Concrete Jelly – Amless In Wonderland

I Concrete Jelly concludono nella maniera migliore la trilogia su Amless, un progetto nel quale si fondono molte cose e dal quale sarebbe bello trarre un musical, perché la loro è una musica molto visiva, con un concept dal respiro molto ampio.

Terza ed ultima puntata della trilogia di Amless da parte dei Concrete Jelly, un gruppo triestino di rock and roll pesante e pensante.

Il musicista maledetto Amless ed il suo fido socio Chaz vivono la loro ultima avventura e sarà tutta da scoprire. I Concrete Jelly hanno dipanato una storia molto particolare su Amless, unendo narrativa, musica e dimensione onirica. Amless In Wonderland è fatto di blues, hard rock anni settanta e tanto altro. I generi suddetti sono dominati con saggezza ed estrema tranquillità, l’importanza maggiore è data alla musica che si incrocia con la storia, e ascoltando il disco si entra o in profondità in entrambe. Ciò che colpisce della musica dei Concrete Jelly è la perfetta consecutio temporum nella composizione, ovvero tutto va al suo posto, ed incastrandosi perfettamente rende tutto molto piacevole. Non parlo tanto di tecnica, che qui è comunque ben rappresentata, quanto della chiarezza con la quale si sviluppa il lavoro. Ci sono momenti maggiormente vicini alla jam, altri maggiormente strutturati, ma è tutto molto bello e di valore. Il gruppo triestino è composto da amanti e profondi conoscitori della musica ed il loro operato è il giusto risultato di tutto ciò. C’è uno spirito anni settanta che aleggia per tutto il disco, ma non è solo una nostalgia, quanto uno stimolo musicale, perché poi la proposta dei Concrete Jelly si fonda sull’originalità e su una certa dolcezza musicale, accarezzando le orecchie nonostante la musica sia rumorosa. Il gruppo conclude nella maniera migliore la trilogia su Amless, un progetto nel quale si fondono molte cose e dal quale sarebbe bello trarre un musical, perché questa  è una musica molto visiva, con un concept dal respiro molto ampio. Amless in Wonderland è la loro prova più lucente, convincente come e più delle precedenti, che già erano ottime. Il disco vedrà la luce in un prossimo futuro, non si sa ancora quando, ma se amate l’hard rock imbastardito e di qualità, qui c’è il meglio.

Tracklist
1. Rock Town
2. The Memory Hurts
3. Good Ol’ Chaz
4. The Dealer
5. The Drug
6. Black Curtains
7. Head Out
8. Monsters
9. Elicse Atarme Pt.3

Line-up
Francesco Braida: Guitar & Voice
Sebastiano Belli: Drums
Matteo Monai: Bass & Voice
Sebastiàn Gerlini: Guitar

CONCRETE JELLY – Facebook

Obese – Anamnesis

Una delle tante sensazioni suscitate da questo disco è il piacere di ascoltate qualcosa di veramente originale che troppo spesso ci viene negato da un’eccessiva standardizzazione.

Gli Obese sono un gruppo di blues, solo che il loro blues è pesantissimo e tocca tanti altri generi.

Il secondo disco degli olandesi Obese riesce a migliorare il primo e già ottimo Kali Yuga, uscito su Argonauta Records nel 2015. Gli Obese sono un gruppo di una potenza incredibile, riescono a rendere fisica la loro musica, dandole un peso specifico che va in tutte le direzioni, le canzoni si sviluppano in maniere inconsuete, si accomodano dentro di noi come un liquido che occupa un solido. Anamnesis è un disco che non si ascoltava da tempo nell’ambito della musica pesante, proprio perché è un assalto totale e improntato al groove, scavallando il discorso dei generi. Un grande contributo è stato sicuramente portato dal nuovo cantante Vladimir Stevic, che ha una voce da misurare in megatoni, tanta è la sua potenza ed ampiezza. Le canzoni sono battaglie di note e distorsioni, e si viene sballottati come dentro ad un bidone che cade giù da un dirupo. Ci sono momenti in cui, come in una strada immersa nella nebbia, non si sa cosa venga dopo, ma ciò che segue è sempre qualcosa di bellissimo. Una delle tante sensazioni suscitate da questo disco è il piacere di ascoltate qualcosa di veramente originale che troppo spesso ci viene negato da un’eccessiva standardizzazione. Anche la produzione fa una parte importante perché riesce a cogliere al meglio questo suono fortemente originale ed abrasivo. Psichedelia, blues, stoner, psot metal, rock, e tanto tantissimo altro, ma soprattutto un qualcosa di fortemente strutturato e nuovo. Un disco che è un’esperienza sonora vera e propria.

Tracklist
1. Agony
2. Dunderhead
3. Mother Nurture
4. Anthropoid
5. Human Abstract
6. Ymir
7. Behexed
8. Psychic Secretion

OBESE – Facebook

Jaw Bones – Wrongs On A Right Turn

Quarantacinque minuti in pieno deserto, anche se le sfumature psichedeliche sono ridotte al lumicino in favore di soluzioni melodiche dirette e sostenute, questo sì, dalle ormai irrinunciabili ritmiche groove.

Stoner rock, e grunge, due dei generi che più hanno condizionato il mercato negli amati/odiati anni novanta, sono indubbiamente fonti inesauribili di influenze d ispirazioni per il novanta per cento delle rock band del nuovo millennio.

L’invasione del nuovo stoner che guarda al southern da una parte ed al grunge dall’altra, per trovare strade alternative alla solita formula, non ha risparmiato la vecchia Europa, ed in particolare i paesi che si affacciano sul mediterraneo, tradizionalmente più “americani” dei metallici stati centro/nord europei.
Da Salonicco arrivano i Jaw Bones, al primo full length licenziato dalla Sliptrick, con un concentrato di esplosivo stoner metal dalle sfumature grunge ed alternative.
Quarantacinque minuti in pieno deserto, anche se le sfumature psichedeliche sono ridotte al lumicino in favore di soluzioni melodiche dirette e sostenute, questo sì, dalle ormai irrinunciabili ritmiche groove.
on voce urlata ed un’attitudine che non nasconde una certa vena hardcore, i Jaw Bones si sono costruiti il loro muro sonoro di pietra stonerizzata e pesante, metal/rock diretto, forse leggermente monocorde, ma perfetto per sbattere capocciate a destra e a manca sotto il palco di qualche festival estivo.
Da segnalare, tra i brani, Communication, The Ride To Nowhere e la conclusiva Song Of The Nightingale, il brano più ricercato dell’album, valorizzato da sfumature che rimandano ai Tool e che chiudono con un’atmosfera progressiva Wrongs On A Right Turn.

Tracklist
01. Communication
02. Disciple
03. Ego Tripper
04. Don’t Bring Me Down
05. Fear
06. Sugar Daddy
07. The Ride to Nowhere
08. Should Know Better
09. Song of the Nightingale

Line-up
George Cobas – Vocals
Jelly Nano – Guitar
Bill – Guitar
Michael Tzoumas – Bass
Vangelis – Drums

JAW BONES – Facebook

Tuna De Tierra – Tuna De Tierra

Le canzoni si protraggono mediamente molto di più rispetto alle durate tradizionali, ma qui il tempo è un concetto davvero relativo e superfluo, bisogna immergersi in queste musiche desertiche senza fretta o cognizione dell’esterno.

Dalla sempre musicalmente fertile Napoli arrivano i Tuna De Tierra con il loro stoner rock desertico, piacevole e psichedelico.

Il loro suono è un’ambientazione sonora di un tramonto nel deserto, o l’esatta descrizione di un viaggio lisergico, con molti riferimenti ai maestri del genere quali sono i Kyuss, i quali hanno asfaltato le strade desertiche per poterle farle percorrere ad altri. Tutto il resto è però opera dei Tuna De Tierra, che hanno un tocco di classe superiore nella loro musica, un gusto quasi bizantino per la perfetta unione tra accordi di chitarra e sezione ritmica, con una voce ipnotica che parla al nostro subconscio. Musica pesante eppure molto eterea e dolce, un ritorno a qualcosa di atavico che vive dentro di noi e che quotidianamente seppelliamo sotto tonnellate di merda. I Tuna De Tierra fanno fondamentalmente musica da meditazione, ci si perde in questo suono pieno di vita e di segreti da scoprire. Il gruppo nasce dalla lunga amicizia fra Alessio De Cicco, alle chitarre e voce, e Luciano Marra al basso, agli albori con Jonathan Maurano alla batteria, poi sostituito da Marco Mancaniello. Il loro esordio discografico è stato l’ep del 2015 EPisode I: Pilot, che già aveva in nuce molto di ciò che possiamo ascoltare qui. Da quell’ep i Tuna De Tierra sono cresciuti dando un maggiore respiro alle loro composizioni, ampliando maggiormente il loro spettro compositivo, trovando sempre soluzioni diverse per i loro suoni. Le canzoni si protraggono mediamente molto di più rispetto alle durate tradizionali, ma qui il tempo è un concetto davvero relativo e superfluo, bisogna immergersi in queste musiche desertiche senza fretta o cognizione dell’esterno. Questa è musica fatta per il piacere di esplorare, e per il piacere del musicista e dell’ascoltatore. Il deserto c’è anche a Napoli, ed è un gran bel deserto.

Tracklist
1.Slow Burn
2.Morning Demon
3.Out of Time
4.Long Sabbath’s Day
5.Raise of the Lights
6.Mountain
7.Laguna

Line-up
Alessio De Cicco – guitar and vocals
Luciano Mirra – bass
Marco Mancaniello – drums

TUNA DE TIERRA – Facebook

Kayleth – Space Muffin Rusty Edition

Dopo il buon successo di Space Muffin, uscito sempre per Argonauta Records nel 2015, ecco la ristampa arricchita da Rusty Gold, il primo ep del gruppo pubblicato nel 2010, ormai finito fuori stampa da tempo.

Dopo il buon successo di Space Muffin, uscito sempre per Argonauta Records nel 2015, ecco la ristampa arricchita da Rusty Gold, il primo ep del gruppo pubblicato nel 2010, ormai finito fuori stampa da tempo.

L’ep presenta delle sorprese, essendo molto interessante per scoprire la genesi di questo gruppo italiano, che propone uno stoner rockeggiante e desertico, rielaborato in una maniera interessante attraverso un groove peculiare ed importante. Confrontando ep e disco di debutto si possono notate molte differenze, in primo luogo di produzione e composizione, ma l’essenza dei Kayleth rimane sempre ruvidamente uguale, dato che in nuce l’ep contiene molto di ciò che verrà sviluppato nel disco. Il desert stoner è un genere che comprende molti gruppi, ma lo scarto che ne rende interessante uno lo hanno in pochi, i Kayleth sono fra questi. Questa ristampa, differente ed arricchita anche nell’artwork, rende molto bene l’idea di quello che è questo gruppo, ovvero potenza, ampiezza delle visioni e tanto suono ruvido, il tutto amalgamato molto bene. Bisogna ammettere che risentire Space Muffin a distanza di due anni rende ancora meglio, segno che dopo una decantazione questo vino è ancora più buono. Un ulteriore segno di una bandin grande crescita, e questo  sarà fondamentale per loro il prossimo disco.

Tracklist
1.Mountains
2.Secret Place
3.Spacewalk
4.Bare Knuckle
5.Born to suffer
6.Lies of mind
7.Try to save the appearances
8.NGC 2244
9.The Electric Tongue Is Coming (bonus track)
10.Rusty Gold (bonus track)
11.Deepest Shadow (bonus track)
12.Oops, I Eat You (bonus track)
13.Old Man’s Legacy (bonus track)

Line-up
Massimo Dalla Valle: Chitarra
Alessandro Zanetti: Basso
Daniele Pedrollo: Batteria
Enrico Gastaldo: Voce
Michele Montanari: Synth

KAYLETH – Facebook

Red Beard Wall – Red Beard Wall

Per chi vuole sentire qualcosa di veramente diverso in un panorama a volte un po’ scontato.

I Red Beard Wall sono in due, chitarra e basso, e fanno uno stoner sludge molto potente ed incisivo.

La loro proposta musicale è molto originale non tanto nei mezzi ma nel risultato, poiché riescono a trovare una formula sonora non comune. Nel loro disco d’esordio confluiscono epiche distorsioni di chitarra, batteria che non pesta solo ma disegna melodie, sludge, stoner, un pizzico di southern rock, e anche un po’ di grunge, che chi ha talento e memoria usa sempre. Nati nel 2014 in Texas dalla volontà di Aaron Wall che recluta Robert Truijo dietro le pelli, esordiscono ora per Argonauta Records con un disco decisamente fuori dal comune. L’incedere di questa bestia texana, pur avendo elementi in comune con le band dei generi di cui sopra, ha una musicalità molto diversa. Il disco non dura moltissimo, e questo è un altro pregio, perché le idee vengono sviluppate bene senza tirarla troppo per le lunghe, cosa che in alcuni casi è sinonimo di aridità creativa. I Red Beard Wall producono un buon disco, ma hanno un potenziale ancora maggiore, e sicuramente non finisce qui. Nel panorama attuale della musica pesante si trovano ottime cose, ma poche hanno un tasso di originalità come questo esordio, nel quale anche la produzione accurata ma minimale diventa un punto di forza. Per chi vuole sentire qualcosa di veramente diverso in un panorama a volte un po’ scontato. Le note sono sette, i Red Beard Wall sono in due, e questo è un ottimo disco.

Tracklist
1. Beauty In
2. I Am
3. Switching Circuits
4. Alive
5. Born with a Hammer
6. Top of the Mountain
7. Bottom of a Well
8. March in Time
9. Beauty Out

Line-up
Aaron Wall – Vocals/ Guitar
George Trujillo – Drums

RED BEARD WALL – Facebook

Deep Valley Blues – Deep Valley Blues

Prendete quattro musicisti calabresi, già protagonisti con altri progetti più o meno conosciuti nella scena nazionale, lasciateli per un po’ a jammare in un delirio stonerizzato e psichedelico, pesante come una meteora in caduta libera sulla Sila, ed avrete i Deep Valley Blues.

Prendete quattro musicisti calabresi, già protagonisti con altri progetti più o meno conosciuti nella scena nazionale, lasciateli per un po’ a jammare in un delirio psichedelico, pesante come una meteora in caduta libera sulla Sila, ed avrete i Deep Valley Blues, che negli studi della Black Horse ha dato vita in presa diretta a questo mostro stoner/blues.

La band di Catanzaro ha messo la propria esperienza ed attitudine al servizio di questo progetto, rigorosamente in autoproduzione, giusto per alzare di molti gradi la colonnina di mercurio e raggiungendo così temperature vulcaniche.
Deep Valley Blues, ovvero tornare da una drammatica settimana persi nel deserto, dissetarsi il giusto per non lasciare questo mondo, prendere in mano il proprio strumento e tuffarsi in quello parallelo delle visioni e dei trip hard rock, tra una neanche troppo velata attitudine southern, accenni allo psych-hard rock settantiano e lo stoner della famosa valle che ha fatto da parco giochi e maestra ai vari Kyuss e compagnia.
L’urgenza rock del quartetto però è farina del suo sacco, con una vena punk che attraversa i vari capitoli di questa odissea, tra la terra che brucia sotto i piedi ed il sole nemico della ragione, mentre in mezz’ora veniamo travolti da questo sabba desertico, schiaffeggiati dai vari capitoli che si susseguono e formano questa lunga jam.
Space Orgasm è la parte del viaggio che più preferisco, ma Deep Valley Blues rimane un lavoro da mandare giù tutto d’un fiato, altrimenti si rischia di perdere molto della magia drogata del sound di questi sacerdoti dell’hard rock stoner.

1. Death Valley Blues
2. Prey
3. Struggle of Interest
4. Hell of a Month
5. Space Orgasm
6. Banzai
7. Ashes in the Wind

Line-up
Umberto Arena – Guitars and Backing Vocals
Alessandro Morrone – Guitars
Giando Sestito – Bass and Vocals
Giorgio Faini – Drums

DEEP VALLEY BLUES – Facebook

Uncommon Evolution – Junkyard Jesus

Ritmiche grasse, chitarre sature ed attitudine selvaggia sono le maggiori caratteristiche degli Uncommon Evolution e la loro musica, un macigno sonoro che passa per i Clutch e si ferma tra le trame del sound dei Corrosion Of Conformity, aggiunge preziose sfumature southern metal trasformando il tutto in hard rock pesantissimo.

Gli Uncommon Evolution si sono formati nel 2013, arrivano dal Montana e sono stati catturati dalla Argonauta Records, per la quale esce il terzo ep Junkyard Jesus.

Prodotto da Machine (Clutch, Lamb of God, Crobot), il lavoro è composto da quattro brani per una ventina di minuti circa che trasportano sulle montagne degli States.
Deserti che diventano paradisi e viceversa, mentre il caldo soffocante del giorno lascia spazio al freddo polare della notte, in un’escursione termica che si riflette nella musica del quartetto, un hard rock pregno di sonorità stoner, duro come la vita nelle provincie americane, maschio e pesante come una band di taglialegna in trip per suoni stonerizzati e a tratti psichedelici.
Ritmiche grasse, chitarre sature ed attitudine selvaggia sono le maggiori caratteristiche degli Uncommon Evolution e la loro musica, un macigno sonoro che passa per i Clutch e si ferma tra le trame del sound dei Corrosion Of Conformity, aggiunge preziose sfumature southern metal trasformando il tutto in hard rock pesantissimo.
I quattro musicisti statunitensi ci sanno fare con la materia e già dalla title track la loro musica è sparata per fare danni, mentre il chorus di Highly Modified Son of a Bitch si stampa in testa così come l’ottimo refrain, mentre il solo arriva direttamente dalla vetta di una montagna.
La discesa si fa dura e l’ andamento cadenzato di Feather Short of Flight segna il ritorno a valle, mentre King Of The Heep concede un momento di gloria al doom settantiano, compresso e destabilizzato da un’atmosfera satura di elettricità.
Un ottima prova per la band ed ennesimo buon colpo per l’etichetta ligure: gli Uncommon Evolution potrebbero regalare grosse soddisfazioni con un auspicabile prossimo full lenght.

TRACKLIST
1.Junkyard Jesus
2.Highly Modified Son of a Bitch
3.Feather Short of Flight
4.King of the Heep

LINE UP
Matt Niles – drums
Rick Bushnell – bass
River Riotto – lead guitar
Briar Gillund – guitar and vocals

UNCOMMON EVOLUTION – Facebook

Oranjeboom – Here Comes The Boom

Cinque musicisti con il rock americano nel sangue, che loro trasformano in un hard groove moderno, devastante quando vuole far male, sognante e ricco di quella poesia sudista che non lascia scampo.

L’hard rock si impregna di sudore e polvere, la strada brucia sotto le gomme della propria amante a due ruote: Sidewalk, con il suo sound  ci schiaccia la testa ormai spappolata dal sole e lacerata dal groove irresistibile di T.K.O. e delle altre tracce che compongono questo debutto tutto impatto ed attitudine dal titolo Here Comes The Boom.

Colpevoli di tante rotture di crani e ritiri di patente (se provate ad ascoltare l’album mentre guidate) sono gli umbri Oranjeboom, attivi dal 2015 come trio southern acustico ma trasformati in una hard rock band dopo l’entrata degli ultimi due elementi.
La firma con la label napoletana Volcano Records & Promotions e l’uscita dell’album in questa infuocata estate 2017, sono per la band lo scatto bruciante, la partenza a razzo, il diretto nello stomaco che ci voleva per iniziare al meglio la propria storia discografica.
E Here Comes The Boom è quello che gli amanti dell’hard rock moderno, dal groove micidiale, dalle atmosfere e dalle sfumature alternative stoner vogliono sentire, mentre la tradizione sudista è sempre li a farci godere di rimandi ai Lynyrd Skynyrd (Once Again), ai Black Label Society e ai Black Stone Cherry (Stolen Goods) e ai nostri Hangarvain (Bleeding Out).
Cinque musicisti con il rock americano nel sangue, che loro trasformano in un hard groove moderno, devastante quando vuole far male, sognante e ricco di quella poesia sudista che non lascia scampo e ci fa accostare la moto al lato della strada,  ad assaporare l’odore dell’asfalto bollente, segno di un viaggio che è lungi dal terminare.
Detto di una bellissima cover del classico di Stevie Wonder, Higher Ground, in versione stoner, vi consiglio di non perdervi questo bellissimo debutto, stando attenti agli effetti collaterali: un bisogno irrefrenabile di spingere sull’acceleratore e la voglia di mollare tutto ed avventurarsi per un viaggio ai margini della frontiera, accompagnati dalla musica degli Oranjeboom.

TRACKLIST
1. Sidewalk
2. T.K.O.
3. Stolen goods
4. Bleeding out
5. Higher ground
6. Once again
7. Anechoic chamber

LINE UP
Alessio (Smoke) Covarelli – Voice-Guitar
Mauro (Sgrat) Alocchi – Bass Guitar
Claudio (Pit) Patalini – Guitar
Riccardo (Rikki) Baldassarri – Guitar
Francesco (Kendy) Montalto – Drums

ORANJEBOOM – Facebook

Thunder Godzilla – Thunder Godzilla

Discone pesante e potente, un macigno stoner che non fa prigionieri, per gli amanti del genere una gradita sorpresa tutta made in Italy.

Andromeda Relix ci stupisce ancora una volta con l’esordio dei Thunder Godzilla, gruppo stoner metal in arrivo da una Padova trasformata nel deserto della Sky Valley.

Il gruppo che accompagna le scorribande del famoso lucertolone in copertina è formato da Marco al basso ed alla voce, da Jonny alle pelli e da Espo alla sei corde, il suo sound è stoner metal doc, potente, devastante e pregno di quell’attitudine desertica dei primi Kyuss,
E sono proprio i Kyuss il gruppo a cui il trio fa riferimento, mantenendo comunque un’ottima personalità che affiora tra le trame fumose di questo pezzo di granito stonerizzato.
L’opener Tokio Avenger, le bordate stonate di Goliath, gli echi doom di Mammoth King fanno da colonna sonora alla distruzione che il rettile gigante perpetra in giro per lo spazio, ancora più profondo se accompagnato dal pesantissimo sound del trio padovano, assolutamente a suo agio nel portare ad un livello più estremo l’approccio di matrice desertica.
Qui si suona il genere senza compromessi, sguaiato, devastante e distruttivo, come lo scodinzolio dell’enorme coda dil Godzilla, mentre paesi e città vengono distrutti da questa apocalisse stoner.
Il sole cuoce crani e carni, la distruzione è computa e mentre la band ci lascia con il massacro beatlesiano di una Day Tripper sconvolta da sostanze illegali, il mostro si allontana, un pesante ammasso di artigli e ruvida pelle che neppure i missili dell’ormai decimata difesa terrestre riescono a scalfire.
Discone pesante e potente, un macigno stoner che non fa prigionieri, per gli amanti del genere una gradita sorpresa tutta made in Italy.

01. Tokyo Avenger
02. Lie to Me
03. Goliath
04. Fears
05. Get Away
06. Psycho
07. Mammoth King
08. Pressure
09. Yoga Fire
10. Black Hammer
11. Day Tripper

Line up:
Thunder Jonny – Drums
Thunder Espo – Guitars
Thunder Hiyuga – bass, vocals

THUNDER GODZILLA – Facebook

Dead Man’s Blues Fucker – Phase II

Un sound grezzo, una produzione volutamente sporca come un carburatore insabbiato ed un’attitudine stoner/psichedelica pervadono dieci brani bellissimi.

E’ tempo di lasciare i facili sentieri di una vita casa – lavoro – famiglia, e rispolverare il vecchio giubbotto di pelle e la bandana di ordinanza, buttare in una scarpata lo scooter e lucidare la vecchia moto, perché quello che promette questo album non vorrete solo sognarlo tramite la musica, ma viverlo ancora una volta sulla vostra pelle troppo profumata per essere quella di un vecchio rockers.

E Phase II, primo lavoro dei Dead Man’s Blues Fucker, è l’album giusto per ritrovare il vecchio spirito, soffocato da una pila di scartoffie che vi aspettano in ufficio tutte le mattine.
Se poi non avete mai smesso di vivere la vostra vita come un’avventura sperduti nella frontiera, allora la nuova band del polistrumentista Diego Potron è quanto di meglio possiate ascoltare tra la polvere del deserto in questa prima metà dell’anno.
Dieci anni di solo project, prima di unire le forze con il batterista Christian Amen Amendolara, in questa nuova realtà che lascia senza fiato per intensità ed impatto, un muro sonoro, stonerizzato, psichedelico e spettacolarmente southern.
Dimenticatevi dunque i facili viaggetti coast to coast, qui si cerca l’estremo in una lunga jam stonata, tra il bruciore dell’asfalto, il caldo delle marmitte sollecitate dal motore a pieni giri, persi in un deserto sconfinato dove i miraggi sono tenuti lontani dagli incubi.
Un sound grezzo, una produzione volutamente sporca come un carburatore insabbiato ed un’attitudine stoner/psichedelica pervadono dieci brani bellissimi, in un’atmosfera opprimente come la testa che scoppia tra il caldo e i postumi di una sbornia nel locale della frontiera americana, che esce prepotentemente diabolica dal blues violento di The Power Of Your Love, dallo stoner/southern di Birthday Cake, o dalla più rilassata The Cornfields Queen Brotherhood.
Un album affascinante, ricco di sfumature, vario e dannatamente coinvolgente, pur rimando fortemente ancorato all’underground, in una parola … bellissimo.

TRACKLIST
01. Blind Sister’s Home
02. The Power Of Your Love
03. Black Woman
04. Birthday Cake
05. The Cornfields Queen Brotherhood
06. One Kind Favor
07. Bad Awakening
08. Crow Jane
09. Song For Mr. Occhio
10. The Place For You

LINE-UP
Diego DeadMan Potron – guitar, bass, organ,vocals
Christian Amen Amendolara – drums

DEAD MAN’S BLUES FUCKERS – Facebook

Olneya – Olneya ep

Un rituale completamente strumentale, psichedelico e stonerizzato.

Chiudete gli occhi ed immaginate la nostra costa adriatica completamente spoglia delle catene di alberghi, parchi di divertimento e cittadine affollate dal turismo estivo, quello del divertimento a tutti i costi, delle facili conquiste e delle balere che hanno fatto illudere di vivere una vita diversa ad una moltitudine di generazioni.

Una distesa sabbiosa che dalle coste venete scende fino alla Puglia, sabbia e mare, un deserto caldissimo dove l’ombra è un tesoro ed il sale ha già riempito la nostra bocca, dopo pochi chilometri in riserva di ossigeno e acqua dolce.
Un trip, un incubo che vi si ripresenterà ogni qualvolta vi metterete in ascolto di questo rituale completamente strumentale, psichedelico e stonerizzato, l’ep omonimo degli Olneya, trio nostrano composto da Maurizio Morea alla Chitarra, PJ alle pelli e Enry Cava al basso.
I piedi bruciano sopra la sabbia arsa dal sole desertico, mentre Mantra e Zerouno ci accompagnano nei primi passi di questo che sarà un viaggio relativamente corto, ma totalmente destabilizzante.
Il basso pulsa e ci dà il ritmo da tenere per non perdere terreno, mentre la sei corde ci tortura, a tratti psichedelica e settantiana, in altri momenti più vicina alle sonorità americane del caldissimo decennio che accompagnò la fine del millennio, tra l’assolato stoner rock della Sky Valley ed il piovoso grunge di Seattle.
Siamo già a Zerotre, liquida, avvolgente e pericolosa come le spire di un serpente mostruoso creato dalla nostra mente in balia del caldo opprimente e degli effetti collaterali causati dall’abuso di questo ep e altro, mentre la musica sfuma, l’incubo sparisce e la spiaggia torna ad animarsi di uomini, donne e bambini, incuranti di noi e del nostro delirio.

TRACKLIST
1.Mantra
2.Zerouno
3.Zerodue
4.Road to Aokigahara
5.Zerotre

LINE-UP
Maurizio Morea – Guitars
Pj – Drums
Enry Cava – Bass

OLNEYA – Facebook

No Good Advice – From The Outer Space

From The Outer Space è un piacevolissimo e molto ben scritto disco di musica pesante che sicuramente farà la gioia di molti, testimoniando l’assoluta bontà della scena italiana.

I No Good Advice sono attivi a Torino dal 2012 e, dopo alcuni cambi di formazione, si sono ora assestati e hanno prodotto il loro primo disco su lunga distanza, dopo l’ep del 2015 Prehistoric Overdrive.

Se dovessi dirvi, come un venditore di qualcosa, in cosa differiscono i No Good Advice dagli altri gruppi, rimarcherei il grande equilibrio che hanno tra melodia e potenza, tra la forte armoniosità della voce e l’impero del resto del gruppo. Questo non è solo stoner o qual dir si voglia, ma è un rock and roll potente ed altro, che colpisce per ricchezza, struttura e lussuria. I No Good Advice fanno dischi concept, questo parla dello spazio ed è accompagnato da uno splendido libretto del cd di 24 pagine, praticamente un fumetto, che è parte essenziale del progetto. Il loro suono pieno riesce a soddisfare totalmente l’ascoltatore in cerca di musica, potente ma bilanciata melodicamente, con frequenti accenni al meglio della scena pesante anni settanta. Dischi come questi sono possibili poiché teenagers di tanti anni fa ribassarono le chitarre, fecero lunghe jams nelle quali il trip non era solo fiori e amore. From The Outer Space è un piacevolissimo e molto ben scritto disco di musica pesante che sicuramente farà la gioia di molti, testimoniando l’assoluta bontà della scena italiana. In certe aperture melodiche, specialmente in Stoned Jesus, oltre ai riferimenti più classici, sembra davvero di poter sentire qualcosa dei Ritmo Tribale, e per estensione maggiore di un certo rock italiano che per fortuna non muore mai, ma si ripropone in altre forme e battaglie.

TRACKLIST
1 The Great Dawn
2 Space Surfers
3 Black Monolith
4 Napalm
5 Suicide Inside
6 Stoned Jesus
7 Super Looper Groover
8 Astronaut Superstar
9 Mother of the Void
10 Tears of the Universe
11 Into Your Grave
12 Between the Earth and Space

LINE-UP
Livio Cadeddu : Guitars, Voice
Lorenzo Moffa : Guitars
Marco Nalesso : Bass
Giacomo Passarelli : Drums

NO GOOD ADVICE – Facebook

Three Horns – Jackie

Un lotto di brani da spararsi senza remore, una botta di vita a tutto volume, mentre il caldo ci soffoca e l’impianto dell’aria condizionata ci ha salutato da un pezzo, cosi che mai come ora la nostra pianura si trasforma in un deserto aldilà dell’oceano.

Tra citazioni del Grande Lebowsky, una partita a bowling, ed una Voghera trasportata nell’inferno del deserto americano (ma anche in quei luoghi d’estate il caldo non scherza), i Three Horns ci consegnano un altro lavoro di stoner hard rock, genere che in Italia sta regalando grosse soddisfazioni nella scena underground.

Il gruppo formato da Alessio Bertucci (chitarra e voce), Mic Roma (basso e voce) e Simone Gabrieli (batteria) se ne esce con un album, Jackie, formato da una serie di brani irriverenti, dallo spirito punk e rock’n’roll che si impossessa dell’hard rock stonato, classicamente americano e perso nel deserto o nelle pianure infuocate del nord Italia.
Diretto come un pugno in pieno volto preso in una rissa da bar, Jackie lascia ad altri jam psichedeliche per incontrare il grunge, l’alternative rock dei primi anni novanta ed il rock’n’roll appesantito da potenti dosi di ritmiche stonerizzate e varie, come se Kurt Cobain avesse lasciato le parti ritmiche di Nervermind nelle mani di Les Claypool.
L’irriverenza punk fa il resto, consegnandoci mezz’ora di rock adrenalinico, un sound live che si evince da una produzione essenziale ma perfettamente in linea con l’idea di rock del gruppo di Voghera, che piazza una serie di colpi come California, brano che apre l’album, la successiva Evil Dead, Michigan e Fight Velasquez.
Un lotto di brani da spararsi senza remore, una botta di vita a tutto volume, mentre il caldo ci soffoca e l’impianto dell’aria condizionata ci ha salutato da un pezzo, cosi che mai come ora la nostra pianura si trasforma in un deserto aldilà dell’oceano.

TRACKLIST
1.California
2.Evil Dead
3.Jackie
4.Half Life
5.Michigan
6.Fight Velasquez
7.The balland of the lonley man

LINE-UP
Alessio Bertucci – lead vocals and backing vocals, electric and acoustic guitar, synth,dobro,banjo, keyboards,percussions, glockenspiel
Michele Romagnese – lead vocals and backing vocals, bass, megabass, percussions
Simone Gabrieli – Drums,percussions

THREE HORNS – Facebook

Hot Cherry – Wrong Turn

Non così scontato come potrebbe sembrare ad un primo approccio, Wrong Turn si fa apprezzare per la sua energia e per quell’atmosfera sanguigna e vera che è alla base della riuscita di un album del genere.

Wrong Turn è il primo lavoro dei toscani Hot Cherry, uscito qualche mese fa autoprodotto ed arrivato a MetalEyes tramite l’etichetta napoletana Volcano Records, che si è aggiudicata le prestazioni del gruppo del cantante Jacopo Mascagni.

La band nasce nel 2009, ma purtroppo, dopo l’uscita del singolo Scar In The Brain, nel 2013 si scioglie, con il cantante che di fatto rimane l’unico componente e, non arrendendosi, comincia il reclutamento di nuovi componenti.
Nel corso degli anni gli sforzi per dare una nuova vita al gruppo vengono ripagati e con la formazione al completo vede la luce Wrong Turn, una mazzata di metal/rock, dal groove micidiale, potente e dall’anima thrash.
Jacopo Mascagni viene così raggiunto da Nik Capitini e Luca Ridolfi alle chitarre, Kenny Carbonetto al basso e Stefano Morandini alle pelli, e insieme danno vita a questa mezz’ora di muro sonoro che non lascia dubbi sull’impatto di questa nuova formazione e del suo sound, vario nel saper pescare da vari generi, senza mai abbandonare la strada del metal moderno ricco di groove e di un pizzico di pazzia rock ‘n’ roll.
Mascagni canta come se non ci fosse un domani, le frustrazioni passate vengono riversate su nove tracce che non lasciano respiro fin dall’opener Anonymous: una mazzata senza soluzione di continuità tra hard rock, groove, stoner rock, ed attitudine thrash ‘n’ roll che si evince dal singolo Scar In The Brain, dalla mastodontica Craven e dalla devastante Call To The Void.
Non così scontato come potrebbe sembrare ad un primo approccio, Wrong Turn si fa apprezzare per la sua energia e per quell’atmosfera sanguigna e vera che è alla base della riuscita di un album del genere.
Immaginatevi una jam tra i Pantera, gli Anthrax, i Corrosion Of Conformity e i Beautiful Creatures ed avrete un’idea della proposta degli Hot Cherry, non male davvero.

Tracklist:
1.Anonymous
2.8000 HP
3.Scar In The Brain
4.Narrow Escape
5.Craven
6.On Your Own
7.Call To The Void
8.Modern Vampire
9.Bloody Butterfly

Line-up:
Jacopo Mascagni – Vocals
Nik Capitini – R&L Guitars
Luca Ridolfi – R Guitars
Kenny Carbonetto – Bass
Stefano Morandini – Drums

HOT CHERRY – Facebook

Orquesta del Desierto – DOS

Un album che nella sua pacata e sorprendente bellezza nasconde il meglio del rock degli anni novanta e lo trasforma, con dosi di folk e psichedelia, come farebbe un Mark Lanegan perso nell’immensa distesa sabbiosa e ritrovatosi a jammare con un Jimmy Page armato di chitarra acustica e sombrero.

Cercatevi un posto caldo, portatevi quello che più vi aggrada quando decidete di ascoltare desert rock e, concentrati e in totale pace godetevi DOS, secondo album degli Orquesta Del Desierto, capolavoro registrato al Rancho De La Luna nel 2003 e che vedeva all’opera il gruppo con qualche new entry e numerosi ospiti.

Pete Stahl, Dandy Brown, Mario Lalli, Mark Engel, Mike Riley, Adam Maples, Pete Davidson, Tim Jones e con Emiliano Hernandez al sax e Bill Barrett alla tromba, regalarono uno degli album più intensi del genere, principalmente acustico ed influenzato da ritmi latini: DOS è un viaggio nel deserto dal trip psichedelico, affascinante e rilassante, come se l’acido questa volta avesse invaso positivamente le cellule cerebrali ed invece di caldo e demoni, serpenti ed incubi, si contornassero di visioni sulfuree, mettendo in primo piano la tradizione latina in un arcobaleno di ritmi e suoni.
Dopo dodici anni DOS rivede la luce tramite la Spin On Black, con una nuova veste grafica curata da Luca Martinotti ed in versione vinile mixato e rimasterizzato da Harper Hugg al Thunder Underground Studio di Palm Springs.
La nuova versione contiene inoltre due brani inediti in Europa (Rope e Reaching Out) e uno negli Stati Uniti (El Diablo Un Patrono).
DOS è un album emozionante, una passeggiata nel deserto in uno dei suoi splendidi tramonti al ritmo del rock, stonerizzato e dai rimandi latini, colmo di sfumature sognanti: un esperienza musicale dove lo stoner rock della Sky Valley incontra il ritmo tradizionale dei popoli che abitano le calde e aride pianure, mentre è sempre il tramonto a portare quella frescura che rigenera, prima che la notte cali sulla sabbia modellata dal vento.
Un album che nella sua pacata e sorprendente bellezza nasconde il meglio del rock degli anni novanta e lo trasforma, con dosi di folk e psichedelia, come farebbe un Mark Lanegan perso nell’immensa distesa sabbiosa e ritrovatosi a jammare con un Jimmy Page armato di chitarra acustica e sombrero.
Purtroppo DOS è stato l’ultima opera di questi folletti del deserto e mentre la stupenda Above The Big Wide (Screaming Trees, Zep e Kyuss ci salutano da Tijuana) ci avvicina alla fine del viaggio, la consapevolezza d’essere al cospetto di un capolavoro è pari alla tragica ed inevitabile sensazione di esserci ancora una volta persi in un caleidoscopio di suoni e colori di un’America magica e conturbante, bellissima e mistica.

TRACKLIST
Side A
1.Life Without Color
2.Summer
3.Rope
4.Someday
5.Quick To Disperse

Side B
6.What In The World
7.El Diablo Un Patrono
8.Over Here
9.Sleeping In The Dream
10.Above The Big Wide
11.Reaching Out

LINE-UP
Pete Stahl – Vocals
Dandy Brown – Bass, organ, guitar, piano
Mike Riley – Guitar, organ
Mario Lalli – Guitar
Mark Engel – Guitar, organ, b .vocals
Adam maples – Drums, percussion
Pete Davidson – Drums, percussion

Bill Barret – Trumpet
Tim jones – Piano
Emiliano Hernadenz – Sax

ORQUESTA DEL DESIERTO – Facebook

Mexican Chili Funeral Party – Mexican Warriors’ Revenge

Con i Mexican Chili Funeral Party si parte per un viaggio lisergico in compagnia di Led Zeppelin, Doors, Kyuss e Queen Of The Stone Age, con un pizzico di grunge e accenni funk rock.

Chissà se, fra qualche decennio, questi primi anni del nuovo millennio verranno ricordati come il ritorno dei suoni vintage ed old school.

Certo è che nel metal, così come nel rock, un’alta qualità che fa il pari con le molte uscite, stanno portando la nostra musica preferita ad una nuova sfida.
Chi avrà ragione? Quelli che sostengono che non esiste futuro per il rock ma solo un presente da vivere giorno dopo giorno, anno dopo anno, o quelli che hanno già partecipato alla cremazione del malato, da anni terminale e morto tra le nebbie di Seattle o i deserti della Sky Valley?
Come sempre la verità sta nel mezzo e così, a fronte di una crisi dei consumi che tocca inevitabilmente anche la musica, si continua a parlare di rock, magari old school, stonato o drogato dal blues ma pur sempre musica del diavolo che, in quanto tale, è viva e vegeta e brucia nel petto degli appassionati di tutte le età.
Ok, mi sono dilungato, forse troppo, ma una precisazione andava fatta, anche perché qui mi ritrovo con l’ennesimo top album, questo selvaggio e bellissimo Mexican Warriors’ Revenge, nuovo lavoro dei nostri Mexican Chili Funeral Party.
I cinque rockers brianzoli sono attivi più o meno dal 2009, almeno da quando hanno trasformato il loro territorio in un caldissimo e arido deserto, modello Sky Valley appunto, e da qui sono partiti per un trip chi li ha fatti viaggiare attraverso il rock del ventesimo secolo, prima con l’ep La Ballata del Korkovihor uscito nel 2010, poi con il primo full length omonimo licenziato tre anni fa, ed ora con questo bellissima seconda prova sulla lunga distanza in uscita per Sliptrick Records.
Hard rock, stoner e psichedelia, il tutto unito da uno spirito vintage che li porta ad avvicinarsi ai mostri sacri, ma con una personalità debordante, tanto che la band non ha paura di far incontrare i dinosauri settantiani con i grandi gruppi rock nati in uno dei decenni più prolifici della musica contemporanea (per chi scrive il più prolifico in assoluto), gli anni novanta.
Con i Mexican Chili Funeral Party si parte per un viaggio lisergico in compagnia di Led Zeppelin, Doors (bellissima la cover del classico Waiting For The Sun), Kyuss e Queen Of The Stone Age, con un pizzico di grunge e accenni funk rock che danno un senso musicale alla parola “chili” che fa bella mostra di sé nel monicker.
La prima parte si concentra sull’hard rock stonato con una serie di brani che fanno pensare a quello che accadrà in seguito (Vespucci, Power Of Love), ma dalla cover di Waiting For The Sun in poi è puro trip stoner psichedelico da infarto, con il sabba Lu Curt agitato da una chitarra zeppeliniana in overdose.
Un album bellissimo, intenso, selvaggio e primordiale: questo è rock, il resto sono solo chiacchiere.

TRACKLIST
1.01
2.Vespucci
3.Power of Love
4.La Ballata Del Korkovihor, Pt. II
5.Ranger
6.Waiting for the Sun
7.1605
8.Lu Curt
9.Tomahawk
10.11
11.Seul B

LINE-UP
Alessio Capatti – Voice and guitar
Andrea Bressa – Guitar
Andrea Rastelli – Drums
Carlo Perego – Bass
Mr. Diniz – Keyboards and guitar

MEXICAN CHILI FUNERAL PARTY – Facebook

Rainbow Bridge – Dirty Sunday

I Rainbow Bridge sono un trio di bluesmen pugliesi che, per anni, ha portato in giro la musica del grande Jimi Hendrix e oggi sono pronti a conquistarvi con il loro rock strumentale.

Un giorno tre musicisti si persero tra le strade arse dal sole nel bel mezzo della loro terra natia, la Puglia.

Il caldo soffocante, la terra che bruciava sotto i piedi e la loro predisposizione per l’immaginario rock blues li fece fermare davanti ad un crocicchio, che agli occhi dei tre apparve come uno dei famosi incroci nelle terre del sud del nuovo continente ,dove i bluesman incontrano il loro signore, un omino diabolico che in cambio dell’anima offre le chiavi del successo per molti, ma per altri il segreto di suonare la sua musica.
Davanti ai loro occhi, Robert Johnson, Jimi Hendrix ed Alvin Lee, come i fantasmi dei cavalieri Jedi nella famosa saga di Star Wars, si presentarono e posarono le loro mani sui tre musicisti che si risvegliarono al tramonto con nella testa le note che compongono Dirty Sunday il loro nuovo lavoro, una fantastica jam strumentale, divisa in cinque capitoli di blues rock, stonerizzato, ipnotico e coinvolgente.
Loro sono i Rainbow Bridge, un trio di bluesmen pugliesi che, per anni, ha portato in giro la musica del grande Jimi Hendrix e oggi sono pronti a conquistarvi con il loro rock strumentale.
Attenzione però, perché in Dirty Sunday troverete sicuramente un po’ di ispirazioni dal musicista di Seattle, ma non solo, perché appunto, Giuseppe Jimi Ray Piazzolla (chitarra), Fabio Chiarazzo (basso) e Paolo Ormas (batteria), in quel crocicchio vennero effettivamente toccati dalla sacra triade e cosi la loro jam di trasforma in un notevole tributo ad un pezzo importantissimo della storia della musica moderna tra hard rock, blues e stoner della Sky Valley, che tra una trentina d’anni, quando ormai il sottoscritto lo troverete a fumarsi qualcosa con Jimi, sarà considerato il genere più influente dei decenni tra il 1990 ed i primi sussulti del nuovo millennio, ovviamente parlando di rock.
L’opener Dusty, la stupenda Hot Wheels e la zeppeliniana Rainbow Bridge ( ah, ci sono anche loro ovviamente) le componi solo se i tuoi angeli custodi rappresentano la storia dei chitarristi blues rock.
Bellissimo

TRACKLIST
1. Dusty
2. Dirty Sunday
3. Maharishi suite
4. Hot Wheels
5. Rainbow Bridge

LINE-UP
Giuseppe Jimi Ray Piazzolla – guitar
Fabio Chiarazzo – bass, guitar
Paolo Ormas – drums

RAINBOW BRIDGE -Facebook

Duel – Witchbanger

Ascoltando Witchbanger si potrà tornare integralmente tornare indietro nel tempo, o anche solo vivere una grande esperienza sonora, degustando un hard rock puro, con melodie incredibili.

Tornano i texani Duel, uno dei migliori gruppi di rock doom occulto che ci siano in circolazione.

Il loro suono è un affascinante rielaborazione di quel suono anni settanta tra hard rock e doom, aggiungendoci molto di personale. I Duel catturano l’ascoltatore con un impasto sonoro ben composto, con la giusta miscela di durezza e melodia. Nella composizione del disco i texani non fanno giustamente eccedere nessuna componente, anzi lasciano il giusto spazio a tutto, lavorando come un vero collettivo sonoro, ed il risultato è eccellente. Il gruppo può annoverare un fedele e numeroso seguito, coltivato sia grazie ai dischi che con i loro concerti. Certamente gli anni settanta fanno la parte del leone in questo suono, ma vi sono anche apprezzabili elementi moderni. I Duel vi avvicinano con il loro suono sinuoso e sensuale, per portarvi in una dimensione magica e occulta, perché qui si parla anche di questo, e siamo in un universo ben diverso dal nostro. Qui il piacere scorre benigno, attraverso riff di chitarra ed accelerazioni sinceramente seventies che sembravano essere ormai perdute nell’orgia musicale odierna. Ascoltando Witchbanger si potrà tornare integralmente tornare indietro nel tempo, o anche solo vivere una grande esperienza sonora, degustando un hard rock puro, con melodie incredibili. Rimane notevole il fatto che questo sia solo il secondo disco del gruppo, anche se non si tratta certo di musicisti esordienti, dato che due membri erano negli Scorpion Child. Occultismo, sangue, e tanto hard rock puro e senza compromessi. Gran disco.

TRACKLIST
1.Devil
2.Witchbanger
3.The Snake Queen
4.Astro Gypsy
5.Heart Of The Sun
6.Bed Of Nails
7.Cat’s Eye
8.Tigers And Rainbows

LINE-UP
Tom Frank – guitar,vocals
Shaun Avants – bass, vocals
JD Shadowz – drums
Jeff Henson – guitar

DUEL – Facebook

Fuzz – A.R.T.

A.R.T. è quello che vuole essere, un ottimo disco di musica rumorosa in italiano, con un gusto particolare che abbiamo solo qui nello stivale per il noise grunge, ma che abbiamo tirato fuori poche volte, e questa è una di quelle.

I Fuzz vengono da Torino e fanno un gran bel rumore. Il loro suono è una interessante summa fra Verdena, Queens Of The Stone Age, Marlene Kuntz e Fluxus per citarne solo alcuni.

Nati nel 2010 i Fuzz portano avanti un discorso incentrato sulla libertà sonora, coniugando cattiveria e qualità, rumore e inusuali melodie. In Italia non ci sono molto gruppi capaci di sintetizzare in questa maniera la lezione della migliore musica alternativa italiana con gli esempi di rumore che arrivano da oltreoceano. Al centro dei Fuzz sta la possente e inviperita voce di Luca, che sciorina le giuste rimostranze contro il cielo, e il gruppo stende un ottimo tappeto sonoro, con molte influenze ma estremamente personale. Il disco è semplicemente bello, con molte soluzioni sonore distorte, un’ottima rabbia di fondo che ci riporta a quel sentire che si poteva provare nel migliore momento della musica cosiddetta alternativa italiana. Che poi diciamolo una volta per tutte : la musica non è mai alternativa, è sempre e solo musica. A.R.T. (Andare Restare Tornare) è quello che vuole essere, un ottimo disco di musica rumorosa in italiano, con un gusto particolare che abbiamo solo qui nello stivale per il noise grunge, ma che abbiamo tirato fuori poche volte, e questa è una di quelle. Il disco è un grido armonioso, una musica che incrocia deserto, New York e vie acciottolate di qualche centro storico, come impersonali rotonde e prati di periferie. I Fuzz fanno un disco che è davvero un piacere ascoltare, con una grossa punta di veleno, che è il giusto antidoto alla nostra merda quotidiana. A.R.T. in definitiva, è un lavoro molto interessante, cattivo e dolce al tempo stesso, e soprattutto c’è tanto bel rumore.

TRACKLIST
1 Suononero
2 Immobile
3 Ebola
4 Sasha
5 Linoeranza
6 Isola Blu
7 A Testa Bassa
8 La Parola Chiave
9 Noia
10 Io Ho In Mente Te

LINE-UP
Luca – chitarra,voce;
Marco – basso;
Paolo – chitarra;
Luca – batteria;

FUZZ – Facebook