Narrow House – A Key To Panngrieb

“A Key To Panngrieb” si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza

I Narrow House appartengono alla nutrita schiera di band dedite a sonorità funeral doom che, in questi ultimi anni, stanno emergendo dai territori dell’ex-Unione Sovietica.

I nostri, nello specifico, arrivano dalla capitale dell’Ucraina, Kiev, e con A Key To Panngrieb pubblicano il loro esordio assoluto; in casi come questi non è infrequente imbattersi in lavori a dir poco minimali oppure suonati in maniera approssimativa e prodotti ancora peggio.
Per fortuna tutto ciò non accade ai Narrow House, che propongono un buonissimo disco ricco di atmosfere tetre quanto eleganti, andandosi a collocare non troppo lontano dalle quanto già fatto dagli ex-connazionali Comatose Vigil e, quindi, mostrando tutta loro devozione verso gli Skepticism, autentici numi tutelari di questa variante atmosferica del funeral.
Nell’esaminare l’album, si nota che i primi tre brani (i titoli in inglese sono frutto di una libera traduzione dal cirillico, quindi non è detto che siano corretti al 100%), nell’arco di mezz’ora abbondante di musica si mantengono abbondantemente all’interno dei binari tracciati da molte altre band, ma non per questo il lavoro del quartetto ucraino deve essere trascurato, tutt’altro: il suono mantiene costantemente un preciso disegno melodico grazie ad atmosfere struggenti sulle quali troneggia il growl maligno di Yegor.
Un discorso a parte va fatto per il quarto e ultimo brano che, in effetti, mostrerebbe interessanti elementi di discontinuità rispetto al resto delle tracce, se non si trattasse della cover (ben camuffata inizialmente dal solito titolo in cirillico) di “Beneath This Face” degli Esoteric.
Complessivamente A Key To Panngrieb si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza; inoltre, considerando che il contenuto di questo lavoro è frutto di una gestazione durata circa due anni e che, nel frattempo, la band ucraina può e deve essere ulteriormente maturata, mi sento di scommettere qualche euro su un prossimo full-length in grado davvero di lasciare il segno.

Tracklist :
1. The Last Refuge
2. Psevdoryatunok
3. The Glass God
4. Beneath This Face

Line-up :
Atya – Keyboards
Yegor Bewitched – Vocals, Bass
Oleg Merethir – Guitars
Petro Arhe – Drums
Alexander – Cello

NARROW HOUSE – Facebook

Dawn Of Winter – The Skull Of The Sorcerer

Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.

I Dawn Of Winter appartengono alla categoria delle band di culto, ovvero sconosciute ai più ma con uno zoccolo duro di sostenitori, caratteristica accentuata da una produzione piuttosto avara considerando i due soli full-length pubblicati in oltre un ventennio di attività.

Proprio in occasione del ventiduesimo anno di fondazione della band, i doomsters tedeschi hanno dato alle stampe questo Ep che ne conferma lo status offrendo una ventina di minuti di musica del destino di ottima qualità. L’elemento di spicco della band è il vocalist Gerrit Mutz, più conosciuto nell’ambiente per le sue performance con i Sacred Steel, anche se a mio avviso è proprio con i Dawn Of Winter che offre il meglio delle proprie capacità, forse perché un genere come il doom lo costringe in qualche modo a una prestazione più sobria e controllata rispetto a quanto abituato a fare allorchè si trova alle prese con il power metal. Infatti Gerrit riesce a conferire al suo operato, senza strafare, una discreta varietà vocale, passando dalle timbriche evocative e stentoree di stampo Marcolin o Lowe a quelle più rabbiose che gli sono abituali in altri contesti, spesso facendolo all’interno della medesima strofa: l’effetto si rivela davvero interessante e fornisce un piccolo elemento di novità in un lavoro che, al contrario, è perfettamente in linea con i dettami del genere. Candlemass, Solitude Aeturnus e Pentagram sono i termini di paragone più calzanti per il contenuto musicale di questi quattro brani, neppure troppo lunghi per gli standard tipici del doom; mentre le due tracce più brevi Dagon’s Blood e By the Blessing of Death si rivelano maggiormente dinamiche e ritmate, la title track e In Servitude to Destiny mostrano il lato più tormentato e malinconico del quartetto tedesco e ci fanno rimpiangere che questo sia solo un breve Ep e non un album completo. Una buona prova, sicuramente interessante per chi apprezza il doom nella sua versione più classica, con la speranza che sia l’antipasto di una prossima uscita su lunga distanza.

Tracklist :
1. Dagon’s Blood
2. The Skull of the Sorcerer
3. By the Blessing of Death
4. In Servitude to Destiny

Line-up :
Gerrit P. Mutz – Vocals, Guitars
Joachim “Bolle” Schmalzried – Bass
Jörg M. Knittel – Guitars
Dennis Schediwy – Drums

Ragnarok – Malediction

I Ragnarok rappresentano l’integrità e l’essenza primaria del black metal: suoni diretti e penetranti, testi improntati al livore anti religioso e al paganesimo, nessuna concessione a contaminazioni o sperimentazioni stilistiche, tutto questo, tra l’altro, esibendo una tecnica di prim’ordine.

Chiariamo subito che poco ci importa dell’annoso dibattito incentrato su quale sia il black metal vero e quale quello finto: le progressioni verso suoni talvolta lontani dai canoni definiti negli anni’90 sono gradite e apprezzate quanto lo è la riproposizione coerente e competente di un sound che, in questo caso specifico, mantiene intatto il suo carico di malvagità e il suo colore nero pece come impone la sua “ragione sociale”.
Tre quarti d’ora di musica dalla grande intensità che risollevano le sorti dell’asfittico black norvegese di questi tempi, tanto da dover cedere progressivamente la supremazia scandinava ai vicini svedesi: questa è la fotografia di Malediction, che fin dalla copertina blasfema al punto giusto, fa capire che Jontho e co. non sono disposti a fare alcuno sconto.
Non aspettatevi però una sequela di brani brutali ai limiti del parossismo: non di rado le chitarre di DezeptiCunt e Bolverk si librano in brevi ma efficaci passaggi di matrice classica o in riff che seguono linee melodiche ben distinguibili, pur se incuneate tra il blast beat furioso di Jontho e lo screaming abrasivo di HansFyrste; Demon in My View, Necromantic Summoning Ritual e Dystocratic sono solo alcuni dei brani che sono esplicativi del tipo di sonorità che bisogna attendersi dai Ragnarok.
Prova maiuscola, quindi, per una band che, nonostante il livello costantemente alto delle proprie uscite discografiche in una carriera quasi ventennale, ha forse sofferto in passato in termini di popolarità della presenza ingombrante di nomi più reclamizzati. Oggi, invece, tra split, produzioni non entusiasmanti e approdi a sonorità avanguardistiche da parte di tutte queste band, i nostri si issano allo status di portabandiera del movimento,
Se qualcuno pensa che il black metal, nella sua accezione originaria, sia morto e sepolto provi ad ascoltare con attenzione questo disco: non è mai troppo tardi per rivedere le proprie convinzioni ….

Tracklist :
1. Blood of Saints
2. Demon in My View
3. Necromantic Summoning Ritual
4. Divide et Impera
5. (Dolce et Decorum est) Pro Patria Mori
6. Dystocratic
7. Iron Cross – Posthumous
8. The Elevenfold Seal
9. Fade into Obscurity
10. Sword of Damocles

Line-up :
Jontho – Drums, Vocals (backing)
DezeptiCunt – Bass, Vocals (backing)
HansFyrste – Vocals
Bolverk – Guitars

WildeStarr – Tell Tale Heart

I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di “Tell Tale Heart”.

Uno dei lati positivi dello scrivere recensioni é quello d’essere “costretti” ad ascoltare dischi che altrimenti si sarebbero bellamente ignorati: questo lavoro dei WildeStarr appartiene per l’appunto alla categoria di quelli che, indipendentemente dai gusti personali, sarebbe delittuoso snobbare.

Nonostante sia solo al secondo full-length, la band californiana non è certo composta da musicisti di primo pelo (non me ne voglia la bravissima ed affascinante London Wilde) sebbene l’unico realmente noto al grande pubblico sia il chitarrista e bassista Dave Starr.
Detto della vocalist e tastierista, dal consistente passato di tecnico del suono e di turnista in studio, Dave è stato per circa vent’anni il bassista dei Vicious Rumours e credo che tanto basti per definirne il curriculum musicale, mentre il drummer Josh Foster è, almeno per me, un nome relativamente nuovo.
La proposta del gruppo è inevitabilmente orientata a un power metal melodico ma ugualmente robusto, caratterizzato dalla pazzesca voce di London, una sorta di versione femminile del primo Rob Halford, tanto per capirci: anche chi è meno avvezzo a questa timbrica piuttosto acuta, superata una prima fase di ambientamento, non potrà fare a meno d’apprezzare la tecnica esibita dalla bionda cantante.
Così, pur restando nei canoni tipici del power d’oltreoceano (Crimson Glory e, ovviamente, Vicious Rumours), il sound dei WildeStarr non può che trarre linfa dai Judas Priest, senza tralasciare i primi Queensryche.
L’opener Immortal vale come manifesto dell’album, trattandosi di un brano che resta impresso in maniera immediata per le sue azzeccate linee melodiche e una prestazione d’assieme di assoluta eccellenza.
Transformis Ligeia conferma che il livello qualitativo del primo brano non è stato un evento sporadico e lo stesso avviene per tutte le tracce successive con menzione d’obbligo per la splendida The Pit Or The Pendulum (uno dei titoli che mostrano la dedizione di London per l’opera di E.A.Poe).
I WildeStarr sono una band dalla grande maturità che non va a discapito della freschezza compositiva rinvenibile all’interno di Tell Tale Heart. Ottimo disco, che gli appassionati del power più genuino non dovrebbero farsi sfuggire.

Tracklist :
1. Immortal
2. Transformis Ligeia
3. A Perfect Storm
4. Valkyrie Cry
5. Last Holy King
6. In Staccata
7. Not Sane
8. Seven Shades of Winter
9. The Pit or the Pendulum
10. Usher in the Twilight

Line-up :
Dave Starr – Bass, Guitars
London Wilde – Keyboards, Vocals
Josh Foster – Drums

Whyzdom – Blind?

I Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico

L’ennesimo gruppo symphonic gothic metal con voce femminile ? I francesi Whyzdom sono senz’altro molto di più: in attività dal 2008 la band parigina ha al suo attivo un disco d’esordio come “From The Brink Of Infinity” che li ha portati all’attenzione di pubblico e critica; questo Blind? conferma tali impressioni positive anche se, forse, per il salto definitivo nell’empireo del genere manca ancora qualcosina.

In effetti, i Whyzdom riescono a differenziarsi dalla massa degli epigoni di Nightwish e co. grazie ad una buona dose di personalità, non rinunciando mai a mostrare le proprie radici metal, pur se inserite in un contesto sinfonico; altro elemento di distinzione è la voce di Elvyn, che, pur non possedendo doti superiori alla media, si rivela una gradita alternativa alle velleità liriche, spesso fuori registro, di molte sue colleghe.
Il resto della band non si limita a svolgere il semplice ruolo di “supporting cast” nei confronti della protagonista femminile, come avviene sovente quando ci si limita a copiare senza correre alcun rischio e addirittura, in certi casi, i ragazzi francesi osano qualcosa in più di quanto dovrebbero, intento più che lodevole che dimostra la voglia di non accontentarsi dell’esecuzione del classico compitino.
Proprio per questo, però, qualche passaggio talvolta non convince sia perché forse troppo intricato sia in buona parte per una produzione non sempre limpidissima, specie nei momenti in cui dovrebbe venire esaltata la coralità del suono: succede, per esempio, che un brano come Paper Princess finisca per soffrire di certi passaggi nei quali l’assieme degli strumenti invece di enfatizzare il sound finisce per affossarne il pathos nonostante un ritornello coinvolgente, e lo stesso difetto si manifesta anche nella successiva The Spider.
Inoltre, la decisione di presentare ben undici brani della durata media di circa sette minuti ciascuno si rivela alla lunga controproducente, quando una maggiore sintesi avrebbe sicuramente giovato alla causa: brani di grande efficacia come The Lighthous, Cassandra’s Mirror, On the Road to Babylon e The Foreseer, se inseriti in un contesto meno dispersivo, avrebbero potuto portare Blind? a una valutazione ben più elevata.
Ma già così l’operato dei Whyzdom dovrebbe convincere anche i meno predisposti all’ascolto di questo genere, facendo compiere ai nostri un altro importante passo verso quell’eccellenza che, oggi, non appare davvero un miraggio irraggiungibile.

Tracklist :
1. The Lighthouse
2. Dancing With Lucifer
3. Cassandra’s Mirror
4. On the Road to Babylon
5. Paper Princess
6. The Spider
7. The Wolves
8. Venom And Frustration
9. Lonely Roads
10. The Foreseer
11. Cathedral of the Damned

Line-up :
Elvyne Lorient – Vocals
Regis Morin – Guitars
Vynce Leff – Guitars, Orchestration
Marc Ruhlmann – Keyboards
Xavier Corrientes – Bass
Nico Chaumeaux – Drums

Anamnesi – Descending the Ruins of Aura

Anamnesi è il progetto solista dell’omonimo musicista di Oristano, già attivo come batterista in diverse band isolane; “Descending The Ruins Of Aura” ne costituisce la seconda prova su lunga distanza dopo l’esordio autointitolato risalente a due anni fa.

Sgombrando subito il campo dai pregiudizi che spesso accompagnano l’operato delle one-man band, il lavoro del quale mi accingo a parlare si è rivelato sin dalle prime note una graditissima sorpresa: Emanuele (questo è il suo vero nome) riesce dove molti altri nomi, ben più considerati dalla stampa specializzata, hanno fallito.
“Descending …” è un disco che riesce mirabilmente a coniugare l’asprezza delle partiture black con il mood malinconico del miglior depressive, esibendo una serie di brani nei quali non viene mai meno il coinvolgimento emotivo: ecco, la dote principale di questo lavoro è la sua intensità, la capacità di penetrare nel cuore dell’ascoltatore, anche nei momenti in cui le sonorità di stampo ambient divengono predominanti.
Una gamma di sentimenti contrastanti, sebbene complementari, viene esibita nel corso di questi tre quarti d’ora di ottima musica, spaziando dalla rabbia alla desolazione, dall’angoscia alla malinconia, tramite una resa sonora piuttosto buona per gli standard del genere.
Condivisibile, come sempre, la scelta di utilizzare prevalentemente la nostra lingua per veicolare con maggiore efficacia il contenuto dei testi; purtroppo anche in questo caso, come in molti altri già affrontati, la produzione tende un po’ a sotterrare la voce rendendone difficile la comprensione in determinati passaggi.
“Litany of Suffering and Reaction” e “Julia Carta” sono I brani che personalmente prediligo ma, davvero, l’intero album è meritevole di attenzione da parte di chi ama queste sonorità che, proprio in occasioni come questa, sono realmente in grado di trasmettere quelle sensazioni che spesso si cercano invano in prodotti ben più reclamizzati.
Una menzione d’obbligo va anche alla Naturmacht Productions, piccola label tedesca che si occupa meritoriamente di promuovere musica lontana anni luce dal mainstream e che, tanto per mettere subito in chiaro le cose, nella propria homepage dichiara di non ammettere nel proprio roster band coinvolte in forme di estremismo politico o di esaltazione della razza, privilegiando invece chi tratta, in particolare, tematiche che vedono come protagonista incontrastata “madre natura”.

Track-list :
1. Intro (First descent)
2. Litany of Suffering and Reaction
3. La Quiete Del Silenzio
4. Nocturnal Path
5. Toward Rebirth
6. Annega La Coscienza
7. Julia Carta
8. Ciò Che Una Volta Era (Burzum Tribute)

Line-up :
Anamnesi All Instruments

anamnesi-descending the ruins of aura

Forgotten Tomb – And Don’t Deliver Us From Evil

“… And Don’t Deliver Us From Evil” è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore

I Forgotten Tomb del 2012 non sono più quelli di “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground” e, messa giù così, quest’affermazione appare terribilmente scontata, se non corrispondesse al pensiero ricorrente di chi ritiene che lo spirito originario della creatura di Herr Morbid sia andato irrimediabilmente perduto.

La realtà è che quest’ultimo lavoro rappresenta la naturale evoluzione di “Negative Megalomania” e trae il meglio anche da un disco controverso come “Under Saturn Retrograde”, offrendo come risultato un’opera matura e coinvolgente. Se vogliamo trovare un parallelismo, la parabola artistica dei Forgotten Tomb può essere tranquillamente accostata a quella degli Shining: partendo da un depressive black intriso di doloroso rancore verso l’umanità, Marchisio e Kvarforth sono approdati a una forma musicale dall’approccio meno estremo che i fan più intransigenti hanno interpretato come una sorta di tradimento, ma che in realtà è frutto della naturale evoluzione artistica dei due musicisti. Non necessariamente l’approdo a sonorità in apparenza più fruibili equivale a un decadimento qualitativo della proposta, chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo ottimo disco degli Swallow The Sun, tanto per citare un esempio, capirà bene ciò che intendo. … And Don’t Deliver Us From Evil, si apre con Deprived, brano tipico degli ultimi Forgotten Tomb, decisamente piacevole pur senza entusiasmare; ben diversa è la title-track, un prototipo di black metal ammantato di atmosfere oscure e del tutto privo di qualsiasi apertura a sonorità più orecchiabili. Cold Summer è un altro brano nel quale le tenebre prevalgono sulla luce, assecondate da pesanti riff di stampo doom; Let’s Torture Each Other è un altro brano “normale”, sulla falsariga dell’opener, ma con Love Me Like You’d Love The Death e le sue atmosfere cariche di tensione emotiva, con un finale affidato a una chitarra in grado di tessere passaggi ricchi di pathos, la qualità dell’album si impenna nuovamente restando di elevato livello fino alla sua conclusione. Parlando di Adrift è facile pronosticare che si tratterà del brano destinato a destare le maggiori perplessità nei puristi: la voce pulita conduce un ritornello decisamente “catchy”, contrapponendosi alle consuete, ruvide, vocals di Herr Morbid e a un tessuto musicale tutt’altro che rassicurante. Nullifying Tomorrow chiude il lavoro nel suo formato classico (la versione digipack include la cover di Transmission, superfluo dire di quale band, mentre Sore dei Buzzov’en è la bonus track nel vinile) incarnando, di fatto, il trademark del suono attuale dei Forgotten Tomb. … And Don’t Deliver Us From Evil è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore: se ciò consentirà ai Forgotten Tomb di accedere a nuovi fans, pur perdendone per strada qualcuno tra i vecchi, lo vedremo nei prossimi mesi, di sicuro questo è un disco che tende a crescere ad ogni ascolto nonostante un’apparente maggiore fruibilità rispetto alle produzioni più datate.

Tracklist :
1. Deprived
2. …And Don’t Deliver Us from Evil…
3. Cold Summer
4. Let’s Torture Each Other
5. Love Me Like You’d Love the Death
6. Adrift
7. Nullifying Tomorrow

Line-up :
Herr Morbid -Guitars, Vocals
Algol – Bass
A. – Guitars
Asher – Drums

Antiquus Infestus – Order Of The Star Of Bethlehem

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

In ventiquattro minuti Order Of The Star Of Bethlehem racchiude non solo un concept incentrato sulle ultime, drammatiche, fasi della vita di Friedrich Nietzsche ma, anche e soprattutto, un potente concentrato di aggressione sonora, prodotto e suonato in maniera più che soddisfacente, considerando l’assenza di una label alle spalle, e privo di alcun compromesso o di ammiccamenti di stampo commerciale. Il trio si era già fatto notare, nell’ultimo periodo, con due interessanti demo ma questo Ep schiude prospettive diverse, alla luce di una chiarezza d’intenti invidiabile; il sound che ne scaturisce è un’intrigante mix tra il black di scuola svedese e il death dalle tonalità più oscure sulla falsariga dei Nile, soprattutto per quanto riguarda l’attitudine e la comune passione per l’egittologia. Tutto abbastanza bene dunque, se non fosse per un particolare, a suo modo inquietante, che esula dalla musica contenuta nell’Ep: Sverkel e Malphas, per trovare le condizioni utili alla progressione della loro carriera, si sono da poco trasferiti in Danimarca. Nell’augurare le migliori fortune agli Antiquus Infestus, non si può che constatare con amarezza la persistenza, se non addirittura un incremento, delle difficoltà logistico-organizzative che tarpano le ali a chiunque voglia cimentarsi, nel nostro paese, con forme artistiche non omologate al mainstream.

Tracklist :
1. Intro
2. St. Mary of Bethlehem
3. Bishopsgate
4. 55
5. Moorfields
6. Order of the Star of Bethlehem
7. The Signs of Future Threat (Outro)

Line-up :
Sverkel – Vocals
Malphas – Guitars, Drum progamming
Asmodeus – Bass

The Howling Void – The Womb Beyond The World

Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto

I The Howling Void, progetto funeral doom del musicista statunitense Ryan, apparvero sulle scene nel 2009 con lo splendido “Megaliths Of The Abyss” sorprendendo per la capacità di amalgamare alla perfezione le sonorità plumbee che il genere richiede con eccellenti aperture melodiche.

Il successivo “Shadows Over the Cosmos” segnò una stagnazione nel processo creativo della one-man band americana, un po’ perché, dopo un esordio di tale livello, le aspettative erano decisamente alte ma, soprattutto, lo sviluppo dei brani denotava una certa staticità, quasi come se la progressione sonora fosse stata inibita dalla volontà di creare un suono affidato ad atmosfere maggiormente oppressive e allo stesso tempo più ponderate.
Nel frattempo Ryan è ulteriormente migliorato nell’esecuzione strumentale e l’attuale produzione rende i suoni decisamente più puliti; questa premessa farebbe presagire, per questo full-length, quel definitivo salto di qualità che ci si attendeva: purtroppo ciò non avviene, nonostante The Womb Beyond The World si riveli comunque di maggior spessore rispetto alla precedente uscita.
La sensazione è che la freschezza dell’esordio sia andata definitivamente perduta, a scapito di una scelta compositiva che ha portato i The Howling Void a focalizzare l’attenzione su partiture di tastiera ripetute in maniera quasi ossessiva, con frequenti sconfinamenti nell’ambient (ne sia prova il brano di chiusura Eleleth).
Le tre lunghe tracce che costituiscono l’ossatura del disco presentano un andamento in fotocopia: un’affascinante parte iniziale, che si protrae per diversi minuti, lasciandoci sospesi fino all’epilogo nella vana attesa della scintilla, di un qualcosa che renda il brano memorabile.
Pur non avendo lesinato tentativi per penetrare nelle pieghe più profonde di quest’album e ricavarne le emozioni che solo questo genere sa dare, alla fine l’unica sensazione rimasta è stata quella d’essermi imbattuto in un lavoro pregevole sotto diversi aspetti ma incompiuto; a conti fatti finisce per collocarsi in una sorta di terra di nessuno privo com’è, da un lato, del dolente senso melodico degli Ea e, dall’altro, troppo atmosferico per avvicinarsi al tetro incedere dei Krief De Soli, tanto per citare due maniere diametralmente opposte di ma ugualmente efficaci di interpretare il funeral doom.
A Ryan sembra essere venuto meno ciò che gli era riuscito con “Megaliths …” ovvero la realizzazione di una comunicazione empatica con l’ascoltatore; è probabile, temo, che la strada intrapresa con The Womb Beyond The World sia quella definitiva ma, il fatto che il musicista texano sia stato capace di produrre un disco intenso e del tutto convincente solo tre anni fa, consente di sperare che quanto mostrato nelle due uscite successive sia riconducibile a un momentaneo calo di ispirazione e che i The Howling Void siano, in futuro, nuovamente in grado di stupire.

Tracklist :
1. The Womb Beyond the World
2. The Silence of Centuries End
3. Lightless Depths
4. Eleleth

Line-up :
Ryan

Forgotten Thought – Grey Aura

La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, aspettiamo con fiducia i Forgotten Thought alla prima prova su lunga distanza.

Interessante Ep d’esordio per i Forgotten Thought, realtà nostrana dedita a un cupo depressive black dalle sfumature funeral.

La band è, di fatto, un duo composto da Rodolfo e Nephastal: questi due giovani musicisti, brillantemente sfuggiti alla lobotomizzazione musicale alla quale sono state sottoposte le ultime generazioni nel nostro “bel” paese, hanno deciso di abbracciare un genere che definire di nicchia è forse persino generoso, e questo non fa che aumentare il mio apprezzamento nei loro confronti.
Grey Aura si rivela un frutto forse ancora un po’ acerbo ma ugualmente piacevole; i due ragazzi romani evitano di avvitarsi in passaggi eccessivamente complessi mantenendo un ritmo sempre piuttosto moderato, riuscendo in tal modo a valorizzare sia il piano che la chitarra, che si alternano nell’imprimere ai brani quel mood dolente e malinconico che il genere richiede.
La traccia strumentale, autointitolata, si rivela emblematica in tal senso, mettendo sul piatto melodie davvero efficaci e dal notevole impatto emotivo, ma bisogna dire che tutti i brani non sono da meno sotto questo aspetto.
A far da contraltare a questi aspetti positivi vanno presi in considerazione alcuni difetti che il tempo contribuirà senza’altro a limare, se non ad eliminare del tutto: sia pure con tutte le giustificazioni del caso, se la produzione ha in particolare il difetto di affossare, rendendole ancora più inintelligibili, le scream vocals, e in qualche passaggio strumentale l’esecuzione appare ancora un po’ scolastica.
Ma, tenendo ben presente che nel DSBM, l’aspetto che maggiormente importa è la capacità da parte dei musicisti di trasportare l’ascoltatore alla condivisione delle proprie emozioni, quantunque impregnate di negatività, bisogna ammettere che questo obiettivo viene sicuramente centrato dai Forgotten Thought.
La strada intrapresa è quella giusta, i margini di crescita sono considerevoli, li aspettiamo con fiducia alla prima prova su lunga distanza.

Tracklist :
1. Grey Aura
2. The Endless Path
3. Forgotten Thought
4. Black Ink Soaked Page
5. Just For a Moment… (Austere cover)

Line-up :
Rodolfo Ciuffo – Vocals, Bass, Guitars
Nephastal – Vocals, Piano, Guitars, Drum programming

Southern Drinkstruction – Drunk Till Death

Non c’è nemmeno bisogno di una reunion dei Pantera, ce li abbiamo noi.

Immaginate i caduti della battaglia di Gettysburg che, posseduti dai Pantera, dai Texas Hippie Coalition e dal demonio del thrash metal, invadono il mondo, una bandiera sudista garrisce al vento e il sangue scorre..

Tutto questo e molto di più sono i Southern Drinkstruction di Roma, una banda di alcolisti sonori che mischiano southern metal, thrash, heavy e death metal in un blend unico, potentissimo e molto ma molto piacevole.
I ragazzi sono al terzo episodio su supporto fonografico, dopo l’Ep “Southern Drinkstruction” del 2007, il full-length “Drink With Us” del 2009, di cui sono fiero possessore, e l’attuale Drunk Till Death.
Il disco è una botta sonora notevole, metal fatto con una freschezza ed una passione davvero invidiabile, la potenza non viene mai meno e il tutto è davvero molto coinvolgente.
Io ascolto molto metal e spesso mi capitano ottimi dischi, a volte mediocri, a volte pessimi, nonostante il grande impegno, ma questo è un disco che sento in macchina la mattina, quando mi bevo delle birre la sera, e mi fa tornare in mente i tempi dei Pantera, dei racconti di Valerio Evangelisti, il gusto del metallo e della sabbia.
I Southern Drinkstruction sono uno dei migliori gruppi italiani del genere e hanno una grande autoironia, cosa che a volte nel metal difetta; dalle paludi cajun, dai vicoli di New Orleans, dalle sabbie dell’Arizona, ecco spuntare i Southern Drinkstruction.
Non c’è nemmeno bisogno di una reunion dei Pantera, ce li abbiamo noi.
In beer we trust.

Tracklist:
1. Drunk Till Death
2. On Your Knees
3. 6-Strings Skull
4. Dirty Sanchez
5. Evil Skies
6. Nasty Jackass
7. Redneck Zombie Distillery
8. Motor 666
9. Cumming in Socks
10. Drink Whiskey, Make Justice!
11. The Man With No Name
12. Slide Or Die!
13. Death Bells

Line-up:
Eddie Vagenius – Drums
Pinuccio “Ordnal” Landro – Guitars
Southern Bastard – Vocals
Zorro – Bass

SOUTHERN DRINKSTRUCTION – Facebook

Obscura Amentia – Ritual

Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Gli Obscura Amentia sono un duo composto da Black Charm (che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione delle percussioni, affidate a una drum-machine) e da Hel (female scream): attivi dal 2010, con “Ritual” giungono al secondo full-length.

La loro musica, tanto per fornire un’idea di massima, ci riporta alle sonorità dei Dark Funeral, quindi si parla di black metal devoto alla tradizione ma senza che, per questo, venga trascurato il senso della melodia, sempre ben presente grazie ad efficaci linee di chitarra.
La band novarese propone un lavoro di buon livello, anche se qualche lieve pecca, per lo più addebitabile alla produzione, finisce per inficiarne parzialmente la resa finale: per esempio la voce di Hel, sia per una registrazione che la relega quasi in secondo piano, sia per una minore incisività che spesso accomuna le cantanti alle prese con scream e growl, non sempre si rivela in tutta la sua possibile efficacia.
Tutto sommato, invece, non ritengo così deprecabile l’uso della drum machine, pur essendo evidente che una batteria “umana” sia pur sempre preferibile, mentre il super lavoro strumentale al quale si sottopone Black Charm si rivela assolutamente appropriato.
Ritual è un disco che non delude, per la sua integrità stilistica e per il suo proporsi monolitico, cosa che a mio avviso più che un difetto ne costituisce la forza: se si eccettua la bellissima title track, che si staglia sul resto dell’album, marchiata a fuoco com’è da un riff ossessivo quanto coinvolgente, gli altri brani si sviluppano su coordinate piuttosto simili, creando però un impatto d’insieme nient’affatto trascurabile.
Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Tracklist :
1. The Citadel Of Beleth
2. Mirror Of Sorrow
3. Ritual
4. Lost In The Reflection Of Moon
5. Mater Hiemalium
6. Descend The Chaos
7. Ominous Herald
8. Silence (A Reminder Of Death)
9. Last Rite

Line-up :
Black Charm – Guitars, Keyboards, Bass
Hel – Vocals

Blut Aus Nord – 777:Cosmosophy

Per alcuni “777 Cosmosophy” costituirà un passo indietro se riferito alla discografia recente, per chi scrive, al contrario, è la conferma dello status di eccellenza raggiunto da una band che, in questo momento, è in grado di intraprendere qualsiasi direzione stilistica risultando ugualmente efficace e, soprattutto, credibile.

In poco meno di due anni i Blut Aus Nord portano a compimento la trilogia 777 iniziata con “Sect(s)” e proseguita con “The Desanctification”.

Questo terzo episodio sta già facendo discutere in quanto, dal punto di vita stilistico, si discosta di molto da quanto fatto in passato dalla band francese: crediamo che, al riguardo, per analizzare in maniera obiettiva questo lavoro sia fondamentale l’approccio con il quale ci si accosta. Infatti, se considerassimo Cosmosophy come un album a sé stante ciò potrebbe provocare un certo disorientamento, specialmente se paragonato ai due precedenti tasselli della trilogia ma, pur rispettando i diversi pareri già espressi, improntati ad un certo scetticismo, ritengo che l’ascolto e la comprensione del disco non possano prescindere dal considerare 777 nel suo insieme. Del resto, l’approdo alle sonorità di Cosmosophy era stato preannunciato da Vindsval successivamente all’uscita del secondo atto “The Desanctification”, quando aveva dichiarato che l’epilogo della trilogia sarebbe stato improntato a sonorità più eteree e inevitabilmente più melodiche, intendendo rappresentare la chiusura di un percorso tramite il manifestarsi di un’apparente quiete successiva alla tempesta. Così, quello che colpisce in prima battuta di questo lavoro non è tanto ciò che vi è racchiuso quanto, invece, ciò che non ne fa parte, come la componente aggressiva da parte di una band che, di fatto, il black nella sua concezione più canonica non lo suona più da anni, o l’ossessività di stampo industriale del precedente capitolo. Qui le atmosfere si potrebbero definire sognanti, se non fosse per quel sottile senso di inquietudine che le pervadono e che impedisce alle melodie create dai Blut Aus Nord di apparire persino rasserenanti. Se escludiamo il sottofondo sonoro al recitato in francese nella prima parte di Epitome XV, dove rifanno capolino turbolenze di stampo industrial, il resto di Cosmosophy si dipana all’insegna di chitarre liquide e voci pulite, offrendo l’ingannevole sensazione di un facile ascolto; in realtà solo dopo numerosi tentativi si riesce a raggiungere la vera essenza di brani splendidi, paradossalmente penalizzati solo dal nome della band stampato sulla copertina. Perché, pur essendo comunque e inevitabilmente quest’album inferiore a quel formidabile monolite sonoro che è stato “The Desanctification”, non si può evitare di farsi coinvolgere dalle atmosfere dark ambient con sconfinamenti nel post metal delle cinque lunghe epitomi, tra le quali spicca la XVII, autentica perla di melodica magnificenza. Che non si pensi che Vindsval sia finalmente giunto a patti con i demoni che lo ossessionano: le dissonanze elettroniche che, dopo un tema ripetuto a oltranza, chiudono il sipario sull’Epitome XVIII e sulla trilogia appaiono tutt’altro che rassicuranti. Per alcuni 777 Cosmosophy costituirà un passo indietro se riferito alla discografia recente, per chi scrive, al contrario, è la conferma dello status di eccellenza raggiunto da una band che, in questo momento, è in grado di intraprendere qualsiasi direzione stilistica risultando ugualmente efficace e, soprattutto, credibile.

Tracklist :
1. Epitome XIV
2. Epitome XV
3. Epitome XVI
4. Epitome XVII
5. Epitome XVIII

Line-up :
W.D. Feld – Drums, Keyboards, Electronics
Vindsval – Vocals, Guitars
GhÖst – Bass

General Lee – Raiders Of The Evil Eye

I General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di “Raiders Of The Evil Eye”

Quando si cita il Generale Lee i più colti penseranno subito al comandante delle forze confederate durante la guerra di secessione, mentre i meno colti e meno giovani (come il sottoscritto) andranno con la mente alla mitica auto usata dai protagonisti del telefilm anni ’80 Hazzard; quale che sia la derivazione del monicker, i General Lee sorprendentemente non arrivano dal profondo sud degli States ma da Bethune, cittadina di provincia situata nel nord della Francia.

Dopo questa amena digressione storico geografica, arriviamo al dunque dicendo subito che questo disco è semplicemente favoloso e il fatto che, nonostante questo, nessuna etichetta si sia presa la briga di produrlo è uno degli ennesimi misteri da affidare a “Kazzenger” …
I sei ragazzi transalpini si muovono nei vasti territori, dai confini piuttosto labili, del post-metal ma il tutto avviene in maniera così fresca, spontanea ed intensa che i brani finiscono per sgorgare con un’immediatezza rara per le abitudini del genere .
Prendendo come termine di paragone un altro dei dischi più riusciti negli ultimi tempi in tale ambito, “Faemin” dei Process Of Guilt, risalta subito la diversa matrice delle due band: mentre i portoghesi affondano le proprie radici nel death doom, i francesi inglobano nella loro proposta evidenti influssi hardcore.
Dato che l’esito finale è eccellente in entrambi i casi, si può tranquillamente affermare che le vie per arrivare all’eccellenza possono essere sì differenti, ma sempre accomunate dal talento e dalla costante voglia di evolversi.
I General Lee esprimono tutto il loro livore nei confronti del mondo che li circonda in sette tracce di media durata tre le quali risplende come una supernova l’anthemica The End Of Bravery, da cantare a squarciagola come del resto fa il bravo Arnaud. Non che il resto del disco sia da meno, basta ascoltare l’opener The Witching Hour dove l’aggressione vocale e sonora viene bilanciata da una chitarra solista che traccia linee melodiche da brividi, Medusa Howls With Wolves prosegue sulle medesime coordinate, mentre sia Alone With Everybody sia la strumentale Overwhelming Truth rallentano decisamente l’andatura, collocandosi su terreni meno abrasivi. Già detto di The End Of Bravery, anche LVCRFT presenta atmosfere più introspettive pur mantenendo sempre elevata l’intensità emotiva, mentre Running With Sharp Scissors, dopo una sparata iniziale chiude l’album con un bel finale intriso di malinconia.
Francamente questo lavoro è una vera sorpresa, oltre che un’autentica ventata d’aria fresca, in un genere che vede troppe band esprimere un sound che implode al proprio interno, senza riuscire a rappresentare in maniera compiuta il malessere che ne costituisce le fondamenta.
Cosa che non succede ai General Lee che, in poco più di mezz’ora, riversano sull’ascoltatore un carico di intensità inversamente proporzionale alla durata di Raiders Of The Evil Eye, confermando che il dono della sintesi è un valore aggiunto in qualsiasi attività, artistica e non.
Da ascoltare e supportare, assolutamente !

Tracklist :
1. The Witching Hour
2. Medusa Howls With Wolves
3. Alone With Everybody
4. Overwhelming Truth
5. The End of Bravery
6. LVCRFT
7. Running With Sharp Scissors

Line-up :
Arnaud – vocals
Vincent – bass
Paul – drums
Fabien – guitar
Martin – guitar
Alex – guitar

Decline Of The I – Inhibition

Questo è il classico lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine e con la giusta predisposizione mentale, pena l’impossibilità di insinuarsi nella sua spessa coltre di impenetrabilità

Capita, a volte, di avere un rapporto complesso con un disco fin dal suo primo ascolto: nella grande maggioranza dei casi le difficoltà nel riuscire a cogliere appieno i contenuti musicali che racchiude lasciano spazio alla soddisfazione d’essere riusciti a trovarne finalmente la giusta chiave di lettura.

Tutto ciò mi è capitato in parte anche nell’avvicinarmi a questo Inhibition, opera d’esordio dei francesi Decline Of The I; infatti, nonostante i ripetuti ascolti ci sono ancora diversi aspetti di quest’opera che non riesco a mettere del tutto a fuoco.
Del resto un genere particolare come l’avantgarde metal dalle svariate sfumature (black, depressive, sludge, post-metal, elettronica) messo in scena dalla band guidata da A.K. (attivo anche in Vorkreist e Merrimack, per citare solo i gruppi più noti) nasce proprio con l’intento di spiazzare e sorprendere l’ascoltatore più che cullarlo con sonorità rassicuranti.
Il disco costituisce il primo atto di una trilogia incentrata sul disagio esistenziale e sulle forme di reazione messe in atto da ciascun individuo per svincolarsi da una realtà opprimente: a Inhibition dovrebbero seguire, quindi, “Rebellion” e “Escape”.
Bisogna dire che il sound dei Decline Of The I veste alla perfezione i contenuti lirici dell’album grazie al suo incedere disturbante, apparentemente schizofrenico, ma che in realtà ricopre tutti i brani di una patina fatta di soffocante angoscia.
Questo è il classico lavoro che va ascoltato dall’inizio alla fine e con la giusta predisposizione mentale, pena l’impossibilità di insinuarsi nella spessa coltre di impenetrabilità entro la quale A.K. ha pensato bene di custodire la sua creatura; tra episodi affascinanti e sconcertanti nello stesso tempo ne citerei due oggettivamente sopra la media: Art or Cancer, uno sludge catramoso screziato da estemporanee quanto efficaci derive elettroniche, e la conclusiva Keeping The Structure, traccia degna degli Shining più claustrofobici.
Il voto potrebbe essere anche più elevato ma, come detto, l’esito finale del mio personale duello con le sonorità dei Decline Of The I è rimandato all’ascolto del loro prossimo lavoro; al riguardo cito con piacere la massima dell’indimenticato Peter Steele riportata sul retro di copertina di “Bloody Kisses”: “don’t mistake lack of talent for genius”.
Ecco, per me Inhibition al momento va catalogato alla voce “genius” ma, per averne la certezza assoluta, preferisco attendere il prossimo giro ….

Tracklist :
1. Où Se Trouve La Mort ?
2. The End of a Sub-Elitist Addiction
3. Art or Cancer
4. The Other Rat
5. Mother and Whore
6. Static Involution
7. L’indécision d’être
8. Keeping the Structure

Line-up :
A.K. – guitars, keyboards, programming, samples, vocals
N. – drums
G. – vocals
S. – vocals

Dead Summer Society – My Days Through Silence

A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.

A qualche mese di distanza dall’ottimo full-length di esordio, ritroviamo i Dead Summer Society alle prese con questo Ep che esce per l’etichetta canadese Rain Without End.

Per l’occasione Mist recupera e rielabora alcuni dei brani presenti in forma strumentale nel demo del 2010 “The Heart Of Autumnsphere” arricchendoli con la voce di Trismegisto (Cult Of Vampyrism), già ospite nel recente lavoro: il risultato è una piccola gemma di gothic doom che non fa che confermare quanto già recentemente espresso in sede di recensione sulla bontà dell’operato del musicista molisano.
Chiaramente, l’operazione non può discostarsi dal quadro complessivo fornito dalle precedenti uscite, pertanto ci troviamo di fronte a composizioni nelle quali, spesso, ai delicati arpeggi di Mist fanno da contraltare un abrasivo screaming o una profonda voce pulita, il tutto funzionale alla creazione di atmosfere intense ed emozionanti.
The Heart Of Autumnsphere e la title track sono brani emblematici in questo senso e, nonostante la loro natura di brani metal, si rivelano in realtà due preziosi affreschi sonori che non ci si stanca mai di ascoltare; leggermente diversa Army Of Winter (che nell’occasione è oggetto di una terza rielaborazione visto che il brano faceva parte anche di “Visions From A Thousand Lives”) per il suo andamento ritmico che richiama, almeno inizialmente, gli inarrivabili Katatonia di “Brave Murder Day”.
Endless è un breve strumentale, dalle iniziali pulsioni elettroniche, posto in chiusura di un lavoro breve ma che lascia intravvedere le enormi potenzialità dei Dead Summer Society; attendiamo quindi con fiducia la prossima prova su lunga distanza.

Tracklist :
1. The Heart of Autumnsphere
2. My Days through Silence
3. Army of Winter (March of the Thousand Voices)
4. Endless

Line-up :
Mist – All Instuments
Trismegisto – Vocals

Fuoco Fatuo – 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero

Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma

Fuoco Fatuo è un gran bel nome per una band, soprattutto quando questo si addice allo stile musicale prescelto: l’immagine delle fiamme che scaturiscono da terreni paludosi si sposa alla perfezione col sound fangoso del trio varesino; ma anche il senso di precarietà che questo monicker simboleggia, alla fine, costituisce une dei temi portanti del doom metal, con la sua eterna rappresentazione del dolore e della caducità dell’esistenza.

I tre brani contenuti in questo breve Ep costituiscono un efficace esempio del potenziale di questa band di recente formazione: in 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero (anche il titolo non è niente male …) confluiscono diverse influenze, dal black metal, che si evidenza in certe accelerazioni e nell’uso delle voci, al dark e all’heavy di stampo esoterico tipico della scuola italiana (Malombra, Death SS), fino allo sludge, pesante e grumoso come deve essere.
L’abisso ci porta (e non poteva essere diversamente) nei gorghi più oscuri della psiche con le sue chitarre ronzanti e i repentini rallentamenti prima di lasciare spazio in chiusura a un conturbante hammond.
Vuoto Nero è una traccia che, pur essendone l’ideale continuazione, risulta molto più opprimente del brano che la precede, caratterizzata com’è da un doom scarno e quasi primordiale; il viaggio dilaniante e allucinato si chiude con la title track che si mantiene su coordinate devote a un’oscurità totalizzante, squarciata sporadicamente da efficaci parti di tastiera volte a spezzare temporaneamente l’accerchiamento prodotto da sonorità ruvide e minacciose.
Questi venti minuti non sono roba per palati raffinati, piuttosto appaiono adatti a chi predilige l’impatto e la profondità dei suoni rispetto alla loro forma; peccato solo che il growl e lo scream del bravo Milo non sempre rendano sufficientemente comprensibili i testi redatti in italiano.
In definitiva questo Ep si rivela un assaggio esaustivo di quella che potrà essere in futuro la proposta dei Fuoco Fatuo, in special modo se, come ci auguriamo, riscuoteranno l’attenzione di qualche etichetta specializzata del settore.

Tracklist :
1. L’Abisso
2. Vuoto Nero
3. 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale

Line-up :
Milo chitarra-voce
Ken basso
Fabrizio batteria

 

Embrace Of Silence – Leaving The Place Forgotten By God

Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.

Positivo esordio su lunga distanza degli ucraini Embrace Of Silence, alle prese con un death doom di matrice classica, dagli ovvi rimandi ai capiscuola del genere.

Il fatto che il precedente Ep fosse una raccolta di cover che iniziava proprio con due brani dei My Dying Bride fa intuire senza difficoltà il tipo di sound contenuto all’interno di Leaving The Place Forgotten By God.
Però, a differenza di quanto fatto recentemente dai compagni di etichetta Graveflower, la band originaria di Izmail non riproduce in maniera così fedele il sound dei maestri britannici bensì segue una linea leggermente più personale, sia per il ricorso alternato di growling e screaming, evitando quindi le sofferte clean vocals in stile Stainthorpe, sia soprattutto per le sonorità meno introspettive e malinconiche e senz’altro più dirette.
Non che qui l’allegria regni sovrana, ovviamente: il mood è appropriato al genere proposto ma, piuttosto che utilizzare note dolenti di violino o pianoforte, i ragazzi ucraini costruiscono i loro brani su efficaci linee di chitarra.
La condivisibile scelta di proporre un lavoro dalla durata inferiore ai tre quarti d’ora rende meno complesso l’ascolto di Leaving …, facendo sì che la musica scorra in maniera fluida e sempre godibile.
Tutti i brani si collocano ampiamente al di sopra di un’ampia sufficienza ma, tra questi, vanno segnalati gli ottimi Way To Salvation, con la sua sapiente alternanza tra accelerazioni e rallentamenti, sempre contraddistinti da ficcanti melodie, e la traccia di chiusura I’m Your Jesus, nella quale le chitarre si ergono ancora ad assolute protagoniste.
Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.
Embrace Of Silence: un nome da tenere d’occhio nel prossimo futuro.

Trackist :
1. In Gloom of Somnolent Night
2. The Slave of Forgotten Graves
3. The Gates of Remembrance
4. Silent Voice, Empty Words
5. Way to Salvation
6. In Angel’s Hand
7. I’m Your Jesus

Line-up :
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Eugenia Krapivina – Violin, Keyboards
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Andrey Lyhorod – Drums

Officium Triste / Ophis – Immersed

L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.

L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.

La prima coppia di brani è ad opera degli olandesi Officium Triste, con i quali viene esplorato il versante più melodico del genere; avendo a che fare con una band formatasi a metà degli anni ’90, ascoltando tracce come Repent e Bittersweet Memories non si può certo relegare i nostri al semplice ruolo di epigoni, in considerazione di un percorso musicale pressoché parallelo a quello dei Saturnus, tanto per citare un nome a caso ….
Il secondo dei due brani, in particolare, appare senza dubbio il migliore, grazie alle atmosfere malinconiche e decadenti che la band guidata da Pim Blankenstein riesce a proporre con buon gusto e grande perizia tecnica.
Si potrebbe obiettare che nulla è cambiato rispetto all’ultimo full-length, risalente ormai a cinque anni fa, ma in ambito doom questo non sempre è un difetto, anzi; è lecito affermare, quindi, che gli olandesi consolidano il loro status di band equilibrata, affidabile e mossa da una genuina passione per questo genere musicale.
Diverso, invece, il discorso per i più giovani tedeschi Ophis, i quali hanno all’attivo due ottimi dischi pubblicati in epoca relativamente recente che mostrano una lenta ma costante evoluzione stilistica.
Qui le melodie evocative dei loro compagni d’avventura lasciano il posto a partiture più massicce, contraddistinte da riff granitici e dall’uso costante di vocals ruvide, con l’alternanza di growl e screaming: Storm of Shards si spinge talvolta su territori post-metal analogamente a quanto fatto qualche mese fa dai Process Of Guilt, pur conservando in maniera più marcata rispetto ai portoghesi la propria matrice death-doom, mentre The Mirthless presenta rallentamenti più canonici ma non meno claustrofobici, senza disdegnare l’inserimento di funerei passaggi di chitarra solista.
Ottima prova, quindi, peccato solo per la resa sonora differente dei brani degli Ophis rispetto a quelli degli Officium Triste, aspetto che si percepisce maggiormente proprio potendo fare un confronto immediato nel passaggio dalla seconda alla terza traccia.
Traendo le conclusioni ci troviamo di fronte a un interessante esempio di come si possa produrre musica di uguale valore affrontando un genere simile ma con un diverso approccio. Non ci resta che attendere le due band a una nuova prova su lunga distanza per ricevere un’ennesima conferma delle buone impressioni fornite da questo split album.

Tracklist :
1. OFFICIUM TRISTE – Repent
2. OFFICIUM TRISTE – Bittersweet Memories
3. OPHIS – Storm of Shards
4. OPHIS – The Mirthless

Line-up :
OFFICIUM TRISTE
Lawrence Meyer – Bass
Niels Jordaan – Drums
Pim Blankenstein – Vocals
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard – Guitars
Bram Bijlhout – Guitars

OPHIS
Philipp Kruppa – Vocals, Guitars, All instruments
Nils Groth – Drums
Oliver Kröplin – Bass
Martin Reibold – Guitars

Tempestuous Fall – The Stars Would Not Awake You

Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tempestuous Fall è la nuova incarnazione del musicista australiano Dis Pater, conosciuto finora nell’ambiente per il suo progetto principale Midnight Odyssey.

Se i lavori pubblicati con questo monicker sono sempre stati all’insegna di un affascinante black ambient, The Stars Would Not Awake You esplora gli oscuri meandri dei territori funeral-death doom, dando libero sfogo a quelle influenze primigenie che, a detta dello stesso autore, per qualche insondabile motivo fino a oggi non avevano trovato il loro naturale sbocco.
Il risultato è davvero apprezzabile anche perchè, nonostante il dichiarato riferimento ai lavori di My Dying Bride e Anathema degli anni ’90, l’album si sviluppa su coordinate tutt’altro che scontate nel corso della sua ora abbondante di durata distribuita su cinque lunghi brani, trovando i suoi picchi qualitativi nell’opener Old & Grey e nel brano di chiusura A Cold Stale Goodbye.
Nel primo caso colpiscono il grande gusto melodico e le clean vocals evocative, mentre nel secondo le atmosfere si fanno maggiormente plumbee e chiaramente di stampo funeral, con un sound che riporta direttamente ai mitici Thergothon.
In questo senso anche la title-track si rivela traccia di grande qualità, soprattutto quando un solenne assieme di chitarra, tastiere e growl irrompe brutalizzando letteralmente i delicati passaggi pianistici, mentre sia Beneath a Stone Grave che Marble Tears contribuiscono a mantenerne elevato il livello medio dell’intero lavoro.
Tenendo conto del fatto che Dis Pater si cimenta per la prima volta con questo genere e che l’album è uscito contemporaneamente a un lavoro immenso come “Atra Mors” degli Evoken, si può tranquillamente affermare che The Stars Would Not Awake You non esce affatto schiacciato dal confronto, inserendosi, invece, sulla scia dei maestri statunitensi grazie a un songwriting ispirato e tutt’altro che di maniera.
Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tracklist :
1. Old & Grey
2. Beneath a Stone Grave
3. Marble Tears
4. The Stars Would Not Awake You
5. A Cold Stale Goodbye

Line-up :
Dis Pater – Vocals, All Instruments