere importanza nel sound, sua maestà il riff, potente e melodico, cadenzato nel suo lungo incedere e valorizzato da solos che escono dal mondo oscuro ammalianti e tragici.
Non un brano che scende sotto una media che rimane altissima per tutta la durata del lavoro, tenendo l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle atmosfere messianiche di songs come I Am Athanor, l’enorme Flesh To Gold, la più doom oriented del lotto e la grandiosa title track, monumento all’heavy/dark esoterico e occulto.
Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riportati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.
Un’opera nera che non deluderà gli amanti del genere , il più underground ed affascinante di tutte le varie anime della musica metallica.

TRACKLIST
1. Donum Dei
2. Wicked Queen
3. I Am Athanor
4. Mysterion
5. Flesh to Gold
6. Sermon Through Fire
7. Healing Hands of Time
8. To Below and Beyond (Ars Diaboli)

LINE-UP
A.Th Vocals, Guitars, Bass
Chris Z. Drums
B. R. Guitars

BLACK OATH – Facebook

Nocturnal Degrade – The Dying Beauty

The Dying Beauty ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ricerca un approccio più emotivo che fisico al black metal

Terzo album per i Nocturnal Degrade, nati nati nello scorso decennio come progetto solista del musicista romano Cold, al quale ora si affianca il batterista M.VII.F.

I territori battuti in questo lavoro sono quelli del black metal di matrice nordica, con ampi riferimenti a Burzum ma con una decisa componente depressive che permea l’intero sound di un’aura di oscura e talvolta disperata malinconia.
L’opener Consequence è sufficientemente esemplificativa del contenuto di The Dying Beauty, con il suo incedere negli alvei della tradizione del genere sovente arricchita, però, da passaggi chitarristici che rimandano ad umori darkwave.
Se, come è naturale, il disco non apporta novità sostanziali a sonorità ampiamente codificate in passato, ciò che fa piacevolmente la differenza è la capacità di Cold di pervadere ogni brano di linee melodiche struggenti, che scavano tunnel di dolore all’interno delle montagne di riff e blast beat.
Se In December e Iceberg Of Memories ricalcano in qualche modo la pregevole struttura mostrata in Consequence, l‘anima dark emerge con prepotenza nella title track, traccia splendida e picco assoluto di un lavoro che riserva un’altra coppia di episodi meno convenzionali ma non per questo di minore interesse: Of My Soul and the Macrocosm e Celeste (Pale Blue Ocean) mostrano, infatti, due volti diversi della materia ambient, con la reiterazione di un dilatato fraseggio chitarristico nella prima e il delicato minimalismo della seconda, composta per l’occasione da Gianni Pedretti (Colloquio e Neronoia).
Cold riesce ad impirimere alla sua musica quell’intensità che spesso manca in interpretazioni del genere, dove l’attenzione alla forma porta inevitabilmente ad esiti intrisi di manierismo: anche se di durata inferiore ai quaranta minuti The Dying Beauty ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ricerca un approccio più emotivo che fisico al black metal.

Tracklist
1. Consequence
2. In December
3. Of My Soul and the Macrocosm
4. Iceberg of Memories
5. The Dying Beauty
6. Celeste (Pale Blue Ocean)

Line-up:
Cold – all intruments
M.VII.F – drums

NOCTURNAL DEGRADE – Facebook

Mad Hornet – Would You Like Something Fresh?

Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad

Andiamo con ordine: i rockers pugliesi Mad Hornet, tra split e reunion sono attivi da quasi dieci anni, un passato demo ne aveva iniziato l’attività per poi, bloccarsi fino a due anni fa e riprendere le danze con una formazione rinnovata, che gira intorno al chitarrista Salvatore Destratis alias Ken Lance.

I ragazzi dell’Atomic Stuff, come falchi a caccia di prede, non si sono fatti sfuggire l’occasione di averli nella loro famiglia e così, questo ottimo esordio sulla lunga distanza, esce sotto l’etichetta bresciana, come sempre molto attenta alle realtà hard rock dalle buone potenzialità.
E il gruppo di Maruggio, paesino in provincia di Taranto, non delude con la sua proposta fatta di tanto hard rock statunitense sempre in bilico tra grinta e melodia, molto anni ottanta, ma fresco come il cocktail raffigurato in copertina, ultimo ricordo di un’estate ormai lontana, ed un inverno che Would You Like Something Fresh? scalderà a colpi hard rock.
Un’esplosione di watts e riff trascinanti si scambiano il testimone con ariose melodie, proprio come il genere vuole e noi non possiamo che sbattere la testa a ritmo delle dinamitarde Your Body Talks, Free Rock Machine e Game Of Death o innondare di lacrime nostalgiche il nostro viso con le bellissime Walking With You (In The Afternoon) e la conclusiva Roses Under The Rain, il tutto suonato alla grande e cantato con passione e bravura dall’ottimo Mic Martini.
Il gruppo ci sa fare, la sei corde di Lance, infiamma cuori e produce energia come un vulcano in eruzione, quando decide che è il momento di rockare, mentre la sezione ritmica il suo lavoro lo fa egregiamente, precisa e senza sbavature la prova del motore della band (El Piamba al basso e Neats Frank alle pelli).
Le influenze sono tutte da riscontrare nel periodo d’oro per i suoni hard & heavy d’oltreoceano, nel decennio ottantiano, anni di pantaloni di pelle che fasciavano ragazze dalle chiome leonine, e quel rock style mai dimenticato, frutto di vite vissute pericolosamente sul Sunset Strip.
Nostalgici? Forse, ma il feeling prodotto da songs come Blue Blood, o la carica di brani alla nitroglicerina come Raise’N’ Do It e la Van Halen oriented Pink Pants School sono patrimonio da conservare gelosamente per ogni rocker degno di questo nome.
Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad.
Rimane la soddisfazione di incontrare realtà nostrane sempre più sul pezzo quando si tratta di suoni hard rock classici, bravi!

TRACKLIST
1. Would You Like Something Fresh?
2. Your Body Talks
3. Dyin’ Love
4. Blue Blood
5. Free Rock Machine
6. Game Of Death
7. Raise ‘N’ Do It
8. Walking With You (In The Afternoon)
9. Pink Pants School
10. What Is Love [Haddaway cover]
11. Roses Under The Rain

LINE-UP
Mic Martini – Voice
Beats Frank – Drums
El Piamba – Bass
Ken Lance – Guitars

MAD HORNET – Facebook

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Al Namrood – Diaji Al Joor

Questo stuzzicante connubio tra black metal e musica araba non è affatto qualcosa di banale, possa piacere o meno, e se sviluppato ulteriormente, potrebbe portare in tempi brevi a risultati sorprendenti.

Nel parlare di metal proveniente da paesi arabi, specialmente poi in questo caso che vede la band in oggetto arrivare proprio dall’Arabia Saudita (anche se ho la sensazione che la sua base sia altrove), in questi tempi grami è facile finire per occuparsi di questioni che esulano dal contesto prettamente musicale.

Cercherò quindi di non cadere in questa trappola, raccontando brevemente di questo quarto full length dei sauditi Al Namrood, autori di un black death fortemente influenzato dalle sonorità tipiche della loro area geografica.
Diciamo che l’interpretazione del genere non appare né raffinata né artefatta: il trio ci va giù bello pesante, ed anche le parti suonate con gli strumenti tradizionali (ad opera di Ostron) conservano un’aura selvaggia che le rende ancor più intriganti; detto del lavoro di mero accompagnamento di chitarra e basso, a cura dell’altro membro fondatore Mephisto, il ringhio di Humbaba è forse l’elemento meno convincente del contesto, visto che più che cantare strepita in lingua madre testi che, ahimè, sono di impossibili da comprendere senza una traduzione.
Non riesco darmene una spiegazione logica, ma dopo il primo ascolto di Diaji Al Joor ho pensato che dei Rammstein, risvegliatisi dopo un trip susseguente ad un’orgia dall’ambientazione araba, suonerebbero esattamente così, un po’ perché ogni tanto il vocalist può ricordare una versione più grezza di Lindemann, ma soprattutto perché si intravvede negli Al Namrood quello stesso spirito sardonico che è una delle più sottovalutate doti della grande band teutonica.
Detto ciò, anche se quaranta minuti non sono tanti, per godere appieno di questo lavoro è basilare apprezzare la musica tradizionale araba: io che, devo confessare, la digerisco sostanzialmente solo se assunta in dosi moderate, ho fatto una certa fatica a completare i diversi ascolti del disco, ma è innegabile che lo stesso racchiuda un suo fascino ancestrale che potrebbe non lasciare indifferente chi è alla ricerca di qualche sonorità estrema dai tratti meno convenzionali.
Rivedibile in certi passaggi dal punto di vista della produzione, Diaji Al Joor contiene alcuni brani killer, come il singolo Hayat Al Khezea o Zamjara Alat, ed è sicuramente un disco che lascia una certa acquolina in bocca alla luce del potenziale espresso degli Al Namrood: questo stuzzicante connubio tra black metal e musica araba non è affatto qualcosa di banale, possa piacere o meno, e se sviluppato ulteriormente, potrebbe portare in tempi brevi a risultati sorprendenti.
Da provare, senza pregiudizi.

Tracklist:
1. Dhaleen
2. Zamjara Alat
3. Hawas Wa Thuar
4. Ejhaph
5. Adghan
6. Ya Le Taasatekum
7. Hayat Al Khezea
8. Ana Al Tughian
9. Alqab Ala Hajar

Line-up:
Mephisto – Guitars, Bass, Percussion
Ostron – Keyboards, Percussion
Humbaba – Vocals

AL NAMROOD – Facebook

Abysmal Grief – Strange Rites of Evil

Strange Rites of Evil non delude, grazie ad un pacchetto di brani eccellenti che, pur restando entro schemi consolidati, regalano il tipico olezzo dolciastro dei fiori in decomposizione in piccoli cimiteri dimenticati e si rivelano l’ideale accompagnamento musicale di una danza macabra dei quali i nostri gli sono gli interpreti d’elezione.

Ritornano i necrofori del doom per riportarci di peso nel bel mezzo dell’umana tragedia connessa con l’ineluttabile momento del trapasso.

La formula della cult band genovese è ormai ben consolidata, tanto da costituire un ormai riconoscibilissimo marchio di fabbrica: le macabre tastiere di Labes C.Necrothytus occupano la scena punteggiata dallo stile vocale dello stesso, sorta di versione deviata di McCoy.
In quest’album, però, anche la chitarra di Regen Graves si ritaglia diversi nonché apprezzabili spazi solisti, in ossequio ad un mood per certi versi più diretto e meno ostico, pur con tutte le dovute distinzioni del caso: la sensazione è che gli Abysmal Grief releghino le proprie pulsioni sperimentali alle uscite di più breve minutaggio (EP o split) per rendere i full length mirati ad una fascia di ascoltatori che, oltre agli appassionati di doom, possa comprendere anche chi è avvezzo a sonorità horror-dark o a quelle progressive di matrice esoterica.
Strange Rites of Evil, quindi, non delude, grazie ad un pacchetto di brani eccellenti che, pur restando entro schemi consolidati, regalano il tipico olezzo dolciastro dei fiori in decomposizione in piccoli cimiteri dimenticati e si rivelano l’ideale accompagnamento musicale di una danza macabra dei quali i nostri gli sono gli interpreti d’elezione.
Gli Abysmal Grief in questi ultimi anni hanno intensificato la propria attività, sia in studio che dal vivo e, a tale proposito, segnaliamo che il ventennale della loro fondazione verrà onorato da un un tour europeo che partirà ad aprile in compagnia dei veneti Epitaph.

Tracklist:
1. Nomen omen
2. Strange Rites of Evil
3. Cemetery
4. Child of Darkness*
5. Radix malorum
6. Dressed in Black Cloaks

Line-up:
Regen Graves – chitarra, synth
Labes C. Necrotytus – voce, tastiera
Lord Alastair – basso
Lord of Fog – batteria

Blind Marmots – Blind Marmots

Il disco omonimo dei Blind Marmots potrebbe piacere agli amanti di vari generi, ma soprattutto a chi vuole divertirsi ascoltando musica che non appesantisce.

Nella vita bisognerebbe , almeno in teoria, prendere una decisione e schierarsi.

I Blind Marmots lo hanno fatto con decisione : fanno musica pesante e rumorosa, si drogano bevono e soprattutto sono molto autoironici. I ragazzi in questione sono veterani della scena alternativa padovana, e come loro stessi affermano erano partiti per suonare stoner rock e hard rock anni 70, poi gli abusi hanno preso il potere ed il tutto è diventato CrossStoner…
Cosa sarebbe lo crosS toner ? E’ un miscuglio di stoner, sludge, noise, grunge e qualcos’altro, suonato veloce e senza generi inibitori.
Sia quel che sia è la musica che fanno i Blind Marmots, ed è molto divertente e piacevole.
Nonostante molti cambi di formazione, e diverse vicissitudini i nostri sono arrivati a pubblicare questo primo disco, mettendolo in download gratuito sul loro bandcamp .
Come valore aggiunto i nostri sono molto auto ironici e ciò si riflette sui testi, che sono divertenti come la musica e soprattutto c’è aria di spensieratezza, e non è poco.
Il disco omonimo dei Blind Marmots inoltre potrebbe piacere agli amanti di vari generi, ma soprattutto a chi vuole divertirsi ascoltando musica che non appesantisce.
Un buon debutto.

TRACKLIST
1.LETHAL CYCLE OF THE MARMOT
2.TE SACO LA MIERDA
3.DESPISE
4.EAT THE MAGGOTS
5.INSIDE THE WOOD
6.KILL YOUR PARENTS
7.KALEIDOSOUP – MADCHILDREN

LINE-UP
carlo toffano – lead guitar
thomas corelli – guitar
ale “teuvo” segantin – voice
luca campagnaro – drums
pietro gori – bass guitar

BLIND MARMOTS – Facebook

The Ritual Aura – Laniakea

Se Da Focus, capolavoro dei Cynic, vi siete appassionati al genere, brani come Era of the Xenotaph, Precursor of Aphotic Collapse e Nebulous Opus Pt. II, vi faranno letteralmente sobbalzare dalla sedia spedendovi su una galassia sperduta.

Accompagnato da una bellissima copertina fantascientifica, irrompe sul mercato underground, il primo lavoro dei technical deathsters australiani The Ritual Aura (ex Obscenium), licenziato dalla Lacerated Enemy Records e stampato in edizione limitata a duecento copie.

Liniakea è un opera affascinante, composta da un sound progressivo che accomuna melodia e mood estremo, tecnica sopraffina ed impatto tellurico in un unica esplosione di note, violente e cerebrali, intricate ma allo stesso tempo mature, facendo della band una gran bella sorpresa per gli amanti di queste sonorità.
Ovviamente la tecnica dei musicisti è spaventosa: sezione ritmica da infarto, chitarra che illumina la scena con solos funambolici, growl tosto il giusto e orchestrazioni che a tratti regalano atmosfere sci-fi in un tripudio di cambi di tempo, dita che vanno su e giù alla velocità della luce, sul manico della sei corde con Nebulous Opus Pt, II che ruba la scena, song enorme per cui vale l’ascolto del disco, un susseguirsi di cambi di tempo, orchestrazioni bombastiche e chitarra che sfida lo spartito in una rincorsa a note perse nello spazio profondo.
Non un album “facile”, come del resto tutti i lavori che puntano molto sulla tecnica esecutiva, aiutato dal minutaggio ridotto ( venticinque minuti), però Laniakea si riesce a seguire nelle sue scorribande nel mondo delle sette note estreme, nobilitate da quattro musicisti superlativi e da reminiscenze progressive che ne ampliano il raggio d’azione.
Non solo estremismo sonoro dunque , ma musica che attraversa barriere, cavalcando una tempesta di suoni, umori e sensazioni, guidati da questi quattro musicisti disumani, al secolo Darren Joy al basso, Adam Giangiordano alle pelli, Levi Dale alla chitarra e Jamie Kay alle vocals.
Se da Focus, capolavoro dei Cynic, vi siete appassionati al genere, brani come Era of the Xenotaph, Precursor of Aphotic Collapse e la già citata Nebulous Opus Pt. II, vi faranno letteralmente sobbalzare dalla sedia spedendovi su una galassia sperduta. Consigliato.

Tracklist:
1. Mythos of Sojourn
2. Ectoplasm
3. Time-Lost Utopia
4. Era of the Xenotaph
5. Nebulous Opus Pt, I
6. Precursor of Aphotic Collapse
7. Erased in the Purge
8. Nebulous Opus Pt, II
9. Laniakea

Line-up:
Darren Joy – Bass
Adam Giangiordano – Drums
Levi Dale – Guitars
Jamie Kay – Vocals

Abysmal Growls Of Despair – Between My Dead

Gli elementi dronici si alternano ad un sound che è costantemente ripiegato su se stesso, chiuso in una posizione fetale

Hangsvart è un musicista francese che sicuramente non soffre di sterilità compositiva: con il suo progetto funeral doom Abysmal Growls Of Despair è già arrivato al sesto full length in circa due anni, oltre ad altrettante uscite tra ep e spilt album.

Se a questi aggiungiamo, poi, che il nostro tiene in vita altre one man band quali Plagueprayer, Catacombs e Hangvart, oltre a prestare la propria voce agli Ancient Lament e agli ottimi Arrant Saudade, il termine di stakanovista del funeral doom glielo possiamo benevolmente affibbiare.
Che non si faccia l’errore, però, di pensare ad una sorta di Buckethead del genere specifico: nel caso di Hangsvart non si tratta di mera logorrea compositiva come per il simpatico “testa di secchio”, bensì di un’indubbia prolificità che, per una volta, non porta ad alcuna dispersione di energie; Between My Dead è una dolorosa ed estrema espressione di disagio esistenziale che non lascia spazio alcuno a slanci melodici od aperture atmosferiche: l’orribile rantolo del musicista transalpino è la voce di una mente imprigionata negli abissi più profondi di una psiche in avanzato stato di decomposizione.
Il lavoro risulta inevitabilmente faticoso nel suo incedere e la conoscenza approfondita della materia è conditio sine qua non per la sua fruizione ma, fatte le dovute premesse, questa è una delle forme di funeral più essenziali e nel contempo ortodosse che si possano ascoltare.
Gli elementi dronici si alternano ad un sound che è costantemente ripiegato su se stesso, chiuso in una posizione fetale; due tracce mostruose, in tutti i sensi, come The End of Previous Life e The Feast, senza che vada trascurato il resto, bastano e avanzano per fare di questo disco un piccolo gioiello, sia pure nel suo risultare opacizzato ed oscurato dall’atmosfera caliginosa in cui è stato deliberatamente abbandonato.
Una prova micidiale, rivolta senz’altro a pochi audaci, ma vale davvero la pena di lasciarsi portare alla deriva dai mostri evocati da Hangsvart.

Tracklist:
1. Misanthropy
2. The End of Previous Life
3. New Begining
4. The Feast
5. Wake Up

Line-up:
Hangsvart – Everything

ABYSMAL GROWLS OF DESPAIR – Facebook

Halter – For The Abandoned

Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla band russa è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.

Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla gruppo russo è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.

Giunta al secondo album dopo Omnipresence of Rat Race del 2013, la band, se non muta sostanzialmente il proprio atteggiamento nei confronti dell’umanità e delle sue miserie, compie un deciso balzo in avanti dal punto di vista prettamente musicale, giacché il death doom scarno ed asciutto ma anche privo di particolari slanci, del precedente album, lascia posto ad una forma più elaborata con diverse aperture melodiche o riff relativamente fruibili, in grado di attrarre l’attenzione più agevolmente.
Nulla di nuovo, va sottolineato, ma con For The Abandoned gli Halter si allineano al livello medio delle produzioni del genere nel loro paese, che è decisamente elevato.
Dei 6 brani che compongono l’album due in particolare spiccano sugli altri: First Snow, che stempera la durezza di base del sound con passaggi più ariosi ed evocativi, e Keepers of Persistent War, che gode invece di una struttura per certi versi accattivante e che è la riprova di quanto sia in grado di fare la band russa nel momento in cui decide di aprirsi parzialmente a sonorità meno claustrofobiche.
Ma è tutto l‘album che si dimostra decisamente di un altro livello rispetto al predecessore (niente male anche l’incipit della conclusiva Ode To Abandoned); tutto sommato gli Halter riescono a differenziarsi dalle altre realtà del genere almeno a livello concettuale, laddove un atteggiamento complessivo in cui traspare una certa “pietas” nei confronti di chi è oggetto di un ineluttabile destino, viene in questo caso sopraffatto da un sorta di cinico disgusto nei confronti di un’umanità allo sbando.

Tracklist:
1. …of the Part of Nature
2. Hunters’ Brotherhood
3. First Snow
4. Pain Which Never Sleeps
5. Keepers of Persistent War
6. Ode to the Abandoned

Line-up:
Wad – Bass
VanesS – Drums
Igor – Guitars
Mid – Guitars
Alex – Vocals

A Dream Of Poe – An Infinity Emerged

Ritorno per Miguel Santos con i suoi A Dream Of Poe, giunti con An Infinity Emerged al secondo full length.

Il musicista portoghese, oggi di stanza ad Edimburgo, opera di fatto in maniera prevalentemente autonoma, avvalendosi solo del contributo di Paulo Pacheco per la stesura dei testi, di un vocalist (che, benchè non sia citato nelle scarne note a mia disposizione, dovrebbe essere il britannico Kaivan Saraei) e del tocco tastieristico del ben noto ospite Kostas Panagiotou (Pantheist).
Il sound degli A Dream Of Poe è un gothic doom che ha l’indubbio pregio di sfuggire ad alcuni dei cliché del genere, a partire proprio dall’uso della voce che, contrariamente alle attese, è agli antipodi dei canonici vocioni baritonali o dai tratti gutturali, attestandosi invece su tonalità decisamente suadenti e delicate.
Il tutto funziona piuttosto bene anche se, alla lunga, un minimo di fatica nell’ascolto affiora: infatti, se l’opener Egregore gode di splendide linee melodiche, impreziosite per di più da un bellissimo assolo di chitarra, i brani che seguono sono meno brillanti e qui, probabilmente, sarebbe servito davvero un timbro vocale più deciso rispetto a quello indubbiamente bello ma a tratti un po’ lamentoso esibito dal pur bravo Sarei.
Non escludo che la mia valutazione derivi da una forma involontaria di intergralismo, tipica dell’appassionato devoto ad un genere specifico, ma in un ambito sonoro come quello proposto dagli A Dream Of Poe fatico non poco a degirerire vocalizzi alla Bellamy come quelli che si manifestano in The Isle Of Cinder.
Detto questo, l’album è decisamente valido, pur se non scorrevolissimo, ma non dimentichiamo che abbiamo a che fare con un genere come il doom, per cui un po’ di fatica in più nel recepire la proposta musicale deve essere messa in preventivo.
L’ultima traccia, Macula, si rivela una nuova ottima testimonianza dell’abilità compositiva di Santos, che in questa occasione specifica riesce ad esibire compiutamente i diversi umori che vanno a comporre un quadro complessivo plumbeo ma nel contempo piuttosto delicato; le atmosfere evocate sono più malinconiche che disperate e sono volte al tratteggio di una tristezza diffusa ma non per questo meno logorante.
Proprio per questi aspetti, in generale l’approccio al genere di Santos non è affatto scontato e di questo gli va dato senz’altro atto; tutto sommato, An Infinity Emerged, per le sue carattersthe parrebbe più adatto a mio avvisi ai fruitori del doom di stampo classico che non agli estimatori del versante gothic death del genere.
Intrigante, avvolgente, formalmente ineccepibile, ma non ancora imprescindibile.

Tracklist:
1. Egregore
2. Lethargus
3. The Isle Of Cinder
4. Lighthouses For The Dead
5. Macula

Line-up:
Miguel Santos – All Instruments
Paulo Pacheco – Lyrics

Kaivan Saraei – Vocals
Kostas Panagiotis – Keyboards

A DREAM OF POE – Facebook

Circle II Circle – Reign Of Darkness

raccolta, aspettando una reunion che non sembra così lontana, dopo la spettacolare esibizione al Wacken e le dichiarazioni dei protagonisti.

E dopo Chris Caffery, rieccomi qui alle prese con un altro membro della famiglia Savatage : Zachary Stevens ed i suoi Circle II Circle.

Non sono poi così distanti i primi passi del gruppo americano che esordì dopo lo spilt dei Savatage nel 2003, con il bellissimo Watching In Silence, eppure siamo già al settimo lavoro, non pochi di questi tempi e sempre dotati di un’appeal ed una qualità di alto livello.
Ho sempre considerato Stevens un grande vocalist, potente ed espressivo, magari un po’ sottovalutato, ma importantissimo nello sviluppo del sound, nella seconda parte di carriera
della band del Mountain King, quella sinfonica e progressiva, la sua voce ben si adattava alla musica del gruppo statunitense, anche quando, come negli ultimi lavori, duettava con il redivivo Oliva, tornato a guidare la band dal capolavoro Dead Winter Dead.
I Circle II Circle, specialmente nei primi lavori, si erano allontanati da quel tipo di sound per un approccio più in your face, diventando album dopo album, una delle migliori heavy/power band d’oltreoceano, almeno per quanto riguarda il metal classico.
Da un po di anni Zack è tornato a fare l’occhiolino alla band madre, specialmente negli arrangiamenti e nell’uso di splendide orchestrazioni e già il precedente e notevole Seasons Will
Fall, raggiungeva picchi qualitativi che si avvicinavano non poco all’oscura e drammatica magniloquenza dei Savatage.
Reign Of Darkness riesce ad essere un’ottima via di mezzo, alternando stupende parti pianistiche ed ottime orchestrazioni, a cavalcate metalliche di power/U.S metal, come solo chi ha vissuto al fianco della famiglia Oliva può permettersi di suonare a livelli così alti.
Band formata come sempre da musicisti dall’alto spessore tecnico, con l’accento sull’ottima performance del tastierista Henning Wanner, ed una raccolta di songs che, in meno di cinquanta minuti soddisfano tutti i fans, sempre attenti ad ogni uscita che riguarda i protagonisti che gravitano intorno al mito Savatage.
Così già dall’intro orchestrale e all’opener Victim Of The Night, il salto nel power metal statunitense, impreziosito da nobili aperture pianistiche e bordate di U.S. metal classico è
assicurato: la sezione ritmica potente e durissima si scontra con bellissime parti classiche, col tono teatrale e drammatico marchio di fabbrica del gruppo, ed una manciata di brani sopra la media come Untold Dreams, Ghost Of The Devil (la più vicina al marchio Savatage di tutto il lotto), Deep Within e Sinister Love.
Stevens come al solito incanta: drammatico, passionale e profondo, la sua interpretazione è sempre una spanna sopra alla media dei vocalist del genere, riuscendo a dare un’anima ad ogni brano che dalla sua voce prende respiro, si nutre e vive tra luce e buio.
Reign Of Darkness risulta così un altro cd da includere nella vostra raccolta, aspettando una reunion che non sembra così lontana, dopo la spettacolare esibizione al Wacken e le dichiarazioni dei protagonisti, nel frattempo godiamoci questo ottimo lavoro.

TRACKLIST
01. Over-Underture
02. Victim Of The Night
03. Untold Dreams
04. It’s All Over
05. One More Day
06. Ghost Of The Devil
07. Somewhere
08. Deep Within
09. Taken Away
10. Sinister Love

LINE-UP
Zak Stevens – Lead Vocals
Mitch Stewart – Bass/Vocals
Christian Wentz- Guitars/Vocals
Bill Hudson – Guitars/Vocals
Henning Wanner – Keyboards/ Vocals
Marcelo Moreira – Drums

CIRCLE II CIRCLE – Facebook

Eye Of Solitude – Lugubrious Valedictory (Charity Single)

Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi attivata dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre.

Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi, promossa dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records, per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre; infatti, durante il concerto dei Goodbye to Gravity in programma al Colectiv Club, 32 persone hanno perso la vita e 179 sono rimaste ferite a causa di un incendio provocato da alcuni fuochi artificiali e propagatosi rapidamente all’interno del locale.

Le sostanze tossiche rilasciate dai rivestimenti in poliuretano e l’impossibilità per gran parte dei convenuti (circa 400 persone, visto che l’evento era oltretutto gratuito) di abbandonare rapidamente la sala a causa della presenza di una sola uscita di sicurezza, hanno provocato questa terribile tragedia che ha scosso tutti gli appassionati di metal in ogni parte del mondo.
Ha colpito e commosso, inoltre, la sorte di questi due autentici eroi, Adrian Rugina (batterista dei Bucium) e Claudiu Petre (fotografo e blogger), che hanno perso la loro vita dopo averne salvate molte altre; non a caso il Presidente della Repubblica li ha insigniti alla memoria del grado di Cavalieri dell’Ordine Nazionale (messaggio ai benpensanti: quando pensate con disprezzo ai “metallari”, accomunandoli per comodità o ignoranza a quelle masse di decerebrati che si autodistruggono ogni fine settimana a forza di droghe sintetiche, tenete ben impressa l’immagine di questi magnifici ragazzi …)

Claudiu Petre e Adrian Rugina
Claudiu Petre e Adrian Rugina


La mobilitazione da parte della label di Lille e della doom band inglese, guidata dal musicista rumeno Daniel Neagoe, è stata immediata e ha fornito come frutto questo (manco a dirlo) splendido brano inedito che è disponibile per il download sul bandcamp della Kaotoxin (http://listen.kaotoxin.com/album/lugubrious-valedictory-charity-single): i proventi ottenuti tramite le offerte libere, rilasciate per l’acquisto, verranno interamente devoluti alle famiglie delle vittime della tragedia.
Per quel che vale, garantisco personalmente sulla trasparenza e sulla sincerità dell’operazione, avendo avuto la possibilità di apprezzare in questi anni la serietà e la sensibilità di ottime persone quali Nicolas Williart e Daniel Neagoe.
Di seguito trovate il comunicato della Kaotoxin e degli Eye Of Solitude: appassionati di doom, e non solo, fate la vostra parte !

Non è un segreto che sia Kaotoxin che Eye Of Solitude abbiano forti legami con la Romania: un membro dello staff Kaotoxin, Radu C., è nato in Romania e abbiamo avuto modo di visitare il paese con lui due volte, e stringere nuove amicizie ogni volta, mentre l’anima musicale degli Eye Of Solitude, Daniel N., anche se vive da tempo nel Regno Unito, è nato anch’egli in Romania e ha forti legami con la scena locale, avendo fatto parte di diverse band del suo paese d’origine, e cerca di suonarvi il più spesso possibile , come accaduto nel 2013 al Ghost Gathering con gli Eye OF Solitude o, più recentemente, la scorsa estate come session drummer dei Shape of Despair al Dark Bombastic Evening.

Subito dopo la tragedia, Daniel N. ha deciso che gli Eye Of Solitude avrebbero rilasciato un singolo in formato solo digitale per raccogliere fondi per le famiglie di quelli che, purtroppo, sono morti in questo tragico evento.

Ecco un messaggio da Daniel N.:
“A tutti gli appassionati di metal in circolazione: noi, come Eye Of Solitude, vogliamo mostrare il nostro sostegno e la solidarietà alle vittime dell’incendio al Colectiv Club e alle loro famiglie. Tra di loro vi erano vecchi amici, tra i quali le persone che hanno lottato per salvare quelli intrappolati dentro quell’inferno ardente, eroi che ora hanno lasciato nello sgomento famiglie, mogli, mariti, figli e figlie.
Questo non è un supporto da prendere alla leggera, si tratta di una sveglia e di un invito alla solidarietà. Questo è un momento in cui tutti dovrebbero fare mente locale cercando di immaginare l’inferno che questi eroi hanno attraversato per salvare gli altri. Vorremmo fare appello a tutti voi per contribuire ad aiutare le famiglie e chi ne ha bisogno in questo momento.

Con questa operazione benefica speriamo di raccogliere il più possibile ed inviare il denaro direttamente alle famiglie di coloro che perirono nella notte di venerdì 30 Ottobre 2015. Ricordatevi, fratelli e sorelle, siamo tutti nella stessa comunità, ed abbiamo il dovere di essere uniti e solidali. Ricordatevi di queste persone, che sono state mogli, mariti, padri, madri, figli, figlie; amici … per favore, facciamo qualcosa!
Grazie.”

La totalità dei fondi raccolti da Kaotoxin attraverso le vendite digitali del singolo Lugubrious Valedictory, un brano inedito di oltre 13 minuti appositamente composto e registrato per questa iniziativa di beneficenza, andrà direttamente agli Eye Of Solitude i quali rassicurano i fan sul fatto che il denaro verrà consegnato direttamente a quelli che ne hanno bisogno.

1. Lugubrious Valedictory

Music & lyrics by EYE OF SOLITUDE
Produced by EYE OF SOLITUDE
Executive Producer: Nicolas Williart for Kaotoxin Records
Reproduced with kind permission of Kaotoxin Publishing

EYE OF SOLITUDE
Daniel N. – vocals
Mark A. – guitars
Steffan G. – guitars
Chris D. – bass
Adriano F. – drums

www.eyeofsolitude.com