Travelin Jack – Commencing Countdown

I Travelin Jack hanno saputo rielaborare le influenze dei maestri del genere, inventandosi la propria personale rivisitazione del classic rock.

Ora che l’hard rock dai rimandi settantiani è tornato definitivamente ad incendiare le notti dei rockers tra impatto rock’n’roll e splendide note blues, il dibattito si fa sempre più acceso tra i consumatori di musica, con una parte a difendere l’operato dei molti gruppi apparsi sul mercato (tanti davvero interessanti) e l’altra a criticare l’effetto nostalgia che il successo del genere comporta, dimenticando che, in fondo, è solo rock’n’roll.

Quindi lasciate a casa la voglia di criticare a priori e buttatevi a capofitto sul secondo album di questa band tedesca, dal monicker che ricorda passati eroi dell’hard rock blues (Travelin Jack mi ha subito portato alla mente Grand Funk Railroad e Creedence Clearwater Revival), con una cantante nata per essere una blues girl ed un lotto di brani a formare un altro bellissimo album di hard rock vintage, psichedelico e bluesy.
Attiva più o meno da una manciata di anni e con un primo album alle spalle licenziato nel 2015 dal titolo New World, la band dopo la firma per Steamhammer/SPV si presenta con il nuovissimo Commencing Countdown, provando così a scalzare dal trono di spade del rock di questo inizio millennio i vari Pristine, Blues Pills, The Answer e compagnia nostalgica.
Look glam alla T.Rex, una sirena blues al microfono (Alia Spaceface) e una serie di brani affascinanti che, amalgamando in un unico sound hard rock britannico, rock blues e psichedelia, si insinuano come serpenti usciti da un trip nella nostra mente e nel nostro corpo, scuotendolo dalle fondamenta, mentre le chitarre decollano, toccando pianeti dove in passato un essere di nome Ziggy partì verso la conquista della Terra.
Questa caratteristica è la differenza sostanziale tra i Travelin Jack ed i loro colleghi, la forte componente glam che si affaccia tra le trame hard blues di brani straordinari per intensità ed emozionalità, crescendo dall’opener per arrivare alla perfezione quando l’album entra nel vivo e ci regala musica rock d’alta scuola con Cold Blood, lo space rock pregno di blues di Galactic Blue, la sentita Time, il rock’n’roll di Miracles che ricorda opere rock come Tommy, il blues dannato e perdente di What Have I Done e Fire, brano marchiato da un’ interpretazione notevole della Spaceface.
I Travelin Jack hanno saputo rielaborare le influenze dei maestri del genere, inventandosi la propria personale rivisitazione del classic rock: questo è l’unico dato certo, mentre il sottoscritto prima o poi tornerà sulla Terra, forse.

Tracklist
1. Land Of The River
2. Metropolis
3. Keep On Running
4. Cold Blood
5. Galactic Blue
6. Time
7. Miracles
8. What Have I Done
9. Fire
10. Journey To The Moon

Line-up
Alia Spaceface – vocals, guitar
Flo The Fly – guitar
Steve Burner – bass
Montgomery Shell – drums

TRAVELIN JACK – Facebook

Cunning Mantrap – Hazmat

It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione al sole.

Ecco un’altra ottima band dai suoni hard rock in arrivo dal centro Europa, da quelle terre germaniche dove il genere ed i suoi derivati splendono di tradizione ed il metal/rock trova la sua patria ideale.

I Cunning Mantrap sono un terzetto di rockers con un solo ep alle spalle (Dull Days), ora seguito da Hazmat, nuovo e notevole lavoro che spazia tra hard rock, grunge e stoner metal, sguaiato, bluesy e psichedelico quanto basta per lasciarlo nel lettore a far danni nelle vostre serate alcoliche.
Licenziato dalla Fastball Music lo scorso anno, MetalEyes IYE lo ripropone ai suoi lettori, che di deserto arso da una palla infuocata e vulcanici riff se ne intendono.
In verità non siamo al cospetto di chissà quale novità: il sound del gruppo tedesco segue le strade polverose di molte hard rock band del momento, ma sfido chiunque a non muovere il fondo schiena e sbattere la capoccia al ritmo di questa dozzina di brani anfetaminici, mentre gli anni settanta ed i suoi eroi ammiccano soddisfatti alle gesta di Phry McDunstan, Tobias Schmidt e Lukas Bönschen da Colonia.
It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione a un sole che illumina brani come l’opener Red, dal sound creato a Seattle e portato in terra teutonica da Weary, mentre la varia raccolta di tracce porta l’ascoltatore ad assaporare diverse atmosfere tra i cieli dove vola il dirigibile zeppeliniano, il deserto dove corre la macchina Kyuss e le pozzanghere di una piovosa città americana dove bazzicavano Alice In Chains e Soundgarden.
Hazmat è dunque un ottimo lavoro , diretto, senza fronzoli ma ricco di buone canzoni: cercatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.Red
2.Company
3.Play The Prophet
4.Uncanny Volley
5.A Light Have Should Have Shined
6.Detox
7.Weary
8.The Past
9.The Future II
10.Orange
11.Straight Outta Hand
12.The Course Of The Leaden Tongue

Line-up
Phry McDunstan – Lead guitars, bass
Tobias Schmidt – Bass
Lukas Bönschen – Drums

CUNNING MANTRAP – Facebook

High Spirits – Escape!

Il progetto High Spirits nasce per tributare l’hard rock classico, quindi UFO e Thin Lizzy sono ancora le maggiori fonti di ispirazione di Black che ci regala un piccolo gioiellino, in attesa del ritorno sulla lunga distanza.

Torna Chris Black, musicista americano impegnato in molti progetti tra cui Pharaoh e Nachtmystium, con il gruppo attraverso il quale dà sfogo alla sua anima rock, gli High Spirits.

Fino al precedente Motivator il gruppo era di fatto in mano al solo Black, il quale suonava tutti gli strumenti, ora invece è stato raggiunto da altri quattro musicisti (Scott, Mike, Bob, Ian) per quella che sembrerebbe una rock band a tutti gli effetti.
Escape! è il secondo mini cd uscito quest’anno e segue Night Rock, risalente a qualche mese fa.  tornando a far parlare di questa ottima rock band di Chicago, dedita all’hard rock tradizionale, influenzato dall’ala britannica negli anni a cavallo tra il decennio settantiano e quello successivo.
Il gruppo si disimpegna al meglio sulle ali di una title track che parte veloce, serrata e senza freni, mentre è già ora del chorus da cantare sotto al palco, a muso duro rivendicando l’appartenenza alla grande famiglia del rock.
Melodie e watt, con un hard rock che si fregia di un ottimo lavoro chitarristico nella superba Stagefright, mentre in poco più di due minuti Fells Like Rock And Roll ci scaraventa al muro con una forza dirompente presa in prestito da Motorhead ed UFO.
Le influenze rimangono classiche, d’altronde il progetto nasce per tributare l’hard rock classico, quindi UFO e Thin Lizzy sono ancora le maggiori fonti di ispirazione di Black (Lonely Nights, ultimo ruggito per questo lavoro) che ci regala un piccolo gioiellino in attesa del ritorno sulla lunga distanza.

Tracklist
1.Escape!
2.Stagefright
3.Fells Like Rock And Roll
4.Lonely Nights

Line-up
Chris
Scott
Mike
Bob
Ian

HIGH SPIRITS – Facebook

Märvel – The Hills Have Eyes

Sei tracce di rock’n’roll, vicino a quanto fatto dagli Hellacopters e con un’ispirazione settantiana che aleggia sul disco.

Che in Scandinavia si faccia rock’n’roll di altissima qualità non sono di certo io a dirlo, parla una lunga serie di nomi che sono diventati punti di riferimento per i rockers di tutto il mondo, partendo dagli storici Hanoi Rocks, passando dai Turbonegro per arrivare alla generazione che, come una gallina magica ha sfornato uova d’oro come Backyard Babies, Hellacopters e Hardcore Superstars.

Passata la tempesta rock’n’roll a cavallo tra gli anni novanta ed il nuovo millennio, i gruppi famosi sono tornati ultimamente sul mercato con buoni lavori accompagnati dalle nuove leve, meno numerose rispetto a quel periodo ma sempre di ottima qualità.
I Märvel per esempio provengono da Linköping, sono attivi dal 2002 e dopo aver consumato strumenti nelle cantine della loro città arrivano al debutto nel 2005 con l’album Five Smell City.
Warhawks Of War, rimane l’opera più famosa che vede ospiti comeDregen (Backyard Babies) and Robert Dahlqvist (Hellacopters) , a confermare l’ottima proposta del gruppo.
The Hills Have Eyes esce nel 2015, licenziato dalla Killer Cobra ed ora ristampato dalla The Sign .
Trattasi di un mini album composto da sei tracce di rock’n’roll, vicino a quanto fatto dagli Hellacopters e con un’ispirazione settantiana che aleggia sul disco.
Dunque siamo nel più puro e melodico hard rock che avvicina i quattro cavalieri mascherati più famosi del rock alla tradizione scandinava, con una deliziosa (e più melodica rispetto all’originale) cover del classico degli WASP, Love Machine, che valorizza tutta l’opera.
Buone trame acustiche, specialmente nella conclusiva Bring It On e maschere di cuoio a nascondere i visi dei tre protagonisti, benvenuti nel mondo dei Märvel !

TRACKLIST
1.Back In The Saddle
2.One Shining Moment
3.The Hills Have Eyes
4.Goodbye, Shalom!
5.Love Machine
6.Bring It On

LINE-UP
Ulrik Bodstedt – Bass
Tony Samuelsson – Drums
John Steen – Guitar & Vocals

MARVEL – Facebook

La Janara – La Janara

La musica del gruppo irpino ci avvolge e ci trasporta tra le montagne, in uno spazio temporale in cui roghi, streghe, spettri e tutte le creature del mondo occulto e mistico si prendono gioco degli uomini.

La label genovese Black Widow, che di musica di un certo spessore è portavoce da molti anni, ci presenta questo progetto in arrivo dall’Irpinia chiamato La Janara, creatura leggendaria di quei posti che, come molti altri luoghi sparsi per la nostra penisola, sono accompagnati da misteriosi racconti tramandati da generazioni.

In La Janara la musica è un bellissimo ed affascinante esempio di heavy metal, pregno di sfumature dark e progressive in linea con una tradizione nazionale consolidata, così come il fatto che venga rispettata all’estero e ignorata nel nostro paese, nonostante regali nel nuovo millennio ancora grande musica.
Accompagnata dalla voce della strega Raffaella Cangero (che è stata ospite anche nell’ultimo album degli Ecnephias), la musica del gruppo irpino ci avvolge e ci trasporta tra le montagne, in uno spazio temporale in cui roghi, streghe, spettri e tutte le creature del mondo occulto e mistico si prendono gioco degli uomini: le sonorità si sposano con i testi in italiano creando un alone di mistero, grazie anche ad atmosfere dark d’autore, sacrileghe ma raffinate, tra impennate metalliche, ritmiche doom, e bellissimi camei folk acustici.
La band passa dal metal classico, che si evince dai riff portanti dei brani Sul Rogo e Strega, marchiati a fuoco dal doom del maestri Paul Chain e The Black, al doom questa volta più classico della rocciosa Cuore Di Terra, mentre le trame acustiche di Orchi invitano al sabba di Requiem, altro brano atmosfericamente sopra le righe, valorizzato da un interpretazione varia e sentita della vocalist, ottima nel conferire un’anima ai testi mai banali dell’opera.
L’album è colmo di ispirazioni nobili come i già citati Paul Chain e The Black, a cui aggiungerei senza dubbio i grandi Death SS e, con le dovute differenze, si colloca vicino all’ultimo album degli Artemisia:  un gioiellino per il quale la parola arte non viene usata a sproposito.

Tracklist
1. Ianva
2. Sul Rogo
3. Spettri
4. Strega
5. Le Janare
6. Malombra
7. Cuore di Terra
8. Orchi
9. Requiem
10. Luce

Line-up
Nicola Vitale – Chitarra
Raffaella Cangero – Voce
Rocco Cantelmo – Basso
Stefano Pelosi – Batteria

LA JANARA – Facebook

MaidaVale – Tales Of The Wicked West

Le quattro sacerdotesse di Fårösund, senza cercare di stupire a tutti i costi, svolgono il compito prefissato nel migliore dei modi, ed il loro album ne esce alla grande, vintage fino al midollo, suggestivo e pregno di atmosfere stregate dal blues e dalla psichedelia-

Ora che i suoni vintage, nel metal e nell’hard rock, sono la nuova via per piacere agli ascoltatori, i gruppi dediti a queste sonorità spuntano come i funghi, un male se pensiamo ad un ennesima inflazione del mercato, un bene per i fans dei suoni nati nella seconda metà del secolo scorso.

Nell’ underground non mancano nuove realtà che arrivano all’esordio prendendo come esempio le nuove new sensation dell’hard rock dai rimandi blues e psichedelici come i Blues Pills.
Dalla Svezia (e non è un caso, visto la tradizione per i suoni settantiani nel paese scandinavo) arrivano dunque le MaidaVale, gruppo tutto al femminile che tramite la Sign Records esordisce con Tales Of The Wicked West, bellissimo esempio di hard rock psichedelico e blues, ipnotico come una danza sotto la luna splendente sui boschi delle foreste nordiche.
Le quattro sacerdotesse di Fårösund, senza cercare di stupire a tutti i costi, svolgono il compito prefissato nel migliore dei modi, ed il loro album ne esce alla grande, vintage fino al midollo, suggestivo e pregno di atmosfere stregate dal blues e dalla psichedelia, con quel tocco sabbathiano che avvicina il sound agli hard rockers dai gusti vintage.
Blues e psichedelia sono un binomio più pericoloso di quello che si possa pensare, esaltato dalla voce di Matilda Roth in (If You Want The Smoke) Be The Fire o Restless Wanderer, con una Find What You Love And Let It Kill You che trasforma il verde della natura svedese nel color sabbia del deserto americano, in un trip che la voce femminile accentua facendo sognare dentro ad un caleidoscopio di musica rock sopra le righe.
Finirà questo fiume in piena che porta a valle tanta musica vintage e come sempre rimarranno solo i migliori, e le MaidaVale sono candidate a restare, non perdetevele.

TRACKLIST
01. (If You Want the Smoke) Be The Fire
02. Colour Blind
03. The Greatest Story Ever Told
04. Truth/Lies 05. Dirty War
06. Restless Wanderer
07. Standby Swing
08. Wish I’d Been Born At Sea
09. Find What You Love And Let It Kill You

LINE-UP
Johanna Hansson – Drums
Matilda Roth – Vocals
Linn Johannesson – Bass
Sofia Ström – Guitar

MAIDAVALE – Facebook

Dope Out – Scars & Stripes

Un ottimo album underground e una band in cui rifugiarsi quando la voglia di rock è tanta così come quella di un nome nuovo da fare vostro.

Quello tra hard rock e groove è un binomio che negli ultimi tempi si è consolidato grazie ad una miriade di uscite, più o meno interessanti, ma sicuramente tutte pregne di grinta ed irriverenza rock’n’roll.

I Dope Out arrivano da Parigi, il loro sound è statunitense di origine controllata, un hard & heavy potenziato da tonnellate di groove ed attitudine rock’n’roll appunto, come una band street impossessata dal demone del groove o semplicemente un hard rock band che suona cool (almeno di questi tempi).
Scars & Stripes è il secondo lavoro che segue di tre anni l’ album d’esordio Bad Seeds: si può dire tutto su questo lavoro, ma è indubbio che il sound in esso contenuto riesca a catturare l’attenzione dell’ascoltatore, bombardato da cannonate senza soluzione di continuità, con la melodia che fa a spallate con la mastodontica potenza ritmica e la sei corde che piazza solos che sprizzano rock’n’roll da tutti i pori.
Ritmiche rocciose, riff debordanti e chorus che si attaccano alla pelle come sanguisughe, sono le virtù di queste dieci deflagrazioni hard rock, dall’iniziale title track, passando per Dive, Lady Misfits e Balls To The Wall.
Ci si fa del male con Scars & Stripers, d’altronde difficilmente si riesce a stare fermi, mentre il mobilio di casa salta, sollecitato dal rock’n’roll moderno e pregno di groove del combo francese, tarantolato dopo essere stato sottoposto alle radiazioni rock di Sixx A.M., Velvet Revolver, Black Stone Cherry ed Alter Bridge.
Un ottimo album underground e una band in cui rifugiarsi quando la voglia di rock è tanta così come quella di un nome nuovo da fare vostro.

TRACKLIST
1.Scars & Stripes
2.Dive
3.The Freakshow
4.Lady Misfits
5.Clan Of Bats
6.Shooting Gun
7.Nose White
8.Balls To The Wall
9.Again
10.Soulmate

LINE-UP
Stoner – Vocals, Guitar
Crash – Lead Guitar, Backing vocals
Doc – Bass, Backing vocals
Mad – Drums

DOPE OUT – Facebook

Rex Brown – Smoke On This

Un buon lavoro, che sa sorprendere senza far gridare al miracolo e che sicuramente farà discutere, specialmente chi pensava di trovarsi al cospetto di qualcosa vicino ai Pantera o ai Down.

E’ venuto il momento anche per Rex Brown, storico bassista di Pantera, Down ed altre varianti metalliche più o meno riuscite ma che n e hanno fatto un musicista rispettato in tutto l’ambiente.

Vissuto per anni all’ombra di personalità debordanti come Phil Anselmo ed il compianto Dimebag Darrel, Rex ha avuto molto tempo per presentarsi in una versione solista e l’ha sfruttata a dovere, coniando per questo lavoro un sound tutto suo, evitando facili ispirazioni provenienti dal passato e lasciando che la suaindole lo spingesse verso lidi hard rock.
Rex, alle prese con basso, chitarra e voce (sanguigna, vissuta, da rocker) su Smoke On This ha collaborato con Lance Harvill, chitarrista/cantautore e suo amico di vecchia data, e con Christopher Williams , batterista di Nashville, da un paio d’anni dietro alle pelli degli Accept.
Prodotto da Caleb Sherman, Smoke On This è una raccolta di rock americano, classico, duro come la frontiera, intimista e malinconico, d’autore nei brani dove Brown lascia che siano le atmosfere semi acustiche o leggermente elettriche che sfiorano il southern rock, ma evitando di sconfinare nel groove e nell’hard & heavy: l’opera è suddivisa in undici capitoli di rock diretto e vissuto, come una vita spesa per la musica che lascia segni inevitabili, come molte volte solitudine od altrettanta inquietudine.
E’ un album vero e sincero Smoke On This, il volto riflesso in uno specchio di un artista che si dimostra completo ed in grado di andare oltre al solito sound per mettersi in gioco, riuscendoci con un lotto di brani piacevoli come Crossing Lines, Get Yourself Alright, il rock d’autore della delicata Grace, e l’hard rock polveroso di So Into You, mentre gira che ti rigira si finisce a parlare di blues, quello sporcato di rock duro, padre e figlio dell’America di provincia.
Un buon lavoro, che sa sorprendere senza far gridare al miracolo e che sicuramente farà discutere, specialmente chi pensava di trovarsi al cospetto di qualcosa vicino ai Pantera o ai Down.

Tracklist
1. Lone Rider
2. Crossing Lines
3. Buried Alive
4. Train Song
5. Get Yourself Alright
6. Fault Line
7. What Comes Around…
8. Grace
9. So Into You
10. Best Of Me
11. One Of these Days

Line-up
Rex Brown – Bass, Vocals, Guitars
Lance Harvill – Guitars
Christopher Williams – Drums

REX BROWN – Facebook

Affäire – Neon Gods

Gli Affäire riescono a farsi apprezzare già dal primo brano anche da chi non conosce la loro musica, ottenendo un ottimo compromesso tra atmosfere anni ’80 e l’aggiunta di qualche elemento moderno.

Dopo il full-length di debutto del 2015 At First Sight, gli Affäire tornano con un nuovo EP contenente anche una versione coverizzata del brano dei Beatles I Saw Her Standing There.

L’album inizia con la title track Neon Gods, introdotta da un riff di chitarra un po’ anticato, di stampo quasi country/blues, che si trasforma subito dopo in un aggressivo e rude sleaze. Degno di nota il brano All Messed Up, con il quale entriamo nel “Party Mood” in stile Crashdiet: ritornello orecchiabile e cori che accompagnano senza prevaricare la voce principale, sicuramente un brano che resterà nella testa dell’ascoltatore. Nonostante sia tratti di un EP di soli 5 pezzi, gli Affäire riescono a farsi apprezzare fin dal primo brano anche da chi non conosce la loro musica, ottenendo un ottimo compromesso tra atmosfere anni ’80 e l’aggiunta di qualche elemento moderno; insomma una band con un piede nel passato ed uno nel futuro, uno sleaze/glam rivolto non solo ai nostalgici ma anche alle nuove generazioni. Molto rilevante la cover del brano I Saw Her Standing There dei Beatles, un rock’n roll molto divertente in chiave originale e moderna, ma senza voler strafare rendendola una “brutta copia”. Il frontman Dizzy Dice Mike riesce a trasportare l’ascoltatore direttamente nelle atmosfere di ottantiana memoria, con la sua voce un po’ roca e rude tipica del glam e dello sleaze di quegli anni, splendidamente accompagnato dai cori nelle parti più significative dei brani. Le chitarre sono nel contempo “rozze” e cariche, senza mai debordare ma risaltando e spiccando nei giusti momenti, quasi a sottolineare la loro presenza. Il basso si fa sentire in tutte le canzoni, a volte prepotente, con uno spazio dedicato ad un piccolo assolo nell’introduzione del brano Shotgun Marriage, mentre la batteria rude e forte fa da accompagnamento in modo sapiente. Nel complesso Neon Gods è un EP molto interessante, che fa crescere l’attesa per un nuovo full-length e che, sicuramente, piacerà tanto agli affezionati del genere quanto ai nuovi ascoltatori che cercano qualcosa di vecchio stampo, ma allo stesso tempo con elementi che attingono dal moderno.

Tracklist
01. Neon Gods
02. All Messed Up
03. Shotgun Marriage
04. The Hitcher
05. I Saw Her Standing There

Line-up
J.P. Costanza – Drums, Backing Vocals
Rick Rivotti – Guitars, Backing Vocals
Dizzy Dice Mike – Vocals
Tawny Rawk – Bass, Backing Vocals

AFFAIRE – Facebook

Mother Nature – Double Deal

un lavoro piacevole, vario e scorrevole, duro ma con un occhio particolare verso melodie che catturano ed imprigionano, legati al filo del blues e della musica nera.

Operazioni dal retrogusto vintage o meno, è un fatto che l’hard rock sia tornato a fare la voce grossa sul mercato del metal/rock a tutti i livelli, dalle reunion live di gruppi storici alle proposte di un mondo musicale alternativo che non ha mai smesso di crederci, anche quando solo al pronunciare le due magiche parole (hard rock) si veniva tacciati e additati come immobili conservatori, amanti di un modo d’espressione ormai obsoleto.

Ma come sempre è successo in questo meraviglioso mondo, in questi ultimi anni, d’incanto, tutto è tornato al suo posto e l’hard rock nelle sue molte sfaccettature è tornato a far ruggire i leoni lungo criniti sui palchi di tutti il mondo.
E la nostrana Andromeda Relix non è certo stata a guardare mettendo sotto contratto vari gruppi impegnati nel rock duro come i Mother Nature, dal 1993 in giro a suonare hard rock zeppeliniano, dai rimandi al blues e in quota Bad Company.
Si parte da qui per descrivere il sound del gruppo pugliese, come detto da una vita ormai in sella, anche se non sono mancati problemi e stop forzati: un album uscito nel 1998 (Skin), un paio di demo precedenti che piacquero non poco alla stampa dell’epoca ed una predisposizione per tutto quel che riguarda il rock del delta, lasciato tre le mani di rockers che, con personalità e gusto, affrontano la materia seguendo le strade tracciate dai dinosauri settantiani, tra il Regno Unito e l’America(Aerosmith)
Ne esce un lavoro piacevole, vario e scorrevole, duro ma con un occhio particolare verso melodie che catturano ed imprigionano, legati al filo del blues e della musica nera (funky e soul fanno sicuramente parte del bagaglio musicale dei nostri).
Un album arioso, che parte come meglio non potrebbe con il riff dell’opener Spit My Soul, e mentre il sole scalda gli strumenti il ritmo prende il sopravento con l’irresistibile Magnet Girl.
L’inizio non poteva essere più promettente e adrenalinico, ed a confermare che non si tratta di un fuoco di paglia, Haze ci travolge, ipnotica e dal chorus melodico di una bellezza imbarazzante, mentre accenni alle nuove sfumature desertiche fanno capolino tra il groove ritmico di questo stesso brano e di Does It Suit You.
Gli Aerosmith a braccetto con gli Zep canticchiano Everything Will Follow, mentre gioiosi si incamminano verso il delta con il southern rock blues della splendida New Way: il gruppo qui si diverte e fa divertire come non succedeva da ormai vent’anni circa ed il sound esplode dagli altoparlanti, sanguigno e pieno come deve essere un disco del genere.
Un album che non lascia scampo e si fa amare, come un ragazza portata in un fienile nel tramonto di una sera d’estate, perdendosi tra le note mentre fuori, in un attimo, è già l’alba … magie del rock ‘n’ roll.

Tracklist
1.Spit My Soul
2.Magnet Girl
3.Haze
4.Pearl v3
5.Everything Will Follow
6.Ask Yourself
7.Double Deal
8.New Way
9.Does It Suit You
10.Boy, We Gotta Handle This

Line-up
Wlady Rizzi – vocals, guitars & harmonica
Luca Nappo – guitars & vocals
Francesco Candelli – bass & vocals
Francesco Amati – drums

MOTHER NATURE – Facebook

Crazy Lixx – Ruff Justice

Con questo quinto album in studio, primo con la formazione a “chitarre cambiate”, i Crazy Lixx ci catapultano direttamente nelle atmosfere tipiche dell’Hair anni ’80. Un ritorno a band come Firehouse, Danger Danger, Tesla e Bon Jovi degli inizi che farà sicuramente gioire tutti i nostalgici di quegli anni.

Ruff Justice vede un ritorno alle sonorità dell’album New Religion del 2010 (piccola perla dei Crazy Lixx) sicuramente più apprezzato rispetto all’autoprodotto Riot Avenue del 2012, che aveva lasciato gli affezionati fan della band un po’ perplessi.

In questo nuovo album la band riconferma il proprio stile, con il quale riesce a mescolare sapientemente glam, sleaze, class metal e melodic hard rock in un’esplosione di nostalgia per gli anni d’oro di questi generi. L’album si apre con un ululato che lascia la scena a Wild Child, singolo di cui è presente anche un video, che già dal primo riff di chitarra fa capire la preparazione musicale dei due più recenti membri dietro le sei corde. Sicuramente colpisce il brano Hunter of the Heart, che già dal primo ascolto farà cantare e ballare gli ascoltatori con il suo ritmo ed il ritornello orecchiabile e facile da imparare. Di notevole impatto la ballad If It’s Love, che ci rimanda ai lenti in stile Whitesnake, struggente, carica di sentimento e con forte carattere. Con Live Before I Die, degna conclusione di un album che regala forti emozioni, i Crazy Lixx ci fanno capire che gli anni ’80 scorrono nelle loro vene come se fossero stati teletrasportati direttamente da quei tempi ai giorni nostri.
Con questo nuovo lavoro i Crazy Lixx ci mostrano tutta la maturazione musicale acquisita in questi 15 anni di attività, ed il frontman Danny Rexon, ancora una volta, ci stupisce con il carisma che lo ha sempre caratterizzato e con la grande vocalità che ipnotizza. Gli intrecci corali, i riff orecchiabili e trascinanti che accompagnano sapientemente la voce del frontman, gli assoli mai banali ma sempre con quel tipico stampo ottantiano, e la batteria che incornicia abilmente il tutto, rendono questo album un perfetto revival degli anni ’80, in grado di far cantare e ballare i nostalgici e certamente di conquistare anche nuovi ascoltatori.

Label:
Tracklist
1-Wild Child
2-XIII
3-Walk The Wire
4-Shot With A Needle Of Love
5-Killer
6-Hunter Of The Heart
7-Snakes In Paradise
8-If It’s Love
9-Kiss Of Judas
10-Live Before I Die

Line-up
Danny Rexon – Vocals
Jens Lundgren – Guitar
Chrisse Olsson – Guitar
Jens Sjöholm – Bass Guitar
Joél Cirera – Drums

CRAZY LIXX – Facebook

Ten – Gothica

E’ un ritorno importante questo dei Ten, per riprendere le redini della scena hard rock internazionale con un album che lascia sprigionare emozioni come non succedeva dai tempi di The Robe e Spellbound.

I Ten sono uno dei gruppi più importanti dell’hard rock melodico di matrice britannica che gli ultimi vent’anni abbiano visto all’opera: a braccetto con i connazionali Dare hanno saputo nobilitare un genere caduto in disgrazia all’inizio degli anni novanta e tornato di recente prepotentemente in auge.

Il gruppo, guidato dal talento del cantante e compositore Gary Hughes, ebbe tra il 1996 ed il 2000 il suo momento magico con almeno quattro album che fanno parte della storia del rock duro europeo, dal secondo e bellissimo The Name Of The Rose a Babylon, passando per i due capolavori The Robe e Spellbound.
Il leader, che passava da lavori solisti a collaborazioni illustri (Bob Catley), ed una popolarità che cresceva tra gli amanti del genere, portò i Ten sulle copertine delle riviste di settore, mentre la discografia si ampliava con album sempre molto belli ma a cui mancava la scintilla che infiammava le opere precedenti.
Qualche cambio in formazione ed un leggero calo, del tutto naturale anche per una band come i Ten, non hanno inficiato la voglia di scrivere del mastermind inglese, tornato da alcuni anni a riempire di pelle d’oca le braccia dei suoi ammiratori con almeno due lavori eccellenti, Albion e l’ultimo Isla de Muerta ,usciti rispettivamente nel 2014 e due anni fa.
Siamo arrivati nel 2017 e tocca a Gothica, il nuovo album prodotto da Hughes, masterizzato e mixato da Dennis Ward e suonato da un gruppo che raccoglie la crema dell’hard rock, ben sette musicisti che, con l’ospite Karen Fell, diventano otto anime che danno all’album quel particolare tocco alla Ten che non lascia scampo.
Ancora grande musica rock, dunque, ultra melodica, anche se Hughes ha dichiarato (per i temi trattati più che altro) di aver puntato su qualcosa di più sinistro ed oscuro, ma sempre straordinariamente melodico come solo la band di Arcadia, The Name Of The Rose o We Rule The Night sa suonare.
Gothica è un album bellissimo, pregno di melodie fuori dal comune, avvolto in alcuni brani da una vena ombrosa che conferisce al sound sfumature melanconiche mai toccate dal gruppo, con almeno la metà dei brani che risplendono del talento non solo del suo leader ma di tutti i musicisti del gruppo, con una menzione particolare per il raffinato ed elegante lavoro ai tasti d’avorio di Darrel Treece-Birch.
La magia di The Grail apre l’album, facendo capire subito che con Gothica il gruppo conferma il ritorno ad una forma eccellente, melodica, oscura ed epica, seguita dal singolo Travellers, dalla grintosa The Wild King Of Winter, dalla moderna  Welcome To The Freak Show e dalle trame aor di La Luna Dra-cu-la.
E’ un ritorno importante questo dei Ten, per riprendere le redini della scena hard rock internazionale con un album che lascia sprigionare emozioni come non succedeva dai tempi di The Robe e Spellbound; inutile dirvi, quindi, che l’album risulta impedibile per tutti gli amanti dell’hard rock melodico.

Tracklist
1. The Grail
2. Jekyll And Hyde
3. Travellers
4. Man For All Seasons
5. In My Dreams
6. The Wild King Of Winter
7. Paragon
8. Welcome To The Freak Show
9. La Luna Dra-cu-la
10. Into Darkness

Line-up
Gary Hughes – Vocals, Backing Vocals, Guitar, Bass and Programming
Dann Rosingana – Guitar
Steve Grocott – Guitar
John Halliwell – Guitar
Steve McKenna – Bass Guitar
Darrel Treece-Birch – Keyboards
Max Yates – Drums and Percussion

Additional Backing Vocals – Karen Fell

TEN – Facebook

Deep Valley Blues – Deep Valley Blues

Prendete quattro musicisti calabresi, già protagonisti con altri progetti più o meno conosciuti nella scena nazionale, lasciateli per un po’ a jammare in un delirio stonerizzato e psichedelico, pesante come una meteora in caduta libera sulla Sila, ed avrete i Deep Valley Blues.

Prendete quattro musicisti calabresi, già protagonisti con altri progetti più o meno conosciuti nella scena nazionale, lasciateli per un po’ a jammare in un delirio psichedelico, pesante come una meteora in caduta libera sulla Sila, ed avrete i Deep Valley Blues, che negli studi della Black Horse ha dato vita in presa diretta a questo mostro stoner/blues.

La band di Catanzaro ha messo la propria esperienza ed attitudine al servizio di questo progetto, rigorosamente in autoproduzione, giusto per alzare di molti gradi la colonnina di mercurio e raggiungendo così temperature vulcaniche.
Deep Valley Blues, ovvero tornare da una drammatica settimana persi nel deserto, dissetarsi il giusto per non lasciare questo mondo, prendere in mano il proprio strumento e tuffarsi in quello parallelo delle visioni e dei trip hard rock, tra una neanche troppo velata attitudine southern, accenni allo psych-hard rock settantiano e lo stoner della famosa valle che ha fatto da parco giochi e maestra ai vari Kyuss e compagnia.
L’urgenza rock del quartetto però è farina del suo sacco, con una vena punk che attraversa i vari capitoli di questa odissea, tra la terra che brucia sotto i piedi ed il sole nemico della ragione, mentre in mezz’ora veniamo travolti da questo sabba desertico, schiaffeggiati dai vari capitoli che si susseguono e formano questa lunga jam.
Space Orgasm è la parte del viaggio che più preferisco, ma Deep Valley Blues rimane un lavoro da mandare giù tutto d’un fiato, altrimenti si rischia di perdere molto della magia drogata del sound di questi sacerdoti dell’hard rock stoner.

1. Death Valley Blues
2. Prey
3. Struggle of Interest
4. Hell of a Month
5. Space Orgasm
6. Banzai
7. Ashes in the Wind

Line-up
Umberto Arena – Guitars and Backing Vocals
Alessandro Morrone – Guitars
Giando Sestito – Bass and Vocals
Giorgio Faini – Drums

DEEP VALLEY BLUES – Facebook

Uncommon Evolution – Junkyard Jesus

Ritmiche grasse, chitarre sature ed attitudine selvaggia sono le maggiori caratteristiche degli Uncommon Evolution e la loro musica, un macigno sonoro che passa per i Clutch e si ferma tra le trame del sound dei Corrosion Of Conformity, aggiunge preziose sfumature southern metal trasformando il tutto in hard rock pesantissimo.

Gli Uncommon Evolution si sono formati nel 2013, arrivano dal Montana e sono stati catturati dalla Argonauta Records, per la quale esce il terzo ep Junkyard Jesus.

Prodotto da Machine (Clutch, Lamb of God, Crobot), il lavoro è composto da quattro brani per una ventina di minuti circa che trasportano sulle montagne degli States.
Deserti che diventano paradisi e viceversa, mentre il caldo soffocante del giorno lascia spazio al freddo polare della notte, in un’escursione termica che si riflette nella musica del quartetto, un hard rock pregno di sonorità stoner, duro come la vita nelle provincie americane, maschio e pesante come una band di taglialegna in trip per suoni stonerizzati e a tratti psichedelici.
Ritmiche grasse, chitarre sature ed attitudine selvaggia sono le maggiori caratteristiche degli Uncommon Evolution e la loro musica, un macigno sonoro che passa per i Clutch e si ferma tra le trame del sound dei Corrosion Of Conformity, aggiunge preziose sfumature southern metal trasformando il tutto in hard rock pesantissimo.
I quattro musicisti statunitensi ci sanno fare con la materia e già dalla title track la loro musica è sparata per fare danni, mentre il chorus di Highly Modified Son of a Bitch si stampa in testa così come l’ottimo refrain, mentre il solo arriva direttamente dalla vetta di una montagna.
La discesa si fa dura e l’ andamento cadenzato di Feather Short of Flight segna il ritorno a valle, mentre King Of The Heep concede un momento di gloria al doom settantiano, compresso e destabilizzato da un’atmosfera satura di elettricità.
Un ottima prova per la band ed ennesimo buon colpo per l’etichetta ligure: gli Uncommon Evolution potrebbero regalare grosse soddisfazioni con un auspicabile prossimo full lenght.

TRACKLIST
1.Junkyard Jesus
2.Highly Modified Son of a Bitch
3.Feather Short of Flight
4.King of the Heep

LINE UP
Matt Niles – drums
Rick Bushnell – bass
River Riotto – lead guitar
Briar Gillund – guitar and vocals

UNCOMMON EVOLUTION – Facebook

Essenza – Blind Gods And Revolution

Ennesimo ottimo lavoro per la band pugliese che, fuori dai comuni schemi, regala musica per chi sa ascoltare.

Tornano con un nuovo lavoro (il quarto di una storia nata nel lontano 1993) i leccesi Essenza dei fratelli fratelli Rizzello (Carlo, voce e chitarra, ed Alessandro, basso, accompagnati da Paolo Colazzo alla batteria), che danno un seguito al precedente “Devil’s Breath” del 2009.

Il nuovo album propone una mezzora abbondante di hard rock adulto, oscillante tra l’heavy ottantiano, uno spirito rock anni settanta, squisite divagazioni prog ed ottime parti ritmiche: tecnicamente impeccabile, mai ordinario, Blind Gods And Revolution accentua la peculiarità del trio nel non fornire all’ascoltatore troppi punti di riferimento, grazie a suoni ed atmosfere che mutano ad ogni passaggio inglobando il meglio di questi generi in un unico lavoro.
Rimane preponderante, a mio parere, una forte impronta settantiana, iniziando dalla produzione e dal cantato di Carlo Rizzello, il che ne fa un album imperdibile per gli amanti del rock più attempati; originale ed imprevedibile, il sound della band acquista valore col passare degli ascolti, permettendo all’ascoltatore di assimilarne le mille sfaccettature.
Album di non facilissimo ascolto, dunque, e sicuramente non un lavoro usa e getta come ormai siamo abituati a consumare in questi anni in cui tutto corre, bensì ottima musica che va curata, lavorata e fatta propria, lasciando che la moltitudine di note racchiuse nei brani del cd entrino dentro di noi, assaporandone ogni sfumatura, che sia essa rivolta all’heavy o al prog, o addirittura al folk come nella meravigliosa Seagulls In The Night.
I brani si susseguono tra ritmiche martellanti e trame complicate e avvincenti, i generi che di volta in volta ci appaiono tra le pieghe del disco rendono l’ascolto vario, anche se la concentrazione è d’uopo per seguire le molteplici strade prese dalla band e non perdersi all’ennesimo incrocio: i tre musicisti ci stupiscono per la scelta di vie talvolta a noi sconosciute ma affascinanti, giocando pericolosamente con la musica, come un incantatore di serpenti davanti ad un velenosissimo rettile.
Ennesimo ottimo lavoro per la band pugliese che, fuori dai comuni schemi, regala musica per chi sa ascoltare, confermandosi come realtà rock di altissima qualità.

Tracklist:
1. Plastic God (An Autumn Dream)
2. Bloody Spring
3. The Song Inside
4. The Fury of the Ancient Witch
5. Lost and Blind
6. Fight for Change
7. Seagulls in the Night
8. Time (Keep My Memories Alive)

Line-up:
Alessandro S. Rizzello – Bass
Paolo Colazzo – Drums
Carlo G. Rizzello – Vocals, Guitars

ESSENZA – Facebook

Oranjeboom – Here Comes The Boom

Cinque musicisti con il rock americano nel sangue, che loro trasformano in un hard groove moderno, devastante quando vuole far male, sognante e ricco di quella poesia sudista che non lascia scampo.

L’hard rock si impregna di sudore e polvere, la strada brucia sotto le gomme della propria amante a due ruote: Sidewalk, con il suo sound  ci schiaccia la testa ormai spappolata dal sole e lacerata dal groove irresistibile di T.K.O. e delle altre tracce che compongono questo debutto tutto impatto ed attitudine dal titolo Here Comes The Boom.

Colpevoli di tante rotture di crani e ritiri di patente (se provate ad ascoltare l’album mentre guidate) sono gli umbri Oranjeboom, attivi dal 2015 come trio southern acustico ma trasformati in una hard rock band dopo l’entrata degli ultimi due elementi.
La firma con la label napoletana Volcano Records & Promotions e l’uscita dell’album in questa infuocata estate 2017, sono per la band lo scatto bruciante, la partenza a razzo, il diretto nello stomaco che ci voleva per iniziare al meglio la propria storia discografica.
E Here Comes The Boom è quello che gli amanti dell’hard rock moderno, dal groove micidiale, dalle atmosfere e dalle sfumature alternative stoner vogliono sentire, mentre la tradizione sudista è sempre li a farci godere di rimandi ai Lynyrd Skynyrd (Once Again), ai Black Label Society e ai Black Stone Cherry (Stolen Goods) e ai nostri Hangarvain (Bleeding Out).
Cinque musicisti con il rock americano nel sangue, che loro trasformano in un hard groove moderno, devastante quando vuole far male, sognante e ricco di quella poesia sudista che non lascia scampo e ci fa accostare la moto al lato della strada,  ad assaporare l’odore dell’asfalto bollente, segno di un viaggio che è lungi dal terminare.
Detto di una bellissima cover del classico di Stevie Wonder, Higher Ground, in versione stoner, vi consiglio di non perdervi questo bellissimo debutto, stando attenti agli effetti collaterali: un bisogno irrefrenabile di spingere sull’acceleratore e la voglia di mollare tutto ed avventurarsi per un viaggio ai margini della frontiera, accompagnati dalla musica degli Oranjeboom.

TRACKLIST
1. Sidewalk
2. T.K.O.
3. Stolen goods
4. Bleeding out
5. Higher ground
6. Once again
7. Anechoic chamber

LINE UP
Alessio (Smoke) Covarelli – Voice-Guitar
Mauro (Sgrat) Alocchi – Bass Guitar
Claudio (Pit) Patalini – Guitar
Riccardo (Rikki) Baldassarri – Guitar
Francesco (Kendy) Montalto – Drums

ORANJEBOOM – Facebook

Outrider – Foundations

Quarantadue minuti persi nel sound che, partendo dagli anni del rock di Seattle, si avvicina al nuovo millennio passando per il post grunge, raccogliendo nel suo peregrinare un tocco di southern metal, e giuntovi, si trasforma in un’oliata macchina hard rock.

Ennesimo ottimo esempio di hard rock moderno, tra citazione novantiane e retaggi dagli anni settanta, il tutto inglobato in un sound hard & heavy perfetto per chi stravede per i gruppi statunitensi usciti negli ultimi vent’anni o giù di lì.

In Italia la scena hard rock non manca certo di gruppi sul pezzo, tutti con una forte personalità e che spaziano tra l’hard rock più classico e melodico o quello più aggressivo, groovy ed oscuro, cool in questi primi decenni del nuovo millennio.
Gli Outrider sono un gruppo proveniente da Monza e dintorni, nascono nel 2008 e con solo un ep alle spalle si presentano in questa seconda parte dell’anno sotto i tentacoli della piovra Sleaszy Rider  con questo riuscito debutto dal titolo Foundations, prodotto ai Magnitude Recording Studio di Seregno da Marco D’Andrea, chitarrista dei magnifici Planethard.
E allora ecco che la musica del gruppo può finalmente colpire nel segno, con questi quarantadue minuti persi nel sound che, partendo dagli anni del rock di Seattle, si avvicina al nuovo millennio passando per il post grunge, raccogliendo nel suo peregrinare un tocco di southern metal, e giuntovi, si trasforma in un’oliata macchina hard rock., di quello senza fronzoli con dosi misurate alla perfezione di groove, essenziale per far breccia nei rocker moderni.
Foundations non ha un brano trainante, risulta più un insieme di umori che la band ci scarica sotto forma di watt e ritmiche grasse, mentre Alberto Zampolli interpreta con tono aggressivo ma senza tralasciare parti melodiche l’ottimo hard rock suonato dai suoi compagni d’avventura.
Le due chitarre (Roberto Gatti e Andrea Fossati), il basso corposo di Davide Rovelli e le pelli torturate da Federico Sala formano un muro sonoro di hard rock, con qualche rara ruvidezza metallica, ma sempre intriso dell’attitudine i estrazione statunitense.
I gruppi che hanno ispirato il sound di Foundations vanno ricercati proprio aldilà dell’oceano, mentre The Void apre le danze, A Tale From The Land la segue, così come le altre canzoni, rivelandosi tutte di ottima fattura tra grinta e melodia, e consigliate agli amanti del genere che apprezzano Alter Bridge, Soundgarden e Black Stone Cherry.

TRACKLIST
01 – The Void
02 – Sideways
03 – A Tale From The Land
04 – Get Out
05 – Stronger Than Before
06 – Down
07 – Empty Shell Of Me
08 – Kimberly
09 – Brutal Games
10 – Raindrops

LINE-UP
Alberto Zampolli – Vocals
Roberto Gatti – Guitars
Andrea Fossati – Guitars
Davide Rovelli – Bass, Backing Vocals
Federico Sala – Drums

OUTRIDER – Facebook

Corroded – Defcon Zero

Un album che alterna buoni momenti, tutta potenza ed impatto, ad altri un po’ troppo studiati per piacere al pubblico delle radio rock, un peccatuccio che non inficia il giudizio buono sull’intero lavoro.

Tredici anni di attività, una notorietà cresciuta dopo aver prestato la propria musica al programma tivù “Survivor (Expedition Robinson in Sweden)” e al videogame Battlefield e, dopo cinque anni dall’ultimo State Of Disgrace, il ritorno sul mercato con Defcon Zero.

E’ di nuovo tempo di Corroded, freschi di firma con Despotz Records, e del loro sound molto americano, colmo di groove e perfetto per maciullare teste in sede live.
Gli hard rockers svedesi aggiungono alla loro proposta palate di groove, grinta e tanta melodia, carta vincente per aspirare al successo dopo gli ottimi riscontri avuti qualche tempo fa.
Niente di nuovo, ma è indubbio che la carica hard metal con cui la band affronta la materia è di quelle altamente esplosive, moderno metal/rock che fa impazzire il pubblico oltreoceano e non manca di divertire quello sparso per il vecchio continente.
Melodie post grunge, riff pesanti come incudini, ritmiche hard rock sono il pane quotidiano dei giovani rockers a cui i Corroded si rivolgono con un album che mantiene un ottimo approccio, composto da brani piacevolmente duri, ma dai chorus che si stampano in testa già dal primo passaggio ed attimi di metallo più consistente e dalla tipica pesantezza panteriana.
Leggermente prolisso in qualche frangente, Defcon Zero perde in immediatezza nei brani più lunghi, meglio quindi quando il gruppo spara atomiche metalliche dagli effetti devastanti, come in Gun And A Bullet, nel singolo Fall Of Nation e in Burn If To The Ground, mentre la ballad A Note To Me lascia qualche dubbio, vicina com’è ai brani da classifica dei Nickelback.
Un album che alterna buoni momenti, tutta potenza ed impatto, ad altri un po’ troppo studiati per piacere al pubblico delle radio rock, un peccatuccio che non inficia il giudizio buono sull’intero lavoro.

TRACKLIST
1.Carry Me My Bones
2.Gun And A Bullet
3.Retract and Disconnect
4.Fall Of A Nation
5.Vessels Of Hate
6.Day Of Judgement
7.A Note To Me
8.Burn It To The Ground
9.DRF
10.Feel Fine
11.Rust and Nail

LINE-UP
Jens Westin -Vocals, Guitar
Tomas Andersson – Guitar,Backing vocals
Bjarne Elvsgård – Bass
Per Soläng – Drums

CORRODED – Facebook

42 Decibel – Overloaded

I 42 Decibel a differenza di molti loro colleghi usano la carta del blues e fanno bene: la loro proposta si ferma a Let There Be Rock, lasciando ad altri la parte più hard rock e commerciale del sound dei fratelli Young.

Non saranno certo gli argentini 42 Decibel a cambiare le sorti del rock, ma se la nostalgia per quel sound grezzo e potente che gli Ac/Dc amalgamavano con dosi illegali di blues, negli anni in cui dietro al microfono si cimentava Bon Scott, allora il nuovo Overloaded è l’album giusto per tornare a trastullarvi come ai tempi di Whole Lotta Rosie e Let There Be Rock.

Passate direttamente alla quarta traccia (Roadkiller) e ditemi se la più famosa e lasciva The Jack del quintetto australiano non torna prepotentemente ad importunarvi, nelle serate in cui l’alcool esce dai pori della vostra pelle, sudata dal caldo estivo e dalla passione per la chica che dorme serenamente al vostro fianco.
Ma facciamo un passo indietro e presentiamo i 42 Decibel, band di Buenos Aires al terzo album dopo il debutto del 2010 intitolato Hard Rock ‘n’ Roll, ed il seguente Rolling In Town licenziato un paio di anni fa.
Il gruppo di rockers capitanato dal batterista Nicko Cambiasso torna dunque con il suo personale tributo alla più famosa band della storia del rock in arrivo dalla terra dei canguri, un monumento al genere che continua a fare proseliti, pur arrancando in sede live, dopo più di quarant’anni sul groppone.
I 42 Decibel a differenza di molti loro colleghi usano la carta del blues e fanno bene, la loro proposta si ferma a Let There Be Rock, lasciando ad altri la parte più hard rock e commerciale del sound dei fratelli Young, così da sporcare di irriverenza e attitudine alcolica la loro musica proprio come avrebbe fatto il buon Scott.
Ne esce una piacevole rivisitazione del sound settantiano del gruppo australiano, cattivo e maleducato perché nato nei locali fumosi e perversi, tra una bevuta ed un lavoretto nei bagni, tanto per fare arrotondare lo stipendio alla cameriera, mentre la chitarra accompagna il tono rauco e perdente di un Junior Figueroa, impossessato dal demone che una volta abitò nel corpo del più famoso e alcolico cantante.
Dangerous Mess, la già citata Roadkiller, la divertentissima Lost Case e Double Itch Blues spiccano, ma è tutto l’album che non risparmia emozioni e sfumature provenienti dal perdente ma tremendamente affascinate mondo del rock blues alla Ac/Dc, anzi … alla 42 Decibel.

TRACKLIST
1. Whiskey Joint
2. Dangerous Mess
3. Brawler
4. Roadkiller
5. Hot Shot
6. Half Face Dead
7. Lost Case
8. Cause Damage
9. Double Itch Blues
10. Cannon Fodder

LINE-UP
Junior Figueroa – Vocals, Guitar
Nicko Cambiasso- Drums
Billy Bob Riley – Rhythm & Slide Guitar
Matt Fraga – Bass

42 DECIBEL – Facebook

Voodoo Highway – The Ordeal

Il sound di The Ordeal, nella sua classicità, risulta originale, mescolando in un pentolone con tanto di strega ai fornelli Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath con il rock di matrice novantiana.

Sembra cosa facile scrivere di un album hard rock, eppure il finire nei soliti cliché è facilissimo, specialmente se l’opera risulta ottima o quanto meno interessante.

A mggior ragione, poi, se ci si trova al cospetto di lavori di caratura sopra la media come questo nuovo lavoro dei Voodoo Highway (alzi la mano chi ha pensato al capolavoro dei Badlands), intitolato The Ordeal, in uscita tramite Sleaszy Rider (ormai diventata un punto di riferimento riguardevole per l’hard & heavy Europeo) e che dimostra ancora una volta l’ottima salute della scena nostrana e l’elevata qualità e che ha raggiunto in tre album la musica del gruppo ferrarese.
Arrivato dunque al terzo lavoro, dopo i già ottimi Broken Uncle’s Inn del 2011 e Showdown, uscito ormai quattro anni fa , il quintetto ci delizia con otto brani per mezz’ora di immersione nel suono che ha fatto risplendere gli anni settanta, tra citazioni e tributi alle band più note, ma con una personalità debordante ed un tocco moderno che risulta un’overdose di adrenalina per noi mortali ascoltatori di musica del diavolo.
Non credo di dire eresie se affermo che il sound di The Ordeal, nella sua classicità, risulta originale, mescolando in un pentolone con tanto di strega ai fornelli, Led Zeppelin, Deep Purple (lo spirito di Lord sguazza tra i tasti d’avorio senza freni), Black Sabbath  e il rock di matrice novantiana, erede di quello suonato vent’anni prima e spettacolarmente impresso nelle note dell’opener The Deal o della seguente Litha.
Ecco, nominando Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath sono anch’io caduto nel più mero semplicismo, ma è indubbio che la band parta da queste sue tre certezze per poi inventarsi un sound fatto di atmosfere cangianti, mentre il blues c’è ma rimane nascosto da un tappeto di suoni tastieristici purpleiani e ritmiche sabbathiane.
The Rule fa due passi negli anni ottanta, metallica e dura quanto basta, mentre Blue Ride corre sulle strade dell’hard blues, questa volta uscito allo scoperto per rivendicare la sua impronta indelebile sulla musica del gruppo.
Unico difetto dell’album è che la bellezza dei brani, unita alla mezz’ora scarsa di durata complessiva, ci fa arrivare in un attimo alla fine: To Ride The Tide, che chiude questo bellissimo lavoro, dura e calda, delicata e sanguigna ci dà l’arrivederci sui palchi nelle serate di questa estate da vivere in rock’n’roll style.

TRACKLIST
01 – The Deal
02 – Litha
03 – NY Dancer
04 – Quietude
05 – The Rule
06 – Blue Ride
07 – Grace Of The Lord
08 – To Ride The Tide

LINE-UP
Filippo Cavallini – bass
Federico Di Marco – vocals
Vincenzo Zairo – drums
Massimiliano Sabbadini – hammond and keyboards
Filippo Romeo – guitars

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