Hell In The Club – Devil On My Shoulder

Spettacolare secondo lavoro degli Hell in The Club, super band italiana, con membri di Death SS,Secret Sphere e Elvenking.

E c’è ancora qualcuno che, quando si parla di metal nel nostro paese, arriccia il naso come se lo tsunami di talenti che, fortunatamente, il nostro caro e vecchio stivale può contare, fosse invisibile.

Per chi non avesse avuto il piacere di ascoltare il primo album di questa spettacolare band tutta italiana (“Let The Games Begin”), ricordo che gli Hell In The Club non sono altro che l’unione di musicisti appartenenti a band che hanno dato e danno tuttora lustro alla musica metallica italiana, quali Andrea Buratto al basso (Secret Sphere), Davide Moras alla voce (Elvenking), Federico Pennazzato alle pelli (Death SS, Secret Sphere), più Andrea Piccardi alla chitarra. Progetto? Band a tutti gli effetti? Poco importa, visto che i musicisti si cimentano un genere lontano anni luce da quello proposto con le band di provenienza, dando vita ad un hard rock incandescente, dalla forte impronta street ma, allo stesso tempo, moderno ed enfatizzato da una produzione spettacolare (Simone Mularoni, ovviamente) e dal songwriting stratosferico. Evitate di sedervi per ascoltare disco, intanto non durerete con il fondo schiena appoggiato sul divano per più di un minuto, sotto il bombardamento di questi tredici brani di hard rock stradaiolo tremendamente divertente. La band si diverte e ci fa divertire, puro rock’n’roll da arena, musica da lasciarsi andare e cantare a squarciagola, dimostrazione che, non esistono generi più o meno datati o cool, perché quando il livello della qualità si alza a questi livelli si può solo omaggiare i protagonisti, dal talento mostruoso, da far impallidire sia i mostri sacri degli anni ottanta, che le nuove leve scandinave da cui la band prende spunto per questo ennesimo party album. Dall’opener Bare Hands è un susseguirsi di hit, da far resuscitare cadaveri, che si trasformeranno in zombie affamati al ritmo della sensazionale Beware The Candyman, ultra rock’n’roll da infarto. Ci deve essere per forza lo zampino del diavolo, Proud esalta nel suo incedere alla Bon Jovi, le songs si alternano in un grandioso omaggio a quello che è puro divertimento in musica, Whore Paint, Pole Dancer consacrano la band e questo lavoro come uno dei più riusciti in ambito hard rock di quest’anno. Impatto e attitudine, legati insieme da soluzioni geniali, fanno di Devil On My Shoulder una risposta efficace ai sordi che continuano a sostenere che il rock è morto e, anche quando tira il freno e consegna le immancabili ballad (We Are The Ones e Muse), la band regala brividi con due brani da pelle d’oca. Spettacolare ritorno dunque per il quartetto alessandrino, protagonista di questo album che si piazza sul podio delle migliori uscite discografiche nel genere a livello internazionale.

Track list:
01. Bare Hands
02. Devil On My Shoulder
03. Beware Of The Candyman
04. Proud
05. Whore Paint
06. Pole Dancer
07. We Are The Ones
08. Save Me
09. Toxic Love
10. Muse
11. Snowman Six
12. No More Goodbye
13. Night

Line-up:
Andrea “Andy” Buratto – Bass
Federico “Fede” Pennazzato – Drums
Andrea “Picco” Piccardi – Guitars (lead)
Davide “Dave” Moras – Vocals

HELL IN THE CLUB – Facebook

Midnight Sin – Sex First

“Sex First” è un altro ottimo esempio di come l’hard rock dai suoni sleazy stia tornando a far danni.

Dopo la fine degli anni d’oro ottantiani, l’hard rock dall’impronta street e glam aveva perso appeal nel mercato discografico, sostituito dal successo mondiale del grunge e dei suoni alternative.

Relegato nel sottobosco dell’underground, il genere ha cominciato a risalire la china già da un pò di anni, grazie alle sferzate rock’n’roll provenienti dal nordeuropa, che non hanno lasciato indifferenti né i paesi a sud del vecchio continente né gli Stati Uniti. Vero è che molte delle band storiche votate ai suoni del Sunset Strip si sono lanciate in reunion più o meno riuscite, trascinando agli onori della cronaca anche le nuove leve. I Midnight Sin arrivano all’esordio sotto l’ala della Bakerteam con questo divertente Sex First, che percorre la strada già intrapresa da ottime band che sono balzate agli onori della cronaca negli ultimi tempi (Steel Panthers), con questo riuscito esempio di street/sleazy grintoso e dai riff metallici graffianti che faranno la gioia di chi ancora si diverte con l’hard rock da party, selvaggio e mai domo, e dall’attitudine dannatamente rock’n’roll. Suonato davvero bene dai cinque ragazzacci italiani, Sex First si rivela a tratti esaltante, grazie a songs che entrano in testa al primo ascolto e che ci costringono a trattenerci dal saltare come grilli tra le mura domestiche in piena trance da festa, totalmente sopraffatti dalla carica che la band immette in dosi massicce in brani come l’opener Midnight Revolution, squarciata da ottimi riff metallici e trascinante come un fiume in piena, ‘Till It’s All Gone Away, Rise And Yell e 2 Words, brani dall’impatto debordante e veri inni al rock’n’roll iper vitaminizzato. Non mancano momenti da lacrimucce, avvinghiati alla metal girl d’ordinanza, con le classiche ballad che stemperano il clima selvaggio dell’album e ci fanno riprendere fiato (You Piss Me Off e la conclusiva Sweet Pain). Sex First è un altro ottimo esempio di come il genere stia tornando a far danni, noi non possiamo che rallegrarci di ciò e premere per l’ennesima volta il tasto play del nostro lettore, rituffandoci nel party organizzato per noi dai Midnight Sin.

Tracklist:
1. Snake Eyes
2. Midnight Revolution
3. Feed Me With Lies
4. No Matter
5. ‘Till It’s All Gone Away
6. You Piss Me Off
7. Rise & Yell
8. Code: 69
9. 2 Words
10. Sweet Pain

Line-up:
Albert Fish – vocals
LeStar – lead guitar
Maurice Flee – rhythm guitar
Acey Guns – bass
Dany Rake – drums

MIDNIGHT SIN – Facebook

Rival Sons – Great Western Valkyrie

Quarto album e ancora grande hard rock settantiano per i Rival Sons.

Che l’hard rock di matrice settantiana sia tornato alla ribalta nel panorama internazionale da un po’ di anni è cosa nota, le band che riesumano con abilità il sound che fece la fortuna di Led Zeppelin, The Doors e Deep Purple, tanto per fare tre nomi a “caso”, sono tante e di ottima qualità: tra queste ci sono i californiani Rival Sons, giunti con questo Great Western Valkyrie al quarto disco in studio, dopo l’esordio del 2009 “Before The Fire”, il primo per la Earache del 2011 “Pressure And Time”, ed il bellissimo predecessore “Head Down” del 2012, intervallati da un EP del 2011 autointitolato.

Intanto il nuovo album porta un paio novità, la presenza del bassista Dave Beste e l’aiutino alle tastiere di Ikey Owens, già The Mars Volta e session per Jack White, e conferma i Rival Sons come una delle più talentuose band della nuova generazione, con una compilation di brani irresistibili, un inchino davanti all’altare del dio del rock che aveva i maggiori e più affezionati discepoli nel decennio settanti ano: spettacolari atmosfere hard rock colme di groove ed accenni blues, un Hammond che a tratti diventa protagonista come poteva esserlo quello del grande Jon Lord e momenti di calda poesia musicale presa dai migliori spartiti della band di Jim Morrison, un susseguirsi di riff direttamente da casa Page e la caldissima voce di Buchanan a rinverdire i fasti dei grandi singer del passato, con una prova mai così efficace su dei brani splendidi.
Electric Man e Good Luck invitano l’ascoltatore ad un giro sulla giostra dei Rival Sons, un ottovolante di suoni freak, un caleidoscopio di colori e vibrazioni direttamente dall’universo hard blues ai quali è impossibile resistere; Secret non è da meno, chitarra e Hammond accompagnano il vocalist mai così “plantiano”, mentre i brani si susseguono uno più bello dell’altro e sembra che questa libidine non abbia mai fine: Play the Fool, la bellissima Good Things che sembra uscita da un film di Quentin Tarantino, con il suo andamento da danza con un serpente albino (chi si ricorda la danza vampirica della stupenda Salma Hayek di “Dal tramonto all’alba”?).
Ancora la doorsiana Rich and Poor, la emozionale ballad dal sapore blues Where I’ve Been e la conclusiva Destination on Course, suite zeppeliniana dove chitarra psichedeliche incrociano cori dai rimandi gospel, in una jam acida d’antologia.
Grande band e grandissimo disco, l’hard blues nel 2014 passa assolutamente da band come i Rival Sons, non certo da raccolte o remasters di dinosauri di cui si conosce la discografia nei dettagli.
Album bellissimo da avere, punto.

Tracklist:
01. Electric Man
02. Good Luck
03. Secret
04. Play The Fool
05. Good Things
06. Open My Eyes
07. Rich and the Poor
08. Belle Starr
09. Where I’ve Been
10. Destination on Course

Line-up:
Jay Buchanan – Vocals
Scott Holiday – Guitars
Michael Miley – Drums
Dave Beste – Bass

RIVAL SONS – Facebook

Dogmate – Hate

Tutto da ascoltare il debutto dei romani Dogmate, un metal/stoner colmo di groove dall’ottimo impatto.

L’etichetta romana Agoge Records licenzia il debutto dei suoi concittadini Dogmate, band che strappa applausi a scena aperta con questo fottutissimo Hate, lavoro che sprizza groove da tutti i pori, con una riuscitissima amalgama di suoni stoner e grunge violentati da mazzate al limite del thrash; metallico il giusto per piacere non solo a chi è più orientato a suoni hard rock “alternativi”, l’album consta di dieci brani dal tiro pazzesco, suonati con un piglio da band navigata dai quattro musicisti.

I Dogmate nascono nel 2012 e ne fanno parte Ivan Perres (Ivn) alla batteria, che con l’aiuto di Roberto Fasciani (Jeff) al basso compone una sezione ritmica potentissima, Stefano Nuccetelli (Sk)che, alla sei corde, dichiara guerra con un chitarrismo che passa inesorabilmente molto vicino all’approccio degli axeman statunitensi del genere (Zakk Wylde ma anche il compianto Dimebag Darrell) ed il vocalist Massimiliano Curto (Mad Curtis), interprete doc per la musica della band con la sua tonalità sporca, a metà strada tra il citato Zakk e Pepper Keenan, ex-Corrosion of Conformity.
Si comincia con Buried Alive ed il gruppo ci va giù pesante, la sezione ritmica tiene il passo con bordate stoner belle grasse che si accentuano nei brani dove il sound si velocizza, strizzando l’occhio al metal panterizzato (Inflated Psychotic). Nel corso dell’album sono molteplici le band alle quali i Dogmate fanno riferimento, ma rimane a mio parere (e qui sta il bello) ad aleggiare su Hate il fantasma dei Corrosion of Conformity, sia quelli più hardcore degli esordi (“Technocracy”), sia nella veste alternativa del capolavoro “Blind”, per arrivare infine allo stoner da “Deliverance” ai giorni nostri; in più i nostri aggiungono riff panteriani ed elementi pescati dalla musica di Seattle per un risultato che a tratti ho trovato esaltante.
In questo esordio i Dogmate risultano una band compatta, i loro brani che non lasciano respiro ed affondano il colpo ad ogni passaggio e nella loro totalità spiccano la bellissime Witness of the Shamelessness, Hunter’s Mind, Mesmerizing Truth e la ballad conclusiva Black Swan, nella quale il vocalist lascia le consuete tonalità per avvicinarsi al Chris Cornell solista dell’intimista e maturo “Song Book”.
Disco da avere e da ascoltare, ennesima prova che ormai la differenza tra le nostre band underground e quelle del sogno americano si è ridotta al minimo.

Track list.
1. Buried Alive
2. Inflated Psychotic
3. Witness of the Shamelessness
4. Stripped & Cold
5. Dark in the Eyes
6. Me-Stakes
7. Hunter’s Mind
8. Mesmerizing Truth
9. World War III
10. Black Swan

Line-up:
Massimiliano “Mad Curtis” Curto – Voce
Stefano “Sk” Nuccetelli – Chitarra
Roberto “Jeff” Fasciani – Basso
Ivan “Ivn” Perres – Batteria

DOGMATE – Facebook

Hangarvain – Best Ride Horse

Esordio bomba per i napoletani Hangarvain con il loro Best Ride Horse, hard rock zeppo di influenze southern e post grunge.

Comincio ad avere un’età, e botte di vita come questo disco lasciano il segno su un vecchio sognatore metal/rocker come me che, per non farsi mancare nulla, deve anche spiegare le sensazioni provate nell’ascoltare una decina di canzoni che ti entrano nelle vene e cominciano a circolare nell’organismo: la pressione si alza, le tempie sembrano esplodere ed è quasi impossibile rimanere seduti e insomma, tutto questo quando non si è più dei ragazzini può anche far male …

La Red Cat immette sul mercato questa bomba sonora dei napoletani Hangarvain, dal titolo Best Ride Horse, dieci brani nei quali  l’hard rock americano ricamato di fantastiche sfumature southern ed il post grunge si incontrano e, amoreggiando, danno alla luce una creatura perfetta, una raccolta di hit da infilare nell’autoradio del vostro “cinquefette” (beh siamo in Italia, non scordiamolo) e partire liberi, dalla Valtellina alla Sicilia, trasformando le vie della nostra penisola nelle infinite super strade americane. Sergio Toledo Mosca è il fantastico cantore di tanta meraviglia, voce dal tiro micidiale che diventa malinconicamente southern nelle splendide ballad che profumano di Lynyrd Skynyrd, strappando più di una lacrima al vecchio di cui sopra. Alessandro Liccardo, alla sei corde, è invece colpevole di far saltare le coronarie a suon di riff su riff stracolmi di groove, per poi tornare ad imbastire accordi acustici al limite del roots; Alessandro Stellano al basso e Andrea Stipa alle pelli sono la gettata di cemento su cui è costruito il sound degli Hangarvain, una sezione ritmica tostissima, piena, sempre presente e aiutata da una produzione da top band ad opera dello sesso chitarrista. Dai primi due pezzi (Through the space and time e Get on) si intuisce subito che l’album non farà prigionieri, con due bordate hard rock trasudanti groove, con quel quid post grunge (su tutti i Creed) che piacerà anche ai più giovani, ma a mio parere sono le ballad a fare la differenza e la prima di queste è già un capolavoro (Turning back on my way). Free bird e Knock back doors tornano su ritmi sostenuti ma più vicini alla frontiera americana, mentre Way to salvation è l’ennesima buona ballad; Hesitation sorprende per l’uso della doppia voce, una creediana e l’altra che sembra provenire direttamente dai primi anni settanta, prima che Father to shoes ci avvolga nel più confortevole spirito southern: un brano capolavoro con inizio acustico e la chitarra che prende per mano il pezzo con riff da applausi a scena aperta. Last time e la conclusiva A life for Rock’n’roll mettono la parola fine a un disco di assoluta eccellenza, da far ascoltare e riascoltare a chi ci chiede perché amiamo tanto il rock: Best Ride Horse è la migliore risposta.

Tracklist:
1.Through the space and time
2.Get on
3.Turning back on my way
4.Free bird 5.Knock back doors
6.Way to salvation
7.Hesitation
8.Father shoes
9.Last time
10.A life for rock’n’roll

Line-up:
Sergio Toledo Mosca – Vocals
Alessandro Liccardo – Guitars,Backing Vocals
Alessandro Stellano – Bass, Backing Vocals
Andrea Stipa – Drums

The Sunburst – Tear Off The Darkness

Gran bel disco l’esordio dei savonesi The Sunburst, il meglio dell’ultimo ventennio di hard rock alternativo tutto in un unico album.

Questo è il classico album che, se registrato da una band americana, farebbe sfracelli occupando anche le copertine della stampa specializzata, quella con le copertine lucide e le recensioni da tre righe, ma, purtroppo per loro, i The Sunburst sono liguri (Savona) e allora, pur avendo concepito un gran disco d’esordio, sono destinati a lottare e non mollare mai.

Il loro Tear Off The Darkness è un album di hard rock alternativo nel quale le influenze del passato si sentono chiaramente pur risultando un disco moderno, fresco, suonato benissimo, cantato ancora meglio, che non ha (appunto) nulla da invidiare ai pur ottimi prodotti che giungono dagli States. Curiosi? Bene, allora fare un passo indietro è doveroso per conoscerli meglio: la band nasce nel 2012 da un idea della coppia Davide Crisafulli (cantante e chitarra ritmica) e Luca Pileri (chitarra solista), ai qiuali si aggiunge la sezione ritmica composta da Stefano Ravera alla batteria e, in questo 2014, Francesco Glielmi al basso. In quello stesso anno, con la prima line-up, registrano un Ep ai Nadir Studios di Tommy Talamanca ottenendo recensioni positive, facendo diverse date dal vivo e, dopo uno stop di qualche mese, i The Sunburst riprendono la strada che porta a Tear Off The Darkness. L’inizio dell’album è da ovazione, con Follow Me che riempie la stanza con un riff corposo ed un ritornello cantabile già al primo ascolto, talmente è bello e memorizzabile; scopriamo così che alla band piace andare giù pesante, grazie ad assoli melodici e accelerazioni ritmiche non così distanti dal metal, con Davide che si conferma un signor cantante: la sua voce bella e carismatica affascina e rapisce, e siamo solo alla prima traccia. Infatti arrivano Something Real e la stupenda The Flow, dal riffone alla Black Label Society a farci ormai innamorare di questo bellissimo lavoro; si continua a viaggiare su territori di eccellenza con Be Yourself, con le chitarre ora all’unisono, ora con parti soliste melodiche ad ergersi a protagoniste del brano, altro potenziale singolo, così come Left Behind. Gli Alter Bridge sono forse il riferimento che ad un primo ascolto più di altri escono maggiormente allo scoperto, soprattutto a mio parere l’uso della voce di Davide, dallo stile più metallico come accade nella band americana, ma è un po’ tutta la scena degli ultimi vent’anni ad essere assimilata dai nostri. Louder Than Love, il disco più bello dei Soundgarden, è tutto nel riff di Rising, conclusiva e stupenda song che inizia come e meglio di Hands All Over, picco di quel magnifico lavoro, per poi virare su umori più personali con un rallentamento a metà brano ed una sfuriata conclusiva con la quale tutta la band si congeda alla grande. Prodotto benissimo, l’album è stato registrato ai Greenfog Studios di Mattia Cominotto a Genova per poi essere masterizzato e mixato ad Imperia negli Ithil World Studios da Giovanni Nebbia. Mai avuto dubbi sulle qualità delle nostre band quando si tratta di rock alternativo ma un lavoro come questo, assieme a quello degli Swallow My Pride recensito ultimamente, dimostrano ancora una volta che in Italia ci sono tutte le potenzialità per giocarsela alla pari con il resto del panorama musicale internazionale, basta volerlo e supportare una scena che lo merita.

Tracklist:
1.Follow me
2.Something real
3.The flow
4.Be yourself
5.Left behind
6.Unforgiven
7.Another day
8.Rising

Line-up:
Davide Crisafulli – Voce,Chitarra ritmica
Luca Pileri – Chitarra solista
Stefano Ravera – Batteria
Francesco Glielmi – Basso

THE SUNBURST – Facebook

Whiskey Myers – Early Morning Shakes

Terzo Album per una delle migliori realtà southern rock del nuovo millennio.

I Whiskey Myers, insieme ai Blackberry Smoke, sono sicuramente le due band dell’ultima generazione che più di altre stanno portando, nel nuovo millennio, i suoni e le atmosfere dei grandi che hanno fatto la storia del rock sudista, ricreando quel po’ di meritato interesse anche fuori dagli States, dove il genere non ha mai perso la propria popolarità, essendo una sorta di dottrina per l’americano della provincia.

Il gruppo texano, a sei anni dall’esordio “Road of Life”, complice il bellissimo secondo album “Firewater” di tre anni fa, è riuscito a crescere vertiginosamente in popolarità,trovandosi così in poco tempo a calcare i palchi dei festival più prestigiosi insieme alle band che del genere sono considerate le istituzioni. Capitanati dal vocalist e chitarrista Cody Cannon, personaggio dallo smisurato carisma, il gruppo arriva al terzo full-length con la consapevolezza di essere ormai una delle top band del southern sfornando un lavoro dal songwriting magnifico, pregno di hard rock, suoni roots e blues alcolico. Early Morning Shakes, a differenza del suo predecessore, mette in secondo piano l’approccio country per suoni più taglienti, le chitarre risultano graffianti il giusto per far risaltare il suono zeppeliniano, sempre presente nella band ma mai così in risalto: ne è la prova Hard Row To Hoe, dove il riff è uno stupendo copia/incolla di “Heartbraker” degli Zep. Cody Cannon conferma di essere perfetto cantore del suono americano, sia quando il sound si fa più duro, sia quando le atmosfere si rilassano e i Whiskey Myers ci emozionano con ballad nelle quali il country rock fa la sua comparsa e dove il blues prende il sopravvento, portandoci in viaggio verso territori musicali vicino ai Black Crowes dei fratelli Robinson. Cody Tate e John Jeffers sono una coppia di chitarristi eccezionali, capaci di ricamare i brani di ritmiche e solos affascinanti, ma anche di graffiare il giusto con personalità, facendo risultare il suono dei Whiskey Myers riconoscibile al primo ascolto. Così risulta piacevole abbandonarsi al suono americano di brani come Dogwood, Home, Reckoning, Lightning, Need A Little Time Off For Bad Behaviour senza per questo sminuire le altre song che compongono il lavoro entusiasmante di questa grande band, praticamente il meglio che oggi il southern rock possa regalare.

Tracklist:
01.Early Morning Shakes
02.Hard Row to Hoe
03.Dogwood
04.Shelter from the Rain
05.Home
06.Headstone
07.Where the Sun Don’t Shine
08.Reckoning
09.Wild Baby Shake Me
10.Lightning
11.Need a Little Time Off for Bad Behavior
12.Colloquy

Line-up:
Cody Cannon –Lead Vocals, Acoustic Guitars
Cody Tate – Lead Guitars, Vocals, Rhythm Guitars
John Jeffers – Rhythm Guitars
Gary Brown-Bass
Jeff Hogg-Drums

WHISKEY MYERS – Facebok

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Killers Lodge – Unnecessary I

La tensione resta alta per tutto il disco, poco più di mezzora di rock sparato da un cannone direttamente nelle nostre orecchie, che diverte senza essere ruffiano, suonato alla grande da musicisti esperti e che danno l’impressione di divertirsi a loro volta.

Ancora una grande band si affaccia sulla scena metal italiana, questa volta nella mia amata Genova: il suo nome è Killers Lodge ed è formata da tre musicisti molto conosciuti nel circuito estremo della nostra penisola e non solo.

Infatti, fanno parte del progetto John KillerBob, basso, voce e factotum del combo, con trascorsi nei Cadaveria, Raza De Odio, Dynabyte e Necrodeath, Christo Machete, batteria, con alle spalle collaborazioni illustri del calibro, tra gli altri di Cadaveria, Tiranti, Mastercastle, Raza De Odio e Zorn, e il chitarrista Olly Razorback il quale è stato impegnato con la sua chitarra con Sadist, Metal Gang, Raza De Odio, Nerve e Cadaveria.
L’idea di fondare una nuova band parte da KillerBob e Machete dopo lo scioglimento dei Raza De Odio e, solo in seguito, si unisce al duo Olly Razorback; così la band si chiude in studio per uscirne con un lavoro di rock’n’roll sanguigno, dall’impronta Motorhead, composto da dieci brani che spaccano.
Cosa da non trascurare, il disco è stato realizzato in toto dal gruppo, senza aiuti esterni, incluso mixaggio e produzione, ed il risultato soddisfa sotto tutti i punti di vista: il suono risulta sporco, come il genere insegna, ma soprattutto è sorprendentemente live, senza aggiustamenti di sorta, tanto che vi sembrerà davvero di essere sotto il palco.
Dicevo Motorhead, ma ho riscontrato anche quell’attitudine cara a certe band rock’n’roll scandinave, quelle non piegate al music business, tipo Hellacopters e Turbonegro, ed un approccio punk che rende questo lavoro fuori da schemi predefiniti, tornando a quello per cui questo genere è nato: divertimento, sudore e tantissima passione.
La tensione resta alta per tutto il disco, poco più di mezzora di rock sparato da un cannone direttamente nelle nostre orecchie, che diverte senza essere ruffiano, suonato alla grande da musicisti esperti e che danno l’impressione di divertirsi a loro volta.
Le canzoni sono tutte notevoli, ma Like A Rock, che sprigiona Motorhead da tutti i pori, The Grudge, a metà tra Hellacopters e Sex Pistols, con un giro di basso irresistibile, New Life, la mia preferita ed anche la più metal del lotto, Land Of Doom, dove la band va due volte più veloce della band di Lemmy, e Bow And Scrape, sono quelle che mi hanno più impressionato per freschezza compositiva, bravura strumentale e sagacia nel saper manipolare la materia rock’n’roll risultando comunque originali.
Primo disco del nuovo anno e primo botto, e se il buongiorno si vede dal mattino …

Tracklist:
1.Cosmos
2.Like A Rock
3.The Grudge
4.Inefficiency
5.New Life
6.Who We Are
7.Land Of Doom
8.Ship Of Fools
9.Bow And Scrape
10.The Glory Of The Pillory

John KillerBob – bass,vocals
Christo Machete – drums
Olly Razorback – guitars

KILLERS LODGE – facebook