Infecting The Swarm – Pathogenesis

“Pathogenesis“ è un buon disco che mette in mostra un gruppo in grado di fare sicuramente molto bene,

Death metal brutale cantato in growl per questo duo tedesco attivo dal 2012: Pathogenesis è la loro prima uscita sulla lunga distanza, dopo un demo pubblicato nel 2013.

Il disco è un concentrato di furia e devastazione, e gli Infecting Swarm hanno molto da dire, ma lo fanno con troppa foga a volte, rendendo tutto un po’ confuso.
Il gruppo ha un talento certo e il loro brutal death metal è davvero buono, ma se andassero leggermente più lenti sarebbero un gruppo fantastico.
I loro testi si basano sulla fantascienza, le vite aliene e la biologia, argomenti piuttosto atipici per un gruppo brutal, rivelandosi un punto di interesse notevole.
Il cantato in growl a volte aggiunge qualcosa, a volte toglie fascino alla canzone, nonostante la produzione sia buona.
Pathogenesis è un buon disco, che mostra un gruppo che può fare sicuramente molto bene, poiché i mezzi sono notevoli.
Il massacro sarà presto completato.

Tracklist :
1. Ionic Anomaly
2. Unknown
3. Exogenous Corruption
4. Aberated Antibiosis
5. Contamination
6. Cellular Shifting
7. Parasitic Mutation
8. Reshaping Life
9. Exponential Growth

Line-up:
Hannes S. – Vocals, Guitars, Bass Drums

Sonus Mortis – Propaganda Dream Sequence

Sonus Mortis è l’ennesima entusiasmante scoperta all’interno di un underground metal che sforna a getto continuo autoproduzioni di livello assoluto.

Se il monicker catacombale ed alcuni riferimenti biografici parrebberro indirizzare i Sonus Mortis verso territori death-doom, è sufficiente, dopo aver dato una rapida occhiata alla copertina dai tratti futuristici, ascoltare le prime note dell’opener The Cyber Construct per capire che verremo immersi a viva forza in un symphonic industrial doom sorprendente e, a tratti, addirittura entusiasmante.

Kevin Byrne, conosciuto (si fa per dire … non me ne voglia) fino ad oggi per essere il bassista dei melodic deathsters irlandesi Valediction, si dimostra un musicista dallo spessore inatteso e, facendo tutto da solo, spara oltre un’ora di musica capace di innestare su un mood tendente al malinconico gli influssi di band seminali quali ultimi Samael (soprattutto), Nine Inch Nails e Fear Factory, aggiungendoci quel pizzico di (in)sana follia alla Devin Townsend, la vis creativa dei magnifici americani Mechina e orchestrazioni che rimandano ai più recenti lavori dei Septicflesh.
Il death-doom, se vogliamo, lo possiamo rinvenire nella cappa di oscurità che tutto sommato aleggia costantemente su un lavoro che, a voler cercare il pelo nell’uovo, è forse un po’ troppo lungo per un genere che, con le sue ritmiche squadrate, un growl spesso filtrato e le frequenti incursioni sinfoniche mette talvolta a dura prova i padiglioni auricolari dell’ascoltatore.
Difetto minimo, se comparato all’abilità di Kevin nel costruire brani ricchi di spunti melodici mai banali, che raggiungono le vette dell’eccellenza nella già citata The Cyber Construct, nella doppietta centrale composta dall’allucinata The Flock Obscenity e dalla solenne Automated Future, nel sinfonico crescendo della title-track ma, soprattutto nel coinvolgente lirismo di Decompression Countdown, dove i ritmi rallentano e i suoni vengono avvolti da un’aura drammatica, e nella caleidoscopica Scolecophagous, traccia che riesce mirabilmente a fondere tutte le fonti alle quali il musicista ha attinto per comporre la propria opera.
The Ephemeral Sempiternity of Time chiude nel migliore dei modi un lavoro che nella sua fase discendente assume sicuramente tonalità più cupe ma che non perde mai di vista l’equilibrio tra la parti aggressive e quelle più melodiche.
La versione in cd prevede anche due bonus track, l’ultima delle quali è la cover di Valentines Day di Marlyn Manson: entrambi i brani sono senz’altro riusciti ma, alla fine, nulla aggiungono al valore di Propaganda Dream Sequence, anzi, per certi versi rischiano di risultare controproducenti allungando ulteriormente la durata di un lavoro che, come detto, già di suo sia attesta sui sessanta munti.
Poco male, però, quando un album riesce ad essere così intenso, ricco e tutt’altro che scontato, attentandosi a cavallo di stili musicali differenti ma amalgamati con naturalezza disarmante da un musicista nuovo per questi palcoscenici come Kevin Byrne.
Sonus Mortis è l’ennesima entusiasmante scoperta all’interno di un underground metal che sforna a getto continuo autoproduzioni di livello assoluto come questa che, se finisse, nelle sapienti mani delle maggiori label di settore, potrebbe anche ottenere un insperato successo a livello commerciale.

Tracklist:
1. The Cyber Construct
2. Propaganda Dream Sequence
3. To Lament, Mourn and Regret
4. Enter Oblivion
5. The Flock Obscenity
6. Automated Future
7. A Doctrine for the End Times
8. Decompression Countdown
9. And the Foundations Start to Decay
10. Scolecophagous
11. The Ephemeral Sempiternity of Time
12. Children of Dune
13. Valentines Day

Line-up:
Kevin Byrne – All instruments, Vocals

SONUS MORTIS – Facebook

Dogmate – Hate

Tutto da ascoltare il debutto dei romani Dogmate, un metal/stoner colmo di groove dall’ottimo impatto.

L’etichetta romana Agoge Records licenzia il debutto dei suoi concittadini Dogmate, band che strappa applausi a scena aperta con questo fottutissimo Hate, lavoro che sprizza groove da tutti i pori, con una riuscitissima amalgama di suoni stoner e grunge violentati da mazzate al limite del thrash; metallico il giusto per piacere non solo a chi è più orientato a suoni hard rock “alternativi”, l’album consta di dieci brani dal tiro pazzesco, suonati con un piglio da band navigata dai quattro musicisti.

I Dogmate nascono nel 2012 e ne fanno parte Ivan Perres (Ivn) alla batteria, che con l’aiuto di Roberto Fasciani (Jeff) al basso compone una sezione ritmica potentissima, Stefano Nuccetelli (Sk)che, alla sei corde, dichiara guerra con un chitarrismo che passa inesorabilmente molto vicino all’approccio degli axeman statunitensi del genere (Zakk Wylde ma anche il compianto Dimebag Darrell) ed il vocalist Massimiliano Curto (Mad Curtis), interprete doc per la musica della band con la sua tonalità sporca, a metà strada tra il citato Zakk e Pepper Keenan, ex-Corrosion of Conformity.
Si comincia con Buried Alive ed il gruppo ci va giù pesante, la sezione ritmica tiene il passo con bordate stoner belle grasse che si accentuano nei brani dove il sound si velocizza, strizzando l’occhio al metal panterizzato (Inflated Psychotic). Nel corso dell’album sono molteplici le band alle quali i Dogmate fanno riferimento, ma rimane a mio parere (e qui sta il bello) ad aleggiare su Hate il fantasma dei Corrosion of Conformity, sia quelli più hardcore degli esordi (“Technocracy”), sia nella veste alternativa del capolavoro “Blind”, per arrivare infine allo stoner da “Deliverance” ai giorni nostri; in più i nostri aggiungono riff panteriani ed elementi pescati dalla musica di Seattle per un risultato che a tratti ho trovato esaltante.
In questo esordio i Dogmate risultano una band compatta, i loro brani che non lasciano respiro ed affondano il colpo ad ogni passaggio e nella loro totalità spiccano la bellissime Witness of the Shamelessness, Hunter’s Mind, Mesmerizing Truth e la ballad conclusiva Black Swan, nella quale il vocalist lascia le consuete tonalità per avvicinarsi al Chris Cornell solista dell’intimista e maturo “Song Book”.
Disco da avere e da ascoltare, ennesima prova che ormai la differenza tra le nostre band underground e quelle del sogno americano si è ridotta al minimo.

Track list.
1. Buried Alive
2. Inflated Psychotic
3. Witness of the Shamelessness
4. Stripped & Cold
5. Dark in the Eyes
6. Me-Stakes
7. Hunter’s Mind
8. Mesmerizing Truth
9. World War III
10. Black Swan

Line-up:
Massimiliano “Mad Curtis” Curto – Voce
Stefano “Sk” Nuccetelli – Chitarra
Roberto “Jeff” Fasciani – Basso
Ivan “Ivn” Perres – Batteria

DOGMATE – Facebook

Fragarak – Crypts Of Dissimulation

Ottimo lavoro, indicato per gli amanti degli Opeth, con il quale i Fragarak vi sorprenderanno.

Non male l’album di debutto di questa band, nata a Nuova Dehli nel 2012 ed arrivata all’esordio discografico lo scorso anno (l’album e’ datato 2013).

I Fragarak sono protagonisti di un death metal progressivo sullo stile dei primi Opeth, specialmente nelle numerose parti atmosferiche ma, mentre la band svedese nei primi album univa alla componente dark una forte connotazione black metal, gli indiani sono più orientati verso un old school death comunque sempre di matrice scandinava. L’album consta di sei brani dall’ottimo piglio, a partire dall’apertura acustica della bellissima Savor the Defiance, dove l’intro viene spezzato dall’entrata della ritmica e dall’urlo disumano del bravissimo singer Supratim Sen, ottimo sia nel cavernoso e animalesco growl sia nell’uso a tratti dello scream. Atmosfere drammatiche dall’impronta dark ed ottimi momenti acustici incontrano sfuriate elettriche dove la band, con cambi di tempo ed il buon uso delle soliste, riesce ad emozionare e quando l’acustica sfuma si riparte a mille con Insurgence, brano dall’impatto ultra heavy, dalle ritmiche vicine al black, per poi tornare a deliziarci con cambi di tempo, mentre sono sempre i due axeman (Arpit Pradhan e Ruben Franklin) a guidare il gruppo con solos drammaticamente malinconici. Stupendo il momento acustico che ci regala Effacing the Esotery, prima che il brano esploda in un vortice di suoni ed il basso introduca l’ennesima cavalcata chitarristica. Continua alla grande l’altalena tra momenti acustici ed altri elettrici (Dissimulation: An Overture), così l’album risulta affascinante e mai noioso, grazie al sapiente uso da parte della band di cangianti momenti tra calma apparente e furia death (Cryptic Convulsion). Tecnicissimi tutti i musicisti coinvolti, anche se la bravura tecnica non inficia l’emozionalità di un lavoro veramente ben riuscito. Crypts Of Dissimulation si chiude con un’altra perla acustica dal titolo Psalm of Deliverance, che mette la parola fine ad un disco sorprendente inciso da una band che merita d’ essere scoperta.

Tracklist :
1. Savor the Defiance
2. Insurgence
3. Effacing the Esotery
4. Dissimulation: An Overture
5. Cryptic Convulsion
6. Psalm of Deliverance

Line-up:
Kartikeya Sinha – Bass
Sagar Siddhanti – Drums
Ruben Franklin – Guitars
Arpit Pradhan – Guitars
Supratim Sen – Vocals

FRAGARAK – Facebook

Luna – Ashes to Ashes

Sicuramente valido dal punto di vista musicale, “Ashes to Ashes” lascia qualche perplessità per la sua adesione pressochè totale ai canoni stilistici già esibiti da Ea e Monolithe

Parlare di questo disco presenta diversi trabocchetti, non ultimo quello di rischiare di contraddirsi più volte nel corso della stessa recensione.

Il problema è che questo Ashes to Ashes, album d’esordio della one-man band ucraina Luna, in pratica fonde senza mezzi termini gli ultimi lavori di Ea e Monolithe, attingendo a piene mani dalla formula che ha reso peculiari queste due grandi realtà del funeral-death doom, a partire dalla presenza nella tracklist di una sola, lunghissima, traccia. Le affinità non finiscono certamente qui, infatti lo stile compositivo esibito da DeMort, il musicista che sta dietro quest’operazione, non si discosta di un millimetro da quello espresso dalle due band citate, grazie alla sovrabbondanza di atmosfere evocative guidate per lo più da un solenne lavoro di tastiera, sovente dal tocco orchestrale, oppure da un uso minimale del pianoforte che va a tracciare linee melodiche semplici ma coinvolgenti, appoggiate su uno schema basato su un’alternanza quasi matematica tra riff e interventi delle batteria. Insomma, messa così ce ne sarebbe abbastanza per scagliare indignati le cuffie urlando al plagio (o giù di lì), se non fosse che Ashes to Ashes, nonostante la lunghezza e un’innegabile ripetitività di fondo, si rivela un ascolto assolutamente gradevole, in particolare per chi ama sia i misteriosi figuri privi di un nome ed un volto, sia i più riconoscibili ma altrettanto schivi transalpini. L’unica differenza, non da poco ai fini delle sua resa finale, è la matrice strumentale dell’album, il che ne rende inevitabilmente più faticoso l’ascolto, oltre a farlo sembrare, di fatto, un sorta di disco ambient sul quale siano stati innestati abilmente pesanti riff di chitarra e le percussioni. Per il resto nulla da dire sull’abilità di DeMort nel costruire quasi un’ora di musica credibile, riuscendo nel contempo a tenersi sufficientemente alla larga da quella stucchevolezza che, in simili circostanze, rischia di prendere in ogni attimo il sopravvento; positivo anche il fatto che, tutto sommato, Ashes To Ashes prenda quota nel suo quarto d’ora finale, quando però gli Ea diventano decisamente qualcosa in più di una semplice influenza. Insomma, prendendo questo lavoro così com’è, fingendo d’aver perso temporaneamente la memoria, potremmo godercelo senza alcuna remora; purtroppo non è così e, pur non essendo un maniaco dell’originalità a tutti i costi, non posso fare a meno di proporre un paragone alpinistico: c’è colui che apre una nuova via e c’è invece quello che, successivamente, la utilizza faticando indubbiamente molto meno; poi si potrà dire che entrambi sono arrivati comunque in vetta, ma nessuno dovrà mai dimenticare che ciò è avvenuto con tempi e modalità ben differenti.

Tracklist:
1. Ashes to Ashes

Line-up:
DeMort – Everything

Decembre Noir – A Discouraged Believer

Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati.

Il disco d’esordio dei Decembre Noir ci consegna una band death-doom decisamente di buon livello da un paese come la Germania invero non particolarmente prolifico rispetto al genere in questione.

Il gruppo proveniente da Erfurt cita diverse influenze che vanno a scomodare gran parte dei nomi di punta del settore, tra i quali ne mancano curiosamente due che verrebbero istintivamente in mente nell’ascoltare il disco: Daylight Dies e Novembers Doom, in quest’ultimo caso soprattutto per il growl di Lars piuttosto vicino quello di Paul Kuhr In effetti il death-doom dei Decembre Noir possiede una matrice più statunitense che non europea, in virtù della rinuncia sostanziale alle melodie tastieristiche per lasciare spazio ad un impatto più ruvido dove a fare la differenza sono fondamentalmente le armonie create dalla chitarra. Emblematica in tal senso la traccia autointitolata, forse quello più immediata nonché riuscita della tracklist, con i ragazzi tedeschi a mantenere per il resto del lavoro, ad eccezione del finale evocativo e struggente di Stowaway, una certa uniformità stilistica dall’inizio alla fine, laddove l’unica variabile è la velocità impressa ai diversi brani, . Tutt’altro che un male, questo, considerando che il livello medio è decisamente elevato e ciò rimuove qualsiasi dubbio sulla bontà di un lavoro come A Discourage Believer. Forse i Decembre Noir non sono ancora riusciti a imprimere con forza un proprio marchio alla musica prodotta, ma qui il talento certo non manca e il death-doom da loro proposto ha già ora tutto ciò che serve per soddisfare gli appassionati. Una band che può crescere ulteriormente e non poco.

Tracklist:
1. A Discouraged Believer
2. Thorns
3. The Forsaken Earth
4. Decembre Noir
5. Stowaway
6. Resurrection
7. Escape to the Sun

Line-up:
Mike – Bass
Kevin – Drums
Martin – Guitars
Lars – Vocals
Sebastian – Guitars

DECEMBRE NOIR – Facebook

Morbo – Addiction To Musickal Dissection

Death metal puro ed incontaminato per l’esordio dei Morbo.

E’ incredibile come nella musica non si debba mai dare nulla per scontato.

Dopo anni in cui il death metal è stato usato come base di partenza per arrivare ad altre sonorità, contaminandolo con qualsivoglia diavoleria, ora come dal nulla spuntano, ovunque, band che tornano a suonarlo puro, incontaminato, ovvero quello che oggi viene riconosciuto come l’old school death; un po’ come il thrash, due generi che il destino ha voluto fossero i più utilizzati dalle nuove band per trovare una propria strada nel groviglio di vie che compongono la Highway to Hell della musica estrema di oggi. Quando ormai tutti davano per morti i due generi a livello classico ecco che da ogni parte le radici del male tornano a spuntare dal terreno ed i germogli di questa malefica pianta ricominciano a distribuire nell’aria il putrido lezzo del frutto metallico. I Morbo sono una band di Roma, al debutto per Memento Mori, etichetta che ha dato non poche chance ai gruppi che si cimentano nel death classico, hanno all’attivo un demo del 2010 dal titolo “Eternal City of the Dead” e ci danno in pasto questo massacro senza compromessi, vicino al sound di Autopsy e Benediction. Produzione senza orpelli, molto asciutta e otto brani per mezz’ora di devastante viaggio nel più puro modo di concepire il genere. Growl da manuale, solos sparati e rallentamenti al limite del doom fanno di questo lavoro un must per gli amanti del genere, che troveranno tra i solchi di Abominangel, Pagan Seducer, Dawn of the Dying Living e Anesthesia Awareness attitudine da vendere, legata ad un buon songwriting, il che rende il debutto della band romana l’ennesimo pugno in faccia assestato dal genere a chi pensa che il death metal classico sia ormai di questi tempi obsoleto. Se ne ricomincia a parlare frequentemente nell’underground di band come i Morbo e di album come Addiction to Musickal Dissection, ora aspettiamo la benedizione dei luminari del mainstream metallico per la totale conferma che il death metal è tornato ad essere cool, così forse riusciremo a non pronunciare più quel fastidioso “old school”.

Tracklist:
1. Abominangel (Let Them Stink of Fear)
2. Decomposmopolitan
3. Pagan Seducer
4. Dawn of the Dying Living
5. Kaleidoscopic Incubus
6. Rending the Ephemeral Veil
7. As Sharp as the Blade of Blasphemy
8. Anesthesia Awareness

Line-up: Giorgio – Guitars, Bass
David – Drums
Andrea “Corpse” Cipolla – Guitars
Mirko “Offender” Scarpa – Vocals

MORBO – Facebook

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Clouds – Doliu

Il dolore della perdita, la malinconia che si fa strada tra le pieghe del ricordo, la consapevolezza della caducità dell’esistenza ed il conseguente sgomento che ci travolge, sono gli ingredienti dei quali si nutre ogni singola nota di un disco sicuramente non facile, ma che non delude in alcun modo le aspettative derivanti da una line-up d’eccezione.

“The music is dedicated to departed ones, loved ones who now, are no longer amongst us.”

Parlare di supergruppo in generi musicali che si trovano agli antipodi della commercialità mi è sempre parso fuori luogo, anche perché, di solito, l’unione di musicisti di spicco provenienti da band diverse non sempre produce una somma pari al valore dei singoli e addirittura, molto spesso, il tutto si riduce ad una sterile ed autoreferenziale esibizione delle proprie capacità individuali.
Ma, se proprio dovessimo usare questo termine in ambito funeral-death doom, difficilmente potrebbe esserci un caso più appropriato di questo nel quale, per l’occasione, vengono riuniti sotto il monicker Clouds alcuni dei nomi più in vista della scena attuale e passata.
Daniel Neagoe, il terrificante cantore della trasposizione musicale dell’opera dantesca nel capolavoro degli Eye of Solitude, ha chiamato a raccolta il suo compagno nei Deos, Déhà (anche Slow ed Imber Luminis), il magnifico vocalist dei faeroeriani Hamferð, Jón Aldará, Kostas Panagiotou di Pantheon ed Aphonic Threnody, oltre a due nomi storici della scena quali Pim Blankenstein degli Officium Triste e Jarno Salomaa dei seminali Shape of Despair.
Con l’intento di dedicare l’album a tutte le persone a noi care, scomparse lasciandoci di loro solo uno struggente ricordo, Daniel si è occupato in toto della composizione di questo altro gioiello musicale che, pur richiamando parzialmente ed inevitabilmente quando fatto magnificamente con gli Eye of Solitude, spinge maggiormente verso un approccio intimista spesso ai confini dell’ambient, laddove è il pianoforte lo strumento incaricato di veicolare le emozioni che Doliu dona a profusione.
Il dolore della perdita, la malinconia che si fa strada tra le pieghe del ricordo, la consapevolezza della caducità dell’esistenza ed il conseguente sgomento che ci travolge, sono gli ingredienti dei quali si nutre ogni singola nota di un disco sicuramente non facile, ma che non delude in alcun modo le aspettative derivanti da una line-up d’eccezione.
Un ennesimo capolavoro che vede coinvolto questo magnifico musicista rumeno, capace di mettere sul piatto un’altra ora di musica che sgorga direttamente dal cuore, splendida in ogni frangente e con un brano fuori categoria per la sua sconvolgente bellezza come The Deep Vast Emptiness, dove le tastiere tratteggiano atmosfere di una drammaticità quasi insostenibile a livello emotivo prima che il caratteristico tocco di Jarno e il superbo growl di Daniel ci facciano sprofondare nei gorghi di una malinconia struggente, in un crescendo emozionale che sembra poter durare all’infinito.
Il resto dei brani si attesta come detto su atmosfere più soffuse ma ugualmente capaci di sorprendere, come in A Glimpse of Sorrow dove, dopo alcuni minuti di ambient strumentale affine al Brian Eno più ispirato, irrompe sulla scena il growl di Pim a squarciare l’atmosfera mestamente rilassata che era venuta a crearsi.
Difficile francamente attendersi di meglio e chi, come me, ritiene “Canto III” il disco funeral-death doom definitivo, solo evitando di fare l’inevitabile confronto può godere pienamente di questa nuova esibizione di talento e sensibilità compositiva di quello che, in questo momento, è in assoluto uno dei migliori musicisti nel genere specifico (e forse non solo …).

P.S. Parte dei proventi ottenuti con la vendita del disco (Clouds Bandcamp) verranno utilizzati per le cure alle quali deve essere sottoposta Annika, una ragazza affetta da una gravissima malattia. Semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, ecco un altro buon motivo per acquistare Doliu

Tracklist:
1. You Went so Silent
2. If These Walls Could Speak
3. Heaven Was Blind to My Grief
4. A Glimpse of Sorrow
5. The Deep Vast Emptiness
6. Even If I Fall

Line-up:
Jarno Salomaa – Guitars
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals (track 2)
Pim Blankenstein – Vocals (track 4)

CLOUDS – Facebook

Infest – Cold Blood War

Quinto full length del combo serbo degli Infest, devastante monolite death/thrash dai rimandi slayerani.

Jagodina, Serbia centrale, sulle rive del fiume Belica: il death/thrash si chiama Infest, combo dalla ormai nutrita discografia che conta dall’anno di esordio (2002) due demo, un Ep e quattro full-length.

Il loro ultimo, malefico parto si intitola Cold Blood War, un carro armato che schiaccia sotto i suoi micidiali cingoli i nostri poveri padiglioni auricolari a forza di mitragliante death thrash, diviso in parti uguali tra la tradizione dell’Est europeo e il metal estremo di scuola Slayer. Ne escono trenta minuti di belligeranza musicale dove i nostri sguazzano come soldati in un campo di battaglia, tra violentissime accelerazioni collocate in un songwriting già di per sé votato alla velocità e alla pura violenza sonora; death metal che non lascia spazio a nessuna traccia di melodia, per attaccarci con sfuriate metalliche precise mirate a uccidere senza nessuna pietà. Questo devastante platter, oltretutto, è suonato in maniera impeccabile dai quattro musicisti, ormai con la dovuta esperienza per far risultare il loro suono estremamente godibile nella sua furia iconoclasta, partendo dalle vocals di Zoran Sokolovic, neo Tom Araya perfetto con il suo vocione rabbioso, dalle graffianti rasoiate dell’axeman Tyrant e finendo con una sezione ritmica composta dal martellante drumming della piovra Zombie e dal basso di Warlust. In tutto questo monolitico e spaccaossa lotto di brani spiccano Destroyer of Their Throne, song successiva alla classica Intro dai tratti horror apocalittici, Among the Fallen Ones, la superba e unica traccia dove la velocità lascia spazio ad un accenno di ritmica leggermente più cadenzata ed intitolata Demonic Wrath, la title-track dal riff più modernista che si trasforma in un macigno thrash/death che tutto travolge e il razzo terra-aria Terror Lord, esaltante brano dal riff esplosivo che sarà colpevole di spaccare non poche teste in sede live. Album da avere se siete amanti di queste sonorità, uno dei più riusciti degli ultimi mesi, senza se e senza ma.

Tracklist:
1. Intro
2. Destroyer of Their Throne
3. Of Everlasting Hate
4. Kill Their Weakness
5. Among the Fallen Ones
6. Demonic Wrath
7. Nuclear Warlust
8. Cold Blood War
9. Terror Lord
10. Neka Vatre Gore (bonus)

Line-up:
Tyrant – Guitars (lead)
Vandal – Vocals, Guitars
Zombie – Drums
Warlust – Bass

INFEST – Facebook

Hour Of Penance – Regicide

Capolavoro brutal death confezionato dalla band romana Hour Of Penance.

Devastante sotto ogni punto di vista, il nuovo album dei romani Hour Of Penance è a tutti gli effetti un prodotto di livello internazionale e si iscrive di diritto alla sfida per il miglior album del genere in questo 2014.

Un’avventura, quella del combo della capitale, iniziata nel 2000 ed arrivata al sesto full-length che segue “Sedition”, pubblicato due anni fa.
E’ cambiata la sezione ritmica, con gli innesti di Marco Mastrobuono al basso e della macchina da guerra James Payne, dietro le pelli nell’ultimo album degli Hiss From The Moat ed autore di una prova eccezionale.
Si ha la sensazione di trovarci ad un livello talmente alto che, per descriverne il sound a chi ancora non li conoscesse, non si deve parlare di influenze ma, al limite, di somiglianze, proprio perché gli Hour Of Penance hanno dalla loro una personalità da grande band che li aiuta ad avere un loro suono distinguibile; il loro brutal death, che definire tecnico è un eufemismo, a questo giro fa meraviglie risultando un macigno nichilista, di una profondità e magniloquenza disarmante.
Copertina da ultimi fotogrammi dell’apocalisse, con un ultimo processo inferto dai suoi tirapiedi al figlio dell’altissimo e una bordata sonora che annichilisce, una discesa senza freni tra drumming disumano, assoli e riff spettacolari e suonati alla velocità della luce, accenni di canti gregoriani che arricchiscono l’atmosfera di devastazione con un quid sinistro di epico disfacimento (Desecrated Souls, Sealed Into Ecstasy).
Non c’è speranza né il benché minimo accenno di salvezza, l’atmosfera di caos è sovrana e il gruppo sguazza in questo sfacelo, lasciando che il growl da Oscar di Paolo Pieri infligga il colpo mortale ai nostri poveri padiglioni auricolari.
Senza un attimo di respiro si fugge inseguiti dai quattro, che continuano il massacro senza soluzione di continuità, la sezione ritmica offre la sensazione di un palazzo che crolla, precisa e potente asseconda le due chitarre (lo stesso Paolo Pieri e Giulio Moschini) che come mitragliatori impazziti sparano riff sull’ascoltatore sterminando chiunque e non lasciando prigionieri.
Album che alla fine lascia la gradevole sensazione di aver potuto godere della prova di una delle migliori band brutal in circolazione, inutile dire che l’acquisto è assolutamente obbligato.

Tracklist:
1. Through the Triumphal Arch
2. Reforging the Crowns
3. Desecrated Souls
4. Resurgence of the Empire
5. Spears of Sacred Doom
6. Sealed into Ecstasy
7. Redeemer of Atrocity
8. Regicide
9. The Sun Worship
10. The Seas of Light
11. Theogony

Line-up:
Paolo Pieri – Vocals, Guitars
Marco Mastrobuono – Bass
James Payne – Drums
Giulio Moschini – Guitars

HOUR OF PENANCE – Facebook

Narbeleth – A Hatred Manifesto

Black metal a Cuba? Difficile immaginare qualcosa di più lontano dall’immaginario scandinavo, eppure i Narbeleth risultano credibili quanto una band di Bergen.

Black metal a Cuba? Difficile immaginare scenari sociali e naturalistici più lontani dall’immaginario scandinavo, eppure…

Nel paese caraibico in effetti esiste una scena metal composta da qualche decina di band dedite per lo più ai generi estremi; in tal senso quindi Dakkar, titolare del progetto solista Narbeleth, non è una mosca bianca ma rappresenta in ogni caso un’anomalia. È tanto più apprezzabile, quindi, questo suo riuscito tentativo di fare proprio un genere musicale che per una lunga serie di buoni motivi non dovrebbe far parte del dna di alcun abitante dell’isola. Per assurdo proprio questo, alla fine, consente ai Narbeleth di non omologarsi eccessivamente ai consueti dettami stilistici nel cimentarsi in un genere nel quale il più è già stato detto, esibendo invece quella purezza d’intenti che chi opera in nazioni metallicamente più evolute per forza di cose tende a smarrire. Dakkar propone un black che reca l’impronta di una band storica come gli Immortal, con qualche rimando anche al progetto solista di Abbath, I, e dei meno noti ma ugualmente validi Urgehal (omaggiati con la cover di Nyx) del compianto Trondr Nefas, ma la differenza la fa l’intensità con la quale il musicista cubano spara questa mezz’ora di black di levatura sorprendente per la sua capacità di riproporre con assoluta freschezza sonorità che ormai conosciamo a memoria . Al di là delle ottime Breathing a Wind of Hatred e Nihilistic Propaganda, il lavoro dei Narbeleth non mostra mai la corda, nonostante l’inevitabile sospetto con il quale si finisce per guardare un prodotto di questo tipo quando proviene da aree geografiche diverse da quelle tradizionali, figuriamoci poi quando ci arriva da luoghi che evocano immagini decisamente meno disturbanti rispetto a quelle riconducibili all’iconografia del black metal. Un progetto senz’altro valido quello di Dakkar, e a questo punto potrebbe anche valere la pena di riscoprire il suo precedente full-length, “Diabolus Incarnatus”, risalente al 2012.

Tracklist:
1. Total Isolation
2. Breathing a Wind of Hatred
3. Fuck Off!
4. Rotten to the Core
5. Land of the Heathen
6. Posercorpse
7. Nihilistic Propaganda
8. Nyx (Urgehal cover)

Line-up:
Dakkar – All instruments, Vocals

NARBELETH – Facebook

Imber Luminis – Imber Aeternus

Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si intristiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.

Ci sono al mondo persone particolarmente in gamba, capaci di ottimizzare al massimo il proprio tempo per dedicarsi a molteplici attività, e il fatto che ci riescano pure con buoni risultati crea un senso di leggera frustrazione a chi fatica nell’organizzarsi in maniera decente una normalissima esistenza.

Il caso in esame è quello del musicista belga Déhà, che i lettori dotati di migliore memoria ricorderanno d’aver trovato anche nelle recensioni dei Deos, degli Slow e dei C.O.A.G..
Il fatto sorprendente non è solo che tutti questi lavori fossero accomunati da una qualità non comune ma risiede soprattutto nella varietà dei generi trattati, aspetto che depone a favore della versatilità compositiva di Déhà: infatti, se nei Deos, in compagnia di Daniel Neagoe, il genere prescelto era un death-doom di ottima fattura, con il monicker Slow spostava le coordinate sonore verso un funeral altrettanto convincente mente come C.O.A.G., in maniera invero sorprendente, si cimentava con le velocità esasperate del grindcore.
Imber Luminis ci mostra un ulteriore volto del musicista di Mons e, anche se è sempre il doom la base di partenza, in effetti questo è, tra tutti i lavori citati, quello che mostra le maggiori sfaccettature stilistiche.
Due brani lunghissimi, ciascuno ben oltre i venticinque minuti, conducono l’ascoltatore in un viaggio che prende l’avvio con le note dai tono quasi sognanti, ai confini dello shoegaze, di Imber, per poi spostarsi progressivamente, sia nel corso dello stesso brano sia in particolare con la successiva traccia Aeternus, verso una sofferenza priva di filtri, urlata nel vero senso del termine, facendo impallidire in tal senso anche i più estremi esponenti del depressive.
Un’interpretazione vocale sentita, volutamente eccessiva fino a lambire i confini del kitsch, porta l’album a livelli di disperazione quasi parossistici, il tutto assecondato da un impianto sonoro che mette costantemente in primo piano l’impatto emotivo, per un risultato finale francamente stupefacente.
Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si incupiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.
Un altro lavoro splendido per l’indaffarato musicista belga e, peraltro, questa degli Imber Luminis non è detto che sia l’ultima delle sue molteplici incarnazioni; quantità e qualità, non sono invero in molti ad unirle con tale disinvoltura in campo artistico …

Tracklist:
1. Imber
2. Aeternus

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Thrash Bombz – Mission Of Blood

Thrash metal senza compromessi per l’esordio decisamente riuscito dei siciliani Thrash Bombz

Mi è capitato spesso di parlare di thrash metal e molte volte mi sono scontrato con chi confonde i gruppi che alla loro musica aggiungono solo elementi riconducibili al genere (come nel death o ultimamente nel metalcore) e chi invece il thrash lo suona per davvero, puro ed incontaminato.

È il caso dei siciliani Thrash Bombz e del loro esordio sulla lunga distanza dal titolo Mission Of Blood, arrivato a noi tramite la label tedesca Iron Shield Records, quaranta minuti di thrash metal tout-court proveniente direttamente dagli anni ‘80.
La band di Agrigento ci spara in faccia dodici brani dove non c’è spazio per nulla che non sia metal suonato a velocità sostenuta, facendo propria la lezione delle band americane,che di questo genere sono le regine, primi Metallica, Exodus e compagnia di distruttori.
In quest’album i fan troveranno pane per i loro denti, grazie a vocals rabbiose come vuole la tradizione ad opera di Leonardo Botta, una sezione ritmica devastante composta da Vincenzo Lombardi dietro alle pelli e Angelo Bissanti (Bloodevil) al basso e due chitarre taglienti come rasoi suonate da Giuseppe Peri e Salvatore Li Causi.
Basterebbe lo strumentale The Curse per convincervi di essere al cospetto di una band che sa il fatto suo, semplicemente straordinaria nelle sue melodie chitarristiche ed esempio lampante di quanto il vecchio thrash , se suonato bene, non ha nulla da invidiare a generi considerati più”nobili” ma, fortunatamente il bello non finisce qui, e Thrash Bombz (la song), Necrosis, City Grave, Dead Body Hanged esplodono in tutta la loro potenza, regalando spunti di metal suonato con gli attributi, passione e buona tecnica, come si faceva una volta.
Sicuramente questo ottimo album non avvicinerà nessuno che non sia fan del genere, ma è sicuramente una buona alternativa ai soliti nomi e ancora una volta è una band italiana a portare fiera la bandiera del thrash metal classico in un periodo, Death Angel a parte, di vacche magre dove le band di maggior fama stentano con dischi scialbi e poco incisivi; ma a noi poco importa e ci godiamo Mission Of Blood.

Tracklist:
1. Mosh Tank
2. City Grave
3. Thrash Bombz
4. Human Obliteration
5. Mission of Blood
6. Command of Injury
7. Dead Body Hanged
8. Fear of the Light
9. Necrosis
10. A.H.B
11. The Curse
12. Toxic Waste

Line-up:
Giuseppe “UR” Peri – Bass, Guitars (rhythm), Vocals (backing)
Salvatore “Skizzo” Li Causi – Drums, Guitars (lead)
Leonardo “Thrash Maniac” Botta – Vocals
Angelo “Destruktor” Bissanti – Bass, Vocals (backing)
Vincenzo “Vihol” Lombardi – Drums

THRASH BOMBZ – Facebook

Necrodeath – The 7 Deadly Sins

“The 7 Deadly Sins” è l’essenza del metal estremo, è tutto quanto vorrebbe ascoltare chi apprezza sonorità potenti, dirette, asciutte e tecnicamente ineccepibili in costante bilico sul sottile confine tra black, death e thrash.

The 7 Deadly Sins è l’essenza del metal estremo, è tutto quanto vorrebbe ascoltare chi apprezza sonorità potenti, dirette, asciutte e tecnicamente ineccepibili in costante bilico sul sottile confine tra black, death e thrash.

Il fatto che questo risultato venga ottenuto dai Necrodeath, ovvero coloro che in Italia hanno fatto la storia del genere, in occasione del loro undicesimo full-length, non deve sorprendere né d’altra parte, deve costituire un motivo per sminuire il resto delle band che animano una scena in grande fermento.
Semplicemente, dopo gli esordi a fine anni ‘80 che li ha fatta assurgere allo status di band di culto, il terremotante ritorno a cavallo dello scorso secolo con una coppia di dischi eccellenti, la fase di lieve appannamento nella seconda metà dello scorso decennio coincisa qualche lavoro contraddistinto da scelte stilistiche non sempre condivisibili, e l’ottimo ritorno tre anni fa con l’ispirato “Idiosincrasy”, la band genovese torna ad impadronirsi del trono che le spetta di diritto, mettendo sul piatto una quarantina di minuti di furia iconoclasta veicolata da capacità tecniche sopra la media e presentando un rilevante elemento di novità, racchiuso non tanto nel versante stilistico quanto in quello lirico.
Per la prima volta, infatti, i Necrodeath utilizzano in maniera continua e convincente la lingua italiana per descrivere la loro personale visione dei sette vizi capitali, un esperimento che riesce alla perfezione anche perché abilmente mediato dalla costante alternanza con il più tradizionale idioma inglese.

Sloth (accidia, assieme al’avarizia il peggiore dei sette vizi, sempre ammesso che gli altro lo siano tutti realmente …), Envy e Wrath sono sfuriate che lasciano il segno e che in maniera sintetica ed ugualmente efficace ribadiscono le coordinate di un genere, mentre Greed chiude l’elencazione dei Seven Deadly Sins esulando parzialmente dal contesto con l’esibizione di una componente melodica che consente a Pier Gonella di liberare le sue indiscusse di chitarrista.

La reincisione di due classici, provenienti rispettivamente da “Fragment Of Insanity” (Thanatoid) e “Into The Macabre” (Graveyard of the Innocents), sono il gradito omaggio volto ad impreziosire un disco che conferma quanto una storia ormai quasi trentennale (anche se dei protagonisti originari è rimasto il slo Peso) sia ben lungi dall’essere vicina al suo epilogo.
Chi si è entusiasmato, peraltro con più di una buona ragione, per quelle band che in quest’ultimo periodo hanno riportato all’attenzione il thrash riproponendolo sia nella sua versione più pura sia contaminandolo con il black o con il death, provi ad ascoltare con attenzione quest’album che chiarisce in maniera inequivocabile quali siano le gerarchie all’interno del genere.

Tracklist:
1. Sloth
2. Lust
3. Envy
4. Pride
5. Wrath
6. Gluttony
7. Greed
8. Thanatoid
9. Graveyard of the Innocents

Line-up:

Peso – Drums
GL – Bass
Pier – Guitars
Flegias – Vocals

NECRODEATH – Facebook

Abysmal Grief – We Lead the Procession

“We Lead the Procession” nulla aggiunge e nulla toglie alla grandezza degli Abysmal Grief ma la possibilità di ascoltare brani inediti, recenti o più datati, costituisce una ragione più che valida per spingere gli appassionati a fare propria la raccolta.

Circa un anno dopo aver parlato del loro magnifico ultimo album “Feretri”, gli Abysmal Grief tornano sul mercato con questa interessante raccolta retrospettiva intitolata We Lead the Procession.

Uscito in diversi formati (vinile, cd e anche musicassetta, tanto per rimarcare quanto l’immaginario estetico e musicale della band genovese sia fortemente radicato negli anni settanta), il lavoro è molto di più di una semplice compilation in quanto racchiude sia tracce inedite sia versioni alternative di brani già pubblicati.
Come sempre, qualsiasi prodotto marchiato Abysmal Grief non tradisce, visto che nessuno oggi, nemmeno nomi ben più celebrati e portati in palmo di mano dalla stampa specializzata, è in grado di proporre con uguale maestria un dark doom orrorifico di tale levatura.
La musica dei nostri evoca gli effluvi penetranti dei piccoli cimiteri, l’odore di muffa di antiche foto in bianco e nero estratte da uno scatolone rimasto dimenticato per decenni sullo scaffale di una cantina, rivelandosi l’ideale colonna sonora di quei film e sceneggiati televisivi capaci di provocare pathos e autentico terrore senza neppure dover ricorrere a costosissimi effetti speciali.
We Lead the Procession, ovviamente, nulla aggiunge e nulla toglie allo status degli Abysmal Grief, ma la possibilità di ascoltare ottimi brani come le più recenti riedizioni di Open Sepulchre e Mors Eleison, e documenti che paiono davvero registrati e riprodotti con un mangianastri di settantiana memoria (Bara), costituisce una ragione più che valida per spingere gli appassionati a fare propria la raccolta.

Approfitto della tempestiva pubblicazione di questo articolo per segnalare a chi risiede a Genova e dintorni che gli Abysmal Grief, per una volta, giocheranno in casa esibendosi sabato 24 maggio presso L’Angelo Azzurro (Via Borzoli 39): un’occasione da non perdere assolutamente …

Tracklist:
1. Open Sepulchre
2. Fear of Profanation
3. Raise the Dead
4. Exsequia Occulta
5. Procession
6. Bara
7. Profanation
8. Mors Eleison

Line-up:
Lord Alastair – Bass
Regen Graves – Guitars, Drums
Fog – Drums
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Hangarvain – Best Ride Horse

Esordio bomba per i napoletani Hangarvain con il loro Best Ride Horse, hard rock zeppo di influenze southern e post grunge.

Comincio ad avere un’età, e botte di vita come questo disco lasciano il segno su un vecchio sognatore metal/rocker come me che, per non farsi mancare nulla, deve anche spiegare le sensazioni provate nell’ascoltare una decina di canzoni che ti entrano nelle vene e cominciano a circolare nell’organismo: la pressione si alza, le tempie sembrano esplodere ed è quasi impossibile rimanere seduti e insomma, tutto questo quando non si è più dei ragazzini può anche far male …

La Red Cat immette sul mercato questa bomba sonora dei napoletani Hangarvain, dal titolo Best Ride Horse, dieci brani nei quali  l’hard rock americano ricamato di fantastiche sfumature southern ed il post grunge si incontrano e, amoreggiando, danno alla luce una creatura perfetta, una raccolta di hit da infilare nell’autoradio del vostro “cinquefette” (beh siamo in Italia, non scordiamolo) e partire liberi, dalla Valtellina alla Sicilia, trasformando le vie della nostra penisola nelle infinite super strade americane. Sergio Toledo Mosca è il fantastico cantore di tanta meraviglia, voce dal tiro micidiale che diventa malinconicamente southern nelle splendide ballad che profumano di Lynyrd Skynyrd, strappando più di una lacrima al vecchio di cui sopra. Alessandro Liccardo, alla sei corde, è invece colpevole di far saltare le coronarie a suon di riff su riff stracolmi di groove, per poi tornare ad imbastire accordi acustici al limite del roots; Alessandro Stellano al basso e Andrea Stipa alle pelli sono la gettata di cemento su cui è costruito il sound degli Hangarvain, una sezione ritmica tostissima, piena, sempre presente e aiutata da una produzione da top band ad opera dello sesso chitarrista. Dai primi due pezzi (Through the space and time e Get on) si intuisce subito che l’album non farà prigionieri, con due bordate hard rock trasudanti groove, con quel quid post grunge (su tutti i Creed) che piacerà anche ai più giovani, ma a mio parere sono le ballad a fare la differenza e la prima di queste è già un capolavoro (Turning back on my way). Free bird e Knock back doors tornano su ritmi sostenuti ma più vicini alla frontiera americana, mentre Way to salvation è l’ennesima buona ballad; Hesitation sorprende per l’uso della doppia voce, una creediana e l’altra che sembra provenire direttamente dai primi anni settanta, prima che Father to shoes ci avvolga nel più confortevole spirito southern: un brano capolavoro con inizio acustico e la chitarra che prende per mano il pezzo con riff da applausi a scena aperta. Last time e la conclusiva A life for Rock’n’roll mettono la parola fine a un disco di assoluta eccellenza, da far ascoltare e riascoltare a chi ci chiede perché amiamo tanto il rock: Best Ride Horse è la migliore risposta.

Tracklist:
1.Through the space and time
2.Get on
3.Turning back on my way
4.Free bird 5.Knock back doors
6.Way to salvation
7.Hesitation
8.Father shoes
9.Last time
10.A life for rock’n’roll

Line-up:
Sergio Toledo Mosca – Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars,Backing Vocals
Alessandro Stellano – Bass, Backing Vocals
Andrea Stipa – Drums

Sercati – The Rise Of The Nightstalker (Tales Of The Fallen PT II)

Continua la saga del Nigthstalker, concept atmospheric black metal ideato dai belgi Sercati.

Secondo capitolo della saga del Nightstalker ad opera dei belgi Sercati, trio black metal molto atmosferico, che esordì con due demo nel 2009 ed arrivò al primo capitolo intitolato “Tales Of the Fallen” nel 2011.

La storia fantasy raccontata in questa saga parla di un angelo e della sua discesa sulla terra per salvare se stesso e l’umanità, aiutato e protetto da un’entità, appunto il Nightstalker.
Il trio di Liegi, musicalmente, è molto vicino al dark/gothic più che al black: l’album, infatti, risulta molto melodico e solo lo screaming, peraltro punto debole del lavoro, avvicina l’album al black metal.
Le orchestrazioni sono ben congegnate, l’uso del piano e degli strumenti acustici, che in questo lavoro trovano molto spazio,rendono l’ascolto molto vario.
Anche nelle parti dove la band velocizza il suono, l’aura e’ sempre atmosferica e non si va oltre ad una ritmica cadenzata; peccato, ripeto, per lo screaming da folletto (sullo stile del primo Mortiis) che rovina un po’ l’eleganza mostrata dal songwriting.
Accenni al dark (Hunt Between Fallen) e poi tanta melodia per un lavoro, che potrebbe risultare appetibile a molti fan dai gusti diversi, ma anche spunti vicini al folk metal ed uno spirito prog che aleggia su gran parte di un disco oggettivamente ben suonato dai ragazzi belgi, peraltro ancora molto giovani.
Meritano un accenno Until My Last Breath, strutturata su un riff classico, l’appendice acustica di In Equilibrium, accompagnata da delicate tastiere, bissata da My Legacy, anch’essa di chiara ispirazione primo Mortiis e la conclusiva The Hero We Don’t Deserve, brano che racchiude tutte le atmosfere di un lavoro da ascoltare in completo relax per farsi accompagnare, sulle ali dell’angelo, dentro i meandri della musica dei Sercati.

Tracklist:
1. Rememberance
2. Hound from Hell
3. Until My Last Breath
4. Hunt Between Fallen
5. In Equilibrium
6. My Legacy
7. Face to Face
8. No More Fear
9. The Hero We Don’t Deserve

Line-up:
Steve “Serpent” Fabry – Bass, Vocals
Yannick Martin – Drums
Florian Hardy – Guitars

SERCATI – Facebook

The Sunburst – Tear Off The Darkness

Gran bel disco l’esordio dei savonesi The Sunburst, il meglio dell’ultimo ventennio di hard rock alternativo tutto in un unico album.

Questo è il classico album che, se registrato da una band americana, farebbe sfracelli occupando anche le copertine della stampa specializzata, quella con le copertine lucide e le recensioni da tre righe, ma, purtroppo per loro, i The Sunburst sono liguri (Savona) e allora, pur avendo concepito un gran disco d’esordio, sono destinati a lottare e non mollare mai.

Il loro Tear Off The Darkness è un album di hard rock alternativo nel quale le influenze del passato si sentono chiaramente pur risultando un disco moderno, fresco, suonato benissimo, cantato ancora meglio, che non ha (appunto) nulla da invidiare ai pur ottimi prodotti che giungono dagli States. Curiosi? Bene, allora fare un passo indietro è doveroso per conoscerli meglio: la band nasce nel 2012 da un idea della coppia Davide Crisafulli (cantante e chitarra ritmica) e Luca Pileri (chitarra solista), ai qiuali si aggiunge la sezione ritmica composta da Stefano Ravera alla batteria e, in questo 2014, Francesco Glielmi al basso. In quello stesso anno, con la prima line-up, registrano un Ep ai Nadir Studios di Tommy Talamanca ottenendo recensioni positive, facendo diverse date dal vivo e, dopo uno stop di qualche mese, i The Sunburst riprendono la strada che porta a Tear Off The Darkness. L’inizio dell’album è da ovazione, con Follow Me che riempie la stanza con un riff corposo ed un ritornello cantabile già al primo ascolto, talmente è bello e memorizzabile; scopriamo così che alla band piace andare giù pesante, grazie ad assoli melodici e accelerazioni ritmiche non così distanti dal metal, con Davide che si conferma un signor cantante: la sua voce bella e carismatica affascina e rapisce, e siamo solo alla prima traccia. Infatti arrivano Something Real e la stupenda The Flow, dal riffone alla Black Label Society a farci ormai innamorare di questo bellissimo lavoro; si continua a viaggiare su territori di eccellenza con Be Yourself, con le chitarre ora all’unisono, ora con parti soliste melodiche ad ergersi a protagoniste del brano, altro potenziale singolo, così come Left Behind. Gli Alter Bridge sono forse il riferimento che ad un primo ascolto più di altri escono maggiormente allo scoperto, soprattutto a mio parere l’uso della voce di Davide, dallo stile più metallico come accade nella band americana, ma è un po’ tutta la scena degli ultimi vent’anni ad essere assimilata dai nostri. Louder Than Love, il disco più bello dei Soundgarden, è tutto nel riff di Rising, conclusiva e stupenda song che inizia come e meglio di Hands All Over, picco di quel magnifico lavoro, per poi virare su umori più personali con un rallentamento a metà brano ed una sfuriata conclusiva con la quale tutta la band si congeda alla grande. Prodotto benissimo, l’album è stato registrato ai Greenfog Studios di Mattia Cominotto a Genova per poi essere masterizzato e mixato ad Imperia negli Ithil World Studios da Giovanni Nebbia. Mai avuto dubbi sulle qualità delle nostre band quando si tratta di rock alternativo ma un lavoro come questo, assieme a quello degli Swallow My Pride recensito ultimamente, dimostrano ancora una volta che in Italia ci sono tutte le potenzialità per giocarsela alla pari con il resto del panorama musicale internazionale, basta volerlo e supportare una scena che lo merita.

Tracklist:
1.Follow me
2.Something real
3.The flow
4.Be yourself
5.Left behind
6.Unforgiven
7.Another day
8.Rising

Line-up:
Davide Crisafulli – Voce,Chitarra ritmica
Luca Pileri – Chitarra solista
Stefano Ravera – Batteria
Francesco Glielmi – Basso

THE SUNBURST – Facebook

Doomed – Our Ruin Silhouettes

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Il progetto solista di Pierre Laube arriva al terzo album in due anni e conferma la parabola ascendente che caratterizza l’operato del musicista tedesco fin dall’inizio di questa sua avventura.

Attestatosi ormai stabilmente bel prestigioso roster della Solitude, Pierre non tradisce le coordinate di base che hanno caratterizzato il suo death-doom sia nell’esordio “The Ancient Path” sia nel successivo “My Own Abyss” ma, in quest’occasione, il sound si concede in diverse occasioni aperture melodiche capaci di attenuare l’effetto claustrofobico che fino a ieri ne era contemporaneamente trademark e parziale limite.
La chitarra infatti si lascia andare a passaggi capaci di segnare i singoli brani, proprio ciò che veniva meno nei lavori precedenti dove invece veniva privilegiato un impatto di matrice death, senza dubbio efficace ma alla lunga privo del necessario cambio di marcia.
Non che i Doomed siano diventati di punto in bianco dei discepoli dei Saturnus, intendiamoci, il doom della one-man band teutonica è sempre piuttosto corrosivo e scevro di soluzioni di facile presa, ma la rabbiosa aggressività del recente passato lascia maggiormente spazio a una chitarra che trasmette più amarezza che malinconia, in ogni caso.
La scelta di aprire il disco ospitando alla voce uno dei cantanti simbolo del death-doom melodico europeo, ovvero Pim Blankenstein degli Officium Triste, denota anche a livello di intenti un maggiore ammorbidimento del sound, aspetto che a mio avviso permette ai Doomed di compiere un decisivo salto di qualità.
When Hope Disappears è infatti forse il brano migliore scritto da Pierre in questo biennio, non solo grazie al contributo vocale dell’ospite (del resto il musicista tedesco dispone egli stesso di un growl ben più che adeguato) ma, soprattutto, per la presenza di una chitarra capace di disegnare melodie sufficientemente dolenti; lo stesso accade anche in fondo anche in The Last Meal, dove in questo caso l’ospite è il meno noto Andreas Kaufmann, e nella conclusiva What Remains, per un trittico di brani che mostra il lato più melodico dei Doomed.
Il resto di Our Ruin Silhouettes si assesta sui livelli e sulle coordinate dei precedenti lavori, ma è indubbia la percezione di un lavoro di scrittura più definito e in qualche modo più aperto e non è da escludere che, essendo divenuti i Doomed, almeno dal vivo, una band a tutti gli effetti, Pierre ne abbia risentito positivamente anche in fase di composizione.
Ancora una volta, quindi, non si può che accogliere con soddisfazione una nuova uscita del musicista tedesco che, senza fare troppi proclami, prosegue con teutonica regolarità la sua marcia d’avvicinamento ai vertici del death-doom.

Tracklist:
1. When Hope Disappears
2. In My Own Abyss
3. A Reccurent Dream
4. The Last Meal
5. My Hand in Yours
6. Revolt
7. What Remains

Line-up:
Pierre Laube – All Instruments, Vocals

DOOMED – Facebook‎‎

Holy Shire – Midgard

Interessante debutto per i lombardi Holy Shire,che si allontanano dai soliti clichè symphonic per un album folk/epic metal d’autore.

Interessante debutto sulla lunga distanza per i milanesi Holy Shire, freschi di firma con Bakerteam e autori di un album che di questi tempi riesce ad essere originale, allontanandosi dai soliti clichè power, gothic e symphonic cari a molte band della scena, mostrando un approccio più ottantiano, meno pomposo ma altrettanto riuscito.

Fondato nel 2009, con all’attivo un demo ed un Ep (“Pegasus” – 2011), il gruppo è composto da ben otto elementi; Midgard, che si rifà per la maggior parte, a livello di tematiche, alla saga “Il trono di spade”, opera Fantasy di George R.R Martin, è un’opera prima affascinante e molto raffinata. Di non semplice lettura, il lavoro come detto è spogliato da tutti quegli elementi che caratterizzano le classiche opere che tanto vanno di moda in questi tempi, qui l’heavy metal dalla forte epicità è levigato da una spiccata connotazione folk cantautorale e da tanto Rock; i suoni, mai troppo magniloquenti nelle orchestrazioni, rendono il disco sognante, maturo nel saper trasmettere le atmosfere senza forzare la mano, arrivando all’ascoltatore in modo genuino. Gli Holy Shire sanno anche essere incisivi, infatti chitarre metalliche e ritmiche più heavy sono protagoniste in brani potenti ed epici come l’opener Bewitched, The Revenge of The Shadow e Holy War, mentre il flauto e le tastiere ricamano melodie che si fanno a tratti incantevoli nelle magnifiche Winter Is Coming e Holy Shire. Buone le voci delle vocalist e di spessore le prove dei musicisti, in particolare quella di Ale che coinvolge con il suono del suo flauto, strumento protagonista indiscusso di tutto il lavoro e che, a tratti, riprende sonorità provenienti direttamente dagli anni ’70 (Jethro Tull). È indubbio che l’epic metal ottantiano faccia parte del background della band, così come penso siano ascolti abituali per il gruppo quelli di cantanti folk come Loreena McKennitt, elemento che contribuisce a fornire quel tocco di originalità rendendo quello che poteva essere un “semplice” album metal un lavoro d’autore. Complimenti alla band, quindi, così come alla Bakerteam per aver dato fiducia ad un gruppo dalle sonorità leggermente fuori dagli schemi abituali. Senza ombra di dubbio, buona la prima.

Tracklist:
1. Bewitched (My Words Are Power)
2. Winter Is Coming
3. Gift of Death
4. Overlord of Fire
5. Holy Shire
6. The Revenge of the Shadow
7. Beyond
8. Holy War
9. Midgard

Line-up:
theMaxx – Drums
Reverend Jack – Keyboards
Aeon – Vocals (lead)
Ale – Flute
Andrew Moon – Guitars (lead)
Ed Gibson – Guitars (rhythm)
Piero Chiefa – Bass
Sisiki – Vocals (choirs)

HOLI SHIRE – Facebook