Fuoco Fatuo – The Viper Slithers in the Ashes of What Remains

I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.

L’album d’esordio dei varesini Fuoco Fatuo si presenta all’insegna del death-doom più rigoroso e incontaminato, una scelta stilistica invero non troppo diffusa dalle nostre parti.

The Viper Slithers in the Ashes of What Remains infatti, riesce nell’impresa di amplificare nel contempo sia l’esasperante lentezza del doom sia la sorda violenza del death: il risultato è uno spaventoso monolite sonoro di oltre cinquanta minuti, capace di afferrare alla gola i malcapitati ascoltatori trascinandoli nei suoi gorghi e spingendoli sempre più in basso, fino a quegli abissi mai lambiti da un barlume di luce e popolati da creature mostruose, simili a quelle che popolavano i visionari racconti di Lovecratf.
Avevamo lasciato il trio lombardo alle prese con un ep, “33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero”, che ne aveva messo in luce le indubbie potenzialità, vedendoli spaziare da una base solidamente doom, ora verso sfumature sludge ora di matrice dark ambient, senza disdegnare l’uso di un hammond capace di imprimere al sound un indubbio fascino; poco più di un anno dopo la direzione musicale appare molto più chiara e, mai come in questo caso, la compattezza stilistica a scapito di una certa versatilità si rivela paradossalmente essere più un vantaggio che non un limite.
I Fuoco Fatuo con questo disco compiono un salto di qualità sorprendente, polverizzando qualsiasi tentazione melodica a favore di un impatto devastante, accentuato da riff di pachidermica pesantezza.
Le rare accelerazioni, dai rimandi black, non vanno ad intaccare un quadro d’insieme che, per esemplificare al massimo, potrebbe ricordare sia una versione a 16 giri degli opprimenti Morbid Angel di “Covenant” sia, soprattutto, un’ulteriore estremizzazione del già pesante death-doom dei maestri statunitensi Evoken; una nera colata di note che non lascia speranze di salvezza alle anime dannate, pervicacemente percosse da una tale ottundente violenza.
Ascoltate The Viper Slithers in the Ashes of What Remains come se fosse composto da un’unica traccia, ad un volume confacente ai biechi intenti dei Fuoco Fatuo, lasciandovi definitivamente seppellire da una lavoro dannatamente coinvolgente pur nella sua apparente linearità.

Tracklist:
1. Ancestral Devouring Anxiety
2. Junipers of Black Iridescence
3. Inner Isolation in a Sea of Mist
4. Eternal Transcendence into Nothingness
5. Requiem for Nulun

Line-up :
Giovanni “Ken” Piazza – Bass
Fabrizio Moalli – Drums
Milo Angeloni – Vocals, Guitars

FUOCO FATUO – Facebook

Shattered Hope – Waters Of Lethe

Quattro anni rispetto alla precedente uscita non sono passati invano portando al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.

Quando, nel 2010, i greci Shattered Hope pubblicarono il loro album d’esordio intitolato “Absence”, non tutta la critica fu concorde nel riconoscervi i prodromi di un’esplosione definitiva di quel potenziale, allora solo parzialmente dimostrato, convogliato in questo magnifico Waters Of Lethe.

In effetti, il lavoro d’esordio mostrava una band dal songwriting piuttosto lineare e, tutto sommato, orientato ad un death-doom pesante il giusto ma contenente pur sempre ampi squarci melodici, decisamente apprezzabile quindi, per quanto non ancora sufficiente a collocare il combo ateniese ai vertici del doom estremo.
Waters Of Lethe dimostra, invece, quella crescita che appariva ineluttabile quasi si trattasse di un disegno delle divinità dell’Olimpo: gli ottanta minuti di opprimente e plumbeo dolore tradotto in musica spostano in maniera netta le coordinate sonore sul versante funeral, senza che per questo motivo la componente melodica venga messa in secondo piano.
Visti dal vivo lo scorso anno in quel di Romagnano nella loro unica apparizione italiana di fronte a pochi e fortunati intimi, gli Shattered Hope erano chiaramente quelli che, tra le band presenti, esibivano il suono meno immediato, più profondo eppure ricco di fascino, capace di lasciare allo spettatore il piacere di trovare la giusta chiave di lettura per assaporarne pienamente l’amaro calice musicale .
Con queste premesse l’attesa per il nuovo album era sicuramente giustificata e fortunatamente non è stata tradita, a conferma del fatto che questi quattro anni sono stati un periodo senz’altro lungo ma necessario per portare al livello più alto la progressione stilistica e compositiva della band ellenica.
Waters Of Lethe prende l’avvio con Convulsion, brano caratterizzato da una struggente parte finale che mostra però, a tratti, un sound leggermente più aggressivo rispetto a quello che verrà proposto nel resto del lavoro; ma appare evidente che, dopo questa eccellente prova di forza di oltre dodici minuti, quello che ci attende è un viaggio agli inferi lento, terribile, opprimente e pregno di disperazione, ovvero tutto ciò che chi ama il funeral desidera ascoltare.
La successiva For the Night Has Fallen è, infatti, un classico brano nel quale le armonie chitarristiche si snodano in maniera ottimale su una struttura più tradizionalmente devota ai maestri My Dying Bride, mentre My Cure Is Your Disease va a rievocare le partiture bradicardiche degli Worship del brano capolavoro “All I Ever Knew Lie Dead” arricchendole di un relativo dinamismo e di un più spiccato gusto melodico, per un risultato finale splendido.
La bellezza di questo disco è riscontrabile anche nella sua costante progressione qualitativa che trova il suo apice in Obsessive Dilemma, traccia nella quale la chitarra dipinge desolanti affreschi sonori che vanno ad intrecciarsi con un growl cangiante ed espressivo.
Un lavoro già ampiamente al di sopra della media va a chiudersi con due tracce dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora che risultano nel contempo le più complesse del lotto, ma capaci di svelare sempre più il loro fascino dopo ogni ascolto: certo, i cinque minuti di funeral integralista collocati nella coda di Aletheia contribuiscono ad appesantire di molto l’ascolto, quasi a voler controbattere la relativa orecchiabilità della sua parte centrale, ma costituiscono pure un ideale viatico alle atmosfere sublimi poste ad introduzione della conclusiva Here’s To Death, lunghissima litania dai tratti delicati quanto funesti capace di uguagliare i miglior Esoteric e Mournful Congregation.
Come già ripetuto più volte in frangenti analoghi, il recente Canto III degli Eye Of Solitude, spostando ulteriormente in alto lo standard qualitativo del genere, si pone nel presente come ingombrante termine di paragone per chi voglia cimentarsi in questo medesimo terreno: ebbene, al riguardo si può dire che nessuno come gli Shattered Hope sia riuscito finora ad avvicinarsi alla magnificenza della band londinese, rispetto alla quale il sestetto greco risulta appena inferiore solo per l’impatto drammatico, essenzialmente a causa di una minore enfasi, conferita in quel caso dall’imponente lavoro delle tastiere che, invece, in Waters Of Lethe, svolgono un elegante quanto discreto lavoro di accompagnamento lasciando principalmente alle chitarre il compito di sviluppare armonie splendide quanto malinconiche.
Ma non c’è dubbio sul fatto che questo lavoro rappresenti un’ideale summa di quanto prodotto dal pantheon del funeral death-doom negli ultimi vent’anni, andando non solo a rimodellare con una rilettura del tutto personale quanto già fatto da chi ha scritto la storia del genere, ma riuscendo persino ad eguagliarne l’intensità e il pathos.

Tracklist:
1. Convulsion
2. For the Night Has Fallen
3. My Cure Is Your Disease
4. Obsessive Dilemma
5. Aletheia
6. Here’s to Death

Line-up :
Nick – Vocals
George – Drums, Percussion
Sakis – Guitars
Thanos – Guitars
Eugenia – Keyboards
Thanasis – Bass

SHATTERED HOPE – Facebook

Spellblast – Nineteen

Gli Spellblast confezionano un grande album di power metal dalle atmosfere western, amalgamando la nostra musica preferita con le colonne sonore di Ennio Morricone.

L’ho ascoltato e riascoltato quest’album perché ancora stento a credere che una band di tale portata non abbia un’etichetta alle spalle e che, quindi, un disco di tale levatura debba uscire autoprodotto.

Non ne conosco i motivi (anzi, diciamo che un’idea me la sono fatta) ma cominciano ad essere davvero troppe le band meritevoli prive dell’appoggio, a mio avviso fondamentale, di qualcuno che creda nelle loro potenzialità e che possa occuparsi di tutti gli aspetti organizzativi e promozionali lasciando ai componenti delle band il compito essenziale di suonare e comporre musica. Gli Spellblast provengono da Bergamo e sono attivi dal 1999 ma, dopo un demo nel 2004, l’esordio su lunga distanza avviene con “Horns Of Silence” solo nel 2007, mentre il secondo album “Battlecry” risale al 2010, impreziosito dalla partecipazione di Fabio Lione. In questa sua ultima bellissima uscita il combo lombardo abbandona il folk metal dei dischi precedenti per regalarci un power metal dalle originalissime atmosfere western, che aiutano la band a raccontare le vicende tratte dalla “The Dark Tower Saga”, monolite cartaceo ad opera di Stephen King. Ora, se siete incuriositi dalla parola western, chiarisco subito che Nineteen è un gran bel pezzo di metallo, duro, oscuro, dove le orchestrazioni e le atmosfere da cavalli e polvere sono magistralmente inserite nel contesto, rendendo la musica epicissima senza per una volta scomodare Tolkien, draghi e folletti. Daniele Scavoni, singer dalla voce possente, protagonista di una prova maiuscola per tutta la durata dell’album, ricorda a tratti il miglior Zachary Stevens, assecondato da un songwriting eccelso e da compagni di viaggio altrettanto bravi, che formano una banda degna di Butch Cassidy e Billy the Kid. Accontenterà un pò tutti i fan del power questo disco, sia chi preferisce un approccio più diretto, si gli amanti del sound orchestrale; le song non mancano di picchiare duro e lo fanno praticamente sempre, mentre laddove la frontiera prende il sopravvento, lo fa tenendo ben alta la tensione con atmosfere perennemente da duello allo scoccare del mezzogiorno. Non si può non chiamare in causa il Maestro Ennio Morricone e le sue straordinarie colonne sonore, ciliegina sulla torta dei film di Sergio Leone e della saga di Ringo con il compianto Giuliano Gemma, e gli Spellblast assorbono il meglio del compositore romano e lo usano al servizio del loro metal per un risultato entusiasmante. In materia di power metal siamo al cospetto di un grande album, il migliore di quiest’anno finora insieme all’ultimo Persuader: A World That Has Moved On, Into Demon’s Nest, Shattered Mind, We Ride, The Calling sono solo alcuni stupendi esempi del livello altissimo del lavoro di questa grande band nostrana.

Tracklist:
1. Banished
2. Eyes in the Void
3. Highway to Lud
4. A World That Has Moved On
5. The Reaping
6. Into Demon’s Nest
7. Blind Rage
8. Shattered Mind
9. Until the End
10. We Ride
11. Programmed to Serve
12. Endless Journey
13. The Calling

Line-up:
Daniele Scavoni – Voce
Luca Arzuffi – Chitarra
Aldo Turini – Chitarra
Xavier Rota – Basso
Michele Olmi – Batteria

SPELLBLAST – Facebook

Dead End Finland – Season Of Withering

I Dead End Finland fanno centro con il rolo melodic death grazie ad un grande vocalist ed ad un ottimo songwriting: un album tutto da ascoltare.

Nereo Rocco diceva: datemi un portiere che para e un centravanti che segna … la frase di questo grande mister, ben si adatta al disco in questione: infatti i Dead End Finland, per far piacere il loro album, hanno dalla loro delle belle canzoni ed un vocalist bravissimo, peculiarità che, in un genere inflazionato come il melodic death fanno decisamente la differenza.

I quattro ragazzi di Helsinki arrivano al secondo album dopo l’esordio, “Stain Of Disgrace” del 2011, ed il loro death melodico infarcito da abbondanti tastiere e con strizzate d’occhio a sonorità moderniste, non tralasciando puntate verso melodie vicine agli ultimi e connazionali Amorphis.
La punta di diamante del combo finnico è il vocalist Mikko Virtanen, perfetto nel growl e splendido nell’utilizzo delle clean vocals, il che, abbinato ad un ottimo songwriting, rende l’ascolto del disco una vera goduria per gli amanti di queste sonorità, una quarantina di minuti di metal trascinante che passeranno alla velocità della luce, in modo tale che non vi rimarrà che riascoltare il tutto dall’inizio.
Dai suoni moderni della title-track ai tastieroni in tipico Children of Bodom style, accompagnati da clean vocals degne di Tomi Joutsen, cantore del Kalevala in casa Amorphis, è tutto un susseguirsi di ben accolti clichè, bissati da Zero Hours, altro bellissimo esempio di metal scandinavo, dove il drumming impetuoso di Miska Rajasuo prende per mano il brano e ritorna prepotentemente protagonista anche nella durissima Silent Passage, nella quale spuntano richiami ai Dark Tranquillity.
Sinister Dream, Shape of the Mind e la conclusiva Dreamlike Silence alzano, e non di poco, il parere positivo su questo album: tre canzoni nelle quali in una quindicina di minuti viene convogliato il meglio del genere, con i Dead End Finland intenti a sparare le loro frecce avvelenate dai suoni di Amorphis, In Flames, Dark Tranquillity e primi Sentenced, mettendo la parola fine al lavoro tra i doverosi applausi, da estendere anche alla produzione da top album che rende il suono piacevolmente cristallino.
In conclusione mi permetto una considerazione: negli anni in cui il melodic death dettava legge sul mercato metallico trovarono la gloria band considerate allora fenomenali ma sicuramente di gran lunga inferiori agli attuali Dead End Finland.
Quindi fidatevi e date un ascolto a Season Of Withering.

Tracklist:
1. Season of Withering
2. Zero Hour
3. Hypocrite Declaim
4. Paranoia
5. An Unfair Order
6. Bag of Snakes
7. Silent Passage
8. Sinister Dream
9. Shape of the Mind
10. Dreamlike Silence

Line-up:
Miska Rajasuo – Drums
Santtu Rosen – Guitars, Bass
Jarno Hänninen – Keyboards
Mikko Virtanen – Vocals

DEAD END FINLAND – Facebook

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Asofy – Percezione

Un’altra ottima opportunità di ascolto per chi predilige tonalità oscure striate da fiochi bagliori di luce.

Nati all’inizi del secolo come progetto solista di Tryfar, i milanesi Asofy ritornano a pubblicare un album dopo quello d’esordio datato ormai 2001 , intervallato da un Ep nel 2007 ed un più recente split con gli Sleeping Village.
La novità rispetto ai lavori citati è che la parte vocale e lirica, rigorosamente in lingua italiana, è stata affidata in toto ad Empio, lasciando a Tryfar il compito di occuparsi esclusivamente del suo percorso musicale che va a lambire, di volta in volta, le sponde dei generi maggiormente ammantati di oscurità, quali black, doom, depressive, post-metal e dark ambient.
E, in effetti, il connubio tra l’impalcatura sonora voluta dal polistrumentista lombardo e le vocals del suo sodale appare vincente, poichè i tre quarti d’ora abbondanti di musica contenuti in Percezione sono tanto difficili da assimilare quanto appaganti nel momento in cui si riesce a penetrare attraverso la spessa corazza di incomunicabilità creata dall’efferata esposizione dei testi, grazie ai frequenti spiragli lasciati aperti dalla componente strumentale
Chiamatelo black avanguardista o come meglio vi aggrada, ma ciò che maggiormente interessa è constatare quanto il lavoro degli Asofy sia fondamentalmente un’opera che trasuda personalità e chiarezza d’intenti e nella quale Tryfar riesce nella non facile impresa di imprimere nelle menti degli ascoltatori quattro lunghi brani dalle diverse peculiarità ma accomunati da un mood oscuro, talvolta disperato, in altri momenti intriso di un profondo nichilismo, sempre in grado comunque di fare breccia nel cuore e nella mente di chi si lascia trasportare dalla musica senza porsi alcun limite precostituito.
Indubbiamente la scelta di Empio di ricorrere per lo più ad una voce urlata, che non è neppure definibile come un classico screaming di matrice black, può costituire un elemento di disturbo per chi è meno avvezzo a sonorità di stampo estremo ma, in realtà, rappresenta al pari della parte strumentale un tassello fondamentale per lo sviluppo dell’album proprio perché, con Percezione, gli Asofy non vogliono portarci a spasso per lande fiorite bensì scaraventarci senza misericordia negli abissi più reconditi dell’esistenza umana.
Un’altra ottima opportunità di ascolto per chi predilige tonalità oscure striate da fiochi bagliori di luce.

Tracklist:
1. Luminosità
2. Saturazione
3. Ombra
4. Oscurità

Line-up :
Tryfar – Instruments and Music
Empio – Vocals

Warknife – Amorphous

Gli Warknife con il loro nuovo lavoro hanno veramente fermato l’attimo, spingendosi non troppo lontano dalla perfezione

Ora stiamo veramente esagerando (in positivo): la nostra bistrattata penisola sta diventando la culla del metal in tutte le sue forme e non esiste più regione, città o paesino dove non ci siano gruppi di altissimo livello, da prendere seriamente in considerazione.
Per esempio quella dei Warknife, da Lecce, una creatura post hardcore, evolutasi in questo secondo magnifico album, in un mostruoso connubio tra death moderno, prog e sonorità core, è solo l’ultima in ordine di tempo tra le uscite in grado di destabilizzare il mercato.
Formatasi nel 2005, con all’attivo un demo ed un primo full-length uscito nel 2009 dal titolo “Dream of Desolation”, i quattro ragazzi salentini stupiscono con Amorphous per intensità, maturità compositiva e tecnica strumentale, confezionando un lavoro superbo.
Tecnica strumentale: partendo dalla performance di Simone Mele alla sei corde, chitarrista dalla tecnica ed emozionalità unica, passando da una sezione ritmica, fondamenta del disco, sempre perfetta sia nei brani dove deve picchiare il dovuto sia nei momenti nei quali il sound si apre su scenari death-prog e composta da Cesare Zuccaro alle pelli e Daniele Gatto al Basso, si arriva a Marco Landolfo, vocalist di razza, superlativo cantore su tutto l’album.
Intensità: ogni nota di questo disco sembra di vederla uscire dagli strumenti, la tensione rimane altissima così come l’emozionalità.
Maturità compositiva: un songwriting stellare costringe non solo a sentire l’album ma a viverlo per tutta la sua durata e ad ogni ascolto si scopre sempre un dettaglio,una nota nuova; non di semplice ascolto, ma i brani sono talmente belli che si arriva alla fine con la voglia di ricominciare tutta l’esperienza dall’inizio.
The Veil Fragments è la song dove, credo, tutto quanto ho scritto viene confermato dalla musica della band, il punto più alto di questo gioiello musicale tutto da scoprire: Machine Head, Lamb of God, Dark Tranquillity e Opeth sono solo nomi che potrete trovare nei solchi dell’album ma, ad un ascolto attento, troverete molto di più.
Gli Warknife con il loro nuovo lavoro hanno veramente fermato l’attimo, spingendosi non troppo lontano dalla perfezione …
Grande album, grande band.

Tracklist:
1. Act I. Shapeless Birth
2. The Infected Enigma
3. A Bleeding Sunset
4. Behold Regression
5. A Veil Fragments
6. Act II. Shape Shifting
7. Hateseed
8. Ill Becomes Order
9. Shining Phoenix
10. F.A.I.L.

Line-up:
Cesare Zuccaro Drums
Simone Mele Guitars
Marco Landolfo Vocals
Daniele Gatto Bass

WARKNIFE – Facebook

Wraithmaze – Fields Of Nihilism

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.

I finnici Wraithmaze si ripropongono al pubblico dopo l’esordio su lunga distanza del 2011 con questo riuscito Ep a base di un death-doom dai tratti spiccatamente melodici.
Il sound della band, infatti, appare incentrato sull’ottimo lavoro alle tastiere del leader Janne Kielinen, ma va detto che lo strumento non finisce per debordare come sovente avviene in simili frangenti, lasciando invece il giusto spazio anche al resto della strumentazione.
Proprio l’accentuato gusto melodico è ciò che più piace in Fields Of Nihilism: i quattro brani sono decisamente scorrevoli e, in fondo, se non ci fosse il growl di Jarko Rintee ad incattivire e conferire morbosità al songwriting, l’Ep resterebbe stabilmente ancorato ad atmosfere potenzialmente fruibili anche per ascoltatori non necessariamente avvezzi al genere.
Molto azzeccato tra gli altri, il tema portante di Homeless, ma un pò tutti i brani sono disseminati di passaggi emozionanti, avvincenti, spesso accostabili alla solennità di certe colonne sonore (Battle with the Bottle ) ed eseguiti in maniera eccellente dal punto di vista tecnico.
Peccato solo che il tutto si esaurisca in poco più di venti minuti, ma chi volesse, in attesa di un nuovo album, può andarsi tranquillamente a riscoprire il precedente full-length “Adagio in Self-Destruction” senza correre il rischio di restarne deluso.
Davvero bravi i Wraithmaze, i quali, pur senza reinventare la ruota, mettono sul piatto un lavoro affascinante e di grande sostanza, ideale viatico ad un auspicabile prossimo album.

Tracklist:
1. Shrine of the Unwanted
2. Homeless
3. Battle with the Bottle
4. Funeral Autumn

Line-up :
Janne Kielinen – Guitars, Keyboards
Jarkko Rintee – Vocals
Jan Siekkinen – Guitars
Lord Angelslayer – Bass

WRAITHMAZE – Facebook

Wijlen Wij – Coronachs of the Ω

Il secondo album della band belga alterna momenti eccellenti ad altri piuttosto opachi, per un risultato complessivo soddisfacente ma non esaltante.

A sette anni dal disco d’esordio ritornano i doomsters belgi Wijlen Wij, progetto che vede coinvolto Kostas Panagiotou, conosciuto anche come leader dei più noti Pantheist.

Coronachs of the Ω esce per la Solitude, autentico marchio di garanzia per il funeral death doom e tutto sommato, anche in questo caso, tale assunto non viene smentito nonostante l’operato del trio belga sia caratterizzato da diversi alti e bassi.
L’opener … boreas apre le danze invero come meglio non si potrebbe, grazie alle sue sonorità devote ai migliori Skepticism, in virtù soprattutto del timbro tastieristico scelto da Kostas: il brano è decisamente evocativo, trascinante, dotato anche di un relativo dinamismo, con uno splendido break pianistico centrale, insomma possiede tutto ciò che si vorrebbe ascoltare in un disco del genere; la seguente Die Verwandlung rallenta di molto l’andatura alternando a buoni spunti chitarristici quella staticità del sound che la sua notevole lunghezza non contribuisce certo a migliorare, caratteristica, questa, che si accentua in maniera ancor più evidente in Laying Waste to the City of Jerusalem, autentica mattonata priva di qualsiasi sbocco melodico che rischia pericolosamente di affossare un lavoro nato invece sotto i miglior auspici.
Fortunatamente A Solemn Ode to Ruin…, accostabile per sonorità ai vicini di casa olandesi Officium Triste, pur essendo anch’essa un pò troppo dilatata, rimette le cose a posto mostrando atmosfere sufficientemente cariche di pathos, e la conclusiva From the Periphery è un’altra traccia decisamente riuscita con il proprio andamento dolente e malinconico.
Coronachs of the Ω è in assoluto un buon disco, che gli amanti del genere apprezzeranno senz’altro anche se, al termine dell’ascolto, resta il rammarico di non aver potuto ascoltare un lavoro nel complesso qualitativamente all’altezza della traccia di apertura, e il motivo può dipendere da vari fattori: il growl del volenteroso Lawrence Van Haecke si rivela adeguato solo al’interno delle tracce migliori, mentre appare troppo piatto per risultare incisivo quando deve assumere suo malgrado un ruolo di primo piano come in Laying Waste to the City of Jerusalem (non male invece, nel complesso, le clean vocals); la produzione non fa molto per smussare qualche imperfezione che affiora qua è là e, in particolare, non viene valorizzato al meglio il suono della chitarra solista, capace sovente di brillanti intuizioni melodiche.
In fin dei conti la sensazione che si trae dall’ascolto di Coronachs of the Ω è che i Wijlen Wij siano l’altra faccia della medaglia dei Pantheist: tanto resta radicato nella tradizione il sound dei primi, conservando quell’alone vintage che può avere un suo fascino ma pure apparire irrimediabilmente datato, quanto è stata spinta forse all’eccesso dal buon Kostas l’evoluzione stilistica dei secondi finendo per spingerli ben oltre i confini riconosciuti del doom più canonico.
In mezzo resta un territorio sufficientemente vasto per essere ulteriormente esplorato con successo da diverse band e non ci sono dubbi sul fatto che tra queste possano esserci in futuro anche i Wijlen Wij.

Tracklist:
1. …boreas
2. Die Verwandlung
3. Laying Waste to the City of Jerusalem
4. A Solemn Ode to Ruin…
5. From the Periphery

Line-up :
Kris Villez – Drums
Kostas Panagiotou – Guitars, Keyboards
Lawrence van Haecke – Vocals

WIJLEN WIJ – Facebook

Descend Into Despair – The Bearer of All Storms

La giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino fa pensare che i Desced Into Despair possiedano potenzialità per ora ancora inespresse.

Esordio dei giovani rumeni Descend Into Despair con una chilometrica prova a base di death-doom riuscita solo a tratti.

Infatti, proprio la lunghezza del lavoro si presenta come lo snodo dell’intera vicenda: per cimentarsi, al primo full-length, in un doppio cd pari ad oltre un’ora e mezza di musica per sua natura di non facile assimilazione, bisogna possedere sia una buona dose di sana follia sia una notevole autostima.
Usando come termine di paragone una band del settore che da sempre propone uscite di tali proporzioni, è evidente che i Descend Into Despair, purtroppo per loro, non possiedono ancora (e non possiamo far loro una colpa di questo) né la fluidità degli Esoteric né, soprattutto, il talento compositivo di Greg Chandler per potersi permettere di emularne le gesta, almeno dal punto di vista del minutaggio e, quindi, The Bearer of All Storms in diversi frangenti appare come il classico passo più lungo della gamba.
Detto questo, per natura tendo ad apprezzare chi osa rischiando del proprio, e per questo motivo ritengo che l’operato della band di Cluj meriti d’essere ascoltato e valutato senza pregiudizio alcuno: ho letto addirittura alcune recensioni che stroncavano il disco senza mezzi termini facendo uso anche di una stucchevole ironia, ma queste erano palesemente opera di qualcuno al quale il doom estremo, death o funeral che sia, non piace per partito preso e, pertanto, simili giudizi hanno un valore del tutto relativo.
Credo invece che sia più corretto apprezzare i molti buoni momenti che The Bearer of All Storms regala agli ascoltatori, senza nascondere i quasi altrettanti che ne appesantiscono irrimediabilmente la fruizione: sarà forse banale ma pure realistico affermare che traendo il meglio dall’album ne sarebbero venuti fuori tre quarti d’ora di musica di ottimo livello, anche se non sarebbe stato ugualmente semplice fare una cernita delle singole tracce da conservare, proprio perché ogni specifico episodio mostra al suo interno questa dicotomia tra passaggi ispirati ed altri piuttosto forzati nel loro sviluppo. Appaiono esplicativi al riguardo due tra i brani più lunghi del lotto come Triangle of Lies e The Horrific Pale Awakening, capaci di esibire melodie chitarristiche decisamente coinvolgenti alternate a troppi frangenti apparentemente interlocutori; indubbiamente i Descend Into Despair dovevano avere molte idee a livello lirico da utilizzare in quest’occasione (e lo fanno invero piuttosto bene, bisogna ammetterlo, senza apparire mai né banali né eccessivamente criptici) e ciò può averli spinti ad allungare eccessivamente anche il “brodo musicale”.
Tutto sommato la traccia più convincente, pur se neppure questa del tutto esente da pecche esecutive, riscontrabili in particolare nei frangenti atmosferici, è Plânge Glia De Dorul Meu, cantata in lingua madre (il rumeno ha una sua affascinante musicalità che ben si adatta anche a partiture più estreme, come già ampiamente dimostrato da Negura Bunget / Dordeduh) e contraddistinta da quel pathos drammatico che porta i nostri a lambire i territori dei magnifici Eye Of Solitude del connazionale Daniel Neagoe, ma anche la successiva Embrace Of Earth si rivela una chiusura degna per un disco che si colloca ben oltre la sufficienza e che, a tratti, palesa le indiscutibili doti di una band dalle potenzialità ancora tutte da scoprire.
Proprio la giovane età dei musicisti e la loro manifesta volontà di non limitarsi ad un semplice e timido compitino mi fa pensare che di questi interessanti rumeni sentiremo parlare in termini ben più positivi anche nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Portrait of Rust
2. Mirrors of Flesh
3. Pendulum of Doubt
4. Triangle of Lies
5. The Horrific Pale Awakening
6. Plânge glia de dorul meu
7. Embrace of Earth

Line-up :
Denis Ungurean – Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars (lead), Programming, Drums, Keyboards
Iulia Bulancea – Bass
Orza Radu – Drums
Cosmin Farcău – Guitars (rhythm)
Florentin Popa – Keyboards

DESCEND INTO DESPAIR – Facebook

Woe Unto Me – A Step into the Waters of Forgetfulness

Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.

Altro ottimo prodotto sfornato dalla sempre prolifica, anche dal punto di vista qualitativo, Solitude Prod.

Stavolta tocca ai bielorussi Woe Unto Me ad essere portati alla ribalta della scena doom europea: la band, condotta dall’eccellente Artyom Serdyuk, viene descritta come dedita al funeral doom ma è evidente, sin dalle prime note, quanto l’approccio sia decisamente più intimista, quasi soffuso a tratti, senza che il senso di palpabile malinconia che contraddistingue il genere venga comunque in qualche modo scalfito.
A Step into the Waters of Forgetfulness è in effetti un lavoro che si discosta, pur senza snaturarsi, dalla coordinate classiche del funeral, proprio perché gli Woe Unto Me optano per composizioni lunghe come da copione che mettono però in risalto particolarmente il riuscito connubio tra le clean vocals dell’ottimo Sergey Puchok e le partitura acustiche, sempre contraddistinte da una certa eleganza di fondo.
L’uso delle voci è davvero il valore aggiunto del lavoro : il growl di Artyom è centellinato il giusto ritagliandosi il ruolo di adeguata spalla alla timbrica evocativa di Sergey (in certi frangenti accostabile ad un Eric Clayton meno enfatico), e lo stesso avviene con il controcanto femminile che ha per lo più un compito di supporto. Tutto ciò si realizza nel migliore dei modi nella traccia finale, la lunga e drammatica Angels To Die, che rappresenta, tra tutti, l’episodio più rispondente all’etichetta associata alla band, mentre i primi tre brani vivono ancor più invece sull’apporto decisivo di suggestioni acustiche, specie l’iniziale Slough Of Despond, che prende avvio con tonalità cristalline prima di abbandonarsi alle più consuete ritmiche funeree.
Il valore indiscutibile di un lavoro come A Step into the Waters of Forgetfulness risiede proprio nella volontà dei ragazzi bielorussi nel cercare con continuità una via maggiormente personale per esprimere il proprio mood malinconico senza cadere con entrambi i piedi nei, comunque graditi, clichè del genere.
Un’operazione che riesce pienamente grazie alle indubbie doti tecniche esibite dal combo di Grodno: evidentemente, nonostante questo disco sia di fatto un esordio su lunga distanza, denota sicuramente un percorso musicale tutt’altro che banale compiuto dai singoli musicisti prima di cimentarsi in quest’opera.
Sicuramente i Woe Unto Me potranno piacere ai fruitori del funeral più melodico ma, in considerazione di una proposta così brillante e ricca di sfaccettature, potrebbero fare breccia anche nei cuori di chi ama sonorità malinconiche e più rarefatte, non necessariamente associate a forme di doom estremo.
Gran bel lavoro e altra graditissima sorpresa, è sempre un piacere rischiare di apparire ripetitivi ogni qual volta ci si trovi a lodare sperticatamente le doom band provenienti dal nordest europeo …

Tracklist:
1. Slough of Despond
2. The Gospel Reading
3. Stillborn Hope
4. 4
5. Angels to Die

Line-up :
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Sergey Puchok – male clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums
Julia Shimanovskaya – female clean vocals

WOE UNTO ME – Facebook

Bologna Violenta – Uno Bianca

“Uno Bianca” è il ritratto fedele e musicato delle gesta dei fratelli Savi e complici, una delle pagine più brutte della storia italiana.

Le opere musicali non sono mero intrattenimento, o quantomeno non solo.

E ce lo dimostra in maniera molto efficace il ritorno del violentatore sonoro Nicola Manzan: Uno Bianca è il ritratto fedele e musicato delle gesta dei fratelli Savi e complici, una delle pagine più brutte della storia italiana.
Il periodo preso in considerazione è quello tra il 19 giugno 1987, data della rapina al casello di Pesaro, e il 29 marzo 1998, giorno del suicidio del padre dei fratelli Savi, Giuliano.
In mezzo tantissimo sangue, senza molto senso ad una prima occhiata. La banda della Uno Bianca uccise molti immigrati, ma anche carabinieri e gente comune, lasciando un senso diffuso di insicurezza dopo le loro scorribande.
I componenti della banda erano quasi tutti poliziotti, e anche questo non è certa una casualità. Dietro a tutto ciò vi era un disegno ben preciso, rimasto in parte oscuro, poiché gli unici condannati furono gli appartenenti alla banda, ma queste gesta vennero decise da qualcuno molto più in alto.
Se si leggono i libri, come l’ottimo L’Italia della Uno bianca di G. Spinosa, pm dell’indagine, ci si accorge che la banda armata era solo la punta dell’iceberg, in stretto collegamento con la banda belga del Brabante Vallone, dove vi erano sicuramente elementi dello Stay Behind Belga.
Manzan compie un recupero della memoria e un elettroshock per mezzo della sua musica, che si potrebbe definire symphonic grind metal noise, ma che in realtà è un pugno ben assestato in faccia alla nostra amata Italia. Accompagna il cd un libretto con la pesante cronaca delle gesta della banda, e vi assicuro che leggerlo ascoltando il cd è un qualcosa di veramente chiarificatore. Dischi come questo esulano dal discorso musicale, per andare veramente oltre, là dove la musica è impegno civile, non ostentato ma vero.
In definitiva un disco che serve davvero tanto, per non dimenticare, e per non trovare facili soluzioni, musicali e non.
Un disco disturbante per penetrare una difficile memoria.

Tracklist:
01. 19 giugno 1987 – Pesaro: rapina casello A-14
02. 31 agosto 1987 – San Lazzaro di Savena (Bo): rapina casello A-14
03. 3 ottobre 1987 – Cesena: tentata estorsione
04. 30 gennaio 1988 – Rimini: rapina supermercato Coop
05. 19 febbraio 1988 – Casalecchio di Reno (Bo): rapina supermercato Coop
06. 20 aprile 1988 – Castelmaggiore (Bo): attacco pattuglia Carabinieri
07. 19 settembre 1988 – Forlì: rapina supermercato Coop
08. 26 giugno 1989 – Bologna: rapina supermercato Coop
09. 15 gennaio 1990 – Bologna: rapina ufficio postale
10. 6 ottobre 1990 – Bologna: rapina tabaccheria
11. 10 dicembre 1990 – Bologna: assalto campo Rom
12. 22 dicembre 1990 – Bologna: attacco lavavetri extracomunitari
13. 23 dicembre 1990 – Bologna: assalto campo Rom
14. 27 dicembre 1990 – Castelmaggiore (Bo): rapina distributore
15. 4 gennaio 1991 – Bologna: attacco pattuglia Carabinieri
16. 20 aprile 1991 – Bologna: rapina distributore
17. 30 aprile 1991 – Rimini: attacco pattuglia Carabinieri
18. 2 maggio 1991 – Bologna: rapina armeria Volturno
19. 19 giugno 1991 – Cesena: rapina distributore
20. 18 agosto 1991 – San Mauro a Mare (Fc): agguato auto senegalesi
21. 28 agosto 1991 – Gradara (Ps): scontro a fuoco con due poliziotti
22. 24 febbraio 1993 – Zola Predosa (Bo): rapina banca
23. 7 ottobre 1993 – Riale (Bo): rapina banca
24. 3 marzo 1994 – Bologna: rapina banca
25. 24 maggio 1994 – Pesaro: rapina banca
26. 21 ottobre 1994 – Bologna: rapina banca
27. 29 marzo 1998 – Rimini: suicidio Giuliano Savi

Line-up
Nicola Manzan : Tutti gli strumenti.

BOLOGNA VIOLENTA – Facebook

Lenore S. Fingers – Inner Tales

Un lavoro alle tinte decadenti e dal sound atmosferico, riflessivo ed elegante quello proposto, con ottimo piglio, dai Lenore S. Fingers.

In copertina una camera stile anni trenta, una ragazza sdraiata sul letto, lo sguardo verso una finestra illuminata dai raggi del sole: fuori è già cominciata la primavera, la natura si risveglia, tutto dovrebbe essere più gioioso e la stagione che nasce dovrebbe portare via il malessere che inevitabilmente l’inverno porta con sé; invece, qualcosa non va in lei: un primo amore perduto?

Lo scoprirete tra i solchi dell’esordio dei Lenore S Fingers, band calabrese accasatasi presso la My Kingdom Music (etichetta che, in quanto a band di talento se ne intende), protagonista di un lavoro intimista, delicato e di classe, impreziosito dalla voce suggestiva di Federica Lenore Catalano, anche alla chitarra e ai synth e indiscussa leader del combo. Formatosi nel 2010, il gruppo arriva all’esordio con una personalità da band navigata, costruendo un songwriting che pesca in varie direzioni senza perdere una spiccata originalità di fondo, lasciando che la musica fluisca senza alcuna forzatura e rendendo l’ascolto estremamente piacevole. The Gathering, Katatonia e e il dark ottantiano sono nomi e genere che più si avvicinano alla musica della band calabrese che, quando serve, non rinuncia ad indurire il suono, come nella stupenda Victoria o nella sinfonica Doom, pur mantenendo un’eleganza non comune. La buona produzione fa sì che gli strumenti non coprano la bellissima voce di Federica, che in certe circostanze si fa eterea e molto emozionale: esempio lampante è Cry Of Mankind, dove un alternarsi di momenti acustici ed elettrici sono supportati in egual modo dal tono sulfureo della cantante e, sul finire, la song è impreziosita da un bell’assolo di chitarra che metallizza l’atmosfera. Song To Eros è un bellissimo brano dalle coordinate stilistiche vicine al gruppo olandese che fu della divina Anneke van Giesbergen, mentre nella conclusiva An Aching Soul la chitarra acustica accompagna la voce di Federica pere l’episodio più intimista del lotto chiudendo il lavoro con atmosfere dai rimandi dark wave. Inner Tales è un lavoro che potrebbe piacere ad una vasta fetta di pubblico, rivelandosi adatto sia ai fan del gothic metal, sia a chi preferisce un approccio più dark rock ma, soprattutto è l’ennesima buona prova di una band tutta italiana.

Tracklist:
1. Inner Tales
2. The Last Dawn
3. Victoria
4. Cry of Mankind
5. To the Path of Loss
6. Song to Eros
7. Doom
8. The Calling Tree
9. An Aching Soul

Tracklist:
Federica Lenore Catalano – Vocals,Guitars,Guitar synth
Patrizio Zurzolo – Guitars,Guitar synth
Domenico Iannolo – Bass
Gianfranco Logiudice – Drums
Giuseppe Giorgi – Keyboards

LENORE S FINGERS – Facebook

Lenore S Fingers – Inner Tales

Lavoro dalle tinte decadenti e dal sound atmosferico, riflessivo ed elegante quello proposto, con ottimo piglio, dalla band calabrese dei Lenore S Fingers.

In copertina una camera stile anni trenta, una ragazza sdraiata sul letto, lo sguardo verso una finestra illuminata dai raggi del sole: fuori è già cominciata la primavera, la natura si risveglia, tutto dovrebbe essere più gioioso e la stagione che nasce dovrebbe portare via il malessere che inevitabilmente l’inverno porta con se; invece, qualcosa non va in lei: un primo amore perduto?

Lo scoprirete tra i solchi dell’esordio dei Lenore S Fingers, band calabrese accasatasi presso la My Kingdom Music (etichetta che, in quanto a band di talento se ne intende), protagonista di un lavoro intimista, delicato e di classe, impreziosito dalla voce suggestiva di Federica Lenore Catalano, anche alla chitarra e ai synth e indiscussa leader del combo.
Formatosi nel 2010, il gruppo arriva all’esordio con una personalità da band navigata, costruendo un songwriting che pesca in varie direzioni senza perdere una spiccata originalità di fondo, lasciando che la musica fluisca senza alcuna forzatura e rendendo l’ascolto estremamente piacevole.
The Gathering, Katatonia e e il dark ottanti ano sono nomi e genere che più si avvicinano alla musica della band calabrese che, quando serve, non rinuncia ad indurire il suono, come nella stupenda Victoria o nella sinfonica Doom, pur mantenendo un’eleganza non comune.
La buona produzione fa sì che gli strumenti non coprano la bellissima voce di Federica, che in certe circostanze si fa eterea e molto emozionale: esempio lampante è Cry Of Mankind, dove un alternarsi di momenti acustici ed elettrici sono supportati in egual modo dal tono sulfureo della cantante e, sul finire, la song è impreziosita da un bell’assolo di chitarra che metallizza l’atmosfera.
Song To Eros è un bellissimo brano dalle coordinate stilistiche vicine al gruppo olandese che fu della divina Anneke van Giesbergen, mentre nella conclusiva An Aching Soul la chitarra acustica accompagna la voce di Federica pere l’episodio più intimista del lotto chiudendo il lavoro con atmosfere dai rimandi dark wave.
Inner tales è un lavoro che potrebbe piacere ad una vasta fetta di pubblico, rivelandosi adatto sia ai fan del gothic metal, sia a chi preferisce un approccio più dark rock ma, soprattutto è l’ennesima buona prova di una band tutta italiana.

Tracklist:
1. Inner Tales
2. The Last Dawn
3. Victoria
4. Cry of Mankind
5. To the Path of Loss
6. Song to Eros
7. Doom
8. The Calling Tree
9. An Aching Soul

Federica Lenore Catalano – Vocals,Guitars,Guitar synth
Patrizio Zurzolo – Guitars,Guitar synth
Domenico Iannolo – Bass
Gianfranco Logiudice – Drums
Giuseppe Giorgi – Keyboards

LENORE S FINGERS – Facebook

C.O.A.G. – Sociopath

Un piacere intenso e veloce, come una scarica di pura adrenalina.

Ancora una gragnuola di colpi a base di grindcore è quella che ci viene proposta dalla Kaotoxin dopo i Miserable Failure: questa volta il lavoro da prendere in esame è Sociopath dei C.O.A.G.

In realtà, più che “dei C.O.A.G.” andrebbe scritto “di C.O.A.G.”, visto che, caso piuttosto anomalo per il genere, dietro a questo monicker si cela un solo musicista, il belga Déhà, conosciuto soprattutto (e qui l’anomalia raddoppia) per i suo ottimi progetti funeral doom come gli Slow e i Deos, questi ultimi in coabitazione con un altro “workaholic” del metal come Daniel Neagoe, visto all’opera di recente con i magnifici Eye Of Solitude (guarda caso, usciti anch’essi per la Kaotoxin, e in qualche modo qui il cerchio si chiude).
Chi ha ascoltato i lavori citati non deve sorprendersi, quindi, dell’abilità che dimostra Déhà nel cimentarsi in qualcosa che si trova esattamente agli antipodi per stile ed attitudine al doom estremo, perché la peculiarità dei migliori musicisti è proprio quella di risultare credibili quale che sia il genere proposto; infatti, il nostro mostra di sapersi districare in maniera eccellente anche in questo frangente, quando si trova a dover gestire sfuriate dalla velocità parossistica che il più della volte non raggiungono nemmeno il minuto di durata.
Il sociopatico evocato nel titolo del lavoro è ben rappresentato da questo missile sparato a trecento all’ora nelle nostre orecchie, e il fatto che il tutto duri più o meno quanto la parte introduttiva dei brani composti da Déhà con gli Slow non costituisce affatto un problema, anzi, tutto sommato è forse meglio così, visto che un ascolto più prolungato di questo tipo di sound potrebbe avere effetti collaterali devastanti che includono, tra gli altri, la frattura del rachide cervicale e la voglia insopprimibile di uscire di casa e prendere a mazzate una a caso delle tante “squallide figure che attraversano il paese”.
Non vi sto certo a raccontare i brani, intitolati semplicemente come la loro progressione numerica in scaletta, aggiungo solo che l’unica traccia strutturata in maniera pressochè normale, dando all’ascoltatore una minima possibilità di familiarizzare con i suoi contenuti, è non a caso una cover degli Hatebreed, Defeatist, posta in chiusura dell’Ep.
Un piacere inteso e veloce, come una scarica di pura adrenalina.

Tracklist:
01. I
02. II
03. III
04. IV
05. V
06. VI
07. VII
08. VIII
09. IX
10. X
11. XI
12. XII
13. XIII
14. XIV
15. Defeatist

Line-up :
Déhà – Vocals, All Instruments

Leviathan – Beholden To Nothing, Braver Since Then

I Leviathan strizzano l’occhio al progressive rock e piaceranno anche ai fan dei suoni dilatati degli anni settanta.

Nuovo album in questo inizio 2014 per la band americana dei Leviathan, non proprio dei novellini della scena, giunti al quinto album in studio: il loro primo vagito risale al 1991 con un Ep omonimo, per più di vent’anni all’insegna di un prog metal che ha nel dna quella manciata di gruppi che hanno fatto la fortuna del genere.

Dunque parliamo dei Dream Theater ma anche degli Shadow Gallery, con un approccio seventies in grado di rendere il lavoro un buon connubio tra il nuovo prog, che strizza l’occhio a sonorità più dure e l’estetica del progressive rock, quello dei maestri settantiani
Settantacinque minuti di musica che, dall’inizio alla title-track, posta in chiusura, spazia tra varie atmosfere, cambi di tempo ed uno spirito vintage che aleggia per tutto il disco ed esce clamorosamente allo scoperto con la suite Religion ed i suoi sette movimenti: fulcro dell’album, i brani che compongono questo bellissimo puzzle musicale scomodano mostri sacri del suono progressivo, tra richiami che di volta in volta si fanno più marcati, tra suoni intimisti che si trasformano in cavalcate elettriche o ariose aperture melodiche, spezzate da improvvise puntate di tensione sonora dall’incedere emozionale come i nove minuti di If The Devil Doesn’t Exist.
Magical Pills Provided, altra perla del lavoro tra Pink Floyd ed il re cremisi, ci dimostra una volta di più che siamo al cospetto di una band che guarda più al passato che al presente, anche le tastiere in questo disco, diversamente dalle classiche band metal prog, sono relegate ad un lavoro di secondo piano rispetto alle chitarre, che sono invece protagoniste indiscusse sia nei suoni acustici che elettrici.
I Genesis (quelli veri, dei primi meravigliosi dischi con Peter Gabriel), sono chiamati in causa nella bellissima Misanthrope Exhumed, mentre Beholden To Nothing, Braver Since Then che chiude il lavoro, torna a calcare territori più moderni e metallici: a band accelera di quel tanto per regalarci ancora dei cambi di tempo mozzafiato, accomiatandosi con un brano dalle reminiscenze Shadow Gallery.
Complimenti a John Lutzow, chitarrista e tastierista e se non bastasse, compositore di musica e testi di questo ottimo lavoro, ed un plauso a tutti i musicisti coinvolti; non aspettatevi una classica produzione scintillante, in questo lavoro, non so quanto volutamente, i suoni sono piuttosto vintage e per alcuni questo potrebbe costituire un difetto: io non me ne curo e consiglio caldamente questo disco ai fan del progressive tout court.

Tracklist:
1. Ephemeral Cathexis
2. A Shepherd’s Work
3. Intrinsic Contentment
4. Overture of Exasperation
5. Creatures of Habit
Religion: Superstition, Imposed Tradition and The Spiritual Crutch of Human Crux (from 6. to 12.)
6. Solitude Begets Ignorance
7. A Testament for Non-Believers
8. If the Devil Doesn’t Exist…
9. Magical Pills Provided
10. Thumbing Your Nose at Those Who Oppose
11. Empty Vessel of Faith
12. Words Borrowed Wings
13. Bettering Darklighter
14. Misanthrope Exhumed
15. Beholden to Nothing, Braver Since Then 10:23

Line-up:
John Lutzow-Guitars,keyboards,B.vocals
Jeff Ward-Vocals
Dave Rumbold-Drums
Derek Blake-Bass,B.vocals

Gum – But Woman Monkey

Stoner doom annichilente, per il secondo bellissimo album della band toscana.

Come il lento discendere della lava dal pendio di un vulcano che inesorabilmente travolge ogni cosa al suo passaggio: questa è la sensazione primaria data dal secondo album dei fiorentini Gum, combo che suona uno stoner-doom apocalittico, inesorabile nel suo lento incedere, rabbioso e sofferto nella voce di una vittima travolta dalla lingua di fuoco.

Con sette jam che impressionano per maturità compositiva, i ragazzi toscani, forti di un songwriting eccezionale e compatti come un monolite, vanno a scomodare le migliori band del genere mantenendo però una propria e ben salda personalità.
Attivi dal 2006, dopo un paio di demo e un Ep, nel 2013 arrivano all’esordio su lunga distanza con “Agua Caliente”, bissato all’inizio di quest’anno da questo macigno sonoro che non lascia prigionieri, dalla tensione altissima; doom malato e ossessivo, alienato da una disperazione di fondo annichilente.
Un sound che trae spunto dagli Eyehategod, dallo stoner desertico dei Kyuss che appare in più di una occasione, consolidato nella bellissima title-track, il brano dalla ritmica più varia nel quale la band dimostra di saperci fare e non poco con gli strumenti e, ancora, più di un accenno ulteriormente appesantito anche a quel trip allucinato che fu il capolavoro “Sleep’s Holy Mountain”, capace oltre vent’anni fa di superare qualsiasi canone del genere.
La voce è sempre tarata su uno screaming che al primo ascolto potrebbe risultare monocorde ma che è invece l’elemento in più in grado di caratterizzare la musica di una band che non cede a qualsivoglia facile melodia.
I brani sono uno più bello dell’altro ma, oltre alla già citata title-track, a mio parere I’m The Universe, Crop Circle e la conclusiva Water sono capolavori stoner doom che vanno ad affiancarsi tranquillamente ai brani più riusciti dei maestri del genere.
Un altro grande album tutto italiano, che arriva dopo l’immenso lavoro degli Elevators To The Grateful Sky, due autentici must per il genere!

Tracklist:
1. Atomic God
2. But Woman Monkey
3. I’m the Universe
4. Children of Pripyat
5. Ferner & Cola Blues!
6. Crop Circle
7. Water

Line-up:
Boss – Vocals,bass
Gre – Guitar
Ambash – Guitar
Capitano – Drums

GUM – Facebook

Dunkelnacht – Revelatio

Chi volesse ascoltare ancora del black capace di unire melodia, ferocia e tecnica sopraffina, provi a distogliere lo sguardo dai soliti nomi, invero piuttosto imbolsiti, dando una possibilità ai Dunkelnacht.

Quello tra black metal e Francia è ormai da tempo un connubio che produce frutti decisamente poco convenzionali e molto spesso prelibati.

A tale dato di fatto non si sottraggono neppure i Dunkelnacht, accasatisi presso la WormHoleDeath ed autori di una prova convincente oltre ogni rosea aspettativa. Dimentichiamo però le sonorità sperimentali di Blut Aus Nord e Deathspell Omega, l’anomalia del quartetto di Lille risiede soprattutto in una versatilità compositiva che consente di imbastardire il black con un po’ tutti i generi metal più noti : fughe chitarristiche di matrice classica si alternano a passaggi di stampo industrial con frequenti sconfinamenti nel deathcore, mentre in altri frangenti l’attitudine melodica dei migliori Cradle Of Filth e Dimmu Borgir intercetta il sound degli attuali In Flames. Insomma, un pout-pourri al quale i nostri riescono a sopravvivere grazie a capacità tecniche sopra la media, in caso contrario Revelatio sarebbe potuto divenire un minestrone indigeribile. A voler essere severi, benché sia apprezzabile l’accostamento tra due diversi toni vocali, lo screaming più acido, piuttosto filtrato, talvolta è un pò fastidioso, molto meglio allora il semi-growl che irrobustisce ulteriormente i brani. Così una chitarra al fulmicotone poggiata su un blast-beat furioso apre nel migliore dei modi l’album dopo la doverosa intro, rendendo Emergent Primitive Constellations un ottimo brano capace di fotografare in maniera esauriente il sound dei transalpini, tra cambi di tempo, alternanze e vocali e la sensazione che possa in ogni momento accadere qualcosa di imprevisto; Ashes from Stellar Oracles è ancora più bizzarra, con la chitarra a riversare suoni particolari mentre la successiva Dissolveld Fractal Esoterism si muove inizialmente su tempi meno parossistici, ma è solo un illusione prima che la girandola di atmosfere rischi di farci perdere definitivamente la bussola: in quest’occasione si rivela azzeccato il ricorso anche ad una voce pulita all’altezza della situazione. Di stampo più alternativo è invece Through the Reign of Lunacy , mentre la terremotante Le Serment des Hypocrites, con un appropriato utilizzo della lingua madre, finisce per spingersi decisamente su coordinate deathcore. La title-track è un breve quanto piacevole strumentale pianistico che introduce le altre sfuriate Where Livid Lights Emblaze ed Enthroned in the Light, fino ad arrivare all’ottima Rebirth of the Black Procession, con la chitarra solista nuovamente in evidenza, prima che il breve rumorismo di Post Prophetic Rebellion chiuda il lavoro dopo tre quarti d’ora decisamente intensi, caleidoscopici, ma capaci di non annoiare mai, nonostante in certi momenti sia tutt’altro che semplice non farsi disorientare dalle costanti evoluzioni del quartetto. Revelatio è un ottimo disco che probabilmente farà fatica a farsi largo tra la marea di uscite che congestionano il settore ma, chi volesse ascoltare ancora del black capace di unire melodia, ferocia e tecnica sopraffina, provi a distogliere lo sguardo dai soliti nomi, invero piuttosto imbolsiti, dando una possibilità ai Dunkelnacht.

Tracklist:
1. The Fall of Entropy
2. Emergent Primitive Constellations
3. Ashes from Stellar Oracles
4. Dissolved Fractal Esoterism
5. Through the Reign of Lunacy
6. Le Serment des Hypocrites
7. Revelatio
8. Where Livid Lights Emblaze
9. Enthroned in the Light
10. Rebirth of the Black Procession
11. Post Prophetic Rebellion

Line-up :
Heimdall – Guitars
Alkhemohr – Bass
Max Goemaere – Drums
Frost – Vocals

DUNKELNACHT – Facebook

OvO – Averno / Oblio

Ritornano gli abissi sonori di uno dei migliori gruppi italiani che ripesca due eccellenti pezzi dalle sessioni di registrazione del suo ultimo album.

Ritornano gli abissi sonori di uno dei migliori gruppi italiani che qui ripesca due eccellenti pezzi dalle sessioni di registrazione di “Abisso”.

Continua la discesa del magnifico duo Dorella – Pedretti verso gli inferi, con due brani davvero oscuri e preoccupanti.
Il primo, Averno, è proprio quello che sembra già dal titolo e proprio il lago dell’Inferno è il luogo dove ci porta il ritmo marziale e sincopato della canzone, con una voce satanica che ci guida in mezzo ai fumi.
Il secondo, Oblio, è un pezzo che spiega benissimo ciò che gli  OvO sono ora: un grande gruppo che fa molto bene musica che nessun altro suona.
Nelle loro composizioni ci sono droni, loops, atmosfere molto piene e vuoti lancinanti, si sente anche l’indiscutibile attitudine metal di Dorella.
Addirittura Oblio potrebbe essere un pezzo dei Sunn O))), e uno dei migliori anche.
Corpoc rilascia questi due pezzi in un vinile serigrafato e a tiratura limitata, oppure in download.
Scendere a sud del paradiso è piacevolissimo.

Tracklist:
1. Averno
2. Oblio

Line-up:
Bruno Dorella – tamburi, E-pad, synth
Stefania Pedretti – voce e chitarra

Riccardo Gamondi – estratti sonori

OvO – Facebook

Stamina – Perseverance

Gran salto di qualità quindi per gli Stamina che, con questo album molto ambizioso, dove tutto è professionalmente ineccepibile, raggiungono le vette conquistate dai maestri, meritandosi la doverosa attenzione anche fuori dai patri confini.

Gli Stamina, combo tutto italiano proveniente da Salerno, dopo due full length, “Permanent Damage” del 2008 e “Two Of A Kind” del 2010, firmano per la My Kingdom Music e rilasciano questo autentico gioiellino dal titolo Perseverance, nel quale il prog metal sposa l’Aor, sulla scia dei danesi Royal Hunt di “Moving Target” (1996).

Il fatto di aver suonato di supporto durante il tour europeo della band di Andrè Andersen ha giovato e non poco al gruppo campano, che sfodera una prova sontuosa sia tecnicamente sia a livello di songwriting, aiutati da diversi ospiti, quali Maria McTurk, storica corista della band danese, Goran Edman, singer che ha all’attivo collaborazioni con Malmsteen e John Norum, e Nils Molin, vocalist degli svedesi Dynazty.
Higher, scelta come primo singolo, ci catapulta nel mondo Stamina, fatto di chitarrismo hard rock, tastiere prog metal, cori e controcanti che rendono la musica della band ariosa e piacevolmente melodica.
Breaking Another String, cantata da Edman, è una riuscita amalgama fra i Royal Hunt e i Dream Theater, con intro e stacco sinfonico da applausi, finché il basso di Lorenzo Zarone non ruba la scena, sostenuto da un Luca Sellitto in forma smagliante alla sei corde.
La prova di Giorgio Adamo dietro al microfono impreziosisce la aor song I’m Alive, mentre Just Before The Dawn, nuovamente con Edman alla voce, è una ballad nella quale la chitarra di Sellitto ci inchioda con un assolo clamoroso.
La title-track corre su strade già percorse da “Moving Target” e lo fa con classe, grazie all’interpretazione di Nils Molin e all’ennesimo grande assolo di Sellitto; hard rock scandinavo per Naked Eye, mentre in Umbreakable il sound si indurisce e si modernizza quel tanto che basta per farne la song più originale del lotto, cantata alla grande ancora una volta da Giorgio Adamo.
Jacopo Di Domenico prende il microfono nella conclusiva Winner For A Day, ottima prova di quello che è, di fatto, l’attuale singer della band, su una canzone dagli stupendi cori, dove le coordinate stilistiche tornano ad essere quelle dell’intero lavoro.
Gran salto di qualità quindi per gli Stamina che, con questo album molto ambizioso, dove tutto è professionalmente ineccepibile, raggiungono le vette conquistate dai maestri, meritandosi la doverosa attenzione anche fuori dai patri confini e regalando al metal nazionale un altra grande band della quale andare orgogliosi.

Tracklist:
1. Higher
2. Breaking Another String
3. I’m Alive
4. Just Before the Dawn
5. Perseverance
6. Naked Eye
7. Unbreakble
8. Wake Up the Gods
9. Winner for a Day

Line-up:
Luca Sellitto-Guitars
Andrea barone-Keyboards
Lorenzo Zarone-Bass
Jacopo Di Domenico-Vocals

Special Guests:
Vocals : Goran Edman, Giorgio Adamo, Nils Molin, Maria McTurk
Drums: Alessandro Beccati, Mirkko De Maio

STAMINA – Facebook