Slow – IV Mythologiae

Anche se a mio avviso Gaia riusciva a toccare con più continuità le corde dell’emotività, Mythologiae è l’ennesima dimostrazione di qualità da parte di un musicista unico e da preservare come patrimonio dell’umanità negli anni a venire …

Nuova uscita per il poliedrico musicista belga Déhà, oggi di stanza a Sofia dove è coinvolto in prima persona nella crescita di una scena bulgara che, anche grazie al suo impulso, denota un promettente fermento.

Quella esibita da colui che è dietro a progetti quali Deus, Merda Mundi, C.O.A:G., We All Die (Laughing), Imber Luminis e i più recenti Sources Of I, è l’incarnazione funeral doom denominata Slow, giunta con IV – Mythologiae al suo quarto atto, come si può facilmente arguire.
Déhà è ormai da diversi anni sinonimo di qualità, qualsiasi sia il genere prescelto per sfogare la sua incontenibile creatività, e questa nuova mastodontica opera della durata di un’ora esatta non fa eccezione: il disco è come al solito eccellente, ben suonato ed altrettanto ottimamente prodotto, e tutto sommato ricalca per contenuti e valore il precedente III – Gaia, dal quale differisce forse per una lieve attenuazione delle ruvidità, aspetto evidenziato da una certa preponderanza della componente ambient e dal frequente ricorso alle clean vocals.
Tutto ciò forse penalizza parzialmente quel pathos, quel senso di ineluttabilità che così si mostra solo a tratti nelle intense parti dominate da ritmi bradicardici e dal sempre efficace growl del musicista belga.
I – The Standing Giant, II – The Drowning Angel e IV – The Dying God sono strutturate in maniera simile, con una prima metà dai tratti liquidi ed atmosferici, minuti che trascorrono all’insegna di una pace apparente che prelude alle aperture drammatiche guidate da riff densi e diluiti, mentre III – The Suffering Rebel sfrutta maggiormente l’effetto evocativo della voce pulita in alternanza alla pesantezza del sound.
La pietra miliare, o meglio tombale, del lavoro è la conclusiva V – The Promethean Grief dove i conoscitori più esperti riconosceranno senza dubbio l’inimitabile growl di Daniel Neagoe, storico sodale del nostro in progetti magnifici quale Deos, Clouds e Vaer, nonché vocalist degli imprescindibili Eye Of Solitude; il brano si rivela un’ideale summa di quanto questa geniale coppia ha partorito in ambito doom estremo in questi ultimi anni.
Anche se a mio avviso Gaia riusciva a toccare con più continuità le corde dell’emotività, Mythologiae è l’ennesima dimostrazione di qualità da parte di un musicista unico e da preservare come patrimonio dell’umanità negli anni a venire …

1. I – The Standing Giant
2. II – The Drowning Angel
3. III – The Suffering Rebel
4. IV – The Dying God
5. V – The Promethean Grief

Line-up:
Déhà – all instruments, vocals

Daniel Neagoe – vocals on V – The Promethean Grief

SLOW – Facebook

Never To Arise – Gore Whores On The Killing Floor

Questo delirio estremo proviene dalla Florida, già di per se una garanzia se si parla di death metal e specialmente di brutal: tecnico, devastante, oscuro e violentissimo.

Questo delirio estremo proviene dalla Florida, già di per se una garanzia se si parla di death metal e specialmente di brutal: tecnico, devastante, oscuro e violentissimo.

I Never To Arise sono un duo composto da Gordon Denhart ( batteria programmata, chitarra e voce) e Michael Kilborn (chitarra solista e basso), sono al secondo lavoro dopo l’esordio Hacked to Perfection di tre anni fa e ripiombano sulla scena estrema con questo nuovo e massacrante album, Gore Whores On The Killing Floor, un micidiale esempio di death metal brutalizzato e tecnico, un uragano sonoro di dimensioni abnormi, cattivo, oscuro ma assolutamente imperdibile per chiunque si professi fan del genere.
Prodotto dai due musicisti e caratterizzato da un artwork che definire gore è un’eufemismo , l’album letteralmente travolge, forte di una potenza disarmante, un songwriting esagerato ed una tecnica invidiabile da parte dei due poco raccomandabili musicisti, veri torturatori di dolci donzelle e padiglioni auricolari.
Tutto rasenta la perfezione in questo lavoro, la batteria programmata su velocità da gran premio, su cui si staglia il gran lavoro delle sei corde, sia nelle ritmiche, che creano muri di impressionante sound estremo, sia nei solos, taglienti katane pronte allo scontro che tranciano, affilate come rasoi, amputano, tagliano ed infliggono torture mortali.
Colonna sonora delle aberrazioni umane, splendida glorificazione di morte e perversione, Gore Whores On The Killing Floor si bea di un songwriting esagerato, i brani si alternano uno più violento dell’altro, mitragliate e bombardamenti musicali che si scagliano sull’ascoltatore, aggredendolo, in un’orgia di note al limite, ed un’atmosfera da carneficina, decantata dal growl mostruoso del “buon” Denhart.
Uno più bello dell’altro i brani formano una suite del male, un’opera maledetta, dove, senza pietà i due musicisti ci chiudono nel loro nascondiglio e senza essere disturbati compiono le loro gesta a colpi di Butcher Knife Birth Control, Boiled Alive in Battery Acid, Severed and Embalmed e la conclusiva Last Supper.
Malevolent Creation, Cannibal Corpse, Six Feet Under, tanto per fare qualche nome e convincervi ad ascoltare questo ennesimo e bellissimo lavoro, che il metal estremo ha regalato nell’anno in corso.

Tracklist:
01. Butcher Knife Birth Control
02. Razor Sliced Hemophiliac
03. Fornicating in the Blood of the Mutilated
04. Boiled Alive in Battery Acid
05. A Most Unwilling Organ Donor
06. To Cum Is To Die
07. Open Heart Punching Bag
08. Severed and Embalmed
09. Anatomically Pulverized
10. Last Supper

Line-up:
Gordon Denhart – Rhythm Guitars,Vocals, Drum Programming
Michael Kilborn – Lead Guitar,Bass

Enshine – Singularity

A Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Avviso importante per gli appassionati del death doom melodico: se aspettavate con ansia il nuovo (e monumentale, non fosse altro che per le sue dimensioni, trattandosi di un triplo album) lavoro dei Swallow The Sun, Singularity degli Enshine si rivela ben più di un estemporaneo palliativo, trattandosi di uno dei dischi migliori del genere ascoltati non solo in tempi recenti ma in assoluto.

Una sorpresa? Non proprio, considerando che già il precedente Origin (2013) aveva convinto non poco e che lo stesso Jari Lindholm, solo qualche mese fa, aveva dato alle stampe un altro album superbo come Aphotic Veil, questa volta con l’insegna Exgenesis in compagnia del vocalist colombianoAlejandro Lotero (senza dimenticare il suo contributo all’unico parto su lunga distanza dei misconosciuti Slumber, l’eccellente Fallout del 2004)
Negli Enshine il polistrumentista svedese si avvale invece dell’ugola di una vecchia conoscenza della scena doom europea, Sebastien Pierre, già noto per il suo operato nei purtroppo disciolti Inborn Suffering e nella prima incarnazione dei Lethian Dreams; anche questa volta la spettacolare combinazione tra le partiture sonore di Lindholm e la voce del cantante transalpino si rivela irresistibile, rendendo Singularity l’ennesima preziosa gemma regalata da un genere musicale che continua ad estrarre emozioni a profusione dalla sua ideale cornucopia.
Rispetto agli Exgenesis il sound è più atmosferico, anche se i riferimenti ai più noti vicini di casa finlandesi sono sempre percepibili: quello che fa la differenza è un gusto melodico sorprendente, che si amalgama in maniera superba con i riff rocciosi ed il growl di Pierre; di certo il tocco chitarristico di Lindholm funge da ideale trait d’union tra le sue band, che si rivelano alla fine complementari nell’esibizione delle rispettive sfumature stilistiche.
Tracce eccezionali quali Dual Existence, In Our Mind e Dreamtide sono quelle in cui vengono raggiunti i picchi melodici garantiti dagli struggenti assoli di chitarra, mentre in altri brani la durezza del death opprime la componente doom senza soffocarne il melanconico incedere (Resurgence, The Final Trance).
Non vengono meno, infine, elementi che si ricollegano alla ben radicata tradizione del death melodico scandinavo, specie per quanto riguarda i suoni di band di seconda generazione tipo Insomnium, e diversi sconfinamenti in territori post metal, in particolare nel magnifico strumentale di chiusura Aphex.
Insomma, a Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. Dual Existence
2. Adrift
3. Resurgence
4. In Our Mind
5. Astarium Pt. II
6. Echoes
7. Dreamtide
8. The Final Trance
9. Apex

Line-up:
Jari Lindholm Guitars (2009-present)
See also: Exgenesis, ex-Slumber, Seas of Years, ex-Brugden, ex-Atoma, ex-Needlerust
Sebastien Pierre Vocals (2009-present)

ENSHINE – Facebook

Avulsed – Altar of Disembowelment

Un gran bel lavoro, che conferma lo status della band spagnola e ci dà appuntamento al futuro album sulla lunga distanza che, visto lo stato di grazia qui dimostrato, promette scintille.

Che Dan Swanö sia il Re Mida del death metal degli ultimi vent’anni, non lo dice il sottoscritto ma tutta la musica di qualità che ha creato come musicista prima, ed i tanti capolavori in cui ha messo la sua esperienza ed il suo talento dietro ad un mixer, in seguito.

Fare un elenco degli ultimi album, tutti bellissimi, che hanno invaso il mercato negli ultimi due anni, toglierebbe un po’ d’attenzione a questo ultimo lavoro dei deathsters spagnoli Avulsed, in cui il genio svedese ha curato la masterizzazione ai rinomati Unisound Studios.
Così succede che il buon Swanö si ritrova a collaborare con un altro personaggio, degno di nota nella scena estrema Europea, Dave Rotten, cantante del gruppo madridista e manager della Xtreem music, etichetta spagnola specializzata in metal estremo, molto attiva a livello underground.
D’altronde gli Avulsed sono un monumento della scena death, non solo spagnola, da oltre vent’anni di attività e con una bella sfilza di lavori editi, di cui sei sono full length.
Accompagnato da una copertina di chiara ispirazione brutal, creata dall’artista Juanjo Castellano, Altar of Disembowelment è composto da quattro brani inediti, più la cover di Neon Knights dei Black Sabbath, ciliegina sulla torta di un ep clamoroso dove il gruppo amalgama il classico death metal dai rimandi brutal, amalgamandolo questa volta con richiami al genere, suonato su in Scandinavia nei primi anni novanta, per un risultato entusiasmante.
Come se, alle ritmiche e la struttura del brutal alla Cannibal Corpse, ci si aggiungessero chitarre di chiara impronta Entombed/Dismember, per un ibrido che ha nell’opener To Sacrifice And Devour, la massima espressione.
La band, in piena forma, non fa mancare ritmiche veloci e potenti, Rotten sfodera la solita prestazione da urlo con il suo growl cavernoso e brutale, mentre stop and go, ripartenze fulminee e rallentamenti monolitici sono l’arma con cui il gruppo non fa prigionieri (Red Viscera Serology).
Ma, questa volta sono le chitarre a fare la differenza (Jose “Cabra” e Juancar), assassine, taglienti, ma capaci di aperture melodiche che fanno rizzare le orecchie e spalancare bocche (Ceremony Of Impalement) in una tempesta di suoni old school valorizzati dal lavoro in studio (registrazione e missaggio in balia di Raúl Fournier agli Overhead Studios).
Tremble In Darkness continua imperterrita la mattanza e la citata cover dei Sabbath, impreziosisce un gran bel lavoro, che conferma lo status della band spagnola e ci dà appuntamento al futuro album sulla lunga distanza che, visto lo stato di grazia qui dimostrato, promette scintille.

Tracklist:
01. To Sacrifice And Devour
02. Red Viscera Serology
03. Ceremony Of Impalement
04. Tremble In The Darkness
05. Neon Knights (Black Sabbath)

Line-up:
Dave Rotten: Vocals
Cabra: Guitar
Juancar: Guitar
Tana: Bass
Erik: Drums

Stormy Atmosphere – Pent Letters

Pent Letters è opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita.

Opera mastodontica, questo secondo lavoro della band Israeliana, al secolo Stormy Atmosphere, in attività dal 2002, ma con solo due lavori licenziati: il primo, ColorBlind del 2009 e appunto questo maestoso Pent Letters.

Prendendo spunto da una manciata di capolavori letterari come Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, Il Conte Di Montecristo di Dumas ed Il Faust di Goethe tra gli altri, la band costruisce un’opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita, interpretata in modo strepitoso dai musicisti del gruppo, protagonisti di prove da urlo, valorizzate da emozionati brani, dove la teatralità prende il sopravvento e si alterna con mirabolanti vortici di musica progressiva.
Impreziosito dal contributo di Tom S. Englund, vocalist degli Evergrey, l’album vive come un’opera teatrale, davvero interpretata dai due vocalist del gruppo: la stupenda
Dina Shulman, dotata di un’ugola strepitosa e carismatica che letteralmente ipnotizza l’ascoltatore e l’ottimo Teddy Shvets, protagonista di una prova emozionale, mattatore tanto quanto la sua partner, con duetti che lasciano a bocca aperta, così che, chiudendo gli occhi vi ritroverete al cospetto di un palco, con i due vocalist a dispensare perle di recitazione, in una rappresentazione teatrale entusiasmante.
Il sound su cui è strutturato Pent Letters, non può che correre dietro ai due assi al microfono, una sinfonia progressiva alimentata da soluzioni metalliche, ed atmosfere gotiche, dove i musicisti del gruppo danno sfoggio di una maestria elevata, anche se è la musica che in Pent Letters incanta, calda, ricca di cambi repentini di atmosfere, fughe tastieristiche, sinfonie operistiche, solos che sparano lingue di fuoco, ritmiche veloci come il vento, o intricate come la tela di un ragno, che creano attimi entusiasmanti, costringendo i generi di cui l’album si nutre ad allearsi per far risplendere la musica di Pent Letters.
D’altronde non si può rimanere indifferenti alle trame di cui sono composti brani esagerati come Science Fiction, Historical Adventure, The Menippeah (epica, operistica, un capolavoro), Tragic Play (metallica, debordante e bombastica), songs che valorizzano un’opera che interamente incanta.
Ayreon, Dream Theater, la Turunen solista, Evergrey e Within Temptation, prendete i gruppi e gli artisti in questione, amalgamateli sapientemente ed avrete una minima idea di quello che vi aspetta all’ascolto di Pent Letters … il resto lo mettono i fantastici Stormy Atmosphere.

Tracklist:
1. Afterlight
2. The Way Home
3. First Day
4. Science Fiction
5. First Year
6. Historical Adventure
7. Hour
8. The Menippeah
9. While
10. Suspense
11. Gothic Dread
12. Decennary
13. Tragic Play
14. Outcome
15. Time

Line-up:
Teddy Shvets – Vocals
Dina Shulman – Female Vocals
Stas Sergienko – Guitars
Eduard Krakov – Keyboards
Max Man – Bass

Skepticism – Ordeal

In un mondo che si muove a velocità parossistica e senza una direzione precisa, questi bizzarri e geniali musicisti fissano un punto d’arrivo ben preciso, un non luogo con il quale tutti, prima o poi, dovremo fare i conti

Dopo sette anni tornano a far sentire la loro voce i finlandesi Skepticism, considerati a pieno titolo quali veri e propri padri putativi del funeral doom .

Ordeal è solo il quinto full length in una carriera ultraventennale, ma tra questi (Stormcrowfleet, Lead And Aether, Pharmakon e Alloy) non ce n’è uno che possa essere definito trascurabile, essendo ognuno di essi una pietra miliare del genere, e non solo.
Gli Skepticism sono, quindi, tra quelli che hanno contribuito a dar vita a questo movimento musicale e, pur essendo di poco posteriori come nascita ai connazionali Thergothon, a differenza di questi nel corso degli anni hanno continuato a spargere il lugubre seme del funeral, senza curarsi di scadenze od obblighi contrattuali, semplicemente lasciando che la musica sgorgasse in maniera spontanea.
Ordeal è stato registrato dal vivo a Turku nel gennaio di quest’anno ed esce quindi nel doppio formato in cd/dvd; inutile dire che poter assistere all’incisione dal vivo di un disco di inediti, per di più in odore di capolavoro, non è cosa di tutti i giorni e, nonostante l’invidia provata nei confronti dei presenti all’evento, la possibilità di godere anche delle immagini è un regalo inatteso quanto prezioso.
L’impatto emotivo viene accentuato dalle immagini che riprendono i nostri nella solita configurazione sul palco, con Eero Pöyry alla sinistra degli spettatori a riempire l’aria delle note solenni del suo organo, il carismatico Matti Tilaeus al centro a ringhiare nel microfono e Jani Kekarainen a destra a tessere assoli dolenti con maggior continuità rispetto al passato, sintomo di un parziale addolcimento del sound che sposta il genere su coordinate ancor più melodiche.
Abbigliati come orchestrali reduci da una sbronza che si ritrovano sul palco di un teatro deserto, gli Skepticism suonano la loro musica che scava nelle pieghe più profonde della psiche, tracciando per i vivi un consolatorio quanto ineluttabile cammino verso la fine e regalando, soprattutto, ai posteri un’opera fondamentale che annulla come per incanto questi sette anni nei quali la loro mancanza si è fatta decisamente  sentire.
L’intesità di Ordeal è qualcosa di difficile da spiegare a parole, ogni brano vive sulla tragica contrapposizione tra la solennità delle tastiere e la melancolica dolcezza della chitarra, sulle quali si staglia il growl del funesto cantore Matti.
You è la prima perla offerta che diviene un tutt’uno con Momentary, al termine della quale si sentono i primi timidi applausi di un pubblico annichilito da cotanta bellezza; The Departure è quello che, in un disco “normale”, potrebbe essere considerato il potenziale singolo, grazie al suo afflato melodico superiore rispetto alla media, almeno per gli abituali canoni della band finnica.
March Incomplete è la trave portante del lavoro, trattandosi “semplicemente” di uno dei brani più intensi e commoventi che abbia mai ascoltato: risulta uno sforzo vano quello di tentare di ricacciare indietro le lacrime, che sgorgheranno copiose quando nella parte centrale un crescendo irresistibile condurrà Jani Kekarainen a suonare l’assolo più bello della sua carriera.
E, paradossalmente, questo è l’unico peccato di un lavoro pressoché perfetto, perché dopo una tale meraviglia tutto ciò che ne segue finisce per soffrire del confronto, anche se The Road, Closing Music e Pouring, con le sue atmosfere da tregenda, sono brani che presi singolarmente farebbero la fortuna di qualsiasi altra band.
L’album si chiude come meglio non si potrebbe con la riproposizione della magnifica The March And The Stream, in origine seconda traccia di Lead And Aether.
In un mondo che si muove a velocità parossistica e senza una direzione precisa, questi bizzarri e geniali musicisti fissano un punto d’arrivo ben preciso, un non luogo con il quale tutti, prima o poi, dovremo fare i conti; percorrere questo doloroso cammino in compagnia degli Skepticism sarà meraviglioso e straziante allo stesso tempo.

Tracklist:
1. You
2. Momentary
3. The Departure
4. March Incomplete
5. The Road
6. Closing Music
7. Pouring
8. The March and the Stream

Line-up:
Lasse Pelkonen – Drums
Jani Kekarainen – Guitars
Eero Pöyry – Keyboards
Matti Tilaeus – Vocals, Keyboards, Percussion

SKEPTICISM – Facebook

Mattia Gosetti – Il Bianco Sospiro Della Montagna

A tratti epico, Il Bianco Sospiro Della Montagna, cresce col passare dei minuti ed accentua la vena drammatica della storia, le sinfonie si fanno sempre più pressanti fino all’epilogo, dove non manca la speranza, quel mood positivo che dà la forza per ricominciare

Premessa: se siete appassionati di musica, cioè quella sublime ed emozionante sequenza di note che portano a sognare o per meglio dire, entrare in un mondo parallelo, che viaggia a fianco ma molto distante dalla, troppe volte, cinica e faticosa vita reale, allora quest’opera d’arte (perchè questo è) concepita da Mattia Gosetti, non potrà che esaltarvi, commuovervi, farvi vivere più di un’ora tra le delicate ma insidiose atmosfere montane: quei monti dove l’artista è nato e cresciuto e che vengono glorificate dal talento suo e dei musicisti protagonisti di questa opera tra tradizione e rock, folk e sinfonie, immersi nel paesaggio silenzioso e ovattato delle alpi bellunesi.

Il concept tratta la storia di un brigante ribelle, in lotta per la libertà del suo popolo e che tra le montagne combatte contro i signori della guerra, così come fece la nostra gente di montagna, tanti anni fa, difensori di labili confini ma non solo, di una nazione intera e che i nostri monti raccontano ad ogni passo, tra i bellissimi sentieri e i paesaggi di cui veniamo circondati ogni qualvolta le nostre mete e il nostro sguardo si spostano a nord.
Mattia Gosetti dimostra, ancora una volta di essere un musicista, ma sopratutto un compositore straordinario, accompagnato come sempre dalla splendida voce di Sonia Dal Col e da una manciata di musicisti oltremodo fantastici.
Un’operetta la chiama lui, uno stupendo affresco di musica universale che trasuda rock ma viene nobilitato da orchestrazioni e sinfonie, in un panorama tragico, drammatico, ma anche fiabesco, dove il candido colore della neve che scende copiosa riempe narici di aria gelida, così come i camini accesi di chalet persi tra i boschi e sicuri nascondigli per il brigante, si fanno caldi ripari dove l’aria e pregna dell’odore di legna che arde e riscalda, cuoce e abbraccia in caldi momenti di riposo.
La musica, la parte più importante, è emozionante tanto quanto la storia, l’orchestra e gli strumenti rock si alleano per donare una sequela di sfumature che con il passare dei minuti si fanno sempre più intense, i vari passaggi cantati a più voci tengono l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle trame di una storia affascinante, propio per il contesto originalissimo creato da Gosetti.
Il Bianco Sospiro Della Montagna è composto da diciotto movimenti: quasi inutile per un’opera del genere citare  dei titoli, anche se la poesia che sprigiona La Grande Nevicata mette i brividi, lasciando che i fiocchi si posino sul vostro stereo, mentre la splendida voce della Da Col colma il gap tra il vostro divano e le valli montane, circondate dal generale inverno.
A tratti epico, Il Bianco Sospiro Della Montagna, cresce col passare dei minuti ed accentua la vena drammatica della storia, minuto dopo minuto le sinfonie si fanno sempre più pressanti fino all’epilogo, dove non manca la speranza, quel mood positivo che dà la forza per ricominciare: il sole fa capolino dalle alte vette, il bianco della neve lascia il posto ai mille colori della primavera, metafora di un nuovo inizio per gli uomini, uniti, insieme.
L’opera verrà trasportata sul palco non solo, come sembra, nella provincia di Belluno, e il sogno di Mattia si appresta a diventare realtà. Auguri!

TRACKLIST
1.I Viaggiatori delle Stelle
2.Al Di La Della Foschia
3.Lo Straniero Silenzioso
4.Il Bianco Sospiro Della Montagna
5.Il Veterano Ribelle
6.La Città Del Nord
7.La Gitana Sperduta
8.Donata A Me
9.L’Oste Irriverente
10.Un Giudizio Clemente
11.Le Stagioni Di Una Veranda
12.La Grande Nevicata
13.A Lume Di Candela
14.Fuga Tra Le Montagne Innevate
15.Un Gesto Libero
16.La Reliquia Si Rivela
17.Discesa Dalla Montagna
18.Un Ultimo Bianco Sospiro

LINE-UP
Mattia Gosetti
Sonja Da Col
Mauro Baldissera
Salvatore Bonaccorso
Roberto Cian
Denis Losso
Marco Busin

SIRGAUS – Facebook

Diaboł Boruta – Stare Ględźby

Tra le foreste dell’est europeo si aggirano i menestrelli Diabol Boruta

Tra le foreste dell’est europeo (in questo caso della Polonia) si aggirano i menestrelli Diabol Boruta al secondo lavoro, dopo l’esordio dell scorso anno (Lesny duch…) licenziato dalla Pure Steel che ne cura la distribuzione.

Una bella sorpresa per gli amanti dei suoni metallici amalgamati con la tradizione folk, questo nuovo lavoro, quasi interamente cantato in lingua madre, dalle atmosfere festaiole, da taverna persa nei meandri di foreste, in cui perdere l’orientamento è un attimo, ed essere attirati da folletti birichini in osterie scavate nei tronchi millenari di giganti ricoperti da dura corteccia è una piacevole fortuna.
Pinte di birra, femminee muse dai voraci appetiti carnali e tanto divertimento tra strumenti metallici che rendono la proposta del gruppo un’interessante mix di suoni fusi nell’acciaio o costruiti con i regali di madre natura, per una cinquantina di minuti di folk metal ben strutturato.
Non mancano brani dalla forte connotazione metallica, che si alternano ad altri più orientati verso quello già scritto da band ormai storiche del genere come i Korpiklaani e i Finntroll, il tutto preparato a dovere per un piatto ben condito.
La cover di Vodka dei menestrelli finlandesi fa bello sfoggio di se in Stare Ględźby, confermando la band di Jonne Jarvela come massima influenza del gruppo polacco che diverte, anche per un buon uso degli strumenti e le atmosfere metalliche che si avvicinano al death melodico, con l’uso di una voce alquanto aggressiva nelle parti, dove buone cavalcate metalliche accompagnano gli strumenti tradizionali per un’orgia di suoni folk metal.
Si avvicina il mattino, stravolti da una notte di canti, balli e sane bevute ci addormentiamo tra il seno prosperoso di una procace taverniera e l’alito alcolico di un compagno di sbronza, al risveglio rimane l’albero dove al suo interno non esiste che legno, un vago ricordo di festa pagana, ma sopratutto un’incudine posata sulla testa, benvenuti nel mondo dei Diabol Boruta e nella magia del folk metal.

Tracklist:
1. …poczatak
2. Epos
3. Perun
4. Kikimora i zboze
5. …trzcia w nocy…
6. Zency i Potudnica
7. Stare Gledzby
8. Srebrne Zmije
9. Bytem ongi Debem
10. Lesnik
11. Vodka
12. koniec…
13. Kikimora and the grain
14. Of the reapers and Field Maiden

Line-up:
Pawel Rudobrody – vocals, bass
Mirek “Miras” Mamczur – vocals, guitars
Michal “Balon” Balogh – drums
Dawid “Dejvid” Warchol – keyboards
Michal “Gilas” Wyrwa – guitars

DIABOL BORUTA – Facebook

Greus – Greus

Grassi giri di chitarra che si impastano perfettamente con una batteria incessantemente impetuosa ed incalzante.

I Greus sono un gruppo con un dna molto promettente e confermano quanto di buono ci si aspettava guardando la pur spartana line – up.

I Greus sono solo in due, ma che duo: Edu Rodriguez già batterisa nei Moho, nume tutelare dello stoner in terra iberica, e Ivan Ruiz in passato nei Moksha e nei guerrieri hardcore vecchia scuola XMilk, indimenticabili per furia e coerenza.
I due si sono uniti per far musica pesante con composizioni intricate ed assai intriganti.
Dopo poco più di due anni suonando solo dal vivo, si sono chiusi negli studi Cal Pau Recordings con il sig. Santi Garcia, mastro produttore di gran parte dei capolavori Bcore.
Il risultato è molto originale, distorto sia nel suono che nella composizione, davvero interessante e ricco di spunti.
I due musicisti in questione sono due persone che non vogliono e non devono dimostrare nulla, ma solo fare musica che li diverta e che possa divertire l’ascoltatore, e ci riescono in pieno.
Come recita il loro comunicato stampa, ed è raro dare ragione ad un comunicato stampa, i Greus fanno un album di cui Toni Iommi, almeno quello pre senescenza, ne sarebbe molto fiero e ci potrebbe anzi suonare.
Grassi giri di chitarra che si impastano perfettamente con una batteria incessantemente impetuosa ed incalzante.
Un disco oscuro che affascina e che fa venire voglia di camminare senza luce in bui cunicoli, labirinti creati dalla nostra mente. In questo disco omonimo però non si trova solo l’oscurità ma anche tanta deviazione sonora ed imprevedibili costruzioni soniche.

Tracklist:
1 Brou De Cultiu
2 Engrudo
3 Mitocondria
4 El NO Yo
5 Cervical 3

Line-up
Edu Rodriguez – Drums.
Ivan Ruiz – Guitar.

GREUS – Facebook

Suma – Ashes

Ashes è un manuale di come dovrebbe comporre e suonare un gruppo sludge metal, incessante e potente, con riff megalitici che cadono come grosse pietre dal cielo, e non si può fare altro che fermasi e scuotere la testa ad un tempo che è differente da quello umano.

Ristampa del disco del 2010 da parte dell’ Argonauta Records, che grazie a questa operazione pone nuovamente l’attenzione su di un capolavoro della musica pesante.

Questo disco è una dichiarazione di guerra contro la gravità, mai suoni così pesanti hanno tanto elevato il nostro cervello.
Ashes è un manuale di come dovrebbe comporre e suonare un gruppo sludge metal, incessante e potente, con riff megalitici che cadono come grosse pietre dal cielo, e non si può fare altro che fermasi e scuotere la testa ad un tempo che è differente da quello umano.
Gli svedesi Suma sono uno dei migliori gruppi del loro genere, sia per i loro talento che traspare dal disco, sia per la magia della loro musica, che si avvicina a quella dei maestri Neurosis, non tanto per il genere, quanto per l’effetto divino.
Si è in piacevole soggezione ad ascoltare Ashes, e sinceramente non si trova un punto debole nel corso del disco.
Qui l’oltre è l’unica direzione e non ci si volta mai indietro. Andiamo un poco indietro ed ascoltiamoci o riascoltiamoci questa gemma, che ha visto anche la grande partecipazione di Billy Anderson e si sente la sua mano.
Grande ristampa per un’etichetta in forte e costante ascesa.

Tracklist
1. Headwound
2. Ashes
3. Orissa
4. Justice
5. War On Drugs

Line – Up
E
J
P
R

SUMA – Facebook

Gateway – Gateway

Un album sorprendente ed efficacenella sua cruda essenzialità.

C’è doom e doom: specialmente quando ci si addentra nei meandri più estremi del genere si possono rinvenire espressioni consolatorie e malinconiche, capaci di indurre alla commozione, ed altre che invece cercano senza alcuna mediazione di sprofondare definitivamente l’ascoltatore in un abisso putrescente.

Questo è appunto il caso dell’album d’esordio dei Gateway, one man band belga appannaggio del musicista di Bruges Robin Van Oyen: per approcciarsi a questo lavoro bisogna essenzialmente dimenticarsi cosa sia un suono limpido e perfettino, perché qui, per una quarantina di minuti, riff densi e riverberati conducono le macabre danze accompagnati da un growl inumano (magari reso tale da qualche aiuto tecnologico, ma chi se ne importa) per un risultato che fotografa perfettamente le tematiche orrorifiche inerenti il medioevo e, come anticipato dalla copertina, le efferate pratiche di tortura alle quali venivano sottoposti diversi sventurati.
Un difetto dell’album? La sensazione di ascoltare dall’inizio alla fine lo stesso brano; un suo pregio? Esattamente lo stesso, proprio perché per tutta la sua lunghezza si è sottoposti ad una sorta di apnea musicale dalla quale sembra di non poter mai uscire.
A livello di influenze dichiarate dal musicista fiammingo vengono citati nomi come Winter ed Autopsy, e fin qui ci siamo, mentre mi trova un po‘ meno d’accordo l’accostamento agli Evoken, in quanto la band di John Paradiso è portatrice di un sound molto più ortodosso e raffinato, al confronto; semmai l’andamento ritmico, le connotazioni horror e lo stesso ossessivo approccio, mi spingono audacemente a pensare ad una versione priva di tastiere dei nostri Abysmal Grief.
Vox Occultus, Impaled e Vile Tempress e la pietra miliare The Shores Of Daruk, nella quale affiora qualche accenno di melodia, sono i picchi di un album sorprendente ed efficace nella sua cruda essenzialità, da ascoltare preferibilmente a volume esagerato, pur sapendo che i vicini invocheranno molto probabilmente l’intervento di un esorcista …

Tracklist:
1. Prolegomenon (Intro)
2. Vox Occultus
3. Kha’laam
4. Impaled
5. Corrumpert Interludium
6. Vile Temptress
7. Hollow
8. The Shores of Daruk
9. Portaclus (CD bonus track)

Line-up:
Robin van Oyen – Everything

GATEWAY – Facebook

She Past Away – Narin Yalnizlik

Felice ritorno del duo turco in cui Volkan Caner e Doruk Ozturkcan riportano definitivamente la vena dark in onda, dopo un precedente tentativo da manifesto perfettamente riuscito: “Belirdi Gece”.

Effettivamente sembrano apparsi dalla notte per riappropiarsi delle voci spettrali in danze rituali oramai evaporate con l’uscita dalle scene dei co-fondatori. Dei Clan Of Xymox ritroviamo in questo album l’ossessivo beat elettronico delle tastiere e dai Cure gli arpeggi di chitarra ancora più puliti e raffinati dei precedenti lavori, tre in toto con l’Ep “Kasvetli Kutlama” del 2010. E’ finora il disco della maturità, ben cablato ed equalizzato nel suono che cristallino e cristallizzato riporta tutti quanti per strade nebbiose che 30 anni fa percorrevano cappe nere ed anfibi. L’album suona minimale eppure è perfetto perché completo: non potrebbe avere più concentrazione di quella che già emana dalla struttura dei brani , anche se in nome di uno stilema, perde qualche minore e quinta tonale, facendo più spettrale tutto ciò finora prodotto. Cosa permane è l’intreccio bilanciato tra la sensazione di malinconica caducità e l’atmosfera romantica come leitmotiv che finora brilla in ogni singola traccia scritta, cantata ed eseguita ad Istanbul, dopo il trasferimento da Bursa come paese nativo. Sarà la dissonanza e l’anacronismo spazio-temporale, ma questa formazione ha davvero tanto da proporre e nulla da invidiare a multiple realtà sparse in scene stereotipate per i sobborghi inglesi o polacchi dove la ripetizione rischia di debordare in un basso clichè che non regge affatto il significato originario di wave , dark o goth ovvero passione, pulsione e pozione.
Undici brani per 45 minuti in cui le delicate solitudini finiscono per ammorbidirsi in compagnia di qualcun’altra anima per trascendere le mancate compagnie durate anni. Grazie a li Turchi, mamma!

Tre date in Italia assieme ai Lebanon Hanover:
18.12.2015 Roma, Metamorfosi
19.12.2015 Torino, Cafe Liber
20.12.2015 Padova, Work In Progress

Tracklist
1.Soluk
2.Asimilasyon
3.Uzakta
4.Narin Yalnızlık
5.Hayaller?
6.Katarsis
7.Uçtu Belirsizliğe
8.Gerçekten Özleyince
9.Yanımda
10.Kuruyordu Nehir
11.İçe Kapanış II

Line-up:
Volkan Caner
Doruk Ozturkcan

SHE PAST AWAY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Ypq4Rz5qMqY

Sadist – Hyaena

I Sadist ci danno una dimostrazione di come si possa fare musica totale, travalicando generi e visioni ristrette per aprire veramente la mente, riuscendo a cogliere anche quello che c’è oltre ciò che vediamo.

Ascoltare i Sadist diventa una quaestio filosofica: siete pronti a viaggiare per lo spazio profondo o volete sentire un metal che avete già nella vostra testa?
La questione non è da poco.

I Sadist ci hanno abituato fin dagli albori della loro carriera cominciata nel lontano 1991 a volare molto alto, dischi come il primo “Above The Light” o il clamoroso “Tribe” ci hanno mostrato un modo differente di usare il metal come codice per legare culture molto differenti fra loro, e non nel significato dato dai Sepultura, perché i Sadist operano una sintesi a tutto tondo.
Questa volta la protagonista è la Hyaena e per estensione l’Africa, infatti troviamo anche l’ottimo percussionista senegalese N’Diaye che si unirà ai genovesi anche per i concerti dal vivo.
In questo disco la musica è un mezzo per viaggiare, e si ottiene un fusione di altissimo valore fra prog e metal, ma senza essere per questo un’opera prog metal, recinto che racchiude troppe vacche magre.
I Sadist ci danno una dimostrazione di come si possa fare musica totale, travalicando generi e visioni ristrette per aprire veramente la mente, riuscendo a cogliere anche quello che c’è oltre ciò che vediamo.
Hyaena ci porta in profondità, ricercando le nostre radici con un suono metal che si trasforma in prog e prog che si sublima nel metal, come una nave chi si adatta a seguire le onde.
Non esiste un solo pezzo scritto male od interpretato male, e la rete tessuta dai Sadist non si esaurisce con la fine della canzone ma va ben oltre. Tutte le canzoni sono state scritte da Tommy Talamanca che è uno dei migliori compositori musicisti che ci sia in giro. I testi sono stati scritti da Trevor, e sono unici come sempre. Parliamo un po’ di Trevor, perché in questo disco è in forma strepitosa, cantando oltre le già alte vette da lui toccate precedentemente, e con la sua voce dà un timbro preciso al disco.
Chi già conosce i Sadist sa che questo album sarà differente come tutti gli altri, sicuramente molto diverso dal precedente “Season In Silence” che era il loro lavoro maggiormente metal.
In Hyaena c’è tutto,ed è sicuramente l’album migliore dei Sadist, lo si ascolta in continuazione e se ne vuole ancora.
Torna il quesito posta all’inizio: volete viaggiare o rimanere a terra?

Tracklist:
1. The Lonely Mountain
2. Pachycrocuta
3. Bouki
4. The Devil Riding the Evil Steed
5. Scavenger and Thief
6. Gadawan Kura
7. Eternal Enemies
8. African Devourers
9. Scratching Rocks
10. Genital Mask

Line-up:
Trevor Sadist – Lead Singer.
Tommy Talamanca – Keyboards,Guitars.
Andy Marchini – Bass.
Alessio Spallarossa – Drums

SADIST – Facebook

Arrant Saudade – The Peace Of Solitude

Prodotto comunque superiore alla media, questo primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

Arrant Saudade è l’ennesimo progetto che vede coinvolto Riccardo Veronese, uno dei principali protagonisti della scena Doom londinese.

Aphonic Threnody, Dea Marica e Gallow God sono band che abbiamo già trattato su queste pagine, tutte accomunate dalla presenza del chitarrista dalle chiare origini italiane.
La prima di queste, una delle migliori espressioni attuale del death doom continetale, annovera nella sua line-up anche il cileno Juan Escobar (Astorvoltaire, ma soprattutto vocalist dei magnifici e purtroppo non più attivi Mar De Grises), il quale anche qui accompagna Veronese occuoandosi di tutti gli strumenti ad eccezione della chitarra, assieme al vocalist francese Hangsvart, solitario protagonista di interessanti progetti quali Abysmal Growls Of Despair e Plagueprayer.
Questo stimolante mix di scuole e stili, pur sempre circostritto all’ambito doom, offre un frutto decisamente intrigante anche se non così prelibato come sarebbe stato lecito attendersi.
Nel lavoro, infatti, viene parzialmente meno quella linea continua di dolore ed oppressione che lo stesso Veronese era riuscito così bene ad evocare negli ultimi lavori degli Aphonic Threnody: una traccia magnifica come la lunga Drifting Reality non sempre trova il suo corrispettivo nel corso di un album che presenta più di un passaggio interlocutorio.
Forse è il mio pensiero di appassionato del genere ad essere troppo schematico, ma il brano appena citato contiene tutte le corrdinate ideali di ciò che dovrebbe scaturire dal funeral-death doom : una linea melodica, dolente e soffocante nel contempo, rotta solo da un growl impietoso e da improvvisi squarci di luce tremolante rappresentato dalle malinconiche pennellate della chitarra solista (a cura dell’ospite Josh Moran dei validi Vacant Eyes).
Decisamente meglio nella sua seconda metà (ottima anche la conclusiva No Dream Left in Me), The Peace of Solitude impiega un po’ troppo a decollare ma va detto che, quando ciò avviene, il palato degli intenditori viene decisamente appagato.
Prodotto comunque superiore alla media, il primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

TRACKLIST
1. Only the Dead
2. Feel Like Your Shadow
3. The Peace of Solitude
4. Drifting Reality
5. No Dream Left in Me

LINE-UP
Juan Escobar – Bass, Drums, Keyboards, Vocals (backing)
Riccardo Veronese – Guitars
Hangsvart – Vocals

ARRANT SAUDADE – Facebook

Idolatry / Unrest – Infection Born of Ending

Uno split riservato agli amanti del true black metal, Infection Born of Ending è da evitare se non avete confidenza con il genere proposto.

L’etichetta Appalachian Noise Records ci presenta, in questo Split in edizione limitata a cento copie, due realtà oscure e misantropiche con base aldilà dell’oceano: i canadesi Idolatry e gli statunitensi Unrest.

La black metal band canadese è attiva da solo un anno e formata da ex membri di svariati gruppi della scena di Edmonton come: Ides of Winter, Helgrind, Dead Jesus e Spawned by Rot, ed hanno licenziato un ep omonimo di quattro brani nell’autunno dello scorso anno.
Il brano che presentano su questo split, dal titolo Clefs au Chambre de Tristêsse / …Once Thought of Webs è un buon esempio di black metal dal sound cadenzato, accelerazioni improvvise e claustrofobiche atmosfere oscure, vario nei suoi sette minuti di durata, mantiene alta l’atmosfera di decadente black metal, insano e satanico fino al midollo.
Il gruppo ha, dalla sua, l’esperienza underground dei protagonisti che, senza clamorose prestazioni fa capire l’ottima amalgama tra i musicisti e le buone potenzialità, che potrebbero regalare soddisfazioni nei prossimi sviluppi futuri.
Gli statunitensi Unrest provengono dall’Ohio e sono la one man band del polistrumentista Destroyer, risultano attivi dal 2004, ed hanno esordito lo scorso anno con il primo full length Isolation.
Odio, rabbia e distruzione per un brano (On Filth) di black metal scarno, corrosivo ed assolutamente Only For Fans, devastante nel suo approccio old school, ed alimentato da uno spirito hardcore che rende la proposta ancor più minimale.
Uno split riservato agli amanti del true black metal, Infection Born of Ending è da evitare se non avete confidenza con il genere proposto.

Tracklist:
Side A
1. Unrest – Of Filth
Side B
2. Idolatry – Clefs au Chambre de Tristêsse / …Once Thought of Webs

Line-up:
Idolatry
Lycaon Vollmond – Guitars
Daemonikus Abominor – Drums
Nox Invictus – Guitars
Lörd Matzigkeitus – Vocals

Unrest
Destroyer – Everything

Funerale – L’Inferno degli Angeli Appiccati

Il disco ha dalla sua quella patina di viscido e caliginoso anacronismo tale da renderlo, a suo modo, piuttosto affascinante, e passare sopra a certe imperfezioni può essere comunque più semplice per chi è del tutto a suo agio con queste sonorità.

Come ho già detto a proposito della quasi omonima band norvegese, scegliere Funerale come proprio monicker per dedicarsi al genere corrispondente può rivelarsi controproducente. Solo ad una band chiamata Death è riuscita l’impresa di identificarsi in maniera indelebile con un movimento musicale, ma questa è tutta un’altra storia.

Quella che ci interessa è invece relativa ai savonesi Funerale, nati nel 2011 dall’incontro di diversi musicisti coinvolti in progetti di matrice per lo più black metal, ma decisi a svoltare verso sonorità più plumbee adottando, così, un nome che non potesse lasciare alcun margine di dubbio.
Dopo un primo lavoro più conforme alla ragione sociale, l’album oggetto della recensione, uscito nel 2013, acquista umori diversi ondeggiando tra post metal e depressive, spostandosi in maniera abbastanza decisa dalle sonorità funeral cosi come siamo abituati a conoscerle.
L’inferno degli angeli appiccati è un album non privo di un suo fascino ma paga dazio ad una realizzazione minimale per arrangiamenti e produzione; l’uso della voce, accettabile ed appropriato quando è recitata o, comunque, semi-pulita, non è altezza delle uscite odierne nel momento in cui entra in scena un growl rantolante ma troppo piatto.
Peccato, perché i testi di Lev Byleth non sono affatto banali ma se, da una parte, la scelta di cimentarsi con la lingua italiana paga dal punto di vista di una comprensione immediata, dall’altra costringe il vocalist a forzature metriche non sempre efficaci.
Il disco comunque ha dalla sua quella patina di viscido e caliginoso anacronismo tale da renderlo, a suo modo, piuttosto affascinante, e passare sopra a certe imperfezioni può essere comunque più semplice per chi è del tutto a suo agio con queste sonorità.
Le cose sembrano funzionare meglio nei brani in cui si sceglie la strada di un sound più evocativo ed intimista (La ballata dell’odio) oppure allorchè l’influsso di una delle migliori band dei nostri tempi, gli Agalloch, si percepisce in maniera più decisa (L’inferno degli angeli appiccati).
Le sfumature depressive appaiono altresì valide, anche se si manifestano in maniera intermittente rendendo parzialmente disomogeneo il risultato d’insieme.
Infine, risulta coraggiosa e tutto sommato riuscita la “funeralizzazione” di una hit come Enjoy The Silence dei Depeche Mode.
Tirando le somme, questo album mostra diversi spunti apprezzabili ma è afflitto da altrettante approssimazioni che, quanto meno, depongono a favore di ampi margini di miglioramento da parte della band ligure; il fatto stesso che il lavoro risalga ormai a due anni fa, porta a pensare concretamente che una prossima uscita possa mostrare in maniera decisa quei passi avanti in grado di assecondare al meglio le buone intuizioni già messe sul piatto in quest’occasione.

Tracklist:
1. Cime abissali
2. L’inferno degli angeli appiccati
3. L’uomo solitario
4. La valle dei tumuli
5. La ballata dell’oblio
6. Spettri nella nebbia
7. Brezza dall’ignoto
8. L’ultimo solstizio
9. Anima condannata
10. Enjoy the Silence (Depeche Mode cover)

Line-up:
Knays – Bass
Lord Edward – Guitars
Deymous – Guitars
Lev Byleth – Guitars, Vocals

FUNERALE – Facebook

Soijl – Endless Elysian Fields

Promozione piena al primo tentativo per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl.

Mattias Svensson è un musicista svedese il cui nome è indissolubilmente legato alla sua presenza in veste di chitarrista ritmico nella line-up dei Saturnus che ha inciso il capolavoro “Saturn In Ascension”; tanto basta, forse, per rendere appetibile l’album d’esordio di questo suo progetto solista denominato Soijl che, volenti o nolenti, prende le mosse dal sound dei maestri danesi.

Ma il pedigree da solo non basta, servono anche le canzoni e quindi doti compositive non comuni ed è proprio grazie a questo che il buon Mattias, dopo aver arruolato il vocalist Henrik Kindvall, centra il bersaglio con Endless Elysian Fields.
Inevitabilmente, non appena la chitarra solista entra in scena, la mente corre al tocco di quello che è stato per qualche anno il suo compagno di avventura nei Saturnus, Rune Stiassny, ma non bisogna commettere l’errore di pensare ad un bieco lavoro di scimmiottamento (che, detto per inciso, a chi ama queste sonorità non può comunque dispiacere): i Soijl riescono spesso a fondere la dolente malinconia evocata dalla sei corde con tratti più minacciosi ed oscuri che rimandano oltreoceano ai magnifici Daylight Dies.
Questo connubio funziona perfettamente nel corso di un lavoro compatto nella sua ora scarsa di durata e capace di regalare i due brani migliori nei suoi estremi: la title track, posta in apertura, nella quale il vocalist sorprende con il suo growl davvero eccellente che solo a tratti riconduce a quello di Thomas Jensen (è più vicino, semmai, al ringhio di Paul Kuhr dei Novembers Doom), e la stupenda The Shattering, che chiude l’opera con la chitarra a tessere struggenti melodie.
Ma anche tutto ciò che sta nel mezzo è assolutamente degno di nota (ottime Dying Kinship, Drifter, Trickster e The Cosmic Cold), grazie ad umori che si avvicinano anche a due espressioni death doom di valore assoluto della scena svedese quali When Nothing Remains e Doom Vs.
Promozione piena al primo tentativo, quindi, per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl, e noi appassionati non possiamo che godere dei frutti prelibati che il rigoglioso albero dei Saturnus continua ad offrire …

Tracklist:
1. Endless Elysian Fields
2. Dying Kinship
3. Swan Song
4. The Formation of a Black Nightsky
5. Drifter, Trickster
6. The Cosmic Cold
7. The Shattering

Line-up:
Mattias Svensson – Guitars, Bass, Drums, Keyboards
Henrik Kindvall – Vocals

SOIJL – Facebook

Amorphis – Under The Red Cloud

Under The Red Cloud non deluderà i fans degli Amoprhis i quali troveranno, perfettamente al loro posto, tutti gli ingredienti che hanno fatto della loro musica uno dei migliori esempi di metal degli ultimi vent’anni.

Premessa: il nuovo album degli Amorphis, il dodicesimo per la precisione, ed il settimo dell’era Joutsen ( se consideriamo “Magic & Mayhem – Tales from the Early Years” del 2010 che vedeva il vocalist reinterpretare vecchi brani dei primi dischi) è un lavoro molto bello, che poco aggiunge ma, assolutamente, non scalfisce una discografia che, in vent’anni di onorata carriera, ha visto il gruppo finlandese esprimersi sempre ad alti livelli grazie ad una manciata di album da considerare sicuramente capolavori del death metal melodico scandinavo, anche se con un approccio al genere sempre personalissimo ed originale.

Progressive death metal, sempre colmo di riferimenti alle tradizioni del loro paese, un talento per la melodia straordinario e un nugolo di musicisti che, pur avvicendandosi nella line up, hanno mantenuto un livello tecnico altissimo, sono stati gli ingredienti per il successo della band fin dal lontano 1994, anno di uscita del secondo e meraviglioso “Tales from the Thousand Lakes”, seguito dal capolavoro assoluto “Elegy” (1996).
“Eclipse”, album del 2006 che segnava l’entrata in formazione dell’attuale vocalist, è stato per gli Amorphis un nuovo inizio: Joutsen, dotato di talento e carisma ha regalato al gruppo un vero frontman, mentre la discografia inanellava buoni lavori e nulla più, con l’eccezione dello spettacolare “Skyforger” del 2009.
Under The Red Cloud consolida una formula collaudatissima, marchio di fabbrica del gruppo, un’ora di immersione nel mondo prog/folk/death metal direttamente dalla terra dei mille laghi, pregno di stupende melodie, ottimamente prodotto e suonato, dove il vocalist continua imperterrito a regalare interpretazioni emozionali, alternando con la solita maestria ed eleganza, growl, scream e voce pulita (migliorata in modo esponenziale), tra digressioni di epico prog, sfuriate estreme e melodie estrapolate dalle tradizioni popolari della loro terra.
Niente di nuovo direte voi, vero, infatti il nuovo album pecca solo per un pilota automatico nel songwriting ormai lungi dall’essere disinserito, così che Under The Red Cloud risulta un album formalmente perfetto ma un pò freddino, piccolo difetto che non lo inserisce fra i capolavori della band, anche se, come già detto rimane un lavoro molto bello.
L’album vede come ospiti Chrigel Glanzmann degli Eluveitie al flauto e Martin Lopez (ex Opeth) alle percussioni e si snoda lungo un lotto di brani dal flavour epico su cui spiccano la stupenda Death Of A King, le arcigne Bad Blood e Dark Path, l’epicissima The Four Wise One e l’ipermelodica Sacrifice.
Gli Amorphis aggiungono un altro buon lavoro alla loro ormai considerevole discografia: Under The Red Cloud non deluderà i fans della band che troveranno, perfettamente al loro posto, tutti gli ingredienti che hanno fatto della loro musica, uno dei migliori esempi di metal degli ultimi vent’anni.

Tracklist:
1. Under the Red Cloud
2. The Four Wise Ones
3. Bad Blood
4. The Skull
5. Death of a King
6. Sacrifice
7. Dark Path
8. Enemy at the Gates
9. Tree of Ages
10. White Night

Line-up:
Jan Rechberger – Drums
Esa Holopainen – Guitars (lead)
Tomi Koivusaari – Guitars (rhythm)
Santeri Kallio – Keyboards
Niclas Etelävuori – Bass, Vocals (backing)
Tomi Joutsen – Vocals

AMORPHIS – Facebook

Atropas – Episodes of Solitude

Episodes Of Solitude è un buon lavoro, superiore a molti di quelli usciti nei circuiti mainstream, ed è assolutamente consigliato agli amanti del modern metal dal taglio core, i quali non devono lasciarselo sfuggire.

Episodes Of Solitude è la seconda, violentissima mazzata, creata dai pesantissimi Atropas, gruppo melodic/metalcore di Zurigo, nati nel 2011 e con alle spalle “Azrael”, primo lavoro datato 2013.

Siamo nei lidi metalcore, ipervitaminizzati da violentissime parti death/thrash, e attraversati da clean vocals melodiche e disperate in un clima di devastazione come ben rappresentato nell’artwork, che vede un uomo, solo circondato dal panorama apocalittico di una città distrutta.
Il sound del gruppo svizzero ha poco di originale, ma dal lato puramente metallico i fans del genere avranno di che gioire: ritmiche core, pesantissime, un growl dal timbro death che entra dentro le viscere e aperture melodiche, con ottimi solos dal taglio classico, sono le maggiori peculiarità della musica prodotta dalla band, un ottimo esempio di metal estremo moderno, dal forte impatto, aggressivo e con una vena di melanconica disillusione.
Prodotto benissimo, il suono dell’album esce come una tempesta di note cristalline e potentissime, il gruppo con gli strumenti ci sa fare e la sezione ritmica, varia, potentissima e dal groove micidiale (Kevin Steiger al basso e Sandro Chiaramonte alle pelli) risulta la gettata di cemento armato su cui i due chitarristi (Dave Colombo e Mahmoud Kattan anche al microfono) costruiscono riff devastanti e bellissimi solos, ora sanguinanti e taglienti, a tratti melodici e come detto, dal taglio classico, vicino al più puro death metal melodico.
Brani che alternano un mood classico, a devastanti parti di metalcore modernissimo, così che l’ascolto non annoia, continuando a girovagare spersi per le rovine della città distrutta, simbolo di un’umanità arrivata inesorabilmente alla fine e di cui Episodes Of Solitudes può senz’altro rappresentare la devastante colonna sonora.
Le influenze del gruppo sono ben riscontrabili tra le band storiche del genere, dai sempre presenti Pantera degli ultimi album, ai Machine Head e poi i gruppi del movimento “Core” degli ultimi anni.
Anche se alle prese con un genere che comincia a tirare leggermente la cinghia, gli Atropas risultano convincenti, dall’alto di una raccolta di brani che mantengono una buona media qualitativa dall’inizio alla fine con le ottime Lost Between Worlds, il singolo Crimson Zero, Hit the Floor e Alone che spiccano sulla scaletta dell’album.
Episodes Of Solitude è un buon lavoro, superiore a molti di quelli usciti nei circuiti mainstream, ed è assolutamente consigliato agli amanti del modern metal dal taglio core, che non devono lasciarselo sfuggire.

Tracklist:
1. Молотов
2. Lost Between Worlds
3. Crimson Zero
4. One Last Time
5. Take Me Home
6. Hit the Floor
7. Real Me
8. Alone
9. I Dreamed I Was Old
10. Closure

Line-up:
Kevin Steiger – Bass
Sandro Chiaramonte – Drums
Dave Colombo – Guitar
Mahmoud Kattan – Vocals & Guitar

ATROPAS – Facebook

Ten – The Dragon And Saint George

Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Dopo moltissimi anni dall’ep che portava come titolo “Fear The Force”, opener del capolavoro “Spellbound” del 1999, i Ten dopo i due ottimi full length, usciti a distanza di sei mesi tra il 2014 e quest’anno (“Albion” e “Isla De Muerta”), confermano una ritrovata voglia di riprendersi lo scettro di regnanti sul melodic hard rock, tornando con questo altro lavoro breve, che ha il suo perno in The Dragon And Saint George, stupendo brano tratto dall’ultimo album.

Il nuovo lavoro è composto da sette tracce, di cui tre inediti, la title track e altri brani usciti come bonus sugli ultimi due album.
La nostra attenzione non può che cadere sulle nuove canzoni, che impreziosiscono e danno un senso a questa operazione, dall’alto della qualità superiore della musica composta dal buon Gary Hughes, tornato ai fasti dei primi lavori in quanto al valore del songwriting.
Musketeers: Soldiers Of The King sembra uscita dalle sessions di The Robe: epica, melodica, interpretata alla grande da uno Hughes stratosferico, tanto che mi chiedo come possa essere stata lasciata per un’uscita “minore”.
Hard rock dalle ritmiche grintose risulta Is There Anyone With Sense, dove Hughes entra con la sua calda voce, prima che uno dei ritornelli più belli degli ultimi anni alzi centimetri di pelle d’oca sulle braccia dell’ascoltatore.
Le chitarre (Dann Rosingana, Steve Grocott e John Halliwell) sono le protagoniste dei nuovi brani ed anche l’ultimo inedito (The Prodigal Saviour) lascia ad un riff fuso nell’acciaio, i primi secondi del brano, che risulta ritmicamente vario, prima che un refrain AOR torni all’hard rock ipermelodico, dove i Ten non trovano avversari.
Le altre tracce riempiono di splendida musica rock, questa mezzora scarsa di hard rock melodico tornato a risplendere nello spartito del gruppo britannico, una band fuori dal comune, anche quando la magia folk/epica di Albion Born (dal penultimo “Albion”) ci disegna nella mente verdi colline, dove guerrieri impavidi riposano le membra dopo una lunga giornata di battaglia, tra castelli a guardia di cristallini laghi persi nella bruma.
Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Tracklist:
1.The Dragon And Saint George
2.Musketeers: Soldiers Of The King
3.Is There Anyone With Sense
4.The Prodigal Saviour
5.Albion Born
6.Good God In Heaven What Hell Is This(12 inch Picture Disc exclusive)
7.We Can Be As One (European Exclusive track to Isla De Muerta)

Line-up:
Gary Hughes – vocals, guitars, backing vocals
Dann Rosingana – Lead guitars
Steve Grocott – Lead guitars
John Halliwell – Rhythm Guitars
Darrel Treece-Birch – keyboards, Programming
Steve Mckenna – Bass guitar
Max Yates – drums and percussion

TEN – Facebook