Helevorn – Compassion Forlorn

“Compassion Forlorn” non solo conferma la maturità compositiva acquisita dagli Helevorn ma, addirittura, li colloca ai vertici del movimento gothic-doom.

Gli Helevorn sono una delle band più longeve di una scena doom spagnola che, se non proprio dal punto di vista numerico, si dimostra assolutamente all’altezza da quello qualitativo, grazie anche ai vari Evadne, In Loving Memory ed ai redivivi Autumnal.

Dopo l’album d’esordio “Fragments”, risalente a circa un decennio fa, il successivo “Forthcoming Displeasures” aveva consolidato lo status del gruppo maiorchino, capace di esprimersi su livelli prossimi a quelli degli esponenti di spicco del genere; questo nuovo lavoro non solo conferma la maturità compositiva acquisita dagli Helevorn ma, addirittura, li colloca ai vertici del movimento gothic-doom, in virtù di un’espressione stilistica pressoché perfetta, che trova in Compassion Forlorn la sua sublimazione, mantenendo un equilibrio stupefacente tra le dolenti atmosfere del doom e le aperture melodiche del gothic. Se l’iniziale The Inner Crumble ricalca in qualche modo la struttura del brano portante del precedente lavoro, “From Our Glorious Days”, con la successiva Burden Me il sound si fa più ritmato salvo poi ritagliarsi momenti intrisi di cupa malinconia, volti a spezzare una trama musicale solo apparentemente di immediata fruizione. Looters è guidata da un pianoforte che si alterna a passaggi chitarristici formidabili, che vengono replicati all’ennesima potenza in Unified, brano capolavoro dell’album grazie alla sua strabordante vena malinconica esaltalta dalle melodie strappalacrime messe sul piatto dal bravissimo Samuel Morales. Con Delusive Eyes gli Helevorn si cimentano sul terreno dei nostri The Foreshadowing con il brano che, fosse dipeso da me, avrei scelto per essere accompagnato da un video anziché la già citata Burden Me. Infatti, il potenziale commerciale di questa traccia è smisurato, con un chorus indimenticabile ed una prestazione vocale maiuscola da parte di Josep Brunet, un cantante che oggi, nell’ipotetica classifica di rendimento congiunta tra il growl e le clean vocals, ha ben pochi rivali nel settore. I Am The Blame è un altro episodio di gothic piuttosto catchy, bello anche se leggermente inferiore per intensità al resto della tracklist, ma l’arrivo di Reason Dies Last riporta ampiamente sul proscenio le atmosfere intrise di drammaticità che il doom impone, con la dolente litania chitarristica di Samuel a tratteggiare un brano con il quale gli Helevorn portano a spasso l’ascoltatore in tutte le possibili sfumature del genere, per un risultato nuovamente esaltante. Els Dies Tranquils tiene fede al titolo chiudendo l’album con le sue atmosfere più intimiste, prima con il recitato in catalano di Josep, poi con la sentita interpretazione della vocalist irlandese Lisa Cuthbert . Cinquanta minuti di grande musica che, dopo quei tre-quattro ascolti canonici, diverranno l’irrinunciabile colonna sonora della giornata per chi ama Swallow The Sun, Saturnus e Paradise Lost: accomunare oggi a queste band gli Helevorn non è una bestemmia né un azzardo, Compassion Forlorn ne è la splendida riprova.

Tracklist:
1. The Inner Crumble
2. Burden Me
3. Looters
4. Unified
5. Delusive Eyes
6. I Am to Blame
7. Reason Dies Last
8. Els Dies Tranquils

Line-up:
Xavi Gil – Drums, Percussion
Samuel Morales – Guitars (electric, lead & acoustic)
Josep Brunet – Vocals (lead)
Enrique Sierra – Keyboards
Sandro Vizcaíno – Guitars
Guillem Calderón – Bass

HELEVORN – Facebook

Tantal – Expectancy

Expectancy raccoglie tutti gli elementi che hanno fatto diventare il death melodico uno dei generi più seguiti in ambito metallico e, senza nessuna concessione alla modernità, i Tantal realizzano un lavoro straordinario.

Ci sono vari modi per suonare dell’ottimo death melodico: partendo dalla base scandinava, in questi anni centinaia di band si sono approcciate a questo modo di fare del buon metal, molte di queste con buoni risultati, amalgamandolo a seconda dei gusti con altri generi, dando così nuova linfa a questo tipo di suono che ha portato ad una autentica rivoluzione nel panorama estremo.

Ora la moda (anche nell’underground, inevitabilmente, si segue a tratti la corrente) porta le band ad un approccio “core”, seguendo la strada di In Flames, Soilwork e dei gruppi d’oltremanica con ottimi risultati, in molti casi maggiori di quelli delle band di riferimento, ma non mancano le sorprese come i clamorosi Tantal, provenienti dalla madre Russia, freschi di firma con Bakerteam Records. Il loro secondo album, questo Expectancy, raccoglie tutti gli elementi che hanno fatto diventare il death melodico uno dei generi più seguiti in ambito metallico e, senza nessuna concessione alla modernità, realizzano un lavoro straordinario, imprimendo al sound connotazioni che vanno dal thrash al prog metal, riempiendolo di suoni sinfonici e bombastici e aggiungendoci del loro in quanto a bravura tecnica ed elevata qualità di songwriting. Se tutto questo non bastasse, oltre ad un growl potente e perfetto che ricorda il Mikael Stanne di “The Gallery”, i Tantal lasciano alla sublime voce della singer Milana Solovitskaya il compito di fare il bello e il cattivo tempo su tutto l’album, lasciando l’ascoltatore a bocca aperta, sovrastato dal talento di questa sirena dell’est. Una produzione perfetta costituisce la classica ciliegina sulla torta, ed Expectancy viaggia su livelli altissimi, con brani avvincenti tra ritmiche da Transiberiana (Mikhail Krivulets al basso e Vyacheslav Gyrovoy alle pelli) e due asce che regalano funambolici solos, tecnicamente eccelsi ma allo stesso tempo sanguigni (Dmitriy Ignatiev e Alexandr Strelnikov, anche vocalist). Questo album non fa gridare al miracolo per proprietà innovative (così sistemiamo gli amanti dell’originalità a tutti i costi) ma, in fondo, la band non fa che mettere in musica le varie influenze, che partendo appunto dai Dark Tranquillity, passano per il death e per il prog metal di Dream Theater e Symphony X; qui è la qualità che fa la differenza, marchiando un lotto di brani che, partendo da Through the Years, regala musica esaltante, suonata con grinta e classe da cinque musicisti fuori categoria. Un lavoro da ascoltare e riascoltare senza remore

Tracklist:
1. Through the Years
2. Expectancy Pt.1 (Desert in My Soul)
3. Echoes of Failures
4. In Times of Solitude
5. Nothing (Selfish Acts)
6. Pain That We All Must Go Through
7. Expectancy Pt.2 (Despair)
8. Under the Weight of My Sorrow I Crawl
9. Бей первым! (Спеть для неба…)
10. В моих глазах

Line-up:
Mikhail Krivulets – Bass
Vyacheslav Gyrovoy – Drums
Alexandr Strelnikov – Guitars, Vocals
Dmitriy Ignatiev – Guitars
Milana Solovitskaya – Vocals

TANTAL – Facebook

Infernal Angels – Pestilentia

Il black dei nostri è una devastante prova di come il genere, suonato professionalmente e prodotto alla grande, riesca ad affascinare e tenere botta anche senza il supporto di orchestrazioni ed altri orpelli.

Gli Infernal Angels, black metal band potentina, giungono al traguardo del terzo full-length in una dozzina d’anni di una carriera dopo l’esordio sulla lunga distanza “Shining Evil Light” (2006) e “Midwinter Blood (2009).

Pestilentia arriva quindi cinque anni dopo, tempo che non è trascorso invano vista la qualità di questo lavoro che, lo dico a scanso di equivoci, è uno dei più belli in questo genere che mi sia capitato di sentire nell’ultimo anno, andandosela tranquillamente a giocare nelle mie preferenze con l’ultimo album dei grandi Handful Of Hate.
L’album, come si può intuire dal titolo, tratta dell’incubo della peste in cui caddero l’Europa e l’Italia molti secoli fa, un argomento agghiacciante ma ugualmente affascinante, arrivato fino a noi non solo dai libri di storia ma alquanto trattato in romanzi e film e circondato da migliaia di leggende in ogni paese.
Dimenticatevi ogni sorta di contaminazione, il black dei nostri è una devastante prova di come il genere, suonato professionalmente e prodotto alla grande, riesca ad affascinare e tenere botta anche senza il supporto di orchestrazioni ed altri orpelli, macinando come in questo caso riff su riff e bombardando l’ascoltatore di atmosfere nere, putride come i corpi lasciati a marcire nelle strade delle città e dei borghi che, al passaggio del malefico morbo, si trasformarono in gironi dell’inferno sulla terra: la band descrive tutto ciò con gelide atmosfere, chitarre taglienti ma non “zanzarose” ed una sezione ritmica sconvolgente per potenza e velocità.
Il cantato del vocalist Xes si avvicina più al death che allo screaming classico del genere, rivelandosi perfetto per raccontare le devastazioni compiute dal virus, un demone che ci rende spettatori di drammi e disperazione, facendoci girovagare tra i cadaveri straziati dai ratti, tra l’incuria di strade lasciate in mano al male al suo stato più puro.
Il lavoro del duo Manegarmr (chitarra e basso) e Mid (batteria) è eccezionale e dona al sound degli Infernal Angels coordinate stilistiche vicine a Carpathian Forest e Dark Funeral, mantenendo in ogni caso un tratto molto personale favorito chiaramente dall’esperienza del gruppo.
La title-track, impreziosita da rallentamenti da far gelare il sangue, In the Darkness, marziale nel suo lento incedere a metà brano, e la massacrante Domina Nigra, sono le tracce migliori di questo infernale e bellissimo lavoro, acquisto obbligato per i blacksters, consegnatoci da una band capace di esprimersi ai suoi massimi livelli.

Tracklist:
1. 1347
2. Pestilentia
3. Blood Is Life
4. In the Darkness
5. Domina Nigra
6. Carpathians
7. Cold Fog Rises
8. Thorns Crown
9. A Night of Unholy Soul

Line-up:
Manegarmr – Guitars, Bass
MiD – Drums
Xes – Vocals

INFERNAL ANGELS – Facebook

Oberon – Dream Awakening

Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio.

Il secondo full-length del solo project Oberon arriva dopo ben tredici anni di silenzio, nel corso dei quali colui che ne è l’artefice, il norvegese Bard Oberon, è rimasto ai margini dell’ambiente pur continuando a comporre musica.

Molta di questa è confluita poi in Dream Awakening, il disco che, in fondo, costituisce la chiusura di un cerchio, giacché l’etichetta che lo licenzia è quella stessa Prophecy che, nel 1997, tra le prime produzioni immesse sul mercato, pubblicò proprio l’omonimo mini di Oberon. Diciamo subito che questo album è l’ennesimo centro da part di una label che, da anni, continua a proporre musica sempre contraddistinta da un incommensurabile valore artistico. Devo ammettere, senza particolari remore, che prima di oggi il nome Oberon mi era del tutto sconosciuto; ne deriva, quindi, che la valutazione di questo lavoro e le sensazioni scaturite dall’ascolto esulano inevitabilmente da qualsiasi raffronto con la produzione passata. Bard, con questo suo ritorno discografico, ottiene un risultato eccellente mettendo sul piatto una fluidità compositiva che gli consente di muoversi senza apparenti scossoni tra umori neofolk, punte di oscurità, passaggi di stampo progressive ed riferimenti cantautorali di nobile lignaggio. Una voce limpida ed evocativa conduce l’ascoltatore lungo un percorso disseminato di momenti incantevoli, un qualcosa di avvicinabile alla purezza dell’acqua che sgorga da una fonte; caratteristica, questa, che non viene meno neppure quando i suoni si irrobustiscono, ma che semmai viene ulteriormente esaltata dal gioco di luci ed ombre. Empty And Marvelous inaugura questo magnifico album con umori folk, soppiantati dal successivo brano capolavoro Escape nel quale, a tratti, viene evocato nientemeno che Jeff Buckley e, tutto sommato, il mai abbastanza compianto singer statunitense può costituire un valido punto di riferimento per capire meglio ciò di cui è capace Bard in Dream Awakening. Certo, la voce del musicista norvegese, pur pregevole, non è comparabile con quella di Jeff, ma la sensibilità compositiva e la capacità di tratteggiare brani dell’enorme impatto emotivo non sono affatto da meno. Anche quando è il folk ad impadronirsi del songwriting il risultato merita il nostro plauso, ma è certo che gli episodi che restano più impressi sono quelli in cui vengono messe in evidenza sia una più spiccata anima melodica (Flight Of Aeons), sia un’impronta di stampo prog/rock (I Can Touch The Sun With My Heart ). Le atmosfere sottilmente inquietanti di Machines sono la penultima perla di un lavoro che regala in chiusura un altro brano splendido (Age Of The Moon) nel quale la chitarra elettrica si ritaglia un ultimo spazio all’interno di suoni che, se trasposti visivamente, assumerebbero delicati color pastello. Oberon è stata un autentica folgorazione con la scoperta di un musicista rimasto per anni in una sorta di oblio: questo è un altro buon motivo, tra i tanti, per il quale nessuno dovrebbe mai ritenersi appagato di ciò che ha ascoltato in passato. Per chi come me , si è innamorato a prima vista di questa eccellente entità musicale, sarà cosa gradita sapere che la Prophecy ha programmato anche la ristampa dell’intera produzione targata Oberon, una buona occasione per approfondire la conoscenza e magari scovare altre gemme dimenticate composte dall’ottimo Bard.

Tracklist:
01. Empty And Marvelous
02. Escape
03. In Dreams We Never Die
04. Dark World
05. Flight Of Aeons
06. Dream Awakening
07. I Can Touch The Sun With My Heart
08. Phoenix 09. Secret Flyer
10. Machines That Dream
11. Age Of The Moon

OBERON – Facebook

Solitvdo – Immerso In Un Bosco Di Querce

Un lavoro capace di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore

Dopo aver parlato nei mesi scorsi di due ottime uscite in ambito estremo provenienti dalla Sardegna, Infamous e VIII, oggi è il turno di un altro musicista isolano, Daniil (accreditato nel lavoro come DM), con il suo progetto Solitvdo.

A differenza di quello dalle sfumature depressive dei primi oppure virato verso sonorità death dei secondi, qui il black metal si accompagna ad atmosfere più melanconiche e, a tratti, ambient, raggiungendo vette di lirismo per certi versi sorprendenti.
L’utilizzo della lingua italiana e la solennità che ne pervade diversi passaggi, rendono il lavoro dei Solitvdo parzialmente accostabile a quello degli Abbas Taeter di Mancan ma, indubbiamente, rispetto all’opera del musicista lucano, prevale un’aura maggiormente introspettiva.
Immerso In Un Bosco Di Querce possiede, tra le sue peculiarità, liriche redatte in uno stile elegiaco che contribuisce ad ammantare di un fascino antico tracce dalle eccellenti linee melodiche: il risultato è un lavoro privo di sbavature (se escludiamo la registrazione della voce che poteva essere messa maggiormente in evidenza) e capace di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore grazie a una scrittura mai scontata da parte dell’ottimo Daniil.
L’incipit sinfonico di Alba… introduce ad un brano come …Rivolta! che mostra senza indugi le doti del musicista sardo, un classico mid-tempo che si apre nella sua fase centrale in una parte strumentale di rara bellezza, per poi chiudersi con una sezione chitarristica di matrice classica.
La title-track è, invece, l’istantanea in grado di rappresentare al meglio la sensibilità compositiva di Daniil, riversata in una decina di minuti nei quali vengono condensate le coordinate musicali e filosofiche dell’intero lavoro, tra accelerazioni, momenti acustici e dolenti melodie, a fungere da tappeto per i poetici testi declamati con uno screaming non troppo aspro e sufficientemente intelligibile.
Altvm Silentivm è un elegante interludio ambient folk che porta alle due tracce conclusive (Al Tramonto Il Cielo In Fiamme e Nella Solitudine Il Divino), le quali, nonostante i 25 minuti complessivi di durata, non mostrano cali qualitativi evidenziando, al contrario, passaggi di rara bellezza, rivelandosi così la degna conclusione di un lavoro che, per il momento, è stato pubblicato in sole 48 copie dalla Eremita Produzioni nel formato tape, ma per il quale è prevista a dicembre l’uscita in digipack sotto l’egida della Naturmacht.
Solitvdo, in fondo, non rappresenta solo il monicker scelto per il progetto ma definisce anche un modus operandi sempre più in auge, che vede musicisti dediti a svariati generi scegliere di operare in totale autonomia, perdendo forse qualcosa, rispetto alle band classiche, a livello di reciproco scambio di idee e di ricchezza a livello strumentale, ma guadagnando altrettanto in libertà artistica e consentendo una più efficace focalizzazione degli obiettivi che si intendono raggiungere.
Un’opera come Immerso In Un Bosco Di Querce mette in luce i lati positivi di questa scelta senza alcuna controindicazione; fate vostro questo lavoro, nel formato che più vi aggrada, ne vale davvero la pena.

Tracklist:
1.Alba…
2…Rivolta!
3.Immerso In Un Bosco Di querce
4.Altvm Silentivm
5.Al Tramonto Il Cielo In Fiamme
6.Nella Solitudine Il Divino

SOLITVDO – Facebook

L’Ira Del Baccano – Terra 42

Un grande disco, pieno di prati e pianeti dove riposare il nostro stanco cervello e poter riscoprire una nuova Terra, che potrebbe essere proprio la 42.

Movimento cerebrale continuo per una band che dà il meglio nelle jam sessions.
L’Ira Del Baccano è semplicemente uno dei migliori gruppi italiani nell’ambito psych rock: le loro canzoni sono lunghi viaggi, riproduzioni di tessuti multimolecolari di note, sequenze di un dna musicale che parte dai Grateful Dead ed atterra negli Hawkwind, passando per la mutazione dei Black Sabbath.

Nati come Loosin’ O’ Frequencies da Alessandro “Drughito” Santori e Roberto Malerba, i nostri incidono un mini cd prodotto da un certo Paul Chain (che, se andiamo a ben vedere, ha influenzato gli ultimi venti anni di musica underground italiana ) e, nel 2006, si trasformano in un gruppo strumentale cambiando nome in L’Ira Del Baccano.
Nell’estate del 2008 il gruppo pubblica il primo album “Si Non Sedes Is … Live”, una jam dal vivo di 56 minuti che impressiona davvero molto. Il disco è in free download sul loro sito e rende benissimo l’idea di cosa sia questa band.
L’Ira Del Baccano è continuo movimento, un tendere alla spiritualizzazione della musica, un viaggio psicotonico; si potrebbe dire che fanno psych prog poiché, sebbene partano dalla cultura della jam session, i ragazzi inseriscono intarsi di prog davvero notevoli.
Terra 42 al momento è questo, ma potrebbe presto mutare cambiando forma, e dovrete essere voi a completare il processo all’interno della vostra testa.
Un disco che non annoia mai, anzi è da sentire e risentire più volte, come quando si notano particolari nuovi e mai notati prima nella strada che fate per tornare a casa, una continua scoperta, un viaggio che apre la mente verso una nuova direzione.
Ci sono movimenti come The Infinite Improbability Dive, di 33 minuti, ispirato a “Guida Galattica Per Autostoppisti” di Douglas Adams, che è davvero un infinito viaggio galattico; in mezzo troviamo Sussurri Nel Bosco Di Diana, il pezzo più prog e suadente del disco, che si muove nella seconda parte dopo una prima di placida fermezza.
Chiude questa opera psicoattiva Volcano, quattordici minuti e rotti di fratture, ricomposizioni e nuove proliferazioni.
Un grande disco, pieno di prati e pianeti dove riposare il nostro stanco cervello e poter riscoprire una nuova Terra, che potrebbe essere proprio la 42.
Ancora per favore.

Tracklist:
1 The Infinite Improbability Drive Part 1
2 The Infinite Improbability Drive Part 2 & 3
3 Sussurri… nel Bosco Di Diana Part 1 & 2
4 Volcano X 13

Line-up:
Alessandro “Drughito” Santori – Chitarra e Baccano
Roberto Malerba – Chitarra e Synth
Sandro “Fred” Salvi – Batteria
Luca Primo – Basso

L’IRA DEL BACCANO – Faceboook

Avulsed – Carnivoracity

Ristampa da parte della Xtreem Music dell’Ep del 1994 con l’aggiunta di ben nove tracce registrate dal vivo.

Sono passati vent’anni dall’uscita di questo EP dei deathsters spagnoli Avulsed, una delle più importanti e longeve band estreme del loro paese.

Fondati dal vocalist Dave Rotten nel 1991, esordirono nel 1992 con il classico demo arrivando a Carnivoracity nel 1994, passando per altri tre demo tra il 1993 e l’anno successivo.
La carriera dei nostri arriva fino allo scorso anno, con una discografia ragguardevole composta da vari split, Ep e compilation e, cosa più importante sei full-length di cui almeno due sono lavori notevoli: “Yearning for the Grotesque” del 2003 e “Gorespattered Suicide” del 2009; peraltro gli Avulsed sono stati molto attivi lo scorso anno con ben due uscite, l’album “Ritual Zombi” e l’Ep “Revenant Wars”.
Il death metal brutale della band iberica, qui nella sua veste più selvaggia, ha molto dei Cannibal Corpse e del movimento gore statunitense, quindi con tematiche fatte di smembramenti, cannibalismo e horror di serie B, vera goduria per i fan del metal putrescente e necrofilo.
In Carnivoracity gli Avulsed girano a mille con tre brani di old school brutal pesante e assassino, che mette in evidenza il growl spaventosamente cavernoso del buon Dave, capace di far impallidire Chris Barnes e George Fisher.
Rallentamenti doom da brividi e accelerazioni spaventose fanno di questo Ep un gioiello nel panorama estremo europeo, con la title-track che spicca nel suo marcio incedere, il cammino di un orco verso la sua cantina dove ad aspettarlo ha i suoi cadaverini da smembrare, in un delirio di necrofilia orgiastica.
Grande il lavoro della sezione ritmica (Tony alle pelli e Lucky al basso) e chitarre sempre al limite suonate da Luisma e Cabra.
Nella nuova veste Carnivoracity ci regala nove tracce live, un assaggio delle potenzialità che la band esprime sul palco, con due chicche: le cover di As I Behold I Despise dei Demigod e Matando Gueros degli storici Brujeria.
In sostanza una buona ristampa, sia per chi conosce già la band di Madrid sia per chi ne avesse ignorato fino ad oggi l’esistenza e volesse avvicinarsi al metal estremo grazie a questi mostruosi Avulsed.

Tracklist:
1. Carnivoracity
2. Cradle of Bones
3. Demoniac Possession (Pentagram cover)
4. Morgue Defilement (Live)
5. Bodily Ransack (Live)
6. As I Behold Despise (Demigod Cover) (Live)
7. Gangrened Divine Stigma (Live)
8. Cradle of Bones (Live)
9. Deformed Beyond Belief (Live)
10. Carnivoracity (Live)
11. Matando Güeros (Brujería Cover) (Live)
12. Outro – M.C.E.D. (Live)

Line-up:
Dave Rotten – Vocals
Tony – Drums
Lucky – Bass
Luisma – Guitars
Cabra – Guitars

AVULSED – Faceboook

Nazgul Rising – Orietur in Tenebris Lux Tua

I Nazgul Rising regalano agli ascoltatori una quarantina di minuti di symphonic black al suo massimo splendore.

Il black metal cosiddetto sinfonico, dopo aver vissuto i suoi fasti con i primi Cradle Of Filth e successivamente con i Dimmu Borgir, è decisamente tornato ad essere un sottogenere di nicchia all’interno di un ambito stilistico nel quale, peraltro, l’uso massiccio delle tastiere è sempre stato visto con sospetto dai puristi.

Così, come spesso accade, dopo l’inevitabile ondata di cloni più o meno riusciti delle band guida, il ritorno ad una condizione di minore visibilità per chi si dedica a questo tipo di suoni ha fatto sì che la qualità tornasse a rivendicare il proprio primato.
I romani Nazgul Rising rappresentano uno dei migliori esempi al riguardo: rifattisi vivi dopo un lungo silenzio, pubblicano il loro primo album Orietur in Tenebris Lux Tua che si rivela una delle migliori prove ascoltate di recente in quest’ambito.
Il symphonic black del combo guidato da Trukus Trukulentus non può ovviamente connotarsi come un qualcosa di innovativo, ma possiede il grande pregio di mantenere sempre un perfetto equilibrio tra le partiture melodiche delle tastiere ed l’aggressività del black sound.
Non solo: mi spingo a dire che nomi di peso ormai da anni si sognano di comporre una raccolta di brani così efficaci e coinvolgenti, ognuno ricco di passaggi atmosferici di spessore non comune.
Emblematiche, al riguardo, le tracce centrali: Awake the Ancient Hordes of the Black Twilight è un brano strutturato su diversi piani nei quali spicca un refrain melodico difficilmente rimovibile, mentre Damnatio ad Bestias, in certi momenti, può ricordare nel suo incedere un’ipotetica versione sinfonica dei Rotting Christ, senza tralasciare infine la maestosa solennità della conclusiva Beyond the Abyss.
È in ogni caso l’intero album a non lasciare alcun dubbio sulla validità della proposta dei Nazgul Rising, che regalano agli ascoltatori una quarantina di minuti di symphonic black al suo massimo splendore.
Ecco … invece di prestare attenzione ai soliti nomi che, per carità, tanto hanno dato a livello di impronta a certi generi musicali ma che oggi sono solo sbiadite caricature di se stessi, non sarebbe male che gli appassionati provassero ad abbandonare le strade più comode scegliendo, invece, di percorrere sentieri meno battuti: in tal caso potrebbero imbattersi in realtà nascoste e, per questo, ancor più preziose come i Nazgul Rising.

Tracklist:
1. Intro
2. Battlefields of Desolation
3. The Serpent Cult
4. Awake the Ancient Hordes of the Black Twilight
5. Damnatio ad Bestias
6. Hymn of Decay
7. Throne of Eblis
8. Beyond the Abyss

Line-up:
Trukus Trukulentus – Guitars
Lord Trevius – Guitars, Bass, Drum programming
Borius The King – Vocals

NAZGUL RISING – Facebook

Warlord UK – We Die As One

Tornano i Guerrieri Warlord UK per un’altra battaglia a base di death/thrash.

Tornano in pista gli inglesi Warlord UK, devastatori sonori di Birmingham, con il loro death/thrash schiacciasassi, ignorante il giusto e dal tiro micidiale.

La band si forma nell’ormai lontano 1993 e l’esordio”Maximum Carnage” rislae al 1996, ma qualcosa va storto e due anni dopo si arriva allo scioglimento.
Il 2008 vede la reunion e nel 2010 esce il secondo album dal titolo “Evil Within”; il nuovo millennio porta finalmente anche stabilità e dopo soli tre anni, pochi per gli standard della band, ecco il nuovo full-length intitolato We Die As One.
Musica e testi sono all’insegna della guerra totale e, portano con loro schegge dei compatrioti Bolt Thrower e Benediction, violentati da scariche di thrash old school che, se vogliamo, aumentano la dose di violenza che gli Warlord UK riversano sullo spartito; il sound dell’album risulta alquanto epico, e non poteva essere altrimenti, vista l’atmosfera da battaglia sci-fi che prende corpo fin dalla copertina in stile “Starship Trooper”.
We Die Us One è pregno di riff molto ben eseguiti dalla coppia d’asce Lee Foley e Dan Brookes, mentre il growl brutale e bellico del bassista (e unico superstite della formazione originale) Mark White fa cadere le residue difese del nemico.
Il lavoro si sviluppa così su dieci brani serratissimi nei quali le chitarre, vere protagoniste del disco, puntano tutto sull’impatto sparando solos con la quinta inserita e il pedale del gas a tavoletta; tanto thrash old school tra le tracce del disco, come la sparata title-track e la devastante Strength Defeats Decay, i brani dove il songwriting della band offre il meglio, riuscendo ad essere brutale ma, allo stesso tempo, travolgente.
Infuria la tempesta guerrafondaia dei Bolt Thrower in Masses Gather in Masses e in Age of Extreme, altri due dei brani che elevano la qualità di questo buon esempio di metallo fuso sul cannone del carrarmato Warlord UK,
Un lavoro che piacerà sia ai fan del death che a quelli del thrash più tradizionale.

Tracklist:
1. When Worlds Collide
2. Human Inner Core
3. Masses Gather in Masses
4. Insurgents Breed
5. Strength Defeats Decay
6. Last of Our Legacy
7. Age of Extreme
8. Knights of the Godless
9. We Die As One
10. Remember Them

Line-up:
Mark White – Vocals, Bass
Gary ‘Gaz’ Thomas – Guitars
Dan Brookes – Guitars (lead)

WARLORD UK – Facebook

Devangelic – Resurrection Denied

L’esordio dei romani Devangelic è un altro album di brutal death da promuvere in toto.

Ancora brutal death dalla capitale, vero fulcro di una scena estrema vigorosa e mai doma, con l’esordio dei Devangelic grazie a questo riuscito primo lavoro intitolato Resurrection Denied.

La band accoglie tra le sue malefiche braccia musicisti attivi da un po’ di anni nel sempre più prolifico ambiente estremo romano, come il drummer Alessandro Santilli (già Embrace Of Disharmony, Lahmia, Necrotorture), il chitarrista Mario Di Giambattista (Corpsefucking Art, Disfigured, Stench of Dismemberment), il vocalsit Paolo Chiti (Corpsefucking Art, Putridity) e il bassista Damiano Bracci. Brutal death di scuola americana, fatto con palle e cervello, questo è il primo massacro della band romana, che non lesina le mitragliate tipiche del genere per quanto riguarda il lavoro ritmico, valorizzato dal notevole muro sonoro innalzato con buona tecnica e da brani che nella mezz’ora di durata non hanno un minimo di cedimento, creati come sono per devastare senza soluzione di continuità. E’ scorrevole il songwriting dei nostri, che lasciano ad altri passaggi troppo cervellotici per centrare subito il bersaglio e, alla fine, questa scelta si rivela azzeccata, perché Resurrection Denied piace proprio per la sua fluidità e per l’impatto diretto. Forti di un drummer talentuoso come Alessandro “Vender” Santilli, protagonista di una straordinaria prova nel torturare le pelli (coadiuvato puntualmente dal basso di Bracci), della chitarra di Di Giambattista al servizio del wall of sound della band e dal growl brutale e avvolgente di Chiti, i Devangelic riescono nell’intento di confezionare un bell’assalto di metal estremo, di chiara matrice statunitense (Suffocation su tutti) aggiungendo un altro tassello alle buone uscite di genere in quest’ultimo anno. Brani come la velocissima Entombment of Mutilated Angels, Eucharistic Savagery, Desecrate the Crucifix, che risulta la traccia più varia tra accelerazioni e parti più cadenzate, e la terremotante Unfathomed Evisceration, forniscono un’idea esaustiva delle potenzialità altissime di questo combo nostrano, che aggiunge al tutto una copertina gore blasfema d’antologia, confermando tutte le loro malefiche intenzioni. Resurrection Denied è un album consigliato a tutti i fan del brutal death, un prodotto all’altezza della situazione frutto del lavoro d una nuova Band che in futuro potrebbe regalarci ulteriori soddisfazioni.

Tracklist:
1. Eucharistic Savagery
2. Crown of Entrails
3. Disfigured Embodiment
4. Unfathomed Evisceration
5. Entombment of Mutilated Angels
6. Perished Through Atonement
7. Desecrate the Crucifix
8. Apostolic Dismembering
9. Devouring the Consecrated

Line-up:
Alessandro “Venders” Santilli – Drums
Mario Di Giambattista – Guitars
Paolo Chiti – Vocals
Damiano Bracci – Bass

DEVANGELIC – Facebook

Azooma – A Hymn Of The Vicious Monster

Gli iraniani Azooma sorprendono con il loro debutto fatto di un death metal tecnico e originale.

Mashhad è la capitale del Razavi Khorasan iraniano e la città da cui provengono i death metallers Azooma, all’esordio con un album uscito un paio di mesi fa intitolato A Hymn of the Vicious Monster.

Attivo dal 2004, il combo iraniano inizia la sua avventura nel mondo metallico suonando cover di Iron Maiden, Metallica, Iced Earth, Kreator e Death, ma già nel 2005 decide di scrivere brani propri confrontandosi con il death metal dai richiami prog e influenzati dalla cultura del loro paese.
È storia degli ultimi anni la firma con l’etichetta spagnola Xtreem Music, che licenzia questo Ep di esordio che ha del clamoroso.
Il materiale inserito nel lavoro dalla band è stato scritto negli anni e, fortunatamente, ha trovato modo di vedere la luce, in quanto trattasi di sei brani notevoli.
Il death progressivo suonato dagli Azooma, originalissimo e tecnico, da far invidia ai mostri sacri del genere, dal tiro micidiale ed impreziosito da atmosfere e suoni della cultura persiana, sempre sostenute da un tono epico e drammatico, rende A Hymn of the Vicious Monster un gioiello metallico tutto da ascoltare.
I musicisti della band, veri virtuosi del proprio strumento, regalano prestazioni sopra le righe creando un tornado di suoni che vi avvolgerà rischiando di portarvi via.
Ahmad Tokallou, chitarrista eccezionale, svolge un lavoro mastodontico alla sei corde, martirizzando il lo strumento con solos e ritmiche suonate alla velocità della luce ma sempre dal gusto eccelso; la sezione ritmica (Farid Shariat al basso e Saeed Shariat alla batteria) si rende protagonista di una massacrante dimostrazione di forza tra gli innumerevoli cambi di tempo e le scorribande potenti e distruttive.
Tra tutte queste meraviglie strumentali spicca il growl feroce del vocalist Shahin Vaqfipour, molto bravo anche con le clean vocals, benché usate solo in pochi frangenti (Gyrocompass), che accompagna la vena creativa dei propri compagni con timbriche cavernose e melanconici momenti intimisti.
C’è tanto progressive nel songwriting del gruppo (digressioni di scuola crimsoniana), mai così ben amalgamato con la furia metallica espressa dal death epico della band; i suoni di estrazione popolare della loro terra sono usati con parsimonia, ma inseriti sempre ottimamente nelle strutture complicate delle song che, una dopo l’altra, regalano momenti di esaltante musica estrema, improbabile ed alquanto affascinante jam tra i Death ed i King Crimson.
Da ascoltare e riascoltare questo ennesimo bellissimo lavoro proveniente da terre lontane dal consueto circuito metallico, ma che non ha davvero nulla da invidiare ai lavori dei tradizionali continenti di riferimento.

Tracklist:
1. Preface
2. Chapter I: Self-Inflected
3. Chapter II: Eridanus Supervoid
4. Chapter III: Encapsulated Delusion
5. Chapter IV: Gyrocompass
6. Appendix

Line-up:
Farid Shariat – Bass
Saeed Shariat – Drums
Ahmad Tokallou – Guitar
Shahin Vaqfipour – Vocals

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Witches Of Doom – Obey

Obey, primo album dei romani Witches of Doom, raccoglie il meglio del dark, doom, gothic mondiale e attraverso nove brani dal grande appeal.

Premessa: quest’album è di una bellezza straordinaria, almeno per chi, con un po’ di musica rock oscura sul groppone ed una mentalità abbastanza aperta per seguire la quarantina d’anni di evoluzione che il metal dalle tinte dark ha regalato a chi è affascinato da queste sonorità.

Obey, primo album dei romani Witches of Doom, raccoglie il meglio del dark, doom, gothic mondiale e attraverso nove brani dal grande appeal, a tratti violentato da pesanti scosse stoner, esplode in una cinquantina di minuti entusiasmanti, passando dal doom settantiano dei Black Sabbath ai maestri del dark ottantiano Sisters Of Mercy e Mission, da Jirki e i The 69 Eyes (quelli appena passati dal rock’n’roll delle origini al capolavoro “Wasting the Dawn”) ai Type 0 Negative del mai troppo compianto Peter Steele.
Band formatasi solo lo scorso anno, ma dotata di personalità da vendere, le “Streghe” ci deliziano di questo vademecum del dark/gothic che risulta vario proprio per la sua ecletticità, passando da brani più orientati al dark (sempre molto potenti), resi ipnotici da un riuscito vortice di suoni creati da una sezione ritmica devastante (Jacopo Cartelli al basso e Andrea Budicin alle pelli) e dal chitarrismo graffiante e dal forte impatto seventies del bravissimo Federico Venditti.
Senza nulla togliere agli ottimi musicisti, a cui si aggiungono le tastiere di Fabio Recchia e Graziano Corrado, entrato in pianta stabile nella band, il vero mattatore del disco è il cantante Danilo Piludu, un po’ Jirki 69, un po’ Jim Morrison, sempre sul pezzo nel dare alle songs la giusta tonalità, teatrale quando il songwriting si fa drammatico, superandosi nella lunghissima title-track posta in chiusura, una lunghissima jam dark/stoner da antologia, vero viaggio “acido” nel mondo degli Witches of Doom.
Non una nota fuori posto in questo debutto, dall’iniziale The Betrayal, con una slide guitars dai rimandi Fields of the Nephilim, devastata da massicci chitarroni stoner, alla gothic’n’roll Witches of Doom, bissata dalla trascinante To the Bone, dalla smiballad Crown of Thorns, improbabile ma efficacissimo mix tra Black Label Society e Sisters of Mercy.
Dance of the Dead Flies e Rotten to the Core sono brani dall’andamento freak cadenzato, devastanti sotto l’aspetto dell’impatto, macigni metallici dove i generi descritti si incontrano in una danza sabbatica che avvolge, come un serpente che scivola sul corpo di una bellissima strega.
It’s My Heart arriva giusto prima della fantastica Obey e, purtroppo, si arriva anche in fondo a questo bellissimo album che, a mio parere, eguaglia l’ultimo lavoro dei grandi Bloody Hammers, forse l’unica band che si avvicina alle streghe romane, anche se lo stoner settantiano prevale nel songwriting del gruppo americano, mentre qui l’alternanza di atmosfere e influenze è l’asso nella manica della band capitolina.
In conclusione, album fantastico.

Tracklist:
1. The Betrayal
2. Witches of Doom
3. To the Bone
4. Neeedless Needle
5. Crown of Thorns
6. Dance of the Dead Flies
7. Rotten to the Core
8. It’s My Heart (Where I Feel the Cold)
9. Obey

Line-up:
Jacopo Cartelli – Bass (2013-present)
Andrea “Budi” Budicin – Drums
Federico “Fed” Venditti – Guitars
Danilo “Groova” Piludu – Vocals
Graziano “Eric” Corrado – Keyboards

WITCHES OF DOOM

Majestic Downfall / The Slow Death – Split

Uno split album da accaparrarsi senza indugi vista la qualità e la quantità del materiale presente.

Anche se gli ultimi split album nei quali mi sono imbattuto mi hanno fatto in gran parte rivedere il mio parere iniziale, che vedeva questo formato utile per band ai primi passi e invece motivo di dispersione d’energia e talento per quelle già avviate, quest’operazione della Chaos Records che abbina due realtà death-doom quali i messicani Majestic Downfall e gli australiani The Slow Death, mi ha riaperto qualche dubbio.

Premetto che delle due band conoscevo solo la prima, che di fatto è sempre stata un progetto esclusivo di Jacobo Cordova, soprattutto per il bellissimo disco d’esordio “Temple Of Guilt”; in quest’occasione il musicista messicano mette sul piatto una mezz’ora di musica eccellente, grazie a tre brani capaci di attingere ciascuno alle diverse sfumature del genere, a partire dal black-death doom di The Dark Lullaby, passando per le atmosfere drammatiche di Renata e finendo con Obsidian, che si spinge su versanti gothic doom andando ad evocare talvolta i sempre graditi fantasmi di Paradise Lost e Fields of The Nephilim. Jacobo non si dimostra solo un bravissimo chitarrista ma anche e soprattutto un ottimo interprete con il suo growl sempre espressivo, capace di passare dai toni profondi dell’opener ai tratti più aspri e pregni quasi di disperazione di Renata. Insomma, con altri 10-15 minuti all’altezza ne sarebbe venuto fuori un full-length coi fiocchi ma, anche così, un Ep a nome dei soli Majestic Downfall ci sarebbe stato ampiamente. Tutto questo non è volto a sminuire in alcun modo l’operato degli inquilini della seconda metà dello split, i bravi The Slow Death: semplicemente, vista anche la durata complessiva dei tre brani che ciascuna band aveva a disposizione, c’erano tutti i presupposti per due uscite separate anche se è evidente che in periodi di vacche magre per chi produce e distribuisce musica, mai come oggi vale il famoso detto per cui l’unione fa la forza. I The Slow Death sono una band australiana che ha due full-length all’attivo e che propende per il versante più introspettivo e cupo del genere, cosa che fanno ottimamente con la splendida Criticality Incident I, traccia pregna di melodie dai tratti dolenti. Il problema della band del Nuovo Galles del Sud è, a mio avviso, nella prestazione vocale: qui l’abusato ricorso alla doppia voce femminile-maschile non funziona come dovrebbe, essenzialmente perché i due timbri sono in un caso eccessivo (il growl di Gregg Williamson è di fatto un vero e proprio grugnito privo di un minimo di espressività) e nell’altro inadatto (Mandy Andresen opta per uno stile vagamente sciamanico che mostra la corda particolarmente in una traccia più rarefatta come People Like You). I The Slow Death dimostrano grandi qualità a livello compositivo e il loro sound è tutt’altro che scontato, peccato che questi particolari ne offuschino la proposta invece di esaltarne le caratteristiche. Con tutto ciò, questo resta comunque uno split album da accaparrarsi senza indugi vista la qualità e la quantità del materiale presente, anche se al termine dell’ascolto rimarrà sicuramente la voglia di riascoltare subito i brani dei Majestic Downfall e magari un po’ meno quelli dei pur validi The Slow Death.

Tracklist:
1.MD – The Dark Lullaby
2.MD – Renata
3.MD – Obsidian
4.TSD – Criticality Incident I
5.TSD – Criticality Incident II
6.TSD – People Like You

Line-up:
MAJESTIC DOWNFALL
Jacobo Córdova – All Instruments, Vocals.

THE SLOW DEATH
Stuart Prickett – Guitars, Keyboards, Vocals
Mandy Andresen – Vocals, Keyboards
Gregg Williamson – Vocals
Yonn McLaughlin – Drums
Brett Campbell – Lead Guitar
Dan Garcia – Bass

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

Kalidia – Lies’ Device

La band toscana riesce nella non facile impresa di consegnarci un disco semplice ma costruito su belle canzoni, metalliche ma nel contempo orecchiabili, e va oltre le più rosee aspettative con il proprio power classico ma dal sapore melodico.

Un altro bellissimo album di power metal melodico tutto italiano uscito in questa prima metà dell’anno di grazia 2014, ed un’altra band da scoprire e da seguire per tutti i fan del genere.

Si chiamano Kalidia, vengono da Lucca ed arrivano al debutto sulla lunga distanza dopo un EP del 2012 dal titolo “Dance of the four winds”, prodotto da Alessio Lucatti (Vision Divine, Etherna) che offre loro la possibilità di intraprendere un’intensa attività live, suonando con la crema del power/prog metal nazionale ed internazionale (Vision Divine, DGM, Timo Tolkki, Etherna). Le registrazioni dell’album di debutto iniziano lo scorso anno, sempre sotto l’ala di Alessio Lucatti che produce, masterizza e mixa questo notevole Lies’ Device. La band, guidata dalla voce della bravissima Nicoletta Rosellini, che “interpreta” in modo caldo con il suo tono ricco di pathos ed emozionalità le trame presenti in questo debutto, riesce nella non facile impresa di consegnarci un disco semplice ma costruito su belle canzoni, metalliche ma nel contempo orecchiabili, e va oltre le più rosee aspettative con il proprio power classico ma dal flavour melodico, di gran lunga superiore a tanti artisti più famosi. Dimenticatevi suoni sinfonici, gothic e vocals baritonali, questo è power e, dove necessita, i Kalidia picchiano da par loro, lasciando spazio a momenti dove esce un po’ di anima prog, specialmente nella drammatica Harbinger of Serenity cantata in duetto da Nicoletta con Andrea Racco degli Etherna (freschi dello splendido “Forgotten Beholder”). Si passa così da momenti heavy ad altri dove la band lascia spazio al talento della vocalist, che spadroneggia su tutto l’album deliziandoci con Shadow Will Be Gone, ballad sopra le righe, The Lost Mariner, song che apre l’album tra ottime melodie e bissata dalla più potente Hiding From the Sun, e Dollhouse (Labyrinth of Thoughts), dalle melodie ariose che sfiorano l’AOR. Lies’ Device è a suo modo trascinante e l’ascolto sempre piacevole, tanto che arrivare alla conclusiva In Black and White, dove compare come ospite Alessandro Lucatti con la sua sei corde, è un attimo, passando per almeno altri due brani coinvolgenti come Reign of Kalidia e la title-track. L’abilità della band nello strutturare su un tappeto tastieristico l’ottimo power, addolcito dalla voce della cantante, fornisce a questo lavoro una marcia in più e ci consegna un altro debutto coi fiocchi da parte di una band nostrana, ovviamente consigliato a tutti gli amanti del metal melodico.

Tracklist:
1. The Lost Mariner
2. Hiding from the Sun
3. Dollhouse (Labyrinth of Thoughts)
4. Reign of Kalidia
5. Harbinger of Serenity
6. Black Magic
7. Shadow Will Be Gone
8. Lies’ Device
9. Winged Lords
10. In Black and White

Line-up:
Federico Paolini – Guitars
Nicola Azzola – Keyboards
Nicoletta Rosellini – Vocals
Roberto Donati – Bass
Gabriele Basile – Drums

KALIDIA – Facebook

Atom – Horizons

“Horizons” si rivela un album decisamente ricco di spunti interessanti, a conferma del fatto che, spesso, i lavori dediti al black metal e prodotti in totale autarchia regalano risultati sorprendenti, nonostante tutti i limiti oggettivi che possono derivare da tale condizione.

Atom, progetto solista di Fabio, musicista cesenate, arriva al suo secondo atto su lunga distanza dopo l’esordio avvenuto lo scorso anno con “Waiting for the End”.

Horizons si rivela un album decisamente ricco di spunti interessanti, a conferma del fatto che, spesso, i lavori dediti al black metal e prodotti in totale autarchia regalano risultati sorprendenti, nonostante tutti i limiti oggettivi che possono derivare da tale condizione.
Proprio il fatto di riuscire a proporre un lavoro privo di particolari cali di tensione nell’arco dei suoi tre quarti d’ora di durata, denota doti compositive di buon livello e, pur muovendosi in un ambito musicale decisamente affollato, è apprezzabile in particolare una certa impronta personale conferita da Fabio alla diverse tracce.
Di fatto il black degli Atom prende spunto a livello stilistico e ritmico da quello di matrice scandinava, arricchendolo con un gusto melodico sempre in primo piano: grazie a questo, il latente senso misantropico che aleggia sui brani viene stemperato in umori più malinconici che, più di una volta, vanno a sconfinare nel depressive, creando così un flusso sonoro sempre in bilico tra queste due anime.
Per gusto personale ho molto apprezzato sia la traccia d’apertura External Spectator sia, soprattutto, l’accoppiata centrale formata da Hazy Dreams, con la sua trascinante melodia chitarristica, e The Cold Eternal Light, dove sempre la chitarra regala arpeggi pregevoli, nelle quali il musicista romagnolo riesce probabilmente a focalizzare al meglio i propri intenti.
Meno convincente, invece, un brano come Atheist Manifesto, proprio perché esce parzialmente dalle coordinate sonore espresse negli episodi citati risultando così poco funzionale al contesto del lavoro, mentre un aspetto sul quale ci sarebbe da apportare qualche correttivo, anche in fase di produzione, sono senz’altro le vocals: lo screaming è troppo gracchiante in certi momenti, rivelandosi adatto stilisticamente ai tratti disperati del depressive più intransigente, piuttosto che alle sonorità meno esasperate in tal senso contenute in Horizons.
Se è vero che nel black non si va certo alla ricerca del bel canto, sarebbe ugualmente auspicabile nel futuro il ricorso ad uno stile vocale meno aspro e, magari, parzialmente intelligibile, vista anche la buona qualità dei testi.
Un peccato veniale che inficia, comunque, in minima parte la resa oltremodo soddisfacente di un album che mette in evidenza un nuovo stimolante progetto solista sfornato dall’underground estremo tricolore.

Tracklist:
1. External Spectator
2. Through Empty Days
3. Hazy Dreams
4. The Cold Eternal Night
5. Prelude to the Disenchantment
6. Atheist Manifesto
7. Dead Time
8. Horizons (outro)

Line-up:
Fabio – All Instruments, Vocals

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Demonic Resurrection – The Demon King

The Demon King è un lavoro assolutamente da ascoltare, un macigno di metal estremo sinfonico che vi stupirà.

L’India regala band e gioiellini metallici ogni qualvolta il nostro sguardo ma, soprattutto, il nostro udito si rivolge verso il lontano paese asiatico.

I Demonic Resurrection non sono neanche dei novellini della scena metallica del paese, a ben vedere, e il loro debutto (“Demonstealer”) risale addirittura al 2000; per arrivare e prima di questo ultimo The Demon King hanno pubblicato altri due full-length, “A Darkness Descends” (2005) e “The Return to Darkness” (2010).
Il gruppo di Mumbai continua per la sua strada fatta di un black/death sinfonico sulla scia dei Dimmu Borgir, contaminato dal death progressivo alla Opeth, molto ben riuscito, suonato alla grande e dall’impatto devastante.
Il nuovo album, sempre per Candlelight, non sposta di una virgola le coordinate del gruppo e piacerà agli amanti dei generi estremi sopracitati, portando con sè lo spirito e le strutture che hanno fatto grandi le band di riferimento.
Le tastiere di Mephisto sono le protagoniste del sound della band, molto ben inserite nel contesto sonoro, il songwriting viaggia a ritmi veloci con pochi intermezzi per musicisti che vanno subito al sodo, intrattenendoci con la giusta cattiveria e buone idee.
Facing the Faceless, la title-track e Shattered Equilibrium sono le song che, ad un primo ascolto, mi hanno entusiasmato, ma il disco nel complesso gira che è un piacere, mantenendosi al di sopra della media nel genere proposto.
Non è la prima volta che incontro album cosi ben riusciti provenienti dall’India, probabilmente l’essere al di fuori dei circuiti europei o americani permette alle band di sviluppare il proprio credo musicale senza farsi condizionare troppo dalle mode del momento e andando dritte per la loro strada; i Demonic Resurrection ne sono l’ennesima prova: ottimi musicisti, produzione perfetta e composizioni che stupiscono per maturità e talento.
Ottime le parti in growl e riuscite anche quelle pulite ad opera di The Demonstealer, anche chitarrista, e perfetta la sezione ritmica, sia nelle sfuriate black sia nelle parti più cadenzate dal sapore death; l’elemento sinfonico è sempre presente, aggiungendo un tocco epico al sound di questo bellissimo lavoro e richiamando alla memoria un altro nome, magari meno famoso, come quello dei Bal-Sagoth, che hanno influenzato più gruppi di quanto si possa immaginare.
The Demon King è un lavoro assolutamente da ascoltare, un macigno di metal estremo sinfonico che vi stupirà.
Monumentale.

Tracklist:
1. The Assassination
2. Facing the Faceless
3. The Promise of Never
4. Death, Desolation and Despair
5. The Demon King
6. Architect of Destruction
7. Trail of Devastation
8. Shattered Equilibrium
9. Even Gods Do Fall
10. The End Paradox

Line-up:
The Demonstealer – Vocals, Guitars
Mephisto – Keyboards
Virendra Kaith – Drums
Ashwin Shriyan – Bass
Nishith Hegde – Guitars (lead)

DEMONIC RESURRECTION – Facebook

Profetus – As All Seasons Die

Un disco splendido che se, da una parte, può soffrire del confronto con un nome pesante come quello degli Skepticism, dall’altra si dimostra ben più di un semplice lenitivo per il lungo protrarsi del silenzio discografico di questi maestri della scena funeral.

Per una serie di circostanze ti ritrovi, a sera inoltrata, a rimirare un nero specchio d’acqua, avendo dinnanzi le luci di lontane cittadine turistiche, alle spalle i rumori cacofonici dello pseudo-divertimento, e avvolto dall’umore di chi, a tratti, dubita di riuscire a sistemare un solo tassello della propria intricata esistenza, il tutto con in cuffia l’ultimo disco dei Profetus.

Chi non conosce o sottovaluta l’enorme potenza del doom, penserà istintivamente che questa combinazione di fattori sfavorevoli sarebbe potuta risultare decisiva per annullare quel metro e mezzo di distanza dall’acqua lasciando che l’oblio giungesse provvidenzialmente a risolvere ogni problema. Al contrario, l’effetto catartico del funeral, quando viene espresso in maniera alta come nel caso dei Profetus, è in grado di fornire impulsi diametralmente opposti in chi tende a lasciarsi andare all’autocommiserazione, alla faccia di chi considera questo genere noioso o, ancor peggio, il parto di menti depresse per individui che si trovano in analoghe condizioni. As All Seasons Die è il terzo album per i finlandesi, per i quali inevitabilmente il primo termine di paragone che viene in mente sono i connazionali Skepticism, non fosse altro che per l’uso frequente dell’organo, anche se il suono qui appare ancor più dilatato e minimale, con variazioni spesso impercettibili che portano ugualmente verso un lento ed avvolgente e crescendo emotivo; di fatto, lo stile dei nostri si colloca a metà strada tra la seminale band di Riihimäki ed i meno noti Tyranny (nei quali non a caso una delle menti musicali è il qui presente Matti Mäkelä), autori di un solo monumentale disco, “Tides Of Awakening”, e ciò si avverte proprio in questa esasperata dilatazione e nella ripetitività talvolta ossessiva dei temi. Peraltro i Profetus escono abilmente da questi schemi compositivi regalandoci un brano, Dead Are Our Leaves of Autumn, nel quale la chitarra solista prende per una volta in mano le redini delle operazioni tessendo melodie evocative poggiate sulla consueta base ritmica bradicardica. Probabile mattonata sui denti per chi non apprezza il genere (lecito, per carità, ma io per onestà intellettuale non scriverei mai una riga di commento a proposito un disco di street metal o aor, generi che non sono nelle mie corde, proprio perché nutro il massimo rispetto per chi li suona e per chi li ascolta), As All Seasons Die è in realtà un vero godimento per chi di queste sonorità si nutre e non ne ha mai abbastanza. Un disco splendido, in definitiva, che se, da una parte, può soffrire del confronto con un nome pesante come quello degli Skepticism, dall’altra si dimostra ben più di un semplice lenitivo per il lungo protrarsi del silenzio discografico di questi maestri della scena funeral.

Tracklist:
1. The Rebirth of Sorrow
2. A Reverie (Midsummer’s Dying)
3. Dead Are Our Leaves of Autumn
4. The Dire Womb of Winter

Line-up:
V. Kujansuu – Drums
A. Mäkinen – Guitars, Vocals (lead)
M. Nieminen – Keyboards
D. Lowndes – Guitars
M. Mäkelä – Guitars, Vocals (backing)

PROFETUS – Facebook

MaterDea – A Rose For Egeria

Per i fan del metal sinfonico un album assolutamente consigliato, così come a chiunque abbia voglia di ascoltare ottima musica che inevitabilmente porta a sognare … e di questi tempi non è poco.

I MaterDea sono una band torinese, fondata nel 2008 dalla cantante Simon Papa e dal chitarrista Marco Strega, che arriva quest’anno al traguardo del terzo full-length, dopo il debutto del 2009 “Below the Mists, Above the Brambles”, ed al riuscito secondo lavoro del 2011 “Satyricon”, uscito per Midsummer’s Eve che ha licenziato anche questo nuovo A Rose for Egeria.

Mixato dallo stesso chitarrista e masterizzato ai Finnvox da Mika Jussila, questo nuovo capitolo della saga MaterDea convince ancor più del suo predecessore e chi avrà la fortuna di sentirlo scoprirà di avere tra le mani una band unica, tra le tante bravissime che si affacciano sul mercato nazionale ed internazionale e che abbracciano la causa del symphonic metal; infatti, il gruppo lascia ad altri i territori power/gothic per un approccio pagan/folk, impregnando il sound di suoni orchestrali per nulla pomposi, che rendono il suono elegante e raffinato laddove gli strumenti classici della bravissima Elisabetta Bosio ricamano melodie d’altri tempi, accompagnati dalle tastiere di Elena Crolle. Ed è proprio questa perfetta armonia tra la raffinatezza delle tre damigelle e la grinta metallica degli altri tre elementi maschili del gruppo (Marco Strega e la potente sezione ritmica composta da Morgan De Virgilis al basso e Cosimo De Nola alle pelli) a fare la differenza in questa stupenda opera, che vi porterà a viaggiare tra villaggi immersi in lande verdeggianti, in un mondo dove eroici cavalieri e superbe figure mitologiche faranno la loro comparsa, così come splendide fate, elfi e locande dove rifocillarsi e amoreggiare. Grandi momenti di folk d’autore (la magnifica Land of Wonder) fanno da contraltare a brani più metallici (Tàlagor of the Storms, An Unexpected Guest, Running all Night with the Wind) impreziositi dalla stupenda voce di Simon e dai cori di Elena, mantenendo sempre in primo piano la struttura folk con il tappeto sonoro creato da viola, violoncello e contrabbasso di Elisabetta Bosio. Su tutto l’album aleggia un’atmosfera fantasy che ultimamente ho potuto ascoltare solo su quel “Midgard” dei milanesi Holy Shire, altro ottimo lavoro italiano, segnale di una scena che ormai non ha più nulla da invidiare alle più rinomate realtà europee, riuscendosi a costruire, con dischi di questo livello, una credibilità anche oltre confine. Per i fan del metal sinfonico un album assolutamente consigliato, così come a chiunque abbia voglia di ascoltare ottima musica che inevitabilmente porta a sognare … e di questi tempi non è poco.

Tracklist:
1. Beyond the Painting
2. Tàlagor of the Storms
3. Whispers of the Great Mother
4. Merlin and the Unicorn
5. A Rose for Egeria
6. An Unexpected Guest
7. Land of Wonder
8. Altars of Secrets
9. Prelude to the Rush
10. Running all Night with the Wind
11. Haerelneth’s Journey

Line-up:
Simon Papa – Voce
Marco Strega – Chitarre elettriche e acustiche
Morgan De Virgilis – Basso
Elisabetta Bosio – Violino, viola e contrabbasso
Elena Crolle – Pianoforte e Tastiere
Cosimo De Nola – Batteria

MATERDEA – Facebook

Monolithe – Monolithe Zero

Gradita riedizione in un unico formato dei due EP pubblicati in passato dai Monolithe.

“Monolithe III” e “IV”, usciti ad un anno di distanza tra loro, hanno ribadito l’ingresso in pianta stabile della band parigina nel gotha del funeral doom.

Rispetto ai pur buoni lavori precedenti, gli ultimi due album evidenziano un’evoluzione del sound in senso lato, facendo sì che, mantenendo i tratti distintivi del genere, venisse scongiurato un suo eccessivo ripiegamento su sé stesso. Monolithe Zero del quale parleremo in questo frangente, non è invece un album di inediti (come si evince dalla numerazione), bensì racchiude i due EP “Interlude Premier” e “Interlude Second”, usciti a distanza di 5 anni l’uno dall’altro e che, in qualche modo, sono emblematici delle due fasi della carriera dei doomsters francesi. Se “Interlude Premier” era infatti ancora legato alle sonorità di “II”, risalente a due anni prima, “Interlude Second” anticipava di qualche mese la pubblicazione di “III” che, a mio avviso, è il punto più alto finora raggiunto dai Monolithe (superiore, sia pure a livello di sfumature, anche all’ottimo “IV”). Aperto dalla rivisitazione del tema Also Sprach Zarathustra, i due EP si susseguono mettendo in luce le peculiarità di un sound ostico, spesso ossessivo nel suo insistere su pochi accordi eppure dannatamente efficace, almeno per chi apprezza queste sonorità. Indubbiamente la parte del leone la fa un brano terrificante come Harmony of Null Matter, che originariamente appariva nel secondo EP suddiviso in due parti,vero monumento all’incomunicabilità ed autentica prova del nove alla quale sottoporre chi si considera a parole un fan del funeral. Da notare anche la presenza in tracklist della riuscita cover di Edges, brano tratto da un album monumentale come “Lead And Aether” degli Skepticism, band che sicuramente ha fornito più di uno spunto a Sylvain Bégot e soci, per quanto costoro oggi possano vantare una cifra stilistica del tutto personale. Evidentemente questo lavoro nulla aggiunge allo status raggiunto dai Monolithe ma, oltre a rivelarsi un utile indicatore di quanto il sound dei nostri si sia evoluto nel corso del tempo, costituisce la ghiotta occasione di far propri i due EP in un sol colpo. Peraltro, quasi in contemporanea, la Debemur Morti pubblica anche la riedizione rimasterizzata di “Monolithe II”: ecco, che nessuno si sogni di parlare di operazioni commerciali in relazione a band che suonano funeral doom, potrei riderne fino a rischiare di morire …

Tracklist:
1. Also Sprach Zarathustra
2. Monolithic Pillars
3. Edges
4. Harmony of Null Matter

Line-up:
Benoît Blin – Bass, Guitars
Sébastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Bégot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

MONOLITHE – Facebook