Satori Junk – Satori Junk

Debutto per questi rumorosi milanesi che conoscono a fondo l’arte di catturare l’ascoltatore in spirali soniche.

Debutto per questi rumorosi milanesi che conoscono a fondo l’arte di catturare l’ascoltatore in spirali soniche.

Nel loro suono non troviamo nulla di veramente innovativo, poiché c’è la più grande delle ricchezze per un disco: farsi ascoltare molte volte e non averne abbastanza.
Questi ragazzi hanno un suono molto simile agli Electric Wizard, temi in quota Black Sabbath e comunque hanno più di un piede nel suono stoner, ma la loro caratteristica principale è questo groove molto pieno che li porta a spiccare.
Le canzoni sono lunghe, tutte superano i cinque minuti, ma tengono incollati alle casse o alle cuffie, ad aspettare ciò che viene dopo il primo riff, dopo il giro di batteria, senza mai annoiare.
I Satori Junk fanno sembrare semplice ciò che molti gruppi fanno con estrema difficoltà, ovvero sono naturali e hanno composto un disco che è la summa di tutto ciò che sono stati fino ad ora, gettando le basi di un buon futuro.
Questi otto pezzi non sono che l’inizio in territorio discografico di un cammino che spero per loro e per noi, li porti molto lontano.
Con i giusti volumi questo disco omonimo farà tremare più di un muro, avendo al suo interno pesantezza e potenza, ma anche tanta melodia, e un alto indice di gradimento sia per chi già conosce questo suono, sia per chi lo bazzica meno.
Satori Junk si rivolge, anche a causa della sua natura, al di fuori dello stretto ambito stoner, ponendosi come un disco a cui stanno strette le definizioni, anche perché è forte la componente psych anni settanta senza essere affatto predominante.
Un ascolto che ha diverse facce ed un solo grande groove.

Tracklist:
1. T.T.D.
2. Spooky Boogie
3. Monsters
4. Shamaniac
5. Blessed Are The Bastards
6. Ritual
7. Lord Of The Pigs
8. Queen Ant Jam

Line-up:
Luke – Voce, Synth
Chris – Chitarra
Lorenzo – Basso
Max – Batteria
Alessandro – Roadie e Uomo Banchetto

SATORI JUNK – Facebook

Temperance – Limitless

Mettetevi comodi e partite con i Temperance per un viaggio spettacolare, che vi condurrà in questo spazio “senza limiti”.

Non era facile per i Temperance, band di Marco Pastorino dei Secret Sphere e della stupenda vocalist Chiara Tricarico, tornare in pista dopo i fasti del clamoroso debutto omonimo dello scorso anno, finito sulla mia personale playlist del 2014 come uno dei più riusciti lavori in ambito symphonic metal.

Squadra che vince non si cambia, ed allora ritroviamo la band al completo con i fratelli Capone e Liuk Abbott, supportati da Simone Mularoni (DGM) a mixare questo altro splendido esempio di metal dalle mille sfaccettature, ora sinfonico, ora con una marcata impronta elettronica, ora apertamente estremo, ma sempre irresistibile e dall’enorme appeal.
Certo è che l’effetto sorpresa che, lo scorso anno, aveva aggiunto valore ad un debutto di per sé eclatante, viene inevitabilmente a mancare ma, invece di fargli perdere qualche punto, accresce il valore di questo stupendo combo e delle loro composizioni.
Molto più presente rispetto al passato è la componente elettronica, specialmente nei primi brani, mentre quella estrema affiora piano piano, esplodendo in tutta la sua spettacolare violenza verso la metà del lavoro, andandosi ad amalgamare sapientemente con il suono sinfonico, marchio di fabbrica del gruppo nostrano.
Gran lavoro della sezione ritmica e sempre più notevole l’apporto del buon Pastorino, sia alla voce, supportando al meglio la splendida vocalist, sia nel songwriting, anche questa volta superlativo, confermandosi come uno dei maggiori talenti in circolazione, non solo all’interno dei nostri confini.
Una predisposizione melodica non comune, unita ad un uso delle linee vocali che definire perfetto è un eufemismo, fanno di Limitless un’altra prova sontuosa e l’opera, se accostata con le ultime prove delle band più famose, dimostra come i Temperance hanno tutte le carte in regola per diventare una dei nomi di punta del metal nazionale anche al di fuori dai patri confini, insieme ai Lacuna Coil, dimostrando che, quando c’è il talento, anche i nostri musicisti possono giocarsela alla pari se non superare le realtà straniere idolatrate, a volte a dispetto dei santi, dagli addetti ai lavori.
D’altronde, come non rimanere ammaliati dalla prova di una Tricarico sempre più convincente, che ci delizia su tredici brani meravigliosi, che rappresentano la perfetta commistione tra metal e sinfonia, armonia e violenza, eleganza pop e furia metallica, in una tempesta di emozioni.
Sinceramente non riesco a nominare un brano piuttosto che un altro, mettetevi quindi comodi e partite con i Temperance per questo viaggio spettacolare, vi basterà seguire la track list per lasciarvi condurre in questo spazio “senza limiti”.

Tracklist:
1. Oblivion
2. Amber & Fire
3. Save Me
4. Stay
5. Mr. White
6. Here & Now
7. Omega Point
8. Me, Myself & I
9. Side By Side
10. Goodbye
11. Burning
12. Get A Life
13. Limitles

Line-up:
Liuk Abbott – Bass
Giulio Capone – Drums, Keyboards
Marco Pastorino – Guitars (lead), Vocals
Sandro Capone – Guitars (rhythm) (2013-present)
Chiara Tricarico – Vocals (2013-present)

TEMPERANCE – Facebook

Saxon – Heavy Metal Thunder / The Saxon Chronicles

Due ottime ristampe edite dalla UDR Records che ripercorrono la carriera di una delle più importanti band heavy metal della storia.

Era l’alba del decennio più glorioso per i suoni metallici (gli anni ottanta), e sulla scena musicale europea, divisa ancora tra i suoni ribelli del punk e quelli patinati e spettacolari del progressive e dell’hard rock, eredità del decennio precedente, irruppero come un fulmine a ciel sereno un manipolo di band che fecero la storia della nostra musica preferita, conosciute dai posteri come le band della New Wave Of British Heavy Metal e di cui i Saxon furono una delle maggiori e più conosciute espressioni.

La band britannica, capitanata dal leggendario vocalist Peter Rodney Byford, in arte Biff, dopo l’album omonimo rifilò almeno cinque capolavori, tra il 1980 e il 1984, di cui i primi tre rimasero scolpiti nella storia dell’heavy metal: “Wheels Of Steel”, “Strong Arm Of The Law” e “Denim And Leather”, usciti nel giro di un paio di anni, tra il 1980 e il 1981 (gli altri due “Power And Glory” del 1983 e “Crusader” del 1984, leggermente inferiori ai primi tre, rimangono di una qualità altissima), fecero il botto e l’esercito sassone a suon di bombardamenti metallici conquistò i kids di tutto il mondo.
Sono passati quasi quarant’anni dalla formazione della band, nata nello Yorkshire nel 1976, e Biff è ancora qui, nel nuovo millennio, ad esaltare le truppe con queste nuove uscite discografiche che ripercorrono la carriera di una band che definire fondamentale è un eufemismo.
Via Udr Records, in attesa del nuovo dvd” Warriors Of The Road- The Saxon Chronicles II”, escono in contemporanea due compilation della band già edite ma di un’importanza assoluta.
La prima vede la riedizione della compilation Heavy Metal Thunder, originariamente pubblicata nel 2002 con l’aggiunta del Live in Bloodstock del 2014: la band, per l’occasione, risuona tutto il materiale donandogli un approccio più fresco ed in linea coi tempi, ed è così che le migliori canzoni dei primi lavori deflagrano in tutta la loro potenza metal e, se già allora erano in odore di immortalità, qui sono rese devastanti da una produzione folgorante.
Ci sono tutte i brani che hanno fatto la storia, da Heavy Metal Thunder, a Strong Arm Of The Law, passando per le monumentali Crusader, 747 (Strangers In The Night), Wheels Of Steel, Motorcycle Man e quella che personalmente ritengo la song metal con il più bel riff di tutti i tempi, Princess Of The Night.
Il live che fa da bonus cd ci consegna una band ancora sul pezzo ed esaltante quando sprigiona la sua forza su un palco: Biff stupisce per la carica che possiede intatta, e la band gira a mille tra vecchi classici e nuove canzoni che reggono tranquillamente il confronto con gli storici brani ottantiani.
The Saxon Chronicles uscì nel 2003, e si tratta di un doppio dvd: il primo vede la band cimentarsi sul palco del Wacken Open Air davanti ad una marea di fan nell’estate del 2001, e non esagero nel dichiarare che è uno dei più bei concerti visti col supporto ottico, almeno per quanto riguarda il metal classico.
I Saxon appaiono in forma strepitosa, con brani classici e non che si danno battaglia sullo stage metal più famoso d’Europa con un’ambientazione (quella di Wacken non ha eguali) che esalta a più riprese, anche se si è comodamente seduti sul divano di casa.
L’aquila dei guerrieri sassoni vola alta sul palco teutonico, regalando una performance eccezionale, apprezzata non poco dall’immenso pubblico accorso a quello che, ormai una quindicina d’anni fa, fu un evento; segue un un’intervista a Byford, ad impreziosire ulteriormente questo primo dvd.
Nel secondo trovano spazio video e riprese inedite, documentari e photo gallery, insomma, tutto quello che un fan può desiderare sulla sua band preferita e, per chi non la conoscesse a sufficienza, The Saxon Chronicles rimane un ottimo modo per approfondire la storia di una della icone del metal.
Anche qui troviamo un bonus cd audio: trattasi di Rock’n’roll Gypsie, live edito nel 1989, altro ottimo testamento live dei Saxon.
Inutile dire che, a chi sfuggì l’uscita di questi due ottimi capitoli del gruppo, è consigliato l’acquisto, del resto una buona fetta della “nostra” storia è racchiusa tra questi dischetti: lunga vita all’aquila sassone.

Heavy Metal Thunder
Tracklist
CD I:
01. Heavy Metal Thunder
02. Strong Arm of the Law
03. Power & the Glory
04. And the Bands played on
05. Crusader
06. Dallas 1PM
07. Princess of the Night
08. Wheels of Steel
09. 747 (Strangers in the Night)
10. Motorcycle Man
11. Never Surrender
12. Denim & Leather
13. Backs to the Wall

CD II – Live at Bloodstock 2014
01. Sacrifice
02. Power and the Glory
03. Heavy Metal Thunder
04. Battalions of Steel
05. Motorcycle Man
06. And the Bands Played On
07. To Hell and Back Again
08. 747 (Strangers in the Night)
09. Crusader
10. Wheels of Steel
11. Princess of the Night
12. Denim and Leather

The Saxon Chronicles
Tracklist:
DVD I Wacken Open Air Festival, Germany 2001:
01. Motorcycle Man
02. Dogs Of War
03. Heavy Metal Thunder
04. Cut Out The Disease
05. Solid Ball Of Rock
06. Metalhead
07. The Eagle Has Landed
08. Conquistador (Drum Solo)
09. Crusader
10. Power And The Glory
11. Princess Of The Night
12. Wheels Of Steel (Guitar Solo)
13. Strong Arm Of The Law
14. 20,000 Ft.
15. Denim And Leather

Bonus Stuff :
Interview with Biff Byford

DVD II – Saxon on Tour
Official Videos:
01. Suzie Hold On
02. Power And The Glory
03. Nightmare
04. Back On The Streets Again
05. Rockin’ Again
06. (Requiem) We Will Remember
07. Unleash The Beast + Behind The Scenes
08. Killing Ground

Saxon on TV – Interviews, History, TV-Appearances:
01. And the Band Played On
02. Back on the Streets
03. Never Surrender
04. Denim And Leather
05. Wheels of Steel

Bonus Stuff: Text/Photo Gallery

Rock’n’Roll Gypsies – 1989 Live AudioCD
1. Power And Glory
2. And The Bands Played On
3. Rock The Nation
4. Dallas 1PM
5. Broken Heroes
6. Battle Cry
7. Rock ‘N Roll Gypsies
8. Northern Lady
9. I Can’t Wait Anymore
10. This Town Rocks
11. The Eagle Has Landed
12. Just Let Me Rock

Negură Bunget – Tău

Quella dei Negură Bunget è, oggi come ieri, musica dal respiro universale, che affonda profondamente le proprie radici nella tradizione popolare rumena.

Sarà un modo di dire abusato, ma mai come nel caso della storia recente dei Negură Bunget si può affermare a buon diritto che non tutti i mali vengano per nuocere.

La separazione, tutt’altro che indolore e priva si strascichi, verificatasi nello scorso decennio tra i componenti storici della band rumena, ha prodotto alla fine due realtà sicuramente contrapposte dal punto di vista personale ma unite da una qualità musicale non comune.
Quest’ultimo lavoro dei Negură Bunget di Negru (Gabriel Mafa) ha avuto una gestazione piuttosto lunga, se pensiamo che il precedente lavoro “Vîrstele Pămîntului” risale al 2010 ma, come spesso accade , tale attesa è stata ampiamente ripagata. L’intesa attività live intercorsa in quest’ultimo periodo, peraltro, ha consentito il consolidamento della line-up e l’ulteriore coesione dei vari musicisti, portando quei benefici che i cinquanta minuti di Tău dimostrano ampiamente.
Il primo dei lavori della prevista trilogia dedicata alla Transilvania quale simbolo di natura e spiritualità (nulla anche vedere, quindi, con le ben note leggende dalle tematiche vampiresche) possiede quasi i crismi dell’evento, tale è la peculiare qualità esibita dal combo rumeno.
Quella dei Negură Bunget, infatti, è oggi come ieri musica dal respiro universale, che affonda profondamente le proprie radici nella tradizione popolare rumena, rimodellando in maniera ispirata quelle sonorità ancestrali che non possono neppure essere definite folk nel senso più classico del termine, se non per gli l’umori di cui è intriso un brano come Împodobeala Timpului: una traccia, questa, che rappresenta una sorprendente incursione nella musica balcanica (molto meno caciarona di quella che ci viene abitualmente proposta, sia ben chiaro) ma che, non a caso, si dimostra l’episodio più debole del disco, soprattutto se rapportato alla capacità riconosciuta a Negru e soci nel portare la componente etnica del loro sound su un piano ben più elevato.
La componente black metal, comunque, è tutt’altro che scomparsa, ma, con la sola eccezione di Tărîm Vîlhovnicesc (brillante e comunque eclettica traccia che ospita alla voce Sakis dei Rotting Christ), non costituisce più la base bensì l’arricchimento di un sound che, grazie all’uso di una strumentazione estremamente variegata e al contributo di altri ospiti provenienti dai più disparati generi musicali, rende Tău uno dei migliori lavori usciti finora bel 2015, con la concreta chance di restare tale anche tra una decina di mesi.
A tale proposito, può rivelarsi fuorviante catalogare la band di Timișoara in un ambito estremo senza porre le opportune distinzioni del caso, alla luce del rischio di indurre in errore chi vi si dovesse avvicinare ignorando una parabola artistica capace di segnare gli ultimi ultimi vent’anni della musica europea in senso lato, non solo in ambito metal.
La bellezza struggente di brani come Nămetenie e Izbucul Galbenei mette subito il lavoro sui giusti binari sgombrando il campo da ogni equivoco: i Negură Bunget sono tornati per riaffermare il loro primato e la loro diversità ed il crescendo dell’opener è, a tratti, di uno splendore abbacinante.
Ma è difficile trovare un momento nel disco che non rientri in tale definizione, salvo appunto Împodobeala Timpului, non tanto per il suo valore intrinseco, quanto perché, come detto, si rivela piuttosto in contrasto con un’atmosfera complessiva che, quando non è bucolica, pervade l’intera opera con una certa aura di drammaticità.
La Hotaru Cu Cinci Culmi é un’altra perla che, assieme a Curgerea Muntelui, rende la prima metà dell’album qualcosa che da tempo non era dato ascoltare; il fisiologico e leggero calo di intensità della sua seconda metà (ma le conclusive Picur Viu Foc e Schimnicește sono brani che il 90% delle band utilizzerebbe quali pietra angolare dei propri lavori) non inficia il giudizio complessivo di disco magnifico, da ascoltare più e più volte in un ambito rigorosamente silenzioso e pervaso da una pace che, forse, si può rinvenire solo se immersi nei luoghi magici evocati dai video della band.
Ennesima prova magnifica per una realtà musicale unica …

Tracklist:
1. Nămetenie
2. Izbucul galbenei
3. La hotaru cu cinci culmi
4. Curgerea muntelui
5. Tărîm vîlhovnicesc
6. Împodobeala timpului
7. Picur viu foc
8. Schimnicește

Line-up:
Negru – Drums, Percussion, Dulcimer, Xylophone, Horns
Ovidiu Corodan – Bass
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Petrică Ionuţescu – Pan Flute, Pipes, Horns
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing

NEGURA BUNGET – Facebook

Code – Mut

Un gran bel disco, consigliato a chi non vuole accontentarsi di musica dall’approccio melodico troppo convenzionale.

Nell’arco di un decennio, attraverso quattro dischi differenti tra loro, la metamorfosi dei Code si è compiuta, almeno fino al prossimo passo, visto che da una band dall’indole così cangiante è lecito attendersi di tutto.

Il black avanguardistico di “Nouveau Gloaming” ha prima assunto i tratti più oscuri di “Resplendent Grotesque” per giungere poi al progressive death di “Augur Nox”: in Mut sparisce qualsiasi connotazione estrema nel sound della band inglese, che approda infine ad un progressive nervoso quanto si vuole, ma del tutto ripulito dalle asperità presenti nel suo predecessore.
Le atmosfere vagamente tooliane dell’opener On Blinding Larks sono parzialmente ingannevoli, perché nell’idea compositiva della band guidata da Aort confluiscono diversi input oltre a questo, alcuni noti e per certi versi inevitabili (Opeth e Anathema), altri meno scontati, specie dal punto di vista dell’interpretazione vocale (Muse, Jeff Buckley) o probabilmente neppure consapevoli (qualcuno si ricorda dei tedeschi Dark Suns dello splendido “Existence” ?).
Il risultato complessivo è un album che non perde un’oncia a livello di profondità rispetto a “Augur Nox”, restando comunque un oggetto da maneggiare con cura e pazienza prima di godere pienamente dei suoi contenuti: nove brani dallo spesso rivestimento che racchiudono un nucleo sovente morbido e gustoso, tra i quali spiccano meraviglie quali Inland Sea, Affliction e la più movimentata Numb, An Author, esaltata anche dalla buonissima prova vocale di Wacian, in un contesto complessivo comunque elevatissimo che non potrà che risultare gradito agli estimatori di tutte la band citate in precedenza.
Il pregio maggiore dei Code è quello d’essere riusciti ad assimilare tutti questi spunti offrendo una riproposizione del tutto personale di un genere che, in assenza di un particolare scintillio compositivo, rischia seriamente di mostrare solo il suo lato più tedioso.
Come già accennato in apertura, sarà interessante capire quale potrà essere la prossima mossa, visto che, allo stato attuale, il metal appare più un’attitudine che non la base su cui poggia la proposta della band britannica.
Un gran bel disco, consigliato a chi non vuole accontentarsi di musica dall’approccio melodico troppo convenzionale.

Tracklist:
1. On Blinding Larks
2. Undertone
3. Dialogue
4. Affliction
5. Contours
6. Inland Sea
7. Cocoon
8. Numb, an Author
9. The Bloom in the Blast

Line-up:
Aort – Guitars
Andras – Guitars
Lordt – Drums
Syhr – Bass
Wacian – Vocals

CODE – Facebook

Olam Ein Sof – Reino De Cramfer

Il lavoro è nel suo complesso pregevole, anche se talvolta affiorano diversi cali di tensione sotto forma di brani meno ispirati che finiscono per appesantire inevitabilmente l’ascolto

Nuovo album del duo brasiliano Olam Ein Sof, attivo da oltre un decennio nel proporre il proprio folk dai tratti medievali.

Reino De Cramfer si snoda, quindi, per lo più su queste coordinate, con qualche digressione neofolk ed una puntatina su sonorità di stampo andino (Invocando a Lua Azul), grazie ai diversi strumenti a corda suonati da Marcelo Miranda, il quale viene coadiuvato in tale compito da Fernanda Ferretti, che presta anche la propria voce in alcuni brani.
Il lavoro è nel suo complesso pregevole, anche se talvolta affiorano diversi cali di tensione sotto forma di tracce meno ispirate che finiscono per appesantire inevitabilmente l’ascolto (in particolare Jornada Etérea), con l’aggravante di una durata non indifferente per le abitudini di chi si cimenta con il genere.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che Miranda è un buonissimo chitarrista ma non è certo un virtuoso alla Paco De Lucia, per intenderci, mentre la voce della Ferretti è nella norma, adeguata in certi passaggi e meno in altri: anche questi aspetti finiscono per incidere sulla resa complessiva dell’album, specie quando viene meno quella brillantezza sul versante compositivo esibita in brani quali Vimana, Glaskar, la title-track e la già citata Invocando a Lua Azul.
Gli Olam Ein Sof, comunque, in virtù di una carriera già abbastanza lunga e disseminata di diversi album, sono assolutamente credibili nella loro sincera riproposizione del genere; la resa un po’ altalenante rende però Reino De Cramfer un lavoro dedicato agli aficionados del genere piuttosto che ad ascoltatori occasionali, proprio perché la sua piena fruizione è strettamente connessa ad una certa dimestichezza con la materia.
Gradevole ma non imprescindibile.

Tracklist:
1.Mar Cósmico
2.Vimana
3.A Caminho das Montanhas de Nuvens
4.Murmúrio das Águas
5.Reino de Cramfer
6.Jornada Etérea
7.Invocando a Lua Azul
8.Glaskar
9.Dança da Floresta

Line-up:
Marcelo Miranda – steel and nylon acoustic guitars, mandolin, charango, cistre, eletric guitar and treble recorder
Fernanda Ferretti – vocals, nylon acoustic guitar, cuatro venezoelano, citara vox e jaw harp

OLAM EIN SOF – Facebook

Fetid Zombie – Grotesque Creation

Ottimamente suonato e prodotto, ricco di ospiti, “Grotesque Creation” è il primo squillo in campo death metal in questi primi mesi del 2015.

Sotto il monicker Fetid Zombie agisce Mark Riddick, polistrumentista ed illustratore della scena death metal underground, in passato attivo con diverse altre band (Unearthed, Excrescent, Macabra, Umburied e Grave Wax).

Il musicista americano, molto conosciuto anche in Europa, inizia la sua avventura in veste di one man band nel 2007, con il full length “Pleasures Of The Scalpel” e, aiutato nei vari lavori da noti musicisti della scena, provenienti da band storiche come Rotting Christ, Varathron, Necromantia e Crucifier (tanto per citare le più conosciute), arriva al nuovo anno con il quinto album.
Molto varia e originale la sua proposta che, partendo da una base death metal old school, si arricchisce di spunti hard rock ed heavy metal senza perdere in durezza ed atmosfere estreme, rendendo oltremodo interessante l’ascolto di Grotesque Creation.
Anche in questo ultimo riuscito lavoro, Riddick viene accompagnato da un nugolo di personaggi della scena death/black: ogni brano vede avvicendarsi al microfono un nuovo vocalist e diversi musicisti forniscono il loro contributo con un assolo, un giro di tastiere o un riff.
L’atmosfera è oscura e pesante, il sound richiama spesso quello della scena sud europea: ottimi gli interventi di tastiera che ricordano i Necromantia del capolavoro “Crossing The Fiery Path” (1993) e notevoli le digressioni e le ritmiche chitarristiche che, in alcuni casi sono smaccatamente hard rock (Into The Unknown e la title track).
Il resto dell’album mantiene le atmosfere macabre del death più marcio, intervallate da ottime melodie tastieristiche dal piglio dark ed inserti di melanconiche chitarre acustiche. Grandiosa è Morbid Premonition, perversa, infernale, squarciata da un riff “svedese”, cadenzato ma tremendamente riuscito e, spettacolare risulta anche The Outstretched Hand Of Rotten Death, degna conclusione di un album estremamente godibile e dai mille spunti, ma nero come il buio di una bara chiusa su di noi.
Album da avere, come detto ricco di ospiti (Josh Fleischer dei Svierg, Necromayhem dei Rotting Christ, Reaper dei Crucified Mortals, EL dei Soulskinner, Necroabyssious dei Varathron e Magus dei Necromantia, tra gli altri) ed ottimamente prodotto e suonato: Grotesque Creation è il primo squillo in campo death metal di questi primi mesi del 2015.

Tracklist:
1. Entombed Existence
2. Into the Unkown
3. Grotesque Creation
4. Razor-Sharp Attack
5. The Way of Mortality
6. Utterance of Doom
7. Death’s Pallor
8. Morbid Premonition
9. The Outstretched Hand of Rotten Death

Line-up:
Mark Riddick – Vocals, Guitar, Bass, Drum Programming, Keyboards

FETID ZOMBIE – Facebook

Crest Of Darkness – Evil Messiah

Vent’anni di attività per i Crest Of Darkness celebrati con questo ottimo Ep.

Nell’occasione del ventennale della fondazione, i Crest Of Darkness pubblicano per My Kingdom questo Ep intitolato Evil Messiah, che si rivela un gradito cadeau per i fan della band guidata dall’immarcescibile Ingar Amlien.

In teoria non ci sarebbe molto da dire su questo lavoro della durata di poco superiore ai venti minuti, se non che qui viene offerto un black metal che, come nelle corde del musicista norvegese, fonde mirabilmente la tradizione del genere con un approccio improntato ad una certa orecchiabilità. I brani, quindi, sono delle classiche e robuste cavalcate fornite di un notevole groove oltre che di una spiccata componente death, e scorrono così in maniera piacevolissima facendo rimpiangere la brevità del lavoro.
Evil Messiah, Armageddon ed Abandoned by God sono tre brani davvero ottimi, essenziali, efficaci e diretti quanto basta per farci approvare senza alcuna remora questa operazione, la cui ciliegina sulla torta è costituita dalla cover di Sick Things di Alice Coooper, resa ottimamente nel suo rivestimento estremo che non va a stravolgere del tutto la struttura melodica portante.
Ma ciò che conta di più, facendo meritare ad Amlien il plauso di ogni appassionato, è l’ennesima dimostrazione di coerenza stilistica che non deve essere intesa come mancanza di ispirazione od originalità, bensì quale esemplare prova di competenza nel maneggiare il genere, qui reso fruibile senza che venga dispersa la sua abituale aggressività.
Buon compleanno e lunga vita ai Crest Of Darkness!

Tracklist:
1. Evil Messiah
2. Armageddon
3. Abandoned by God
4. Sick Things (Alice Cooper cover)

Line-up:
Ingar Amlien – Vocals, Bass
Rebo – Guitars
Bernhard – Drums

CREST OF DARKNESS – Facebook

Whyzdom – Symphony For A Hopeless God

Gli Whyzdom confezionano un ottimo album di genere, prodotto benissimo e colmo di spettacolari orchestrazioni

Chiariamolo subito: l’album in questione e la band che l’ha creato fanno parte di un genere che, a livello di novità e originalità, ha già esibito fin dalla metà degli anni novanta tutta la sua potenzialità, diventando una delle espressioni in ambito metallico più seguite dai fan, specialmente in Europa.

Difficile perciò trovare album che stupiscano sotto questi aspetti, mentre molto più facile è imbattersi in realtà che, seguendo i soliti cliché del genere, confezionino delle ottime opere di metal gotico, sinfonico e dalle orchestrazioni cinematografiche di buon appeal, virtù sposate dagli amanti di queste sonorità.
A riprova di ciò ecco il nuovo lavoro della band transalpina Whyzdom, nata nel 2007 e al terzo lavoro dopo i due full lenght “From The Brink Of Infinity” del 2009 e “Blind?”, precedente album del 2012.
Preso atto del cambio di vocalist, con Marie Rouyer che prende il posto dietro il microfono della collega Elvyne Lorient, ci immergiamo tra i solchi di questa opera sinfonica dal titolo Symphony For A Hopeless God che, se non fa gridare al miracolo per spunti innovativi, offre più di un’ora di dinamico ed alquanto metallico gothic metal.
Se, come dei novelli cavalieri della tavola rotonda, siete alla ricerca del santo graal dell’originalità, lasciate tranquillamente perdere questo album; se, invece, il genere continua a regalarvi emozioni, allora spegnete i cellulari e fatevi prendere per mano dalla band parigina, che vi accompagnerà tra le orchestrazioni e gli ottimi spunti dell’opera in questione, dove un buon impatto metal, riuscite parti orchestrali e l’ottima ugola della singer vi regaleranno una buona scusa per stare a casa e godervi lo spettacolo.
Settanta minuti (forse, leggermente troppi) di musica a tratti spettacolare, con qualche picco e qualche piccolo cedimento, che ci sta, proprio in conseguenza della lunga durata, tra funamboliche parti orchestrali e fughe metalliche aggressive, amalgamate con buon piglio dalla band, brava nel non perdersi troppo in parti atmosferiche, ma attaccando dalla prima all’ultima nota lasciando che tutta la sua musica arrivi a noi nella forma migliore (la produzione è al top).
Tra i brani, che raggiungono tutti la sufficienza, spiccano le ottime Asylum Of Eden (la più riuscita in virtù delle ottime orchestrazioni epico/cinematografiche), seguita dalla roboante Waking Up The Titans, dai cori magniloquenti che si avvicinano ai Therion, e Where Are The Angels, anch’essa impreziosita da una spettacolare aurea epica enfatizzata dall’ottima sinfonia classica.
Senza tediarvi con le solite band di riferimento, la band francese ha confezionato un ottimo album di genere, prodotto benissimo, colmo di spettacolari orchestrazioni, ed interpretato da una brava cantante, per gli amanti del genere virtù essenziali per amare un lavoro come Symphony For A Hopeless God.

Tracklist:
1. While the Witches Burn
2. Tears of a Hopeless God
3. Let’s Play with Fire
4. Eve’s Last Daughter
5. Don’t Try to Blind Me
6. The Mask
7. Asylum of Eden
8. Waking Up the Titans
9. Theory of Life
10. Where Are the Angels
11. Pandora’s Tears

Line-up:
Marie Rouyer – voce
Nico Chaumeaux – batteria
Régis Morin – chitarra
Vynce Leff – chitarra, orchstra
Marc Ruhlmann – tastiera
Xavier Corrientes – basso

WHYZDOM – Facebook

Birdflesh / Slavebreed – Nekroacropolis

Un’uscita che consente di conoscere due realtà piuttosto diverse tra loro, ma accomunate dalla stessa voglia suonare musica estrema.

Buono split di due realtà che fanno dell’assalto grindcore il loro credo: protagonisti questa volta sono gli svedesi Birdflesh ed i greci Slavebreed.

I Birdflesh sono dei veterani della scena estrema, i sei brani a loro disposizione, per quattro minuti totali, riempiono le orecchie di grindcore dalla forte impronta hardcore/punk, i testi pregni di humour nero e gore non fanno altro che rendere il tutto molto sarcastico ed estremamente crudo.
Gli scandinavi ci sanno fare, questo è certo, e d’altronde si parla di una band con una ventina d’anni di carriera alle spalle ed una discografia che, tra quattro full length ed una marea di split ed Ep.
Tra i brani, Ancient In The Forest è quello che più mi ha sorpreso, avvicinandosi al black metal come andamento e struttura del pezzo, molto marziale nel suo incedere e maledettamente inquietante.
I greci Slavebreed sono molto più giovani e maggiormente ancorati al grindcore classico di matrice death.
Nati nel 2004, esordiscono con un demo nel 2007 ed archiviano due album, “Pain Syndicate” del 2008 e “Dethrone The Architect” del 2012.
La band greca, con una sezione ritmica sparata alla velocità della luce, risulta meno originale dei loro dirimpettai svedesi ma oltremodo monolitici e violenti quanto basta e, seguendo le orme delle band storiche del genere (Napalm Death, Terrorizer), convince a più riprese con i suoi tre brani.
Un’uscita che consente di conoscere due realtà piuttosto diverse tra loro, ma accomunate dalla stessa voglia suonare musica estrema.

Tracklist:

Birdflesh:
1No.1
2Shitpainter
3Danish Skull
4Ancient In The Forest
5Breakfast Time
6Killer Of Priest

Line-up:
Smattro Ansjovis – Drums, Vocals
Achmed Abdulex – Guitars, Vocals
Panda Flamenco – Bass, Vocals

Slavebreed:
1.Fekete Arnyek
2.Lucid Dreams
3.Asphyxia

Line-up:
Kostas – Drums
Pavlos – Guitars
Tolis – Guitars
Thanasis – Bass
Smirnoff – Vocals

Lords Of The Trident – Frostburn

Un album di hard & heavy ottantiano composto da un lotto di brani mozzafiato.

Fate come credete: scaricatelo, compratelo nel vostro negozio di fiducia ma, cari metal fan amanti dell’ hard & heavy ottantiano carico di anthem e melodie, fate vostro questo clamoroso album, ultimo lavoro degli americani Lords Of The Trident.

La band, nata nelle aule dell’università di Madison (Wisconsin), si presenta all’appuntamento con il nuovo anno fresca di firma con la Killer Metal e, con tanto di maschere, testi dissacranti e voglia di divertirsi, se ne esce con un album clamoroso.
Il gruppo nasce nel 2008 ed arriva al debutto l’anno dopo con “Death Or Sandwich”, seguito da “Chains Of Fire” del 2011 e due Ep; Frostburn risulta così il terzo lavoro sulla lunga distanza e vede la band in stato di grazia, azzeccando ogni melodia, ogni chorus, ogni riff inserito sul nuovo album: un hard & heavy ottantiano dall’appeal straordinario, una raccolta di brani uno più bello dell’altro che passano dal classico heavy metal alla Judas Priest (Kill To Die) a brani dalle ritmiche graffianti ma dalle melodie ariose e sopratutto vincenti, regalando una cinquantina di minuti di musica metallica esaltante, da urlare a squarciagola, fregandosene altamente dei troppi capelli bianchi sulla testa e della vicina col telefono in mano in procinto di chiamare le forze dell’ordine.
Un vocalist d’altri tempi (Fang VonWrathenstein), melodico, grintoso, sul pezzo per tutto l’album, due chitarristi che sciorinano ritmiche e solos che esaltano a più riprese (Asian Metal e Killius Maximus) ed una sezione ritmica d’assalto (Pontifex Mortis al basso e Dr. Vitus alle pelli) compongono una band che a questo giro gioca il jolly e, forte di un songwriting straordinario, compone dieci perle che del metal sono l’ossigeno, la linfa, la sorgente.
Dall’iniziale e strepitosa Knight’s Of Dragon Deep è tutto un susseguirsi di monumenti al genere, costruiti usando acciaio e fuoco, incudine e martello, strumenti per cesellare Winds Of The Storm, Manly Witness, Haze Of The Battlefield, Kill To Die e di seguito tutte le canzoni che compongono Frostburn.
Dalle info pare che la band, tra costumi e fuochi, in sede live sia strepitosa e sinceramente il sottoscritto ha pochi dubbi al riguardo, non mi rimane che rinnovarvi l’invito a supportare questa meraviglia metallica che di nome fa Frostburn.

Tracklist:
1. Knights of Dragon’s Deep
2. The Longest Journey
3. Winds of the Storm
4. Manly Witness
5. Haze of the Battlefield
6. Kill to Die
7. Den of the Wolf
8. Light This City
9. The Cloud Kingdom
10. Shattered Skies

Line-up:
Pontifex Mortis – Bass
Dr. Vitus – Drums
Asian Metal – Guitars
Killius Maximus – Guitars
Fang VonWrathenstein – Vocals

LORDS OF THE TRIDENT – Facebook

Aethyr – Corpus

Gli Aethyr sorprendono e convincono con questo loro secondo album che potrebbe folgorare più di un appassionato dello sludge doom meno convenzionale.

Altro giro, altro regalo, con l’ennesimo buonissimo prodotto partorito dalla sempre più incalzante scena metal russa.

Questa volta tocca ai moscoviti Aethyr stupire con uno di quegli album difficile da collocare da un unto di svista stilistico, per quanto ascrivibile approssimativamente ad una forma di doom alquanto cangiante e, solo a tratti, sperimentale.
Nonostante ciò possa far presagire un ascolto irto di difficoltà, in realtà Corpus è un lavoro che predilige un impatto piuttosto diretto, salvo i momenti in cui la band esibisce un’anima ambient tutt’altro che banale (The Gnostic Mass).
Nihil Grail, brano già edito nell’omonimo Ep del 2011, è una sferzata blackdoom che riconducibile a grandi linee allo stile dei Secrets Of The Moon ma con un’indole più diretta e meno dark, impressione confermata e rafforzata da una Sanctus Satanicus ancora più focalizzata su armonie sufficientemente accessibili.
ATU è invece una maratona sludge appannaggio di chi è avvezzo a tale genere ed adora restare invischiato in suoni rallentati e viscosi, e Cvlt, in fondo, non è affatto da meno, sia pure se inframmezzata da parti vocali che spostano leggermente le coordinate su versanti post hardcore.
La title track dimostra quanto questi ragazzi russi possiedano anche un naturale talento per uno sviluppo melodico di indubbia qualità, sia pure restando nell’alveo ultrarallentato del doom, venato da un lavoro chitarristico riconducibile però al black più atmosferico.
Templum chiude in maniera non dissimile, con la variante di un’accelerazione furibonda nella sua parte centrale, un album sicuramente riuscito, chiaramente di ascolto non facilissimo ma neppure poi troppo ostico per chi possiede una sufficiente familiarità con i suoni proposti.
Nonostante la lunghezza, infatti, Corpus scorre senza asciare scorie negative ed anche una traccia come The Gnostic Mass, nella quale peraltro la voce campionata è quella del ben noto “Mr.Crowley”, si rivela funzionale alla resa complessiva del lavoro.
Gli Aethyr sorprendono e convincono con questo loro secondo album che potrebbe folgorare più di un appassionato dello sludge doom meno convenzionale.

Tracklist:
1. Nihil Grail
2. Sanctus Satanicus
3. ATU
4. Cvlt
5. The Gnostic Mass
6. Corpus
7. Templum

Line-up:
Mr.D (Denis Dubovik)- Vocals, Lead Guitar
Mr.W (Vladimir Snegotsky)- Rhythm Guitar
Mr.S (Anton Sidorov) – Drums
Mr.Y (George Meshkov) – Bass

AETHYR – Facebook

Tyrannosaurus Rex – My People Were Fair And Had Sky In Their Hair … But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brows

Primo album dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan rimasterizzato dalla Universal.

L’ importanza del “divino” Marc Bolan sul rock contemporaneo è pari a quella della manciata di musicisti che hanno fatto la storia della musica contemporanea: geniali sia musicalmente sia, in questo caso, venditori di se stessi, diventati icone rivoluzionando non solo il mercato discografico ma influenzando culturalmente un’intera generazione.

Da sempre il nome di Bolan è giustamente accomunato al glam rock, ancor prima dei viaggi psichedelici di Ziggy Stardust, un genere che prima della musica diede molta importanza al look di cui Marc fu il perenne modello.
Fortemente influenzato dalla scena hippie, il glam all’epoca fu uno schiaffo alla società del Regno Unito, bigotta fino al midollo e stravolta dall’arrivo di questo bel ragazzo vestito di lustrini e pailettes.
La Universal rimasterizza con bonus CD i primi tre lavori della prima incarnazione dei T.Rex, e questo My People … è il primo bellissimo vagito di un giovane Marc che, aiutato solo dai bonghi dell’ex batterista Steve Peregrine Took e dalla sua chitarra acustica, ammalia con dieci brani tra folk, blues ed uno spirito freak geniale, lasciando che atmosfere orientaleggianti e neanche troppo velati rimandi alla cultura Hare Krishna (eredità della cultura hippie, ancora fortemente presente nel giovane musicista) conquistassero i giovani ascoltatori dell’epoca, quei glamster che ebbero quasi una decina di anni gloriosi prima dell’esplosione del punk rock.
Prodotto da Tony Visconti e da John Peel, innamorato perso del personaggio Bolan, My People … suona scarno anche per l’epoca ma, tra i solchi di queste perle acustiche, esce il talento di un artista eccezionale, non solo ottimo chitarrista ma icona a tutto tondo e, a modo suo, un rivoluzionario.
Poco rock e tanto folk , un rhythm and blues nascosto tra lo spartito e gli accordi, venati da una divertente vena psichedelica che il talento di Bolan nasconde, per poi farcela assaporare a piccole dosi, lasciandoci sognare, come in preda ad un bel trip di cui l’artista è l’ambiguo sacerdote.
L’album , accompagnato da un secondo bonus cd e da una versione in vinile, è assolutamente consigliato ai fan e a chi vuole davvero entrare nel mondo di Bolan dalla porta principale, con questo primo testamento di una carriera folgorante.

Tracklist:
Side A
1. Hot Rod Mama 2014 Remaster / Mono Version
2. Scenescof 2014 Remaster / Mono Version
3. Child Star 2014 Remaster / Mono Version
4. Strange Orchestras 2014 Remaster / Mono Version
5. Chateau In Virginia Waters 2014 Remaster / Mono Version
6. Dwarfish Trumpet Blues 2014 Remaster / Mono Version

Side B
1. Mustang Ford 2014 Remaster / Mono Version
2. Afghan Woman 2014 Remaster / Mono Version
3. Knight 2014 Remaster / Mono Version
4. Graceful Fat Sheba 2014 Remaster / Mono Version
5. Weilder Of Words 2014 Remaster / Mono Version
6. Frowning Atahuallpa (My Inca Love) 2014 Remaster / Mono Version

Side C
1. Debora
2. Child Star Take 2 / Joe Boyd Session
3. Hot Rod Mama BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
4. Strange Orchestras BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono
5. Chateau In Virginia Waters Take 3 / Joe Boyd Session
6. Mustang Ford BBC Top Gear, London / Live / 1968/ Mono
7. Pictures Of The Purple People BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
8. Afghan Woman (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono

Side D
1. Highways (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
2. Puckish Pan Demo
3. Dwarfish Trumpet Blues Tony Visconti’s Home Demo
4. Knight Tony Visconti’s Home Demo
5. Scenescof BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
6. Lunacy’s Back Demo
7. Frowning Atahuallpa (With Chat)

Line-up:
Mark Bolan – Guitars
Steve Peregrine Took- Bongo

Shallow Rivers – The Leaden Ghost

Tirando le somme, la sensazione è che gli Shallow Rivers abbiano sentito la necessità di inasprire ulteriormente il proprio sound, rendendolo sicuramente più cupo ma facendogli perdere parzialmente quell’afflato melodico che aveva reso il lavoro precedente qualcosa di molto vicino ad un capolavoro.

“Nihil Euphoria” era stato uno degli album migliori del 2013, almeno secondo il mio particolare metro di giudizio, pertanto mi sono approcciato al nuovo lavoro di russi Shallow Rivers con aspettative piuttosto elevate.

Il duo formato dal chitarrista Yury Ryzhov e dal vocalist Vladimir Andreev non delude affatto in tal senso, anche se The Leaden Ghost è un lavoro sicuramente diverso per umore e stile rispetto al predecessore.
Già il brano d’apertura, Of Silent Winds that Whistle Death, dopo un’introduzione pacata, scarica sull’ascoltatore qualche minuto di death sulla scia dei brani più diretti dei Novembers Doom e solo parzialmente si apre ai ricami chitarristici ai quali il buon Yury ci aveva abituati.
Si arriva alla seconda traccia, Light upon us, Haze around us,  e cambia lo scenario, che diventa quello del funeral death doom onirico degli Ea, con la tastiera ben presente nel tessere le trame di un brano splendido, per quanto anch’esso sicuramente anomalo rispetto a quanto esibito nel disco d’esordio.
Scorched, Wrecked, Torn, then Crumbled to the Sea ritorna alle coordinate del brano d’apertura, salvo un break chitarristico centrale decisamente più evocativo, mentre We Are Cold è una traccia breve dai connotati relativamente catchy, sempre tenendo conto del genere musicale offerto: qui Rhyzov lascia finalmente sfogare la propria vena melodica che trova un costante ed efficace contraltare nel growl urticante di Andreev.
Snow amplifica ulteriormente le aperture della canzone precedente, rivelandosi senza dubbio il punto più alto della raccolta grazie al perfetto dosaggio degli ingredienti, con le atmosfere gothic volte a smorzare quel muro di incomunicabilità che, in alcune circostanze, i nostri parevano aver definitivamente eretto.
La conclusiva title track costituisce appunto l’emblema del lavoro, con la sua alternanza tra parti connotate da una grande asprezza e fugaci rallentamenti atmosferici: a partire dal quinto minuto il brano si schiude definitivamente riversandoci addosso tutta la drammaticità e l’intensità di cui gli Shallow Rivers sono eccellenti interpreti.
Tirando le somme, la sensazione è che gli Shallow Rivers abbiano sentito la necessità di inasprire ulteriormente il proprio sound, rendendolo sicuramente più cupo ma facendogli perdere parzialmente quell’afflato melodico che aveva reso il lavoro precedente qualcosa di molto vicino ad un capolavoro.
La bellezza degli ultimi due brani fa capire ampiamente di cosa sia capace questa ottima coppia di musicisti e, anche se The Leaden Ghost non è riuscito ad entusiasmarmi come fece a suo tempo “Nihil Euphoria”, si va a collocare in un contesto qualitativo pur sempre molto elevato.

Tracklist:
1. Of Silent Winds that Whistle Death
2. Light upon us, Haze around us
3. Scorched, Wrecked, Torn, then Crumbled to the Sea
4. We are Cold
5. Snow
6. The Leaden Ghost

Line-up:
Yury “Dusted Wind” Ryzhov – Guitars
Vladimir Andreev – Vocals

SHALLOW RIVERS – Facebook

Hombre Malo – Persistent Murmur of Words of Wrath

“Persistent Murmur of Words of Wrath” è un lavoro che non deluderà affatto chi predilige la freschezza compositiva rispetto all’esibizione della mera tecnica strumentale.

Creatura strana questo secondo full-length dei norvegesi Hombre Malo: benché il tipo d’impatto sia lo stesso, ogni brano che si succede in tracklist sposta leggermente le coordinate sonore da uno stile estremo all’altro, tenendo così sempre ben desta l’attenzione dell’ascoltatore.

Pur essendo inserita convenzionalmente nella famiglia stoner /sludge, in effetti la band di Oslo immette nel proprio sound pesanti elementi hardcore e noise, finendo per creare un avvincente crossover stilistico, sempre all’insegna di un approccio molto diretto e corrosivo.
L’Etranger apre l’album in effetti sotto l’egida di uno stoner caracollante, vetriolico e tutto sommato nei canoni, ma Crosses and Marching Feet cambia repentinamente le carte in tavole con le sue sfuriate hardcore-punk.
I suoni dopati di Golden sono propedeutici alla notevole Vladislav , che si dipana lungo sei minuti di stoner doom lisergico e coinvolgente; abbastanza lunga anche Reaching the Shore, dotata di un ottimo refrain e di un riffing decisamente pesante .
Elena mostra efficacemente il versante noise degli Hombre Malo, mentre Deathbed Conversion costituisce l’epilogo del disco con la sua protratta parte centrale dominata da umori psichedelici.
Indubbiamente interessanti, i quattro scandinavi rifuggono ogni raffinatezza stilistica dando la priorità all’impatto della loro musica: in alcuni frangenti possono apparire una versione grezza dei primi Jane’s Addiction, in altri la vena stoner emerge in maniera prepotente ma, in generale, Persistent Murmur of Words of Wrath è un lavoro che non deluderà affatto chi predilige la freschezza compositiva rispetto all’esibizione della mera tecnica strumentale.

Tracklist:
1.L’étranger
2.Crosses and marching feet
3.Golden calf
4.Vladislav
5.Reaching the shore
6.Elena
7.Deathbed conversion

Line-up:
The Muerto – vox
Tom – bass
Boris – guitar
Joakim – drums

HOMBRE MALO – Facebook

Saints Trade – Robbed In Paradise

“Robbed In Paradise” è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Quando si parla di hard rock è facile, di questi tempi, confondere quelle che sono le sonorità classiche provenienti dagli anni ottanta con i suoni moderni, ipervitaminizzati, ma che con il genere hanno poco a che fare: chiaro che, per chi scrive, hard rock è un sinonimo che viene in aiuto per spiegare al lettore di turno per definire suoni grintosi e potenti, a volte dimenticando le peculiarità per cui una band viene descritta come appartenente al genere del quale i bolognesi Saints Trade sono ottimi paladini.

Nata nel 2009, la band ha già pubblicato un primo lavoro autoprodotto (“A Matter Of Dreams” del 2012) ma, soprattutto, ha avuto l’onore di aprire al festival di Fleetwood per i Ten di Gary Hughes, evento poi che ha fornito la spinta definitiva all’incisione l’album di debutto.
Prodotto da Roberto Priori, già al lavoro sul primo album, Robbed In Paradise vede la partecipazione in veste di ospiti dello stesso Priori, del tastierista Pier Mazzini dei Perfect View, e di Tommy Denander alla sei corde (già al lavoro con Paul Stanley, Toto, Alice Cooper, Robin Beck e House Of Lord).
Il disco offre undici canzoni di hard rock ottantiano, che vanno dalla tradizione british a quella a stelle strisce, dalle ritmiche clamorose e trascinanti, colme di ritornelli facilmente memorizzabili e di quella vena melodica tipicamente AOR, con l’alternanza di atmosfere e vibrazioni in una tempesta di suoni dall’appeal elevatissimo.
Partendo dalla prima, graffiante, To The Light, dalle ritmiche che portano alla mente i fratelli Young in prestito ai Van Halen di Sammy Hagar, si passa facilmente al clima arioso creato dai tasti d’avorio di Feel The Fire, ottimo esempio di AOR style.
Inside è il tipico brano da arena rock (Tommy Denander lo impreziosisce con la sua chitarra), con riffone cadenzato supportato da un’ottima prova della calda voce di Santi Libra, seguito da Like A Woman e da California all’insegna del puro hard rock, due brani dal flavour statunitense con la seconda, in particolare, dal refrain irresistibile.
Dopo la ballad Dreams Running Wild si torna a rockare alla grande con Rock’n’Roll Man, solo smorzata dalla seconda ballad semiacustica Into Your Eyes, lasciando per ultima la canzone più moderna del lotto, quella The Game dalle ritmiche colme di groove che sembra guardare ad un futuro prossimo, laddove potrebbero aprirsi nuovi orizzonti per una band dalle ottime potenzialità.
Robbed In Paradise è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Tracklist:
1.To The Light
2.Feel The Fire
3.Inside
4.Allied
5.Like A Woman
6.California
7.Dreams Running Wild
8.Siria (Dawn Breaks In)
9.Rock’n’Roll Man
10.Into Your Eyes
11.The Game

Line-up:
Joana Lachkova – Drums
Claus – Guitars
Santi Libra – Vocals
Matteo Angelini – Bass Guitar

SAINTS TRADE – Facebook

Evadne – Dethroned Of Light

Mezz’ora di musica di ottima fattura che, per assurdo, non placa ma rende ancor più impellente il desiderio di ascoltare un nuovo full length da parte degli Evadne.

Dopo un album splendido come “The Shortest Way” non si vedeva davvero l’ora di ascoltare qualcosa di nuovo da parte degli Evadne: con questo Ep intitolato Dethroned Of Light, la band valenciana esaudisce solo in parte questo desiderio.

Infatti, tra le quattro tracce proposte, l’unica inedita è quella d’apertura, Colossal, e mai come in questa caso il titolo appare calzante: atmosfere drammatiche e melodie struggenti ci riportano al death-doom nelle sue espressioni più alte, andando a scomodare i Swallow The Sun più ispirati (quelli di “The Morning Never Came”, per interderci).
Dopo questo brano, che dimostra l’ottimo stato di salute dei nostri dal punto di visto compositivo, il resto del lavoro viene dedicato alla rielaborazione di brani già editi, uno per ciascuna delle precedenti uscite: The Wanderer era la malinconica traccia strumentale presente in “The Shortest Way”, la novità risiede nel fatto certo non marginale che qui vengono aggiunte le vocals, andando a completare nella maniera migliore un brano al quale mancava appunto il growl di Albert Conejero per assurgere allo stato di ennesima perla scaturita dalle mani degli Evadne.
Awaiting riprende i toni più gothicheggianti di “The 13th Condition”, ma è indubbio che questa versione appaia molto più adeguata al sound attuale della band iberica che qui, tra l’altro, si avvale del contributo vocale di Natalie Koskinen, voce femminile dei seminali Shape Of Despair, dei quali attendiamo sempre speranzosi un seguito ad “Illusion’s Play” pubblicato nel lontano 2004; risale allo stesso anno la prima uscita degli Evadne, con il demo “In the Bitterness of Our Souls”, dal quale viene tratta la traccia di chiusura dell’Ep, Bleak Rememberance, resa in maniera tale da non mostrare alcuna ruga essendo del tutto all’altezza, in questa sua nuova veste, della produzione più recente.
Mezz’ora di musica di ottima fattura che, per assurdo, non placa ma rende ancor più impellente il desiderio di ascoltare un nuovo full length da parte della band che oggi, assieme agli Helevorn, rappresenta nel migliore dei modi un movimento doom spagnolo che sta crescendo in maniera esponenziale.

Tracklist:
1. Colossal
2. The Wanderer
3. Awaiting
4. Bleak Remembrance

Line-up:
Albert Conejero – Vocals
Josan Martin – Guitars
Jose Quilis – Bass
Joan Esmel – Drums
Marc Chulia – Guitars

EVADNE – Facebook

Artic Fire – Lower And Louder

Buon esordio di questa band portoghese dedita al credo nirvaniano ed ai suoni di Seattle.

Il grunge: molti negli anni novanta tacciarono il genere come la morte del metal, incolpandolo di chissà quali torti, mentre invece fu una benedizione per tutto il circuito musicale gravitante intorno a quel mondo.

Infatti, mai come nei primi anni novanta i media diedero spazio al rock, trascinati dalla moda grunge che, chiariamolo subito, con la musica aveva poco a che fare, ed i giovani kids di tutto il mondo sulla scia di Nirvana, Soundgarden e compagnia di Seattle ebbero l’opportunità di conoscere le band storiche (molte di queste chiaramente metal) a cui i nuovi eroi del rock si ispiravano.
Come in tutti i periodi d’oro di un genere, a livello di popolarità, anche nel grunge, accanto alle band che segnarono un epoca, uscirono sul mercato anche realtà che durarono lo spazio di un album, tranciate sul nascere dalla morte di Kurt Cobain e dalla definitiva caduta di tutto il movimento.
Come al solito rimangono i grandi, le band e gli artisti che da ottimi interpreti si trasformano in icone e miti continuando a sfornare ottima musica aldilà delle mode e di ciò che “tira” in quel preciso momento.
Nell’underground poi, chi continua a suonare il rock degli anni novanta sono molti, tra cui questo trio portoghese proveniente dalla capitale, all’esordio discografico con un buon esempio di rock alternativo, o grunge come preferite chiamarlo, molto nirvaniano e riconducibile ai primi passi delle band più famose del suono di Seattle.
Lower And Louder, senza far gridare al miracolo, si compone di cinque brani devoti al credo di Cobain e soci, inserendo qua e là atmosfere stoner, in linea con i suoni del momento.
Ne esce uno stile musicale che, pur fortemente debitore nei confronti della band di “Nevermind” e “In Utero”, possiede comunque una sua vita propria di cui specialmente le due ottime Take Me All The Way e Two, poste in chiusura, sono gli esempi migliori.
Gli Artic Fire, formati da Pedro (chitarra e voce), Alex (basso) e Alexia (batteria), ci consegnano un buon Ep, carico di quegli elementi che fecero il botto vent’anni fa e che ancora oggi, con buona pace dei detrattori, continuano ad arrivare a noi tramite ottimi seguaci che ne hanno colto l’eredità.

Tracklist:
1.Running
2.Prozac Addict
3.Give Me A Cancer
4.Take Me All The Way
5.Two

Line-up:
Pedro – Guitars, Vocals
Alex – Bass
Alexia – Drums

ARTIC FIRE – Facebook

In Lacrimaes Et Dolor / The Blessed Hellbrigade / Aphonic Threnody / Y’ha-nthlei – Of Poison and Grief (Four Litanies for the Deceased)

Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.

Altra uscita da parte dell’etichetta russa GS Productions, evidentemente specializzata in split album, questa volta con un lavoro che vede all’opera quattro diverse band, tre delle quali italiane più gli inglesi Aphonic Threnody, anch’essi dotati comunque di una cospicua componente tricolore.

A poche settimane di distanza da “In Memoriam” ritroviamo gli i In Lacrimaes Et Dolor i quali, ancora una volta, convincono con un funeral death doom che, rispetto alla precedente uscita, ritorna a calcare sentieri più classici, andando a lambire più volte con Of Poison and Deceit umori e suoni degli Skepticism. L’uso dell’organo agevola indubbiamente questo accostamento, e del resto l’ottimo growl di Francesco Torresi non è da meno rispetto a quello di Matti Tilaeus. Ancora un’ottima prova quindi per il musicista di Macerata Dany Noctis, in attesa di un nuovo full length che, viste le basi poste in questi ultimi anni, potrebbe rappresentare una folgorazione per molti.
Il secondo brano vede all’opera i novaresi The Blessed Hellbrigade i quali, rispetto ai più giovani colleghi marchigiani, propongono un doom dai tratti più epici che funerei, spesso sporcato da ritmiche di matrice black; la cosa non sorprende visto che i due musicisti impegnati, M. e Mayhem, sono due vecchie conoscenze della scena black del norditalia. Il brano, Maudit et Superieur, è decisamente intrigante, mostrando per di più una certa discontinuità rispetto a quanto proposto dalle altre tre band.
Gli Aphonic Threnody sono la band più conosciuta del lotto, oltre ad essere l’unica sulla carta non italiana, nonostante il vocalist Roberto ed il batterista Marco siano due musicisti sardi ben conosciuti per essere i motori di band come Urna ed Arcana Coelestia ed il nuovo chitarrista Zack provenga anch’egli dalla nostra penisola. Il gruppo guidato dal londinese Riccardo (chitarra e basso) e che presenta alle il neo-entrato Juan, tastierista cileno ex Mar De Grises, dopo altri due split, un Ep ed un magnifico album come “When Death Comes”, continua a proporre ottima musica con questo brano, Bury Them Deep, che esplora un versante meno funeral e più evocativo rispetto a quanto esibito di recente.
Chiude il lavoro il brano offerto da un altro duo, quello formato dai Y’ha-nthlei dei musicisti lombardi Sadomaster ed Omrachk, i quali, con The Tomb’s Penumbra offrono una traccia all’insegna di un funeral più ostico e scarno rispetto al resto della compagnia. Il sound lascia poco spazio ad aperture melodiche privilegiando un andamento dall’impatto decisamente più disturbante per quanto ugualmente efficace.
Nel complesso un’altra uscita di valore per la GS Productions, tutt’altro che superflua in quanto consente di verificare i progressi di realtà emergenti quali gli In Lacrimaes Et Dolor, The Blessed Hellbrigade e Y’ha-nthlei, confermando nel contempo lo stato di grazia degli Aphonic Threnody.

Tracklist:
1. In Lacrimaes Et Dolor – Of Poison and Deceit
2. The Blessed Hellbrigade – Maudit et Superieur
3. Aphonic Threnody – Bury Them Deep
4. Y’ha-nthlei – The Tomb’s Penumbra

Line-up:
In Lacrimaes Et Dolor
Francesco Torresi – Vocals
Dany Noctis – Keyboards
Mauro Ulag – Bass
Francesco Castricini – Guitars
Alina Lilith – Songwriting

The Blessed Hellbrigade
Mayhem – Drums
M. – Vocals, Guitars, Bass

Aphonic Threnody
Juan – Keyboards, Piano
Zack – Guitars
Marco – Drums
Roberto – Vocals
Riccardo – Guitars, Bass

Y’ha-nthlei
Sadomaster Guitars, Bass
Omrachk Vocals, Guitars, Drum programming, Effects

New Disorder – Straight To The Pain

“Straight To Pain” ci consegna una band al suo massimo livello ed un album che difficilmente riuscirete a togliere dal vostro lettore, una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi.

C’è tanta carne al fuoco nel nuovo album dei romani New Disorder, il piatto che poi ci confezionano è un delizioso mix di tanti sapori che, uniti, formano una gustosa pietanza di cui sicuramente chiederemo il bis.

Ma andiamo con ordine: la band romana nasce nel 2009 e all’attivo ha due ep, “Hollywood Burns” dello stesso anno, “Total Brain Format” del 2011 ed il full length d’esordio “Dissociety”, uscito per la Revalve nel 2013.
In questi anni, vari cambi di line-up hanno lasciato il solo cantante Francesco Lattes come unico superstite della band originale: niente di male, la band rimpolpa le fila e firma per all’inizio dello scorso Agoge Records anno, che produce e distribuisce questo ottimo Straight To The Pain.
Intanto una considerazione: Francesco Lattes è un gran vocalist, la sua voce passionale, cangiante nei toni, segue in perfetta armonia gli umori di un sound difficile da catalogare e per questo molto affascinante.
Nel songwriting vivono molte personalità, la base su cui si poggia è sì un metal alternativo, ma questo viene manipolato ad uso e consumo della band che stupisce tra ritmiche core, brani dove il rock americano (diciamo post grunge? Diciamolo …) viene travolto da parti in cui il prog moderno (specie nelle ottime partiture chitarristiche) prende il sopravvento e Straight To The Pain può così spiccare il volo.
Musica adulta, matura, canzoni che, ad un primo ascolto, possono risultare difficili, ma che crescono in modo esponenziale dopo che avrete fatto vostre tutte le sfumature di questi ottimi undici brani.
Le atmosfere cambiano, dicevamo, e così si passa dal metal dai rimandi core di Never Too Late To Die, scelta come singolo, alla metallica ed in your face Judgement Day, dalla bellissima semiballad Lost In London alla violente Love Kills Anyway e alla conclusiva The Beholder, tutto con un gusto progressivo che, sommato alla grande prova del singer, fanno di questo lavoro un piccolo gioiello di rock/metal moderno.
Prodotto negli studi di Gianmarco Bellumori, Straight To The Pain ci consegna una potenziale top band ed un album davvero bello che difficilmente riuscirete a togliere dal lettore una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi. Assolutamente da avere.

Tracklist:
1. Into the Pain
2. Never Too Late to Die
3. A Senseless Tragedy (Bloodstreams)
4. Judgement Day
5. Straight to the Pain (feat. Eleonora Buono)
6. What’s Your Aim? (Call It Insanity)
7. Lost in London
8. Love Kills Anyway
9. Bitch On My Wall
10. The Perfect Time
11. The Beholder
12. Lost in London ( acvoustic version)

Line-up:
Francesco Lattes – vocals
Fabrizio Proietti – guitar
Alex Trotto – guitar
Ivano Adamo – bass
Luca Mancini – drums

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