Paratra – Genesis

Genesis si rivela nel complesso un’opera intrigante, con alcuni brani killer (in versione elettronica) e un sound che dal vivo dovrebbe risultare ancor più trascinante.

Negli ultimi tempi dell’India abbiamo imparato a conoscere una scena metal molto viva, con una notevole propensione per i generi più estremi, nei quali si sono messe in luce numerose band di assoluto spessore.

Tra queste vanno annoverati sicuramente gli autori di un potente thrash/groove come i Systemhouse 33, il cui vocalist Samron Jude lo ritroviamo alle prese con questo particolare progetto denominato Paratra.
Imbracciata la chitarra e consorziatosi con il suonatore di sitar Akshat Deora, Jude ha realizzato all’inizio dell’anno questo doppio album che presenta i brani nella duplice versione elettronica e rock: il tutto è sicuramente intrigante e pare riscuotere un buon successo da quelle parti, anche in sede live, in virtù di un sound piuttosto trascinante e che appare efficace in entrambe le vesti offerte.
Detto ciò, personalmente prediligo il disco elettronico, perché l’incedere del sitar si lega maggiormente ai ritmi più incalzanti, mentre il suo inserimento appare a volte più forzato all’interno di brani connotati per lo più da una struttura alternative rock.
Oltre al gusto personale, si tratta anche di una maggiore peculiarità che spicca nel primo dei due casi: infatti, i brani elettronici mantengono ugualmente la loro connotazione rock, andando a creare così un ibrido nel quale il suono del sitar fa davvero la differenza, cosa che non avviene nel secondo disco che appare, sostanzialmente, il lavoro di una rock band con un ospite dedito a quello strumento.
Infine, proprio per la natura delle sonorità elettroniche, si rivelano sostanzialmente più efficaci i brani strumentali, questo benché Siddharth Basrur sia decisamente un buon vocalist; comunque sia, Genesis si rivela nel complesso un’opera intrigante, con alcuni brani killer (in versione elettronica) come Leap, Duality e Now Or Never e un sound che dal vivo dovrebbe risultare ancor più trascinante.
In sintesi, Genesis mostra più di un motivo di interesse anche se, chiuso questo primo esperimento, forse per i Paratra sarebbe più opportuno optare per l’una o l’altra opzione, e su quale sia la più opportuna tra le due mi sono già ampiamente espresso.

Tracklist:
1. Leap (Electronic)
2. Inferno (Electronic)
3. Waves of Time (Electronic)
4. Will Power (Electronic)
5. Duality (Electronic)
6. Now or Never (Electronic)
7. Home (Electronic)
8. Other Side (Electronic)
9. Leap (Rock)
10. Inferno (Rock)
11. Waves of Time (Rock)
12. Will Power (Rock)
13. Duality (Rock)
14. Introspection (Rock)
15. Now or Never (Rock)
16. Home (Rock)
17. Other side (Rock)

Line-up:
Samron Jude – Guitar
Akshat Deora – Sitar
Siddharth Basrur – Vocals

PARATRA – Facebook

Lonely Robot – The Big Dream

The Big Dream è un album che, pur non posizionandosi tra i migliori lavori di Mitchell, è sicuramente un buon ascolto per chi ama il rock elegante e progressivo della scena britannica.

MetalEyes IYE vi porta a viaggiare su strade progressive con il secondo lavoro dei Lonely Robot, ennesimo progetto di John Mitchell, un’icona del prog inglese, polistrumentista, cantante e produttore al servizio di Arena e Frost*, tra gli altri.

Seguendo concettualmente il primo album (Please Come Home) Mitchell licenzia The Big Dream, opera ispirata dal Sogno di una Notte di Mezza Estate di Shakespeare, con un astronauta che si sveglia da un sogno criogenico e si ritrova al cospetto di persone con teste di animali in un mondo surreale.
Accompagnato da Craig Blundell, con lui nei Frost*, Steve Vantsis al basso (Fish) e Lisa Holmes alle tastiere, Mitchell dona agli appassionati un’altra ora abbondante tra le note progressive del rock britannico, a tratti sognante ed elegante, in altre più deciso, ma senza mai uscire dai sicuri binari di una formula collaudata, perfetta per accontentare i propri fans che troveranno nell’album tutte le caratteristiche attese.
Si potrebbe tranquillamente passare oltre, visto che gli amanti dei suoni progressivi avranno già inquadrato cosa aspettarsi da un album come The Big Dream: songwriting di indubbio valore, straordinarie e limpide melodie che si sovrappongono, fughe sui tasti d’avorio e chorus di scuola Arena, il tutto su un tappeto progressivo che continua imperterrito la tradizione del genere.
Quando il sound si lascia trasportare da un’elettricità più marcata escono le cose migliori, come nel super singolo Sigma, nella splendida Everglow e nella title track dai tratti settantiani e lievemente psichedelici.
Rimane da notare come il mastermind inglese confermi la sua indiscutibile maestria nel saper comporre brani dalla spiccata vena melodica e (non così facile nel genere) un’ottima predisposizione a regalare opere di facile ascolto, anche per chi non ha troppa confidenza con il rock di estrazione progressiva.
In conclusione The Big Dream èun album che, pur non posizionandosi tra i migliori lavori di Mitchell, è sicuramente un buon ascolto per chi ama il rock elegante e progressivo della scena britannica.

Tracklist
01. Prologue (Deep Sleep)
02. Awakenings
03. Sigma
04. In Floral Green
05. Everglow
06. False Lights
07. Symbolic
08. The Divine Art Of Being
09. The Big Dream
10. Hello World Goodbye
11. Epilogue (Sea Beams)

Line-up
Joni Mitchell – Guitars, vocals
Craig Blundell – Drums
Steve Vantsis – Bass
Liam Holmes – Keyboards

LONELY ROBOT – Facebook

Dead Register – Fiber

Un album originale e difficile, un’opera oscura e affascinante che porta i Dead Register sulla soglia del regno ove dimorano le cult band, ma al prossimo giro potrebbero entrare dalla porta principale.

Piccola perla gotica ed atmosfericamente dark: è questo il primo lavoro sulla lunga distanza dei Dead Register, trio statunitense composto da M. Chvasta, Avril Che e Chad Williams.

Il trio proviene da Atlanta ed il suo approccio al dark rock risulta un insieme di generi presi dal mondo della musica dark e melanconica e fatti convivere in un sound che potrebbe essere descritto come post rock, ma vi assicuro che non è così facile visto l’uso vario delle atmosfere che non si smuovono dai colori più scuri, ora tenui ora profondamente neri.
Post dark, new wave, addirittura accenni al doom, gothic e post rock diventano protagonisti di questa raccolta di brani, assolutamente maturi, fuori da ogni tentazione commerciale, ma profondi nel loro svolgimento.
Un album alternativo nel vero senso della parola, dove il rock saturo di elettricità è la benzina che alimenta il fuoco prima che il tempo faccia spegnere ogni ardire, un’attitudine distruttiva e pregna di rabbia malinconica si fa largo tra i solchi di brani splendidamente tragici come Alone, Drawing Down o Entwined, mentre i Joy Division si accompagnano ai Cure e l’ alternative rock si apparta con il dark rock di matrice ottantiana , in un urgenza sessuale appagante ma tragica.
Un album originale e difficile, un’opera oscura e affascinante che porta i Dead Register sulla soglia del regno ove dimorano le cult band, ma al prossimo giro potrebbero entrare dalla porta principale.

Tracklist:
1.Alone
2.Fiber
3.Drawing Down
4.Grave
5.Entwined
6.Incendiary

Line-up:
M. Chvasta: Vocals, Bass VI, Bass, Effects
Avril Che: Bass Synth, Keys, Textures, Vocals, Live Visuals
Chad Williams: Drums

DEAD REGISTER – Facebook

Six Feet Deeper – Six Feet Deeper Ep

Il sound dei Six Feet Deeper risulta un hard rock tra reminiscenze vintage legate ai Led Zeppelin, qualche spunto elettrico post grunge e poi rock’n’roll a manetta, quello selvaggio e metallico che si suona da anni in Scandinavia.

Poche notizie ma tanto rock’n’roll da parte dei Six Feet Deeper, quartetto di Stoccolma in arrivo con un ep di quattro tracce più la cover di Immigrant Song del dirigibile più famoso del rock.

Infromazioni con il contagocce sulla storia del gruppo (scelta che non condivido affatto, soprattutto da parte di una band emergente), ma fortunatamente parla la musica ed il sound dei Six Feet Deeper risulta un hard rock tra reminiscenze vintage legate ai Led Zeppelin, qualche spunto elettrico post grunge e poi rock’n’roll a manetta, quello selvaggio e metallico che si suona da anni in Scandinavia.
Al microfono troviamo Sara Lindberg, cantante dotata e con una rock dalle ottime sfumature soul/blues, non lontano dalla dea Heidi Solheim dei Pristine, mentre il resto del gruppo (Patrik Andersson alla chitarra, Emil Mickols alle pelli e Erik Arkö al basso) fa il suo sporco lavoro mantenendo alta la tensione elettrica di un hard rock che porge i suoi omaggi agli Zep (la cover della famosa opener di Led Zeppelin III, in pieno trip vichingo), ai The Winery Dogs (da cui prendono il monicker da un brano contenuto nell’abum Elevate) ed alla scena rock nordeuropea (Hellacopters).
Quattro inediti ben strutturati, un rock duro suonato con passione e sudore, molte citazioni dei gruppi menzionati ma anche un’attitudine già esposta a dovere tra le note di In March The Clown e, specialmente, in Here We Go Again, brano scelto dalla band scandinava per girare il suo primo video.
Se qualcosa doveva dire, questo ep sicuramente ci ha descritto un  gruppo dalle buone potenzialità, resta solo da aspettarne le prossime mosse.

Tracklist
1.In March the Clowns
2.Make It Right
3.Here We Go Again
4.Freak
5.Immigrant Song

Line-up
Sara Lindberg – Vocals
Patrik Andersson – Guitar
Emil Mickols – Drums & Percussion
Erik Arkö – Bass

SIX FEET DEEPER – Facebook

Fractal Reverb – Quattro

Il sound di canzoni dirette e melodiche, colme di umori noise e fortemente indie rock sottolinea la volontà del gruppo di arrivare all’ascoltatore in modo diretto, pur mantenendo un ricercato lavoro ritmico ed armonico.

E’ tempo che i gruppi di cui vi avevamo parlato in passato tornino con nuovi lavori, chi magari deludendo non rispettando le aspettative personali di chi scrive, molti fortunatamente confermando tutto il buono che i precedenti lavori avevano messo in risalto.

I lombardi Fractal Reverb, si ripresentano sul mercato underground con un nuovo lavoro in formato ep di quattro brani che porta importanti novità rispetto a Songs to Overcome the Ego Mind, full length licenziato un paio di anni fa e che si presentava come un’opera monumentale di rock alternativo, poco adatta all’ascolto distratto ma che indubbiamente aveva nelle sua dimensioni eccessive il maggiore difetto, anche se metteva in risalto le ottime potenzialità del gruppo.
Carolina Locatelli (basso e voce) e Davide Trombetta (chitarra) tornano dunque con non poche novità insite nel nuovo Quattro, che ci presenta i due nuovi entrati nella formazione, il chitarrista Riccardo Burlini ed Alessandro Pinotti che prende il posto di Denny Cavalloni dietro alle pelli.
Abbandonato l’idioma inglese, i Fractal Reverb si ripresentano con un titolo che prende ispirazione dal numero delle canzoni che compongono l’ep e dalla nuova line up, con il non poco importante inserimento di una seconda chitarra che arricchisce il sound dei nostri, oggi meno scarno ed essenziale, con sfumature melodiche più accentuate anche se la band taglia definitivamente il cordone ombelicale che la legava al grunge per prendere una propria strada dagli orizzonti indie ed alternative molto marcati.
Quattro risulta così una nuova partenza per i Fractal Reverb: il sound di canzoni dirette e melodiche, colme di umori noise e fortemente indie rock, come l’opener Divampa o la splendida Frastuono, sottolineano la volontà del gruppo di arrivare all’ascoltatore in modo diretto, pur mantenendo un ricercato lavoro ritmico ed armonico che ne dimostra la raggiunta maturità.

Tracklist
1. Divampa
2. Attonito
3. Frastuono
4. Pioggia e sole

Line-up
Carolina Locatelli – basso, voce
Davide Trombetta – chitarra
Riccardo Burlini – chitarra
Alessandro Pinotti – batteria

FRACTAL REVERB – Facebook

Razz – Nocturnal

I Razz fanno parte di quei gruppi che riescono a vivere in un limbo musicale, prendendo spunto dai loro più noti predecessori, ma giocandosi tutto su un paio di canzoni per poi finire nel compitino.

Il rock suonato fuori dal circuito della musica dura, e figlio dell’indie e dell’ alternative, con il post davanti a rock, o a dark o a wave, a seconda di chi si avvicina alle opere in questione, potrà continuare a fare la voce grossa sui canali satellitari, ma in generale risulta poca cosa, tutto uguale e noiosissimo, cercando di risultare intellettuale senza riuscire ad avere un minimo di personalità come i mostri sacri del passato.

Appunto quella maledetta parola (post) davanti ad un genere o sottogenere è diventato il modo per camuffare lavori bruttini cercando a tutti i costi di dargli un tono ed avvicinarli a quei gruppi che all’alternative del decennio ottantiano hanno amalgamato, con maestria e talento, dark rock e new wave (Editors) o indie (Interpol).
Il post punk degli anni ottanta ha lasciato in eredità tanto, ma sembra che pochi nel genere ne abbiano approfittato, lasciando il compito ad un singolo di tirare album di cui tra pochi mesi nessuno si ricorderà.
I Razz fanno parte di quei gruppi che riescono a vivere in un limbo musicale, prendendo spunto dai loro più noti predecessori, ma giocandosi tutto su un paio di canzoni per poi finire nel compitino.
Nocturnal, appunto, dovrebbe avvicinare la band al sound dark ed intimista degli Editors, invece frena dopo un paio di brani e si mette in fila, lasciando che l’ascoltatore aspetti invano uno scrollone nel songwriting.
Il singolo Paralysed e poi un paio di tracce nelle quali le atmosfere alternano un buon uso dell’elettronica e sfumature indie rock (Another Heart Another Mind, Let It In Let It Loud) accompagnate dalla voce di Niklas K,eiser, chitarrista e singer leggermente monocorde, fanno di Nocturnal un lavoro sufficiente ma nulla più, peccato.2

Tracklist

1.Paralysed
2.Trapdoor
3.Could Sleep
4.Another Heart/Another Mind
5.Silver Lining
6.Step, Step, Step
7.By & By
8.Lecter
9.Let It In, Let It Out
10.If There Was A Light
11.Breathe In

Line-up

Niklas Keiser – vocals, rhythm guitar
Steffen Pott – drums, backing vocals
Christian Knippen – lead guitar, backing vocals
Lukas Bruns – bass

RAZZ – Facebook

Die Apokalyptischen Reiter – Der Rote Reiter

Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e all’insegna di una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.

I Die Apokalyptischen Reiter arrivano al loro decimo full length, un traguardo ragguardevole per una band dalla storia ultraventennale, tanto più se all’insegna dell’anticonvenzionalità unita ad un elevato livello medio.

Probabilmente l’effetto sorpresa che rendeva irrinunciabili lavori come Samurai e Riders Of The Storm è venuto un po’ meno, complice anche un progressivo indurimento del sound che ha portato i nostri in più di un frangente ad avvicinare stilisticamente i connazionali Rammstein, dai quali comunque divergono per un approccio più scanzonato e in generale più rock oriented.
In ogni caso Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e contraddistinto da una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
Come per le migliori band, quello che fa la differenza è un’impronta personale che resta a prescindere dal diverso approccio che si può riscontrare prendendo in esame i singoli album, e questo viene confermato fin dalle prime note di Wir sind zurück, brano DAR al 100%, furiosamente melodico ed accattivante, mentre la più violenta ed anche cupa title track rappresenta uno dei corrispettivi più metallici del lavoro.
Con Auf und nieder si torna a quelle melodie chitarristiche vagamente folk che fungono da prologo ad una struttura fortemente orecchiabile ed esibiscono in maniera più esplicita il trademark della band, che poi si lascia andare ad un’altra traccia fortemente rammsteiniana come Hört mich an, dove comunque sia l’utilizzo della chitarra in fase solista e la grande versatilità vocale di Fuchs mantengono il sound a distanza di sicurezza da quello tipico del gruppo berlinese.
Del resto se, in The Great Experience of Ecstasy, l’ingannevole punk hardcore iniziale prelude ad un finale altamente evocativo, con la magnifica Herz In Flamme si finisce addirittura dalle parti del death melodico, mentre la solennità del chorus all’interno del disturbato incedere di Ich nehm dir deine Welt prelude alla chiusura rappresentata dalla gradevole ballata Ich werd bleiben.
I Die Apokalyptischen Reiter fanno parte di quella categoria di band che non lasciano indifferenti, nel bene o nel male: personalmente, oltre ad amare in maniera illogica l’idioma tedesco applicato al rock ed al metal (pur non capendone una parola) ho sempre apprezzato questo bizzarro combo, considerandolo quale portatore di un’espressione fresca ed originale e, sicuramente, Der Rote Reiter non mi farà recedere da tale giudizio.

Tracklist:
1. Wir sind zurück
2. Der rote Reiter
3. Auf und nieder
4. Folgt uns
5. Hört mich an
6. The Great Experience of Ecstasy
7. Franz Weiss
8. Die Freiheit ist eine Pflicht
9. Herz in Flammen
10. Brüder auf Leben und Tod
11. Ich bin weg
12. Ich nehm dir deine Welt
13. Ich werd bleiben

Line up:
Volk-Man – Bass
Dr. Pest – Keyboards
Fuchs – Vocals, Guitars
Sir G. – Drums
Ady – Guitars

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – Facebook

Uber Scheizer – King Of Rock

King Of Rock, del polistrumentista bolognese Giuseppe Lentini alias Uber Scheizer, risulta un tributo ai re dell’hard rock classico tra gli anni settanta ed il dorato (per il genere) decennio successivo.

Musicista attivo nell’area bolognese da un bel po’ di anni, Giuseppe Lentini è stato in passato il cantante dei rockers Overlord Rockstar II, in seguito ha collaborato con diverse band della scena underground cittadina ed il suo eclettismo lo ha portato a comporre musica elettronica come one man band.

Usando il monicker Uber Sheizer ha lavorato su questo progetto, assemblando brani composti nel corso degli anni, trasformandoli di fatto in un album hard rock dal titolo King Of Rock.
E l’opera risulta proprio un tributo ai re dell’hard rock classico tra gli anni settanta ed il dorato (per il genere) decennio successivo, aiutato solo da Giacomo Grassi nel brano Fire In The Night e suonando tutti gli strumenti.
Anche Uber Sheizer è dunque l’ennesima one man band. con il polistrumentista nostrano che se la cava con tutti gli strumenti e (cosa più importante) con il songwriting.
King Of Rock è un album piacevole, prodotto con quel tocco vintage che lo posiziona tra le uscite di una trentina d’anni fa, tra tasti d’avorio purpleiani, ritmiche hard rock di scuola tradizionale (UFO e primi Judas Priest);
poco incisiva la voce, ma è un dettaglio, perché l’album vive di chitarre graffianti e buone melodie neanche troppo nascoste tra riff pesanti e metallici di scuola classica.
L’opener 40 Miles A Day, Fire In The Night e la title track sono gli episodi migliori, ma è tutto King Of Rock che funziona, riportando al periodo della gioventù molti rockers con ormai troppi capelli bianchi.

Tracklist
1. 40 Miles A Day
2. King Of Rock
3. I Want You Forever
4. Fire In The Night
5. Hell Is Your Way
6. Beginning Again
7. I Am The Night
8. Now
9. More Metal Than Metal
10. Lay On The Floor

Line-up
Giuseppe Lentini: Vocals, Guitars, Bass, Drums, Keyboards

UBER SHEIZER – Facebook

Lost Dogs Laughter – Out Of Space

Out Of Space è un album vario e piacevole, con una sua spiccata personalità prendendo ispirazione dalla tradizione a stelle e strisce per portarla con rinnovato entusiasmo nel nuovo millennio.

L’alternative rock italiano si avvale di un’ altra band, i Lost Dogs Laughter, trio romano al debutto con Out Of Space, facendo del rock americano il proprio credo cercando di risultare il più personale possibile.

Matt Bandini (chitarra e voce) fondatore della band e Luk La Grande (basso), sono stati raggiunti in questi anni da una manciata di batteristi, ma in questo esordio sentirete picchiare sulle pelli le bacchette di Andrea Vettor.
Un altro batterista in line up (Gianluca) nel presente del gruppo romano ed un debutto che si colloca nell’alternative rock dalle reminiscenze riscontrabili negli anni novanta, quindi influenze che vanno dall’hard rock di Seattle, a sferzate punk ed atmosfere post rock progressive che donano al sound un elegante, e quanto mai maturo, prog style che fanno di Out Of Space un ascolto affascinante.
Ritmiche che nascono dalle jam di Sonic Youth con l’aiuto di Corgan e dei suoi Smashing Pumpkins, chitarre che lasciano in bocca quel gusto d’acciaio del metal moderno e buone trame melodiche, fanno di Out Of Space un album vario e piacevole, con una sua spiccata personalità che si evince da brani come Honestly, Words Unknown e la title track, esempi di un sound che prende ispirazione dalla tradizione a stelle e strisce per portarla con rinnovato entusiasmo nel nuovo millennio.

Tracklist
1. Sweeter Reaction
2. Honestly
3. Go Away
4. Words Unknown
5. Fade (September 1993)
6. Fallen Angel
7. Am I?
8. Out Of Space
9. The Forgetful

Line-up
Matt Bandini – Chitarra, Voce
Luk La Grande – Basso
Andrea Vettor – Batteria

LOST DOGS LAUGHTER – Facebook

Nexus – The Taint

I Nexus spaziano tra il rock alternativo dalle atmosfere dark, non rinnegando le proprie influenze che vanno dai più famosi Depeche Mode fino alle nuove leve del rock dai tenui colori oscuri come HIM o Deathstars, mentre la carta d’identità tricolore si può intuire da un uso vagamente progressivo dei tasti d’avorio.

Debutto su Agoge Records per i gothic metallers Nexus, band nata per volere del cantante e chitarrista Vlad Voicu e del bassista Tony Di Marzio.

Con l’aiuto in studio di Gianmarco Bellumori, responsabile della label, licenziano questo primo album sulla lunga distanza intitolato The Taint, un gothic album pregno di sfumature elettroniche che hanno poco dell’industrial e tanto della new wave risalente agli anni ottanta, ovviamente trasportata in un contesto dove le chitarre graffiano e le ritmiche mantengono quel tocco groove che fa tanto cool di questi tempi.
Ne esce un lavoro dal buon appeal, magari mancante ancora di quel quid che fa di una buona canzone un potenziale hit, ma le premesse per un futuro roseo nel panorama dark gothic ci sono tutte.
I Nexus spaziano tra il rock alternativo dalle atmosfere dark, non rinnegando le proprie influenze che vanno dai più famosi Depeche Mode fino alle nuove leve del rock dai tenui colori oscuri come HIM o Deathstars, mentre la carta d’identità tricolore si può intuire da un uso vagamente progressivo dei tasti d’avorio.
L’album mantiene la stessa marcia per tutta la sua durata, scalando e ripartendo in quarta (qualitativamente parlando) con Funeral Pyre, N.B.N e la notevole Scrying Mirror.
Una buona partenza per i Nexus, band da seguire se siete amanti del dark/gothic metal di inizio millennio.

Tracklist
1.Solitude
2.Cancer
3.Funeral Pyre
4.Crimson Wine
5.Stillborn
6.N.B.N
7.Scrying Mirror
8.Close Your Eyes
9.To Silence Your Demons

Line-up
Vlad Voicu – lead vocals, studio guitars & programming
Tony Di Marzio – bass and backing vocals
Il Diverso – synth/keyboards & programming
Diego Aureli – live guitars
Daniele Di Gasbarro – live drums

NEXUS – Facebook

Travelin Jack – Commencing Countdown

I Travelin Jack hanno saputo rielaborare le influenze dei maestri del genere, inventandosi la propria personale rivisitazione del classic rock.

Ora che l’hard rock dai rimandi settantiani è tornato definitivamente ad incendiare le notti dei rockers tra impatto rock’n’roll e splendide note blues, il dibattito si fa sempre più acceso tra i consumatori di musica, con una parte a difendere l’operato dei molti gruppi apparsi sul mercato (tanti davvero interessanti) e l’altra a criticare l’effetto nostalgia che il successo del genere comporta, dimenticando che, in fondo, è solo rock’n’roll.

Quindi lasciate a casa la voglia di criticare a priori e buttatevi a capofitto sul secondo album di questa band tedesca, dal monicker che ricorda passati eroi dell’hard rock blues (Travelin Jack mi ha subito portato alla mente Grand Funk Railroad e Creedence Clearwater Revival), con una cantante nata per essere una blues girl ed un lotto di brani a formare un altro bellissimo album di hard rock vintage, psichedelico e bluesy.
Attiva più o meno da una manciata di anni e con un primo album alle spalle licenziato nel 2015 dal titolo New World, la band dopo la firma per Steamhammer/SPV si presenta con il nuovissimo Commencing Countdown, provando così a scalzare dal trono di spade del rock di questo inizio millennio i vari Pristine, Blues Pills, The Answer e compagnia nostalgica.
Look glam alla T.Rex, una sirena blues al microfono (Alia Spaceface) e una serie di brani affascinanti che, amalgamando in un unico sound hard rock britannico, rock blues e psichedelia, si insinuano come serpenti usciti da un trip nella nostra mente e nel nostro corpo, scuotendolo dalle fondamenta, mentre le chitarre decollano, toccando pianeti dove in passato un essere di nome Ziggy partì verso la conquista della Terra.
Questa caratteristica è la differenza sostanziale tra i Travelin Jack ed i loro colleghi, la forte componente glam che si affaccia tra le trame hard blues di brani straordinari per intensità ed emozionalità, crescendo dall’opener per arrivare alla perfezione quando l’album entra nel vivo e ci regala musica rock d’alta scuola con Cold Blood, lo space rock pregno di blues di Galactic Blue, la sentita Time, il rock’n’roll di Miracles che ricorda opere rock come Tommy, il blues dannato e perdente di What Have I Done e Fire, brano marchiato da un’ interpretazione notevole della Spaceface.
I Travelin Jack hanno saputo rielaborare le influenze dei maestri del genere, inventandosi la propria personale rivisitazione del classic rock: questo è l’unico dato certo, mentre il sottoscritto prima o poi tornerà sulla Terra, forse.

Tracklist
1. Land Of The River
2. Metropolis
3. Keep On Running
4. Cold Blood
5. Galactic Blue
6. Time
7. Miracles
8. What Have I Done
9. Fire
10. Journey To The Moon

Line-up
Alia Spaceface – vocals, guitar
Flo The Fly – guitar
Steve Burner – bass
Montgomery Shell – drums

TRAVELIN JACK – Facebook

T-Roosters – Another Blues To Shout

Another Blues To Shout è composto da tredici splendide canzoni, tredici composizioni dove le note del delta prendono vita, tra il blues classico e lo swing.

Ai lettori della nostra webzine non facciamo mancare niente, partendo dal presupposto che, oltre allo zoccolo duro di metallari dai gusti estremi o classici, ci sia pure (come è nel nostro spirito) chi ama la buona musica a prescindere dagli stili che formano la grande famiglia del rock.

E non può mancare il blues, capostipite di tutto quello che si ascolta ai nostri giorni, specialmente ora che, come negli anni settanta, il rock ha ripreso la strada della frontiera che porta al delta del grande fiume, là dove tutto è nata tra il profumo del tabacco ed il tintinnio delle catene.
Quello che non sapete è che i protagonisti di questo viaggio/sogno tra le rive del Mississippi sono i T-Roosters, band di bluesmen italiani giunti al loro al quarto album in circa un decennio di attività.
Another Blues To Shout è composto da tredici splendide canzoni, tredici composizioni dove le note del delta prendono vita, tra il blues classico e lo swing: poco rock dunque, ma un affascinate percorso musicale nel blues delle origini, dove l’armonica diventa a tratti l’assoluta protagonista di sanguigne e ribelli boogie woogie songs e il ritmo instancabile ricorda le lunghe serate fuori dalle povere case degli schiavi, che esorcizzavano la fatica di lunghe giornate nei campi con interminabili e straordinarie jam.
Scritto a due mani da Paolo Cagnoni e Tiziano Galli (testi, musiche e produzione), Another Blues To Shout conferma l’ottima reputazione del gruppo nella scena del genere, non solo nel nostro paese visto l’exploit dello scorso anno quando i T-Rooster hanno strappato una posizione di tutto rispetto al Blues Contest “IBC”, concorso di blues internazionale tenutosi a Memphis.
L’opener Lost And Gone, i brividi suscitati dall’atmosfera accaldata e rustica della splendida Morning’ Rain Blues, lo swing protagonista di Naked Born Blues e il rock’n’roll dei pionieri nella straordinaria Livin’ On Titanic, sono solo una parte del tesoro musicale che scoprirete ascoltando Another Blues To Shout, un album passionale come solo questo genere sa essere.

Tracklist
1 Lost And Gone
2 Morning Rain Blues
3 I Wanna Achieve The Aim
4 On This Life Train
5 Naked Born Blues
6 Sugar Lines
7 Beale Street Bound
8 Livin’On Titanic
9 Black Star Blues
10 Still Walkin’ Down South
11 Missing Bones
12 The Way I Wanna Live
13 I’m Rolling’ Down Again

Line-up
Tiziano “Rooster Tiz” Galli – Voce e Chitarre
Giancarlo “Silver Head” Cova – Batteria e Background Vocal
Luigi “Lillo” Rogati – Basso, Contrabbasso e Background Vocal
Marcus “Bold Sound” Tondo – Armoniche e Background Vocal

T-ROOSTERS – Facebook

The Black Capes – All These Monsters

All These Monsters è un album che scorre via abbastanza liscio, decisamente orecchiabile e ben costruito, ma l’utilizzo stesso di quest’ultimo termine è emblematico di quanto il tutto appaia molto più pianificato che spontaneo.

Chi apprezza sonorità gothic/rock credo che stia attendendo da un pezzo qualcuno in grado di rievocare i fasti del passato: in epoca relativamente recente ci sono riusciti i The 69 Eyes, salvo perdere progressivamente in efficacia dopo i primi 2-3 notevoli lavori.

Ci provano oggi i greci The Black Capes, i quali alla band finlandese si rifanno in maniera abbastanza evidente aggiungendovi un approccio leggermente più robusto e provando talvolta ad attingere, a seconda delle sfumature scelte, da miti del passato come Type 0 Negative, The Cult e, aggiungerei, anche Sentenced.
L’operazione non fallisce ma neppure riesce al 100%, nel senso che All These Monsters è un album che scorre via abbastanza liscio, decisamente orecchiabile e ben costruito, ma l’utilizzo stesso di quest’ultimo termine è emblematico di quanto il tutto appaia molto più pianificato che spontaneo.
Qualche potenziale hit si palesa tra la decina di brani offerti dal gruppo ateniese (Purple Heart, We Will Never Die) facendo battere il piede con convinzione, ma personalmente prediligo la vena doom di Wolf Child o quella più hard rock della title track.
All These Monsters è suonato e prodotto con tutti i crismi e ben interpretato da un vocalist sufficientemente versatile come Alexander S Wamp, bravo nell’alternare un timbro più ruvido al quello più canonico in quota Jirky/Steele, ma sussistono forti dubbi sulla capacità dell’album di restare nel lettore per più di un paio di ascolti; inoltre, fermo restando che sul genere gli spazi di manovra per differenziarsi dai propri modelli non sono moltissimi, i The Black Capes, almeno per ora, paiono saltabeccare tra una e l’altra fonte di ispirazione mettendoci poco o nulla di proprio, e forse è proprio questo lo snodo sul quale dovranno lavorare maggiormennte in futuro.

Tracklist:
1.The Invite
2.Sarah The Witch
3.Wolf Child
4.Purple Heart
5.Now Rise
6.The Black Capes
7.New Life
8.We Will Never Die
9.All These Monsters
10.The Withdrawal

Line-up:
Alexander S Wamp – Vocals
Thanos Jan – Guitar
Irene Ketikidi – Guitar
Chris Rusty – Bass
Christos Grekas – Drums

Dimitri Stathakopoulos – Keys

THE BLACK CAPES – Facebook

Frank Capitanio – The Last Man

Con un livello che rimane alto per appeal e talento melodico, The Last Man risulta una ventata di aria fresca nel panorama del rock/pop dal piglio radiofonico.

Diciamolo francamente: siamo invasi da una moltitudine di gruppi presentati dai canali satellitari come i salvatori del rock, in coma da anni e disteso in un giaciglio aspettando il bacio di un giovane principe armato di chitarra, basso, batteria e buone idee, che possa finalmente risvegliarlo.

A noi che ci occupiamo di altre tipologie di rock, più dure e meno commerciali, fa piacere incontrare sul nostro cammino ottime realtà come Frank Capitanio, trio alternative pop/rock della provincia di Teramo, capitanata appunto dall’omonimo chitarrista e cantante, coadiuvato alla batteria da Edolo Ciampichetti e al basso da Lorenzo Marcozzi.
Quindi moderiamo i toni, lasciamo per un po’ le strade impervie dell’alternative metal o del rock vintage tanto di moda di questi tempi, per immergerci nel mondo di The Last Man, opera che passa con disinvoltura dall’alternative rock al pop con un’accentuata vena cantautorale, ricca di sfumature radiofoniche r dalle trame melodiche ed orecchiabili, ma dal tiro irresistibile.
Un album composto da belle canzoni, questo è The Last Man, a tratti più elettrico, in altri molto melodico e dall’ottimo appeal ma rock nel profondo, così come straordinariamente rock è la voce di Frank, che a molti ricorderà dMiles Kennedy (Alter Bridge) ma che sicuramente non manca di personalità e talento, assecondano quelle che sono le brillanti idee evidenziate da un ottimo songwriting.
Il sound, dunque, si muove nel sound del nuovo millennio, lasciando che le melodie prendano il sopravvento sulle graffianti trame rock che fanno comunque parte dello spartito di brani come il singolo Dena, la Soul Asylum oriented Long Away, la splendida ballad Easy e le trame ritmiche di Loser, tra melodie ed urgenza alternative.
Con un livello che rimane alto per appeal e talento compositivo, The Last Man risulta una ventata di aria fresca nel panorama del rock/pop dal piglio radiofonico.

Tracklist
1.A Reason To Fly
2.All The Time Lost
3.Dema
4.Long Away
5.Loser
6.Misery
7.Easy
8.The Last Man
9.Thank You
10.Choose The day

Line-up
Frank Capitanio – Voce, Chitarra
Lorenzo Marcozzi – Basso Elettrico, Back Vocals
Edolo Ciampichetti – Batteria, Percussioni

FRANK CAPITANIO – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=ZVrlwc1hfTk

Cunning Mantrap – Hazmat

It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione al sole.

Ecco un’altra ottima band dai suoni hard rock in arrivo dal centro Europa, da quelle terre germaniche dove il genere ed i suoi derivati splendono di tradizione ed il metal/rock trova la sua patria ideale.

I Cunning Mantrap sono un terzetto di rockers con un solo ep alle spalle (Dull Days), ora seguito da Hazmat, nuovo e notevole lavoro che spazia tra hard rock, grunge e stoner metal, sguaiato, bluesy e psichedelico quanto basta per lasciarlo nel lettore a far danni nelle vostre serate alcoliche.
Licenziato dalla Fastball Music lo scorso anno, MetalEyes IYE lo ripropone ai suoi lettori, che di deserto arso da una palla infuocata e vulcanici riff se ne intendono.
In verità non siamo al cospetto di chissà quale novità: il sound del gruppo tedesco segue le strade polverose di molte hard rock band del momento, ma sfido chiunque a non muovere il fondo schiena e sbattere la capoccia al ritmo di questa dozzina di brani anfetaminici, mentre gli anni settanta ed i suoi eroi ammiccano soddisfatti alle gesta di Phry McDunstan, Tobias Schmidt e Lukas Bönschen da Colonia.
It’s only rock’ n’ roll, niente di più, niente di meno, ma robusto, graffiante, totalmente stonato, con un sound che penetra sotto una pelle bruciata dalla troppa esposizione a un sole che illumina brani come l’opener Red, dal sound creato a Seattle e portato in terra teutonica da Weary, mentre la varia raccolta di tracce porta l’ascoltatore ad assaporare diverse atmosfere tra i cieli dove vola il dirigibile zeppeliniano, il deserto dove corre la macchina Kyuss e le pozzanghere di una piovosa città americana dove bazzicavano Alice In Chains e Soundgarden.
Hazmat è dunque un ottimo lavoro , diretto, senza fronzoli ma ricco di buone canzoni: cercatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.Red
2.Company
3.Play The Prophet
4.Uncanny Volley
5.A Light Have Should Have Shined
6.Detox
7.Weary
8.The Past
9.The Future II
10.Orange
11.Straight Outta Hand
12.The Course Of The Leaden Tongue

Line-up
Phry McDunstan – Lead guitars, bass
Tobias Schmidt – Bass
Lukas Bönschen – Drums

CUNNING MANTRAP – Facebook

Secret Sight – Shared Loneliness

Un album intenso, melodico e tragicamente vitale, privo di intoppi come il fluido scorrere dell’acqua in un torrente.

Quando la new wave ed il post punk si uniscono al dark progressivo tanto in voga negli ultimi tempi, ecco che prende forma un rock emozionale nel quale trame malinconiche accompagnano l’ incedere di brani in cui si respira un epicità scovata nella vita di tutti i giorni.

Parlando di new wave non ci si può dimenticare degli anni ottanta e dei gruppi cardine del genere, ma senza fare nomi e cognomi ci crogioliamo nelle linee melodiche della voce o degli arpeggi elettrici di una chitarra vestita di nero e truccata con il mascara, leggero ma presente.
I Secret Sight da Ancona, nati dalle ceneri del progetto Coldwave e subito in pista con il debutto Day.Night.Life, tornano con questo bellissimo album , maturo, coinvolgente e armonicamente sopra le righe, una raccolta di tracce che dei generi descritti prendono il meglio e lo riassumono in un rock che vive di una grande malinconia ma che si apre anche alla speranza, mentre i più vecchi tra voi gusteranno passaggi che risulteranno familiari, ma perfettamente incastonati in un sound personale e coinvolgente.
Shared Loneliness vi ipnotizzerà, seducente e bello mentre le sue spire si avvolgeranno sempre più ad ogni brano, dall’opener Lowest Point per arrivare all’ultima nota della conclusiva Sometimes, passando tra le note che si fanno diaboliche e pregne di lucide melodie decadenti in Blindmind o nella bellissima Over, senza perdere un solo attimo dell’urgenza post punk (Stage Lights).
Un album intenso, melodico e tragicamente vitale, privo di intoppi come il fluido scorrere dell’acqua in un torrente.

Tracklist
1.Lowest Point
2.Stage Lights
3.Blindmind
4.Fallen
5.Flowers
6.Swan’s Smile
7.Over
8.Surprising Lord
9.Sometimes

Line-up
Cristiano Poli – vocals, guitar
Lucio Cristino – vocals, bass
Enrico Bartolini – drums

SECRET SIGHT – Facebook

One Eyed Jack – What’m I Getting High On?

Il trio lombardo non si nasconde certo dietro ad un dito, ti sbatte in faccia le proprie influenze e come se fossimo tutti trasportati in un locale della Seattle sfatta di rock ed eroina, ci consegna un valido tributo ad una delle scene musicali più importanti del secolo scorso.

Echi di Bleach e Nevermind, lasciati al caldo sole del deserto della Sky Valley, formano un sound massiccio e profondo, mentre il tempo si ferma e con una brusca inversione a U ci riporta ai primi anni novanta e alle perturbazioni musicali che, come la pioggia, fanno di Seattle una delle città più cupe del mondo.

Ma siamo nel 2017 e nel Nord Italia, precisamente nel bresciano dove si aggirano da qualche anno gli One Eyed Jack, tornati dopo un primo album autoprodotto con questo macigno di hard rock americano dalle ispirazioni grunge/stoner intitolato What’m I Getting High On?, licenziato dalla Fontana Indie Label 1933.
Il trio lombardo non si nasconde certo dietro ad un dito, ti sbatte in faccia le proprie influenze e come se fossimo tutti trasportati in un locale della Seattle sfatta di rock ed eroina, ci consegna un valido tributo ad una delle scene musicali più importanti del secolo scorso.
Ovviamente gli One Eyed Jack ci mettono del loro, che consiste nello stonerizzare il tutto con un basso grasso che al calore cola di liquido vischioso, presente come i riff potenti della sei corde ed il cantato malato, nervoso ma a tratti rilassato prima di esplodere in rabbiosi chorus di scuola Cobain.
Primetime, The Edge Of The Soul, l’atmosfera tirata dal basso che pulsa di Washyall, l’urgenza punk di Shitting Blood, e una presa live che non mancherà di fare vittime dall’alto di un palco fanno di What’m I Getting High On? un lavoro diretto e che ben fotografa l’influenza dei gruppi di Seattle sul rock del nuovo millennio.
L’album potrà risultare magari poco originale ma non ci sono certamente dubbi sul suo impatto.

Tracklist
1. Primetime
2. Little Junior Finally Grew A Beard
3. Soon Back Home
4. Shitting Blood
5. Sgrunt
6. The Edge of the Soul
7. Daily Abuse
8. Drama Shit
9. Washyall
10. Dog Fight

Line-up
Daniele – chitarre e voci
Giampietro – bassi
Dariored – batterie

ONE EYED JACK – Facebook

Bob Oliver Lee – Flying Music

Flying Music è un buon lavoro, al quale manca solo un pizzico di personalità e qualche brano trainante in più per poter richiamare l’attenzione di un maggior numero di appassionati.

Bob Oliver Lee non è il nome di un musicista in carne ed ossa bensì il monicker scelto dal francese Bob Saliba per il suo progetto progressive, giunto con questo Flying Music al suo secondo episodio discografico.

Il poliedrico musicista marsigliese si è ritagliato un suo discreto spazio con altre band come Galderia e Debackliner, oltre che attraverso la collaborazione con John Macaluso per una riedizione dei brani degli Ark, e con questo lavoro va ad esplorare il versante più pacato ed acustico del progressive, prendendo come riferimento stilistico le band d’oltreoceano piuttosto che quelle europee.
Infatti, fin dall’opener Everything’s Gone, la memoria va ai Kansas dei brani più evocativi (Dust In The Wind) o ad altre band minori ma comunque di un certo spessore qualitativo come Everon o Echolyn, tanto per citarne due che ho apprezzato non poco in passato, per arrivare ai giorni nostri con un fuoriclasse del genere come Neal Morse: questo finisce in qualche modo per rendere meno scontato un lavoro che non stravolge le gerarchie del genere ma si rivela un ascolto piacevole.
Saliba è un buon cantante, magari non in possesso di doti sopra la media ma, comunque, in possesso di un timbro piuttosto caldo e adatto al sound proposto in Flying Music, mentre il suo lavoro chitarristico si rivela efficace,  così come l’operato del manipolo di musicisti che lo accompagna.
Tra i brani spicca senza dubbio l’intensa Forbidden Ways, momento emotivamente più elevato di un lavoro che dubito possa ottenere particolari favori dagli abituali fruitori del progressive, normalmente poco propensi a dare credito a musicisti giovani (e dal background metal) che approdano nel loro ristretto perimetro musicale.
Sarebbe un peccato se fosse così, visto che al di là di qualche scelta non del tutto condivisibile (per esempio appare troppo marginale il contributo delle tastiere che, invece, in certi frangenti sarebbero risultate utili per “riempire” maggiormente il suono), Flying Music è un buon lavoro al quale manca solo un pizzico di personalità e qualche brano trainante in più per poter richiamare l’attenzione di un maggior numero di appassionati.

Tracklist:
01. Everything’s Gone
02. Dead Heart
03. Flying Music (instrumental)
04. These Wings
05. Thoughts & Regrets
06. River Of The Temple
07. Rising
08. Forbidden Ways
09. Sailors From The Crying Planet
10. From The Pyramid Rises The Flying Spirit Of The Pharaoh (instrumental)

Line up:
Bob Saliba: Lead, Acoustic Guitars & Vocals
Pascal Garell: Bass
Olivier Tijoux: Drums
Franck Capera: Keyboards
François Albaranes: Piano

BOB OLIVER LEE – Facebook

High Spirits – Escape!

Il progetto High Spirits nasce per tributare l’hard rock classico, quindi UFO e Thin Lizzy sono ancora le maggiori fonti di ispirazione di Black che ci regala un piccolo gioiellino, in attesa del ritorno sulla lunga distanza.

Torna Chris Black, musicista americano impegnato in molti progetti tra cui Pharaoh e Nachtmystium, con il gruppo attraverso il quale dà sfogo alla sua anima rock, gli High Spirits.

Fino al precedente Motivator il gruppo era di fatto in mano al solo Black, il quale suonava tutti gli strumenti, ora invece è stato raggiunto da altri quattro musicisti (Scott, Mike, Bob, Ian) per quella che sembrerebbe una rock band a tutti gli effetti.
Escape! è il secondo mini cd uscito quest’anno e segue Night Rock, risalente a qualche mese fa.  tornando a far parlare di questa ottima rock band di Chicago, dedita all’hard rock tradizionale, influenzato dall’ala britannica negli anni a cavallo tra il decennio settantiano e quello successivo.
Il gruppo si disimpegna al meglio sulle ali di una title track che parte veloce, serrata e senza freni, mentre è già ora del chorus da cantare sotto al palco, a muso duro rivendicando l’appartenenza alla grande famiglia del rock.
Melodie e watt, con un hard rock che si fregia di un ottimo lavoro chitarristico nella superba Stagefright, mentre in poco più di due minuti Fells Like Rock And Roll ci scaraventa al muro con una forza dirompente presa in prestito da Motorhead ed UFO.
Le influenze rimangono classiche, d’altronde il progetto nasce per tributare l’hard rock classico, quindi UFO e Thin Lizzy sono ancora le maggiori fonti di ispirazione di Black (Lonely Nights, ultimo ruggito per questo lavoro) che ci regala un piccolo gioiellino in attesa del ritorno sulla lunga distanza.

Tracklist
1.Escape!
2.Stagefright
3.Fells Like Rock And Roll
4.Lonely Nights

Line-up
Chris
Scott
Mike
Bob
Ian

HIGH SPIRITS – Facebook

Closet Disco Queen – Sexy Audio Deviance for Punk Bums

Dopo il debut album omonimo del 2015, i Closet Disco Queen tornano in pista con questo nuovo lavoro che certo non può rendere giustizia alle loro capacità in soli tre brani.

Sexy Audio Deviance for Punk Bums è un EP di sole tre canzoni, di puro prog-rock sperimentale carico di influenze di vari generi.

I Closet Disco Queen sono un duo di recente formazione composto dal chitarrista Jonathan Nido e dal batterista Luc Hess, decisi a creare un progetto insieme. Dopo il debut album omonimo del 2015, tornano in pista con questo nuovo lavoro che certo non può rendere giustizia alle loro capacità in soli tre brani. La opening track Ninjaune inizia con l’atmosfera tipica dell’ambient (che potrebbe fuorviare gli ascoltatori) per poi crescere gradualmente d’intensità e volume dando spazio ad un più rude e rozzo metal, per poi calare di nuovo nel finale. Si passa poi a El Moustachito, secondo brano dall’intro quasi punkeggiante, che continua con uno stoner influenzato da chitarre heavy che non dà modo all’ascoltatore di annoiarsi. A chiudere l’EP, il brano Délicieux che ci trasporta nelle atmosfere di settantiana memoria, un mix di blues e hard rock con influenze tipiche del prog che rende giustizia all’intero lavoro, rivelandosi una degna conclusione. Nel complesso, i Closet Disco Queen si sono costruiti un’ottima base di lancio creando qualcosa di nuovo, un prog di stampo “antico” ma proiettato nel futuro grazie ad influenze che attingono dal moderno. Il duo è perfettamente amalgamato ed in sintonia, e riesce a creare un ibrido che spazia da atmosfere tipiche del rock anni ’70 ad un più rude metal con caratteristiche dell’heavy, e non solo. Insomma, una band della quale sentiremo ancora parlare.

Tracklist
1. Ninjaune
2. El Moustachito
3. Délicieux

Line-up
Luc Hess – Drums
Jona Nido – Guitar

CLOSET DISCO QUEEN – Facebook