Osanna – Palepolitana

Gli Osanna, con questo sentito atto d’amore verso la loro città, regalano agli appassionati un meraviglioso nuovo disco di inediti che ristabilisce le gerarchie attuali all’interno del sempre vivo progressive italiano.

Un nuovo disco degli Osanna deve essere considerato necessariamente un evento: stiamo parlando infatti di uno dei nomi di punta della scena prog italiana degli anni settanta, anche se i più tendono a ricordare il solito trio formato da PFM, Banco e Le Orme.

La band napoletana ha avuto una carriera meno continua, con un lungo stop negli ultimi due decenni dello scorso secolo, e anche per questo non ha mai goduto, a differenza delle altre, di picchi di popolarità dovuti a brani più orecchiabili e commerciali.
Il ritorno ad un disco di inediti (il settimo della carriera, a quattordici anni dal precedente e, addirittura, a trentacinque dal penultimo) da parte di Lino Vairetti e della sua creatura avviene con la funzione ben precisa di offrire un atto d’amore tangibile nei confronti di Napoli; ovviamente, con questo, Vairetti non si nasconde dietro a un dito negando l’esistenza di un cancro come la camorra o del degrado che opprime certi quartieri ma, semplicemente, sostiene che questi mali sono comuni a tutte le grandi metropoli e che la presa di coscienza delle negatività non deve equivalere, necessariamente, a rinunciare ad esaltare le bellezze di un luogo che è anche e soprattutto culla di arte e di cultura. Con una canzone come Ciao Napoli, questo pensiero viene espresso in maniera esplicita e senza indugi, sposando quello di non pochi intellettuali partenopei i quali, ben lungi dall’essere collusi con la malavita, contestano la stereotipata rappresentazione cinematografica e televisiva che viene fornita della città, un aspetto che finisce per svilire e mettere in secondo piano molti altri dal segno positivo che sarebbe opportuno invece evidenziare.
Un atto d’amore, quindi, che si traduce in un album che, per buona parte, viene cantato in dialetto, e se questo di primo acchito potrebbe rappresentare un ostacolo per i neofiti, in effetti si tratta di un ulteriore valore aggiunto: qui la musica di matrice napoletana, quella che ha partorito giganti come Pino Daniele, per intenderci, si sposa alla perfezione con l’anima prog degli Osanna che, quando emerge, si dimostra ancor più esaltante.
Palepolitana è un titolo che fonde il nome Palepoli (ovvero la città sorta prima della “Neapolis”) con la parola Metropolitana e non è un caso, visto che il concept racconta di un androide che, percorrendo le viscere della città attraversando le stazione d’arte dell’underground partenopea, compie un ideale viaggio nelle radici culturali e popolari di uno dei luoghi più controversi ed affascinanti dell’intero pianeta.
Non dimentichiamo, inoltre, che Palepoli è anche il titolo dell’album più noto degli Osanna: pubblicato originariamente nel 1973, in occasione dell’uscita del nuovo album è stato ri-registrato con l’attuale formazione ed offerto come cd bonus .
Peraltro l’intero album non può essere neppure considerato una semplice opera musicale, vista la sua stretta connessione e collaborazione con le altre forme d’arte visiva sviluppate nel produrre l’artwork del lavoro, che troveranno la loro sublimazione al momento della realizzazione della versione in vinile prevista per l’autunno.
Va detto che la differenza tra gli Osanna attuali e quelli di quarant’anni fa non è da poco e viene evidenziata proprio dall’abbinamento delle due opere, benché venga parzialmente attenuata dalla realizzazione da parte della stessa line up.
Palepoli era un disco nervoso, composto da una band giovane che fondeva mirabilmente la tradizione musicale partenopea con le pulsioni prog dell’epoca; la rivisitazione targata 2015 smussa alcune asperità rispetto alle registrazioni originali, come è naturale che sia, ma non perde in efficacia, facendo godere gli appassionati dell’ascolto di un album storico, completato in alcune sue parti e gratificato da suoni e prestazioni perfette.
Laddove, in Oro Caldo, si auspicava la fuga dalla grande città (“Fuje ‘a chistu paese, fuje ‘a chistu paese. Parole, penziere, perzone, nun vanno ddaccordo nemmanco nu mese”), in Palepolitana un Vairetti che non ha certo smarrito il proprio spirito critico preferisce però esaltare la bellezza piuttosto che rimarcare le criticità, tramite un lotto di brani splendidi e sufficientemente immediati, difficili solo da scacciare dalla mente dopo averli ascoltati e riascoltati.
Coadiuvato da musicisti eccellenti, tra i quali il figlio Irvin alle tastiere e alla voce, e da ospiti di pregio come l’icona David Jackson e la magnifica Sophya Baccini, il leader con la sua voce ancora ferma e carismatica ci conduce in questo viaggio sotto il Vesuvio tra melodie ora malinconiche (Marmi e la meravigliosa Canzone Amara, con la preziosa partecipazione  della Baccini), ora devote alla tradizione (la taranta di Michelemmà), ora intrise di pathos e drammaticità (Fenesta Vascia e Profugo),
Brani inizialmente lineari e dal grande afflato melodico si aprono sovente in crescendo strumentali esaltanti (Santa Lucia, Palepolitana, Ciao Napoli) affiancati da omaggi all’epopea prog che fu (lo strumentale Anto Train).
Mentre tra disgrazie, abbandoni e divorzi, le altre band storiche del movimento si barcamenano apparendo talvolta le cover band di sé stesse, gli Osanna con questo splendido lavoro si svincolano da questa insidia mostrando al mondo che il progressive italiano è sempre vivo e vegeto e che è possibile ottenere simili risultati volgendo lo sguardo al passato, ma tenendo i piedi ben saldi nel XXI secolo.

Tracklist:
CD 1 – Palepolitana
1. Marmi
2. Fenesta Vascia
3. Michelemmà
4. Santa Lucia
5. AntoTrain
6. Anni di Piombo
7. Palepolitana
8. Made in Japan
9. Canzone Amara
10. Letizia
11. Ciao Napoli
12. Profugo

CD 2 – Palepoli
1. Oro Caldo
2. Stanza Città
3. Animale Senza Respiro

Line-up:
Lino Vairetti – vocals, acoustic and 12-string guitars, harmonica
Gennaro Barba – drums
Pako Capobianco – electric, acoustic and 12-string guitars
Nello D’Anna – bass
Sasà Priore – piano, Fender Rhodes, organ, synth
Irvin Vairetti – vocals, mellotron, synth

Guests:
David Jackson – sax & flute
Sophya Baccini – voice
Gianluca Falasca – violin
Angelo Salvatore – flute
Falasca String Quartet

OSANNA – Facebook

Raging Dead – Born In Rage

Date un ascolto al debutto dei Raging Dead, ne vale la pena.

Esordio al fulmicotone per questa giovane band di Cremona, nata all’inizio dello scorso anno per volere del chitarrista e vocalist Cloud Shade, adocchiata dai ragazzi della Atomic Stuff che hanno masterizzato, mixato e registrato questo Ep nei loro studi di Isorella(Brescia) sotto la supervisione di Oscar Burato.

I Raging Dead sono protagonisti di un aggressivo metal dai riferimenti horror, colmo di attitudine punk/sleazy e alquanto moderno: i brani (cinque più intro) fanno dell’impatto e della grinta, tutta rock’n’roll, il punto di forza non allontanandosi troppo dalle influenze dichiarate e andando subito al sodo, senza troppi fronzoli, una dichiarazione di intenti che premia il gruppo , protagonista di brani assolutamente efficaci.
Awakening The Damned funge da atmosferica intro, a seguire one, two, three, e si parte per questo tuffo in un moderno rock’n’roll, punkizzato da ritmiche veloci e stradaiole, solos metallici ed un’aurea di irriverente attitudine alla Murderdolls, modernizzata da riferimenti al Rob Zombie meno industrial e al fantasma di Steve Sylvester che aleggia su ogni produzione del genere.
Da Scratch Me fino a Vengeance il gruppo non risparmia energie, le canzoni escono potenti e trascinanti (Anathema, Redemption e Nightstalker), facendo divertire l’ascoltatore che, di certo, non si annoia travolto da un sound che dal vivo deve risultare incisivo come pochi.
L’accento su questo lavoro sono i molti richiami allo street, che esce dai brani esplodendo nella conclusiva Vengeance, quello più cattivo e sporco di band come i primi L.A Guns e che aiuta non poco i brani a conquistare l’ascoltatore di turno.
Come al solito, quando di mezzo ci si mette l’Atomic Stuff , la qualità del prodotto è molto alta ed un ascolto è d’obbligo per gli amanti del genere.

Tracklist:
1. Awakening Of The Damned
2. Scratch Me
3. Anathema
4. Redemption
5. Nightstalker
6. Vengeance

Line-up:
Cloud Shade – Lead Vocals/Guitar
Matt Void – Lead Guitar
Tracii Decadence – Drums
Simon Nightmare – Bass

RAGING DEAD – Facebook

Celeb Car Crash – ¡Mucha Lucha!

Singolo apripista del nuovo album per i Celeb Car Crash.

Singolo apripista del futuro secondo album per l’alternative rock band nostrana Celeb Car Crash, segnalatasi nel 2013 con il debutto “Ambush!”, uscito nel 2013 e che molto bene fu accolto dagli addetti ai lavori.

Fresco di firma per la Sliptrick Records e reduce da un tour che li ha visti di spalla ai grandi Lacuna Coil, il quartetto sforna tre brani rock molto belli, che pescano tanto dal post grunge quanto dal rock alternativo di questi ultimi anni, rendendo così l’attesa per il nuovo parto ancora più interessante.
L’America è al centro del songwriting ed uno squisito gusto per ritmiche mai scontate porta il gruppo ad uscire prepotentemente dall’affollato mondo dell’underground rock grazie ad un sound ispirato, impreziosito dalla performance dell’ottimo cantante Nicola Briganti e ad un rock che graffia pur conservando un’eleganza di fondo.
Because I’m Sad è il singolo, una rock song che parte semiacustica per poi esplodere in elettricità , dall’ottimo appeal e costruita per piacere senza scendere nel patetico rock da classifica.
Segue Next Summer, trascinata da un riff hard rock e molto Alter Bridge nel refrain anche se la mia preferita resta ¡Adiós Talossa! (tututu) , ottima canzone aperta dal suono delle trombe, che si trasforma in un brano tra Nirvana e Foo Fighters, con le ritmiche e le atmosfere che cambiano tra elettricità ed una tristezza di fondo, solo stemperata dai cori ariosi e dall’ottimo ritornello.
Band interessante, i Celeb Car Crash mostrano un songwriting davvero ispirato, anche se tre tracce sono ancora poche per trarre conclusioni definitive;, non ci resta che aspettare l’arrivo del nuovo lavoro che, viste le premesse, non dovrebbe deludere gli appassionati dell’alternative rock.

Tracklist:
1.Because I’m sad
2.Next Summer
3.¡Adiós Talossa! (tututu)

Line-up:
Nicola Briganti – Voce, Chitarra
Carlo Alberto Morini – Chitarra
Simone Benati – Basso
Michelangelo Naldini – Batteria

CELEB CAR CRASH – Facebook

Psychedelic Witchcraft – Black Magic Man

Questo 10″ è una carezza, un profondo atto d’amore verso un certo tipo di musica e di retaggio culturale che va dai Black Sabbath a Lucio Fulci, passando per pupille senza colore e sguardi alla volta celeste.

Un salto indietro nel tempo, un disco di razza per una grande cantante ed un gruppo molto valido.

Le atmosfere sono quelle rarefatte e fumose degli anni settanta, con un doom rock in stile Jex Thoth, ma con un’anima maggiormente aperta allo spettro di quegli anni.
Non è un’operazione vintage, ma l’espressione di una grande cultura musicale unita ad una passione fuori dal comune, che è quella di Virginia Monti, giovane donna che sa molto ciò che vuole, e ci porta per mano in un immaginario pagano che è assai più vero e calzante di quello che ci viene propinato ogni giorno.
Questo 10” è una carezza, un profondo atto d’amore verso un certo tipo di musica e di retaggio culturale che va dai Black Sabbath a Lucio Fulci, passando per pupille senza colore e sguardi alla volta celeste.
La produzione rende pienamente merito a questo disco che è senz’altro l’inizio di una grande carriera. Non si può non rimanere impressionati dalla potenzialità di Virginia e del suo gruppo, che sembrano già consumati veterani.
Black Magic Man non ha bisogno di essere gridato o suonato a mille, ha soltanto un vitale bisogno di girare sul vostro giradischi, mentre interrompete lo stupro perpetrato ai vostri danni dalla vita moderna e vi lasciate guidare da Virginia.
Non ci saranno difficoltà ad immergersi in un piacevole liquido, dove il femmineo la farà da padrone, come è giusto che sia, riportando a casa ciò che è nostro e che ci è stato negato da almeno duemila anni.
Bello, piacevole ed è un ep che uscirà questa estate.

Tracklist:
1 Angela
2 Lying on Iron
3 Black Magic Man
4 Slave of Grief

PSYCHEDELIC WITCHCRAFT – Facebook

Område – Edari

“Edari” è un album difficilmente catalogabile ma sempre contenuto in un alveo di ascoltabilità, laddove la sperimentazione non diviene un artificio fine a sé stesso.

Un album spiazzante, ma nel senso positivo del termine, questo esordio del duo francese Område.

Perfettamente in linea con la tendenza avanguardistica che permea le band transalpine, Jean-Philippe Ouamer e Christophe Denez danno vita ad un lavoro che pare davvero travalicare i vincoli di genere riuscendo nell’impresa,  a differenza di molti altri connazionali.
Come band di riferimento, in sede di presentazione vengono citati Ulver, Manes e God Is An Astronaut, tra gli altri, ma tutto sommato a un disco come questo ciò che di sicuro non fa difetto è l’originalità.
Edari è un album difficilmente catalogabile, quindi, ma sempre contenuto in un alveo di ascoltabilità, laddove la sperimentazione non diviene un artificio fine a sé stesso, volto a coprire lacune compositive, bensì il veicolo ideale per trasportare l’ascoltatore in una realtà straniante e pervasa da un oscurità di fondo che lascia il segno.
Ambient, trip hop, qualche improvvisa accelerazione di matrice metal ed una robusta componente elettronica, fanno di Edari una creatura cangiante in grado di turbare più di un sonno.
Il sax di Mótsögn, i cori che aprono Mann Forelder, le vocals stentoree di Luxurious Agony, il trip hop accompagnato da una magnifica voce femminile di Satellite and Narrow, l’incipit alla Devbil Doll di Åben Dør, l’elettronica trascinante di Friendly Herpes, l’andamento lugubre e dissonante di Skam Parfyme e l’elettrodark della conclusiva Otaa Sen, sono una sequenza di brani che avvincono pur nella difficoltà di recepire una proposta ostica ma capace di avvolgere piuttosto che respingere.
Bella sorpresa e colpo di pregio per la label salernitana My Kingom nell’accaparrarsi i servigi degli Område.

Tracklist:
1. Mótsögn
2. Mann Forelder
3. Luxurious Agony
4. Satellite And Narrow
5. Åben Dør
6. Friendly Herpes
7. Skam Parfyme
8. Ottaa Sen

Line-up:
Jean-Philippe Ouamer – Drums, Electronics
Christophe Denez – Vocals, Guitar

OMRADE – Facebook

Helfir – Still Bleeding

Per chi ama le sonorità oggi simboleggiate dai vari Moss, Patterson e dai fratelli Cavanagh, Still Bleeding è un album assolutamente imperdibile.

Non è così frequente riscontrare una perfetta corrispondenza tra le influenze dichiarate da un musicista e ciò che confluisce poi nei suoi dischi: tutto questo accade, invece, in occasione dell’ esordio un veste solista del salentino Luca Mazzotta con il suo progetto Helfir.

Nella relativa pagina Facebook si fa riferimento ad Antimatter, Anathema, Katatonia, Porcupine Tree e Alternative 4, ed effettivamente in Still Bleeding Mazzotta prima assimila, per poi amalgamare mirabilmente, quanto prodotto da tutte queste magnifiche band.
Indubbiamente, in percentuale è l’impronta fornita da Mick Moss quella che si manifesta in maniera più evidente, ma Luca ha il grande merito di non limitarsi ad una citazione sbiadita o didascalica, mettendoci invece del proprio a livello compositivo e presentando un lotto di brani pressoché inattaccabile.
Certo, del musicista inglese manca l’inconfondibile timbro che da solo rende speciale qualsiasi canzone, ma l’interpretazione di Mazzotta è ugualmente efficace e, soprattutto, capace di toccare le giuste corde disseminando l’album di momenti dal grande spessore emotivo, anche in virtù di un eccellente lavoro chitarristico.
Se vogliamo dirla tutta, due tra le band che Luca colloca tra i propri numi tutelari, sto parlando di Porcupine Tree (e dello stesso Wilson solista) e Katatonia, da diverso tempo non riescono a produrre lavori coinvolgenti come questo magnifico esordio targato Helfir.
Un disco da godersi immergendosi in toto nelle sue note che non tradiscono mai, con l’unica punta di opacità riscontrabile nel sentore folk di Dresses Of Pain; nient’altro che il classico pelo nell’uovo di un disco che meraviglia ed avvince con la bellezza non comune di My Blood, Alone, Black Flame, decisamente all’altezza degli Antimatter e degli Alternative 4 più ispirati, e di Night And Deceit, splendido brano dai suoni più robusti e dal flavour dark, per certi versi accostabile agli ultimi The Foreshadowing, che chiude nel migliore dei modi l’ispirato lavoro di questo bravissimo musicista nostrano.
Per chi ama le sonorità oggi simboleggiate dai vari Moss, Patterson e dai fratelli Cavanagh, Still Bleeding è un album assolutamente imperdibile.

Tracklist:
1.Oracle
2.My Blood
3.In The Circle
4.Alone
5.Dresses Of Pain
6.Black Flame
7.Portrait Of A Sun
8.Where Are You Now?
9.Night And Deceit

Line-up:
Luca Mazzotta – Vocals, Guitars, Bass, Keyboarrds, Drums Programming

HELFIR – Facebook

Graal – Chapter IV

Chapter Iv è il quarto bellissimo lavoro dei romani Graal, uno splendido viaggio tra hard rock, progressive e metal.

Questo bellissimo album è la risposta perfetta a chiunque mi dovesse chiedere quali siano le origini della mia smisurata passione per la musica rock/metal: più di trentacinque anni di una fiamma che dentro di me continua ad ardere, a dispetto delle primavere che passano inesorabili e dei mille problemi che la vita porta con sé.

Lo dico da sempre, le persone che hanno la fortuna di innamorarsi della sublime arte non saranno mai sole e hanno qualcosa in più, se poi questa meravigliosa dipendenza li porta a confrontarsi con svariati generi ancora meglio, perché riusciranno ad assaporare e fare proprie le virtù insite in ogni stile musicale.
E’ così che, passate più di tre decadi a confrontarmi con tutti i generi che l’hard rock e l’heavy metal hanno regalato, davanti ad un lavoro come Chapter IV dei romani Graal è come tornare tra le braccia di una vecchia amante mai dimenticata, passionale, calda e bellissima musa ispiratrice di sogni ora romantici, ora carnali ma tremendamente autentici.
La band romana, al quarto album, festeggia dieci anni di uscite discografiche avendo licenziato il primo lavoro “Realm Of Fantasy” nel 2005, seguito da “Tales Untold” del 2007 e “Legends Never Die” del 2011.
Maturità compositiva ed assoluta padronanza del genere suonato arrivano, con quest’opera, al massimo del loro splendore e ci offrono uno spaccato di musica che miscela metal, hard rock e progressive a cavallo tra ‘70-‘80, trasportandolo nel nuovo millennio per lasciarlo finalmente libero di regalare emozioni mai sopite , tra fughe tastieristiche, chitarroni heavy, ricami folk ed una vena prog entusiasmante.
Cori perfettamente inseriti in canzoni di estrema eleganza, riff e assoli elettrici di scuola heavy britannica, tasti d’avorio che fanno il bello e cattivo tempo, come negli anni in cui spadroneggiavano signori delle keys come Jon Lord e Rick Wakeman, e gustosi inserti folk, sono il ripieno di questi undici confetti musicali che non tralasciano una vena epica e fiera tipica di cavalieri e custodi del Santo Graal.
Un Graal che forse non è una coppa come tutti credono, ma uno spartito dove racchiuse ci sono le note di brani fuori dal tempo come Pick Up All The Faults, Revenge, l’accoppiata capolavoro The Day That Never Ended / Stronger, riassunto compositivo della band dove troverete tracce di Rainbow, Uriah Heep, Yes, con qualche richiamo al blues del serpente bianco era Lord ed un’attitudine heavy sempre presente e mai doma.
L’album continua il suo viaggio tra emozioni e brividi e si arriva così alla celestiale Goodbye, altra canzone capolavoro, dove a fare capolino sono i Genesis di Peter Gabriel, sempre con un taglio da ballad metal ma marchiata a fuoco dalla discografia settantiana della band inglese.
Viviamo in tempi in cui, purtroppo, anche la musica risente della vita frenetica che la società moderna ci impone, sempre alla ricerca del nostro Graal, che poi altro non è che una pace interiore, un attimo per concederci qualcosa che aiuti a sognare: io l’ho trovato, il suo nome è Chapter IV.

Tracklist:
1.Little Song
2.Pick Up All The Faults
3.Shadowplay
4.Revenge
5.The Day That Never Ended
6.Stronger
7.Guardian Devil
8.Lesser Man
9.Last Hold
10.Goodbye
11.A Poetry For A Silent Man
12.Northern Cliff

Line-up:
Andrea Ciccomartino – Voce, Chitarra Rtimca e Acustica
Francesco Zagarese – Chitarra Solista
Michele Raspanti – Basso
Danilo Petrelli – Tastiere
Alex Giuliani – Batteria

GRAAL – Facebook

Bastian – Among My Giants

Riedizione a cura della Underground Symphony del bellissimo album per Sebastiano Conti,che, con il monicker Bastian, raccoglie una manciata di stelle del metal mondiale per regalrci un lavoro sulla scia di Black Sabbath,Dio e Rainbow.

Lo scorso anno uscì, autoprodotto, questo bellissimo lavoro di metal classico e hard rock ottantiano ad opera del chitarrista siciliano Sebastiano Conti che, con il monicker Bastian, riunì un manipolo di stelle come vocalist del calibro di Mark Boals e Michael Vescera, entrambi ex Malmsteen, e batteristi di pari fama quali Vinnie Appice (Black Sabbath e Dio), John Macaluso (Riot, James Labrie, Malmsteen, TNT) e Thomas Lang (Paul Gilbert, Glenn Hughes).

Impreziosito dalla chitarra e dal talento compositivo del musicista nostrano, Among My Giants esplodeva in tutto il suo splendore, una splendida opera che riproponeva i fasti dell’hard rock di metà anni ’80: un tributo al metal più nobile, di cui fu il cordone ombelicale e che portò la nostra musica preferita a viaggiare tra i decenni successivi fino ai giorni nostri.
Un sogno per Sebastiano che si realizzò, circondandosi di musicisti leggendari di cui lui è stato ed è un fan, unendoli sotto il programmatico titolo Among My Giants: un lavoro mastodontico, nel quale Conti si prese cura di tutti i dettagli, regalando ai fortunati ascoltatori più di un’ora di musica immortale.
Purtroppo, senza il concreto supporto di una label alle spalle, l’album rischiava di passare inosservato, annegato nel mare di uscite che ogni giorno si affacciano sul mercato discografico, poco incline alla qualità e molto affascinato dai generi più cool.
Finalmente qualcuno che non sia una piccola ‘zine come la nostra si è accorto di quest’opera: la Underground Symphony, storica label nostrana, ha messo nelle mani di Sebastiano una penna per la firma sul contratto ed è così che Among My Giants esce completamente rinnovato nella sua veste grafica, ma soprattutto lo si potrà trovare in qualsiasi negozio di musica, in modo che chiunque possa avere la possibilità di far suo questo splendido lavoro.
Si potranno assaporare quindi le atmosfere dell’opener Odissey, in pieno stile Black Sabbath era Tony Martin, la fantastica performance del chitarrista su brani come Hamunaptra, Magic Rhyme e Mother Earth, il blues rock di Justify Blues, jam strumentale in compagnia di Giuseppe Leggio alle pelli e Corrado Giardina al basso, le atmosfere cangianti che passano dal metallo epico di Rainbow/Dio, ai ritmi più stradaioli di Sexy Fire e che rendono il lavoro molto vario, toccando vette emozionali altissime nelle due ballad The Fisherman e An Angel Named Jason Becker, dedicata al chitarrista americano.
Un lavoro enorme, un sogno che si è realizzato per il musicista nostrano e che vede i propri sforzi ulteriormente premiati da un contratto e dal vedere la propria opera finalmente a disposizione di tutti gli amanti di queste sonorità.
Non avete più scuse, fate vostro questo album ed anche voi vi troverete “tra i giganti”.

Tracklist:
1.Odyssey
2.Mother Earth
3.Hamunaptra
4.Tamburine Song
5.Secret and Desire
6.Sexy Fire
7.Lights and Shadows
8.Justify Blues
9.Magic Rhyme
10.The Beach
11.The Fisherman
12.Song of the Dream
13.Soul Hunters
14.An Angel Named Jason Becker

Line-up:
Sebastiano Conti – Guitars
Guests:
Michael Vescera – Vocals
Mark Boals – Vocals
Vinnie Appice – Drums
Thomas Lang – Drums
John Macaluso – Drums
Giuseppe Leggio – Drums
Corrado Giardina – Bass

BASTIAN – Facebook

The Blind Catfish – The King Of The River

Suonato e prodotto in modo egregio, “The King Of The River” è un bellissimo lavoro dove il blues del delta si unisce al rock moderno ed alla tradizione italiana

Il nostro grande fiume Po, vicino alle cui rive è stata scritta gran parte della nostra storia politica e sociale, bagna una terra di contadini così come d’industrie, di motori, cibo ed ovviamente tanta buona musica: nelle sue acque vive e regna il pesce gatto, sovrano incontrastato delle acque del fiume.

A fare da colonna sonora alle storie che si intrecciano con lo scorrere delle acque, c’è il blues rock dei The Blind Catfish, band che prende il nome proprio dal “fish monster” e che vuole essere (con successo) il cordone ombelicale che unisce il Po con un altro grande fiume, il Mississippi, vicino al cui delta è nato il blues, genere padre di tutta la musica moderna.
Suonato e prodotto in modo egregio, The King Of The River è un bellissimo lavoro dove il blues del delta si unisce al rock moderno ed alla tradizione italiana, colmo com’è di ottime canzoni, elettriche e sanguigne, dall’impronta southern e folk: dieci brani che toccano l’anima, più la riuscita ed inusuale cover di Billy Jean di Michael Jackson, trasformata dalla band di Carpi in una ballata intimista e melanconica.
Il resto dei brani alternano blues rock graffiante(Tool), a tratti raffinato e sensuale (The King Of The River), southern rock alla Blackberry Smoke (Late Night With The Cat) , ballate dai suoni roots (Lead You) ed altre dallo spirito rock (Belong To You).
Enorme il blues funky di The Ballad Of Lonely Sock, brano che si divide tra vicoli newyorkesi e saloon sporchi, di route di frontiera o strade polverose di pianura, che circonda ed accompagna il fiume nel suo lento discendere verso il mare.
The King Of The River si rivela un ascolto vario, adatto a tutti i tipi di palati, dai più in linea con il genere fino a chi preferisce suoni rock, proprio per la sua varietà di atmosfere che si fondono in questa lunga suite di musica del diavolo.
Ascoltando gli straordinari ritmi di Red Pants Panda si ha davvero l’impressione che L’Emilia non sia poi così lontana dal Mississippi: debutto coi fiocchi.

Tracklist:
01. Tool
02. The Ballad Of The Lonely Sock
03. The King Of The River
04. Belong To You
05. Red Pants Panda
06. Finding Emily
07. Lead You
08. Seamonkey
09. Late Night With The Cat
10. Bananapalooza
11. Billie Jean

Line-up:
Marco Maretti
Luca Fragomeni
Pietro Pivetti
Francesco Zucchi
Federico Bocchi

THE BLIND CATFISH – Facebook

Breakin Down – Judas Kiss

Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Che in questi ultimi anni l’hard rock stia vivendo una seconda giovinezza (a livello qualitativo) non è un mistero: dai suoni classici a quelli più moderni il genere sta regalando album in linea con le produzioni passate; certo, le band ai primi posti delle classifiche come negli anni d’oro sono un ricordo, ma le varie reunion e gli ottimi ultimi lavori dei nomi storici, sommato ad una scena underground più che mai viva e di qualità, fanno sperare almeno in uno stabilizzarsi del genere su livelli di popolarità sufficienti per non andare a cercare album tra le edizioni giapponesi, come accadeva negli anni novanta e all’inizio del nuovo millennio.

Via uno, sotto l’altro, ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi in gruppi usciti con lavori esaltanti: i nomi sono tanti, specialmente nella scena nazionale, a cui si aggiungono i sardi Breakin Down con il loro ultimo lavoro dal titolo Judas Kiss.
Nati nell’ormai lontano 1999 da un’idea della coppia Simone Piu (voce e basso) e Francesco Manna(chitarra), iniziano a calcare i palchi della regione come cover band, ma scrivere pezzi propri è un passo obbligatorio, così come assestare la line-up che, nel corso degli anni, vede avvicendarsi vari musicisti della scena isolana.
Il primo lavoro del gruppo esce nel 2011, quando la band vola negli states e con Fabrizio Simoncioni (Ligabue, Litfiba, Negrita tra gli altri) alla produzione incidono Miss California, che li porta in tour per l’Europa calcando inoltre palchi in compagnia di Pino Scotto, Stef Burns, Paolo Bonfanti ed Eric Sardinas.
Veniamo a Judas Kiss: l’album è uno splendido concentrato di hard rock americano, un riassunto di quello che laggiù è stato offerto negli ultimi quarant’anni di musica rock racchiuso in poco più di mezzora di suoni stradaioli, ipevitaminizzati da ritmiche adrenaliniche, watts elargiti a profusione ed un’anima southern che, quando prende il sopravvento, impreziosisce i brani, che siano nati sulle strade assolate della Sardegna o sulle route americane, poco importa.
Da sentire tutto d’un fiato, il lavoro tiene l’ascoltatore in pugno per tutta la sua durata, rapito dal tono sporco e sanguigno di Simone Piu, dalle sei corde grintose che inanellano ritmiche e solos che definirle trascinanti è un eufemismo (Francesco Manna e Mauro Eretta), e stordito dai colpi sul drumkit di Fabrizio Murgia.
Potrei parlarvi dello straordinario rock’n’roll di Babylon Rock City, del riff d’apertura del lavoro su Diamonds And Bitches, brano dal groove micidiale, delle tastiere settantiane nella semiballad The Long Goodbye, delle ritmiche stoner di Liver And Lovers e Rock’N’Roll Is Dead (Kyuss), ma in realtà non c’è una sola canzone, in questo disco, che non meriterebbe una particolare menzione.
Judas Kiss raccoglie l’eredità di Lynyrd Skynnyrd, Rolling Stones, Motorhead, senza dimenticare che siamo ormai nel nuovo millennio, ed allora i Breakin Down lo ammantano di sonorità desertiche alla Kyuss, ottenendo per un risultato stupefacente.
Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Tracklist:
1.Diamonds And Bitches
2.Judas Kiss
3.Dangerous Rose
4.Blood And Blood
5.The Long Goodbye
6.Home Sweet Hell
7.Babylon Rock City
8.Liver And Lovers
9.Woman
10.Sometimes
11.Rock’n’Roll Is Dead
12.Texas Radio

Line-up:
Simone Piu- Basso Voce
Francesco Manna-Chitarra
Mauro Eretta-Chitarra
Fabrizio Murgia-Batteria

BREAKIN DOWN – Facebook

RebelDevil – The Older The Bull, The Harder The Horn

Se siete amanti del southern metal, rompete il salvadanaio e correte dal vostro fornitore di fiducia, perché quest’anno di album così non ne sentirete molti.

Beh, se esiste una band per cui vale la pena parlare di super gruppo, questi sono i nostrani RebelDevil, strordinario quartetto di southern metal composto da vere leggende della scena tricolore: Dario Cappanera alla sei corde (Strana Officina), Gianluca Perotti al microfono (Extrema), Alessandro Paolucci al basso (Raw Power) e Ale Demonoid alle pelli.

Partiti intorno al 2008 da un’idea di Cappanera e Perotti, la band esordì con “Against You” portando con sé un po’ di sano metal southern, colmo di groove, direttamente dagli stati del sud, di quell’America della quale la musica della band è debitrice.
Il nuovo lavoro continua su queste coordinate ed il rock sudista, ipervitaminizzato da scariche metalliche e ingrassato da quantità letali di groove, abbinato al talento dei protagonisti, regala momenti di puro godimento, vero sballo rock’n’roll.
La tradizione southern rock, unita alla potenza del metal stonerizzato, ormai a tutti gli effetti uno dei generi più seguiti in questi ultimi anni, viene enfatizzato dal songwriting del gruppo, questa volta perfetto, e le dieci canzoni che compongono il lavoro chiamano in causa tutta l’esperienza dei musicisti coinvolti i quali, pur non facendo mistero delle loro influenze, sparano bordate di rock americano notevoli.
Black Label Society, Corrosion Of Conformity, Pantera e Down, sono le influenze che più si evidenziano nella musica di questo trascinante lavoro, che vede un Perotti straordinario sia nei brani più diretti, sia sopratutto nelle due semiballad (Alone In The Dark e Angel Crossed My Way) dove risulta perfetto anche nell’uso delle clean vocals.
Cappanera è il solito macina riff, e la sezione ritmica tutta sudore e polvere deborda con una prova “grassa” e a tratti pesante come un macigno.
Brani dai refrain entusiasmanti abbinano pesantezza e melodia, anthem di metal sudista che non oso pensare che danni potrebbero fare sul versante live (Crucifyin’ You e Freak Police da questo lato sono devastanti), vengono accompagnate da sfuriate dal sapore thrash (Rebel Youth, Religious Fantasy) che aggiungono adrenalina al clima da battaglia desertica di questo trascinante ed esaltante The Older The Bull, The Harder The Horn.
Se siete amanti del genere, rompete il salvadanaio e correte dal vostro fornitore di fiducia, perché quest’anno di album così non ne sentirete molti, garantito.

Track List:
1 – Rebel Youth
2 – Sorry
3 – Freak Police
4 – Remember
5 – Religious Fantasy
6 – The Older the Bull, the Harder the Horn
7 – Angel Crossed My Way
8 – Crucifyin’ You
9 – Alone in the Dark
10 – Power Rock ‘n’ Roll

Line-up:
Gielle Perotti – voce
Dario Cappanera – chitarra
Alessandro Paolucci – basso
Ale Demonoid Lera – batteria

REBELDEVIL – Facebook

Code – Mut

Un gran bel disco, consigliato a chi non vuole accontentarsi di musica dall’approccio melodico troppo convenzionale.

Nell’arco di un decennio, attraverso quattro dischi differenti tra loro, la metamorfosi dei Code si è compiuta, almeno fino al prossimo passo, visto che da una band dall’indole così cangiante è lecito attendersi di tutto.

Il black avanguardistico di “Nouveau Gloaming” ha prima assunto i tratti più oscuri di “Resplendent Grotesque” per giungere poi al progressive death di “Augur Nox”: in Mut sparisce qualsiasi connotazione estrema nel sound della band inglese, che approda infine ad un progressive nervoso quanto si vuole, ma del tutto ripulito dalle asperità presenti nel suo predecessore.
Le atmosfere vagamente tooliane dell’opener On Blinding Larks sono parzialmente ingannevoli, perché nell’idea compositiva della band guidata da Aort confluiscono diversi input oltre a questo, alcuni noti e per certi versi inevitabili (Opeth e Anathema), altri meno scontati, specie dal punto di vista dell’interpretazione vocale (Muse, Jeff Buckley) o probabilmente neppure consapevoli (qualcuno si ricorda dei tedeschi Dark Suns dello splendido “Existence” ?).
Il risultato complessivo è un album che non perde un’oncia a livello di profondità rispetto a “Augur Nox”, restando comunque un oggetto da maneggiare con cura e pazienza prima di godere pienamente dei suoi contenuti: nove brani dallo spesso rivestimento che racchiudono un nucleo sovente morbido e gustoso, tra i quali spiccano meraviglie quali Inland Sea, Affliction e la più movimentata Numb, An Author, esaltata anche dalla buonissima prova vocale di Wacian, in un contesto complessivo comunque elevatissimo che non potrà che risultare gradito agli estimatori di tutte la band citate in precedenza.
Il pregio maggiore dei Code è quello d’essere riusciti ad assimilare tutti questi spunti offrendo una riproposizione del tutto personale di un genere che, in assenza di un particolare scintillio compositivo, rischia seriamente di mostrare solo il suo lato più tedioso.
Come già accennato in apertura, sarà interessante capire quale potrà essere la prossima mossa, visto che, allo stato attuale, il metal appare più un’attitudine che non la base su cui poggia la proposta della band britannica.
Un gran bel disco, consigliato a chi non vuole accontentarsi di musica dall’approccio melodico troppo convenzionale.

Tracklist:
1. On Blinding Larks
2. Undertone
3. Dialogue
4. Affliction
5. Contours
6. Inland Sea
7. Cocoon
8. Numb, an Author
9. The Bloom in the Blast

Line-up:
Aort – Guitars
Andras – Guitars
Lordt – Drums
Syhr – Bass
Wacian – Vocals

CODE – Facebook

Tyrannosaurus Rex – My People Were Fair And Had Sky In Their Hair … But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brows

Primo album dei Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan rimasterizzato dalla Universal.

L’ importanza del “divino” Marc Bolan sul rock contemporaneo è pari a quella della manciata di musicisti che hanno fatto la storia della musica contemporanea: geniali sia musicalmente sia, in questo caso, venditori di se stessi, diventati icone rivoluzionando non solo il mercato discografico ma influenzando culturalmente un’intera generazione.

Da sempre il nome di Bolan è giustamente accomunato al glam rock, ancor prima dei viaggi psichedelici di Ziggy Stardust, un genere che prima della musica diede molta importanza al look di cui Marc fu il perenne modello.
Fortemente influenzato dalla scena hippie, il glam all’epoca fu uno schiaffo alla società del Regno Unito, bigotta fino al midollo e stravolta dall’arrivo di questo bel ragazzo vestito di lustrini e pailettes.
La Universal rimasterizza con bonus CD i primi tre lavori della prima incarnazione dei T.Rex, e questo My People … è il primo bellissimo vagito di un giovane Marc che, aiutato solo dai bonghi dell’ex batterista Steve Peregrine Took e dalla sua chitarra acustica, ammalia con dieci brani tra folk, blues ed uno spirito freak geniale, lasciando che atmosfere orientaleggianti e neanche troppo velati rimandi alla cultura Hare Krishna (eredità della cultura hippie, ancora fortemente presente nel giovane musicista) conquistassero i giovani ascoltatori dell’epoca, quei glamster che ebbero quasi una decina di anni gloriosi prima dell’esplosione del punk rock.
Prodotto da Tony Visconti e da John Peel, innamorato perso del personaggio Bolan, My People … suona scarno anche per l’epoca ma, tra i solchi di queste perle acustiche, esce il talento di un artista eccezionale, non solo ottimo chitarrista ma icona a tutto tondo e, a modo suo, un rivoluzionario.
Poco rock e tanto folk , un rhythm and blues nascosto tra lo spartito e gli accordi, venati da una divertente vena psichedelica che il talento di Bolan nasconde, per poi farcela assaporare a piccole dosi, lasciandoci sognare, come in preda ad un bel trip di cui l’artista è l’ambiguo sacerdote.
L’album , accompagnato da un secondo bonus cd e da una versione in vinile, è assolutamente consigliato ai fan e a chi vuole davvero entrare nel mondo di Bolan dalla porta principale, con questo primo testamento di una carriera folgorante.

Tracklist:
Side A
1. Hot Rod Mama 2014 Remaster / Mono Version
2. Scenescof 2014 Remaster / Mono Version
3. Child Star 2014 Remaster / Mono Version
4. Strange Orchestras 2014 Remaster / Mono Version
5. Chateau In Virginia Waters 2014 Remaster / Mono Version
6. Dwarfish Trumpet Blues 2014 Remaster / Mono Version

Side B
1. Mustang Ford 2014 Remaster / Mono Version
2. Afghan Woman 2014 Remaster / Mono Version
3. Knight 2014 Remaster / Mono Version
4. Graceful Fat Sheba 2014 Remaster / Mono Version
5. Weilder Of Words 2014 Remaster / Mono Version
6. Frowning Atahuallpa (My Inca Love) 2014 Remaster / Mono Version

Side C
1. Debora
2. Child Star Take 2 / Joe Boyd Session
3. Hot Rod Mama BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
4. Strange Orchestras BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono
5. Chateau In Virginia Waters Take 3 / Joe Boyd Session
6. Mustang Ford BBC Top Gear, London / Live / 1968/ Mono
7. Pictures Of The Purple People BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
8. Afghan Woman (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1968 / Mono

Side D
1. Highways (With Chat) BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
2. Puckish Pan Demo
3. Dwarfish Trumpet Blues Tony Visconti’s Home Demo
4. Knight Tony Visconti’s Home Demo
5. Scenescof BBC Top Gear, London / Live / 1967 / Mono
6. Lunacy’s Back Demo
7. Frowning Atahuallpa (With Chat)

Line-up:
Mark Bolan – Guitars
Steve Peregrine Took- Bongo

Hombre Malo – Persistent Murmur of Words of Wrath

“Persistent Murmur of Words of Wrath” è un lavoro che non deluderà affatto chi predilige la freschezza compositiva rispetto all’esibizione della mera tecnica strumentale.

Creatura strana questo secondo full-length dei norvegesi Hombre Malo: benché il tipo d’impatto sia lo stesso, ogni brano che si succede in tracklist sposta leggermente le coordinate sonore da uno stile estremo all’altro, tenendo così sempre ben desta l’attenzione dell’ascoltatore.

Pur essendo inserita convenzionalmente nella famiglia stoner /sludge, in effetti la band di Oslo immette nel proprio sound pesanti elementi hardcore e noise, finendo per creare un avvincente crossover stilistico, sempre all’insegna di un approccio molto diretto e corrosivo.
L’Etranger apre l’album in effetti sotto l’egida di uno stoner caracollante, vetriolico e tutto sommato nei canoni, ma Crosses and Marching Feet cambia repentinamente le carte in tavole con le sue sfuriate hardcore-punk.
I suoni dopati di Golden sono propedeutici alla notevole Vladislav , che si dipana lungo sei minuti di stoner doom lisergico e coinvolgente; abbastanza lunga anche Reaching the Shore, dotata di un ottimo refrain e di un riffing decisamente pesante .
Elena mostra efficacemente il versante noise degli Hombre Malo, mentre Deathbed Conversion costituisce l’epilogo del disco con la sua protratta parte centrale dominata da umori psichedelici.
Indubbiamente interessanti, i quattro scandinavi rifuggono ogni raffinatezza stilistica dando la priorità all’impatto della loro musica: in alcuni frangenti possono apparire una versione grezza dei primi Jane’s Addiction, in altri la vena stoner emerge in maniera prepotente ma, in generale, Persistent Murmur of Words of Wrath è un lavoro che non deluderà affatto chi predilige la freschezza compositiva rispetto all’esibizione della mera tecnica strumentale.

Tracklist:
1.L’étranger
2.Crosses and marching feet
3.Golden calf
4.Vladislav
5.Reaching the shore
6.Elena
7.Deathbed conversion

Line-up:
The Muerto – vox
Tom – bass
Boris – guitar
Joakim – drums

HOMBRE MALO – Facebook

Saints Trade – Robbed In Paradise

“Robbed In Paradise” è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Quando si parla di hard rock è facile, di questi tempi, confondere quelle che sono le sonorità classiche provenienti dagli anni ottanta con i suoni moderni, ipervitaminizzati, ma che con il genere hanno poco a che fare: chiaro che, per chi scrive, hard rock è un sinonimo che viene in aiuto per spiegare al lettore di turno per definire suoni grintosi e potenti, a volte dimenticando le peculiarità per cui una band viene descritta come appartenente al genere del quale i bolognesi Saints Trade sono ottimi paladini.

Nata nel 2009, la band ha già pubblicato un primo lavoro autoprodotto (“A Matter Of Dreams” del 2012) ma, soprattutto, ha avuto l’onore di aprire al festival di Fleetwood per i Ten di Gary Hughes, evento poi che ha fornito la spinta definitiva all’incisione l’album di debutto.
Prodotto da Roberto Priori, già al lavoro sul primo album, Robbed In Paradise vede la partecipazione in veste di ospiti dello stesso Priori, del tastierista Pier Mazzini dei Perfect View, e di Tommy Denander alla sei corde (già al lavoro con Paul Stanley, Toto, Alice Cooper, Robin Beck e House Of Lord).
Il disco offre undici canzoni di hard rock ottantiano, che vanno dalla tradizione british a quella a stelle strisce, dalle ritmiche clamorose e trascinanti, colme di ritornelli facilmente memorizzabili e di quella vena melodica tipicamente AOR, con l’alternanza di atmosfere e vibrazioni in una tempesta di suoni dall’appeal elevatissimo.
Partendo dalla prima, graffiante, To The Light, dalle ritmiche che portano alla mente i fratelli Young in prestito ai Van Halen di Sammy Hagar, si passa facilmente al clima arioso creato dai tasti d’avorio di Feel The Fire, ottimo esempio di AOR style.
Inside è il tipico brano da arena rock (Tommy Denander lo impreziosisce con la sua chitarra), con riffone cadenzato supportato da un’ottima prova della calda voce di Santi Libra, seguito da Like A Woman e da California all’insegna del puro hard rock, due brani dal flavour statunitense con la seconda, in particolare, dal refrain irresistibile.
Dopo la ballad Dreams Running Wild si torna a rockare alla grande con Rock’n’Roll Man, solo smorzata dalla seconda ballad semiacustica Into Your Eyes, lasciando per ultima la canzone più moderna del lotto, quella The Game dalle ritmiche colme di groove che sembra guardare ad un futuro prossimo, laddove potrebbero aprirsi nuovi orizzonti per una band dalle ottime potenzialità.
Robbed In Paradise è costruito intorno ad una manciata di ottimi brani, colmi di anthem e gustosamente melodici, e risulta così un ascolto obbligato per i fan dell’hard rock classico.

Tracklist:
1.To The Light
2.Feel The Fire
3.Inside
4.Allied
5.Like A Woman
6.California
7.Dreams Running Wild
8.Siria (Dawn Breaks In)
9.Rock’n’Roll Man
10.Into Your Eyes
11.The Game

Line-up:
Joana Lachkova – Drums
Claus – Guitars
Santi Libra – Vocals
Matteo Angelini – Bass Guitar

SAINTS TRADE – Facebook

Artic Fire – Lower And Louder

Buon esordio di questa band portoghese dedita al credo nirvaniano ed ai suoni di Seattle.

Il grunge: molti negli anni novanta tacciarono il genere come la morte del metal, incolpandolo di chissà quali torti, mentre invece fu una benedizione per tutto il circuito musicale gravitante intorno a quel mondo.

Infatti, mai come nei primi anni novanta i media diedero spazio al rock, trascinati dalla moda grunge che, chiariamolo subito, con la musica aveva poco a che fare, ed i giovani kids di tutto il mondo sulla scia di Nirvana, Soundgarden e compagnia di Seattle ebbero l’opportunità di conoscere le band storiche (molte di queste chiaramente metal) a cui i nuovi eroi del rock si ispiravano.
Come in tutti i periodi d’oro di un genere, a livello di popolarità, anche nel grunge, accanto alle band che segnarono un epoca, uscirono sul mercato anche realtà che durarono lo spazio di un album, tranciate sul nascere dalla morte di Kurt Cobain e dalla definitiva caduta di tutto il movimento.
Come al solito rimangono i grandi, le band e gli artisti che da ottimi interpreti si trasformano in icone e miti continuando a sfornare ottima musica aldilà delle mode e di ciò che “tira” in quel preciso momento.
Nell’underground poi, chi continua a suonare il rock degli anni novanta sono molti, tra cui questo trio portoghese proveniente dalla capitale, all’esordio discografico con un buon esempio di rock alternativo, o grunge come preferite chiamarlo, molto nirvaniano e riconducibile ai primi passi delle band più famose del suono di Seattle.
Lower And Louder, senza far gridare al miracolo, si compone di cinque brani devoti al credo di Cobain e soci, inserendo qua e là atmosfere stoner, in linea con i suoni del momento.
Ne esce uno stile musicale che, pur fortemente debitore nei confronti della band di “Nevermind” e “In Utero”, possiede comunque una sua vita propria di cui specialmente le due ottime Take Me All The Way e Two, poste in chiusura, sono gli esempi migliori.
Gli Artic Fire, formati da Pedro (chitarra e voce), Alex (basso) e Alexia (batteria), ci consegnano un buon Ep, carico di quegli elementi che fecero il botto vent’anni fa e che ancora oggi, con buona pace dei detrattori, continuano ad arrivare a noi tramite ottimi seguaci che ne hanno colto l’eredità.

Tracklist:
1.Running
2.Prozac Addict
3.Give Me A Cancer
4.Take Me All The Way
5.Two

Line-up:
Pedro – Guitars, Vocals
Alex – Bass
Alexia – Drums

ARTIC FIRE – Facebook

Nightraid – Nightraid

Demo d’esordio per i rockers umbri Nightraid.

I ternani Nightraid arrivano al demo d’esordio con il loro convincente hard rock cantato in italiano: fondati dall’ottimo vocalist Andrea, con un passato nel death metal, dopo aver trovato nel chitarrista Alessandro il partner giusto per portare avanti il progetto, la band nasce per fare rock’n’roll con gli attributi, in due parole hard rock.

Il duo nel frattempo diventa un quintetto, cambiando diversi elementi nella line-up e girando per i locali suonando cover di Ozzy, Motorhead e Pino Scotto, l’influenza maggiore sui brani di questo demo.
Al gruppo si aggiungono infine Andrea alla chitarra, Leonardo al basso e Filippo alle pelli, ed è con questa formazione che incidono i brani racchiusi in questo composto da quattro brani di hard rock senza compromessi e dall’ottimo groove.
Pino Scotto fa da ideale padrino alle canzoni, sia musicalmente sia per l’ugola sporca e grintosa del vocalist, ottimo interprete di botte d’adrenalina come Stand By, Nightraid e Misteri, ma tra i solchi delle tracce affiorano riff rimembranti i fratelli Young e ritmiche motorheadiane per un risultato trascinante, specialmente nei primi tre brani.
Il lavoro si chiude con l’ottima semiballad Indians, heavy nel bellissimo solo e interpretata con piglio guerresco dal frontman, risultando il brano top della band, per niente ruffiana ma intensa nel suo incedere ed impreziosita dall’ottimo testo.
Un inizio niente male per il combo umbro: con passione ed attitudine da vendere ed una manciata di buone canzoni da portare in giro, questo demo si può considerare un ottimo inizio.

Tracklist:
1.Stand By
2.Nightraid
3.Misteri
4.Indians

Andrea – voce
Alessandro – chitarra
Leonardo – basso
Andrea – chitarra
Filippo – batteria

NIGHTRAID – Facebook

 

Soldiers Of A Wrong War – Slow

Bellissimi tre brani di rock moderno e molto melodico da parte dei Soldiers Of Wrong War.

Premessa: il genere proposto dai Soldiers Of A Wrong War non è sicuramente tra i miei preferiti, come sapranno i lettori di Iyezine, abituati a leggere i miei deliri su generi estremi o hard & heavy classico, ma questi tre brani raccolti nel mini Slow sono veramente belli, dall’enorme appeal, suonati benissimo e prodotti in modo professionale.

E ora via con le presentazioni: questa ottima band dedita ad un rock moderno, dai rimandi alternative e molto melodico, nasce nel 2007 ed hanno già licenziato due lavori, un Ep di tre brani nel 2009 ed il primo full length “Lights And Karma” nel 2011.
Tornano oggi con questo Ep e lo fanno con tre splendidi brani che uniscono una buona grinta ad un gusto melodico straordinario: eleganti e raffinati conquistano all’istante, non dimenticando di rockare con ottima verve.
Slow, Walls e Inside My Bones,  scritte da una delle band straniere che passano regolarmente sui canali satellitari avrebbero fatto sfracelli, ma la maggior parte di esse non ha neanche la metà del talento che dimostra il gruppo nostrano nel racchiudere in pochi minuti grinta e melodia, alternative e rock/pop in perfetto equilibrio e con un feeling straordinario.
A detta della band è stata una scelta ben precisa quelle la scelta di pubblicare un Ep convincente al 100%, puntando più sulla qualità che non sulla quantità; infatti un eventuale full length avrebbe del clamoroso se composto da canzoni di questo livello, cosa che auspico nel futuro prossimo del gruppo.
Spegnete la televisione e accendete lo stereo, mettetevi comodi e fatevi cullare dalla musica dei Soldiers Of A Wrong War, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1.Slow
2.Walls
3.Inside My Bones

Line-up:
Luca “Difio” Del Fiore – voce, chitarra
Adin Sulic – basso
Luca Cek – chitarra
Simone Fava – batteria

SOLDIERS OF A WRONG WAR – Facebook

Mos Generator / Isaak – Split

Disco diviso a metà per due band che sono state separate alla nascita, almeno dopo l’ascolto di questo split album.

Disco diviso a metà per due band che sono state separate alla nascita, almeno dopo l’ascolto di questo split album.

Nel lato A troviamo i Mos Generator: il gruppo, di lunga militanza nella scena stoner rock americana, ci delizia con un pezzo di quasi dodici minuti che spazia davvero alla grande tra musica da colonna sonora di film anni settanta/ottanta a pezzaccio stoner settantiano.
La classe non è davvero acqua e i Mos Generator, con un pezzo che sembra davvero un manuale sonoro, si confermano una delle migliori band del panorama stonato, sebbene a mio avviso non godano della fama che meriterebbero.
Nell’altro lato troviamo gli Isaak: il gruppo genovese sta crescendo molto e, in questo caso, mette sul piatto un gran canzone di 16 minuti che conferma la sua inclinazione all’epicità.
Nati come gruppo stoner, gli Isaak si stanno evolvendo in qualcosa che non è ancora definitivo ma sta già dando grossi risultati e questo split è una tappa decisiva della loro crescita.
Eccezionale la copertina di Solomacello che, come è noto, fa anche i coperchi.

Tracklist:
Lato A : Mos Generator
Lato B : Isaak – The Choice

Line-up:

Mos Generator
Tony Reed
Shawn Johnson
Scooter Haslip

Isaak
Giacomo H Boeddu
Massimo Perasso
Andrea Tabbì De Bernardi
Francesco Raimondi

MOS GENERATOR – Facebook

ISAAK – Facebook

Hell In The Club – Devil On My Shoulder

Spettacolare secondo lavoro degli Hell in The Club, super band italiana, con membri di Death SS,Secret Sphere e Elvenking.

E c’è ancora qualcuno che, quando si parla di metal nel nostro paese, arriccia il naso come se lo tsunami di talenti che, fortunatamente, il nostro caro e vecchio stivale può contare, fosse invisibile.

Per chi non avesse avuto il piacere di ascoltare il primo album di questa spettacolare band tutta italiana (“Let The Games Begin”), ricordo che gli Hell In The Club non sono altro che l’unione di musicisti appartenenti a band che hanno dato e danno tuttora lustro alla musica metallica italiana, quali Andrea Buratto al basso (Secret Sphere), Davide Moras alla voce (Elvenking), Federico Pennazzato alle pelli (Death SS, Secret Sphere), più Andrea Piccardi alla chitarra. Progetto? Band a tutti gli effetti? Poco importa, visto che i musicisti si cimentano un genere lontano anni luce da quello proposto con le band di provenienza, dando vita ad un hard rock incandescente, dalla forte impronta street ma, allo stesso tempo, moderno ed enfatizzato da una produzione spettacolare (Simone Mularoni, ovviamente) e dal songwriting stratosferico. Evitate di sedervi per ascoltare disco, intanto non durerete con il fondo schiena appoggiato sul divano per più di un minuto, sotto il bombardamento di questi tredici brani di hard rock stradaiolo tremendamente divertente. La band si diverte e ci fa divertire, puro rock’n’roll da arena, musica da lasciarsi andare e cantare a squarciagola, dimostrazione che, non esistono generi più o meno datati o cool, perché quando il livello della qualità si alza a questi livelli si può solo omaggiare i protagonisti, dal talento mostruoso, da far impallidire sia i mostri sacri degli anni ottanta, che le nuove leve scandinave da cui la band prende spunto per questo ennesimo party album. Dall’opener Bare Hands è un susseguirsi di hit, da far resuscitare cadaveri, che si trasformeranno in zombie affamati al ritmo della sensazionale Beware The Candyman, ultra rock’n’roll da infarto. Ci deve essere per forza lo zampino del diavolo, Proud esalta nel suo incedere alla Bon Jovi, le songs si alternano in un grandioso omaggio a quello che è puro divertimento in musica, Whore Paint, Pole Dancer consacrano la band e questo lavoro come uno dei più riusciti in ambito hard rock di quest’anno. Impatto e attitudine, legati insieme da soluzioni geniali, fanno di Devil On My Shoulder una risposta efficace ai sordi che continuano a sostenere che il rock è morto e, anche quando tira il freno e consegna le immancabili ballad (We Are The Ones e Muse), la band regala brividi con due brani da pelle d’oca. Spettacolare ritorno dunque per il quartetto alessandrino, protagonista di questo album che si piazza sul podio delle migliori uscite discografiche nel genere a livello internazionale.

Track list:
01. Bare Hands
02. Devil On My Shoulder
03. Beware Of The Candyman
04. Proud
05. Whore Paint
06. Pole Dancer
07. We Are The Ones
08. Save Me
09. Toxic Love
10. Muse
11. Snowman Six
12. No More Goodbye
13. Night

Line-up:
Andrea “Andy” Buratto – Bass
Federico “Fede” Pennazzato – Drums
Andrea “Picco” Piccardi – Guitars (lead)
Davide “Dave” Moras – Vocals

HELL IN THE CLUB – Facebook