Anvil – Pounding The Pavement

Non cambia la formula che ha fatto la storia degli Anvil e del metal, quindi, se cercate tutti i cliché tipici del genere, mister Steve “Lips” Kudlow e compari vi hanno accontentato anche questa volta.

Il nuovo anno metallico è appena iniziato e si presenta con il nuovo album degli storici Anvil, il diciassettesimo full length di una lunga storia iniziata all’alba degli anni ottanta per il gruppo canadese, capitanato da quel personaggio simpaticissimo e sopra le righe che è Lips, un rocker che mai si è dato per vinto e che è arrivato nel nuovo millennio con la sua musica.

Non cambia la formula che ha fatto la storia degli Anvil e del metal, quindi, se cercate tutti i cliché tipici del genere, mister Steve “Lips” Kudlow e compari (Robb Reiner, Chris Robertson) vi hanno accontentato anche questa volta.
Pounding The Pavement è un nuovo inno all’hard’n’heavy nella sua forma più grezza, ignorante e se mi passate il termine, rock’n’roll: gli Anvil non conoscono vecchiaia e stanchezza, partono con Bitch In The Box e vi scaricano undici pugni nello stomaco, alternando mid tempo tellurici dal riff scolpito nella sacra montagna dell’heavy metal, veloci partenze hard’n’roll che fanno sbattere la capoccia a Lemmy, giù nel girone infernale delle rockstar, e brani dall’impatto metallico di un tuono prima del diluvio universale.
Non è pane per chi cerca l’originalità, gli Anvil li devi prendere così, amarli per quello che sono e che rappresentano, indipendentemente dal fatto che la musica rock/metal si sia evoluta in tutti questi anni e loro invece stiano ancora lì, a saltare su un palco oggi come nel 1981.
Doing What I Want, Rock That Shit, Black Smoke e via tutte le tracce che compongono questo lavoro, sono ancora una volta 100% Anvil, senza trucchi ne inganni, it’s only rock ‘n’ roll, intransigente, metallico, tripallico ed esagerato.
Qualcuno potrebbe chiedersi se c’è ancora bisogno di album così e la risposta, mentre la gamba si alza e carica un calcio nel deretano, è assolutamente sì.

Tracklist
1. Bitch In The Box
2. Ego
3. Doing What I Want
4. Smash Your Face
5. Pounding The Pavement
6. Rock That Shit
7. Let It Go
8. Nanook Of The North
9. Black Smoke
10. World Of Tomorrow
11. Warming Up
12. Don´t Tell Me (Bonus Track)

Line-up
Steve “Lips” Kudlow – Guitars, Vocals
Robb Reiner – Drums
Chris Robertson – Bass

ANVIL – Facebook

Roadkillsoda – Mephobia

Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce.

Quando si parla di Romania riguardo al metal viene spontaneo pensare al gothic ed al doom, generi che nel paese balcanico  vengono espressi in maniera qualitativamente alta.

Quindi i Roadkillsoda fanno parte di una scena (quella stoner rock) che sicuramente non fa pensare alle foreste ed ai castelli immersi nelle valli e sulla cime dei Carpazi, ma al caldo delle pianure americane: il quartetto di Bucarest infatti suona musica desertica, hard rock stonerizzato e, come da trend, alimentato da una vena nostalgica tra rock settantiano e alternative proveniente dagli anni novanta.
Niente di nuovo sotto il sole della capitale rumena, ma estremamente funzionale a quello che il gruppo vuole trasmettere, ovvero hard rock diretto, stonato e vintage.
In giro da ormai un po’ di anni, la band ha dato alle stampe quattro album, compreso quest’ultimo lavoro intitolato Mephobia, e ha avuto i suoi inevitabili aggiustamenti per quanto riguarda la formazione ed arriva carica e sul pezzo per farci sognare ancora di sabbia scaldata dal sole, crotali dai sonagli impazziti e lunghe camminate persi nel caldo asfissiante della Sky Valley.
Citazioni più o meno famose e cliché che nutrono di già sentito i brani, fanno di Mephobia un album godibile, e se un po’ di ripetitività lascia che qualche sbadiglio affiori verso la fine dell’ascolto, il tutto viene bilanciato dal almeno tre ottime tracce (Prometheus, Casuality e la psichedelica Dip).
I soliti Kyuss e Queen Of The Stone Age, con un po’ di Black Label Society a metallizzare quanto basta il suono di Mephobia, sono i primi nomi di una lunga lista di influenze accostabili al gruppo rumeno, ma se del genere non potete fare a meno i Roadkillsoda vi sapranno tenere buona compagnia.

Tracklist
1.Prometheus
2. Bipolar
3.Consequences
4.Easy
5.Casualty
6.Legless
7.Order
8.Dip
9.Backhander
10.Tonight
11.Trust

Line-up
Mircea Petrescu “Hotshot Eagle” – Vocals
Mihnea Ferezan “Panda Elixir” – Guitars
Victor “Vava” Ferezan – Bass
Mihai Nicolau “Baby Jesus” – Drums

ROADKILL SODA – Facebook

Magnum – Lost On The Road To Eternity

Lost On The Road To Eternity rimane un’opera al 100% Magnum, quindi consigliata ai rockers amanti delle melodie di scuola Clarkin/Catley, anche se manca in parte quel tocco epico/fantasy per cui la storica band britannica è famosa, ma al ventesimo lavoro non ci si può certo lamentare.

Il ventesimo album dei Magnum è il primo appuntamento importante dell’anno appena iniziato: Bob Catley e Tony Clarkin tornano ad un anno di distanza dalla raccolta di ballads che aveva fatto emozionare i cuori dei fans del gruppo (The Valley Of Tears-The Ballads) e a due dall’ultimo lavoro composto da inediti (Sacred Blood “Divine” Lies).

Lost On The Road To Eternity ha nella partecipazione di Tobias Sammet, come ospite nella title track, la sua più grossa novità, per il resto il nuovo lavoro viaggia con il pilota automatico nel mondo Magnum.
E’ un album riuscito, pregno di melodie sognanti, accenni al progressive, in molti punti cardine orchestrato a meraviglia e cantato ancora una volta da un menestrello che non conosce vecchiaia, almeno nella sua splendida ed inconfondibile voce.
Un’opera che si sviluppa su quasi settanta minuti di musica rock dagli elevati contenuti melodici, ma che non rinuncia ad elettrizzare l’ambiente con riff duri come il ferro e di cui Clarkin è autentico maestro (bellissima in questo senso Without Love).
Poi, dopo un inizio che ci regala il meglio del songwriting firmato Magnum (Show Me Your Hands, Welcome To The Cosmic Cabaret), l’entusiasmo si placa leggermente per una serie di brani di maniera, belli, altamente melodici ma che non accendono la sacra fiamma dell’emozionalità come il gruppo britannico ci ha abituato (Ya Wanna Be Someone e Forbidden Masquerade), ne esce un album che sicuramente verrà apprezzato dai fans del gruppo, ma che risulta leggermente inferiore al suo predecessore, avaro di punti deboli.
Lost On The Road To Eternity rimane un’opera al 100% Magnum, quindi consigliata ai rockers amanti delle melodie di scuola Clarkin/Catley, anche se manca in parte quel tocco epico/fantasy per cui la storica band britannica è famosa, ma al ventesimo lavoro non ci si può certo lamentare.

Tracklist
1. Peaches and Cream
2. Show Me Your Hands
3. Storm Baby
4. Welcome to the Cosmic Cabaret
5. Lost on the Road to Eternity
6. Without Love
7. Tell Me What You’ve Got to Say
8. Ya Wanna Be Someone
9. Forbidden Masquerade
10.Glory to Ashes
11. King of the World

Line-up
Tony Clarkin – Guitars
Bob Catley – Vocals
Rick Benton – Keyboards
Al Barrow – Bass
Lee Morris – Drums

MAGNUM – Facebook

Almyrkvi – Umbra

L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale.

Il black metal proveniente dall’Islanda continua ad assumere sempre più importanza di pari passo alle varie sfaccettature che ogni band o progetto solista finisce per esibire.

Almyrkvi è uno degli ultimi frutti di una terra apparentemente arida ed ostile, ma terribilmente ricca dal punto di vista artistico: la band nasce da una costola dei già noti Sinamara, il cui chitarrista Garðar S. Jónsson si fa carico di tutto il comparto compositivo e strumentale, con l’eccezione dalla batteria affidata al già collaudato compagno d’avventura Bjarni Einarsson.
Anche la definizione black metal sta assumendo via via significati differenti a seconda dell’angolazione da cui lo si guardi e, forse, talvolta finisce per apparire addirittura riduttiva: in Umbra, infatti, si rinvengono pulsioni cosmiche e sperimentali che possono rimandare ai Blut Aus Nord ma anche ai più recenti Monolithe (che sicuramente black metal non suonano), il tutto però fatto in maniera così avvincente e personale da raccomandare chi legge a prendere queste citazioni solo come un’indicazione di massima del tipo di sonorità contenute nel lavoro.
L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale: qui aleggia costantemente un sentore di gelida minaccia che, quando pare acquietarsi, improvvisamente prorompe in esplosioni repentine, quasi il flusso sonoro corrispondesse a quelle meravigliose anomalie naturalistiche che sono i geyser così diffusi lungo l’irrequieto suolo vulcanico dell’isola.
Parlare delle singole tracce è un esercizio al quale mi sottraggo, ritenendo che Umbra sia un lavoro da ascoltare come se fosse un unico lunghissimo brano; mi limiterò a dire che l’opener Vaporous Flame è forse il momento più morbido e accessibile di un album che, a partire dalla successiva Forlorn Astral Ruins, si trasforma in una terrificante colata di nera lava, alla quale contribuisce il notevole growl di Jónsson, musicista sopraffino al quale il buon Einarsson non fa certo mancare un decisivo supporto ritmico.
Una delle più belle sorprese dell’anno, peccato solo l’aver ascoltato quest’album a classifiche già stilate, perché, per quel che può valere, avrebbe trovato posto davvero molto in alto.

Tracklist:
1. Vaporous Flame
2. Forlorn Astral Ruins
3. Severed Pillars of Life
4. Stellar Wind of the Dying Star
5. Cimmerian Flame
6. Fading Hearts of Umbral Nebulas

Line-up:
Garðar S. Jónsson – All compositions & instruments
Bjarni Einarsson – Drums

ALMYRKVI – Facebook

Uruk – I Leave A Silver Trail Through Blackness

Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale, questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Cosa succede nel momento in cui si compenetrano due stili musicali diversi, due cammini effettuati con mezzi differenti ma con lo stesso imperativo di ricercare sempre e comunque ?

Succede che nasce un’entità musicale dalla ben difficile collocazione come gli Uruk, figlia dell’incontro tra Massimo Pupillo, l’immenso bassista degli Zu e nei Triple Sun, e Thighpaulsandra, epica figura già nei Coil, poi con Julian Cope e eminente membro di quell’esoterismo inglese, non solo musicale, che vive da molto tempo. I due si sono sempre ammirati, e questo disco, una suite di circa trentanove minuti, è qualcosa di più di una semplice collaborazione. Il disco è un qualcosa di esoterico, una commistione di ambient e di drone, un ricollegarsi alle nostre origini più ancestrali, come indicato dal nome del gruppo. Uruk era una città della civiltà sumera, narrata nell’epopea di Gilgamesh, ed uno dei maggiori insediamenti della nostra antichità. Gruppi come Zu e i Coil attraverso la loro musica hanno sempre ricercato e smosso qualcosa di antico dentro di noi, scavalcando la nostra modernità e parlando a qualcosa che tentiamo di negare. Proprio come questo disco, che ci mostra un’antichissima storia messa in musica, ovvero la capacità umana di dare un senso differente e personale a dei suoni, semplici come il rumore primordiale. I Leave A Silver Trail Through Blackness fa scaturire dentro ognuno di noi una propria personale interpretazione, ma più di tutto è un portale, un codice di vibrazioni per portarci da qualche altra parte in uno stato alterato di coscienza, obiettivo anche dei live del duo, davvero molto coinvolgenti. Non ci si può approcciare a questo disco aspettandosi della musica come la intendiamo comunemente, perché questo è il senso ancestrale di tale arte. Gli Uruk sono quanto di meglio possiate trovare nell’ambient drone e travalicano i generi, perché parlano un linguaggio universale. Questa musica è ricerca, vita e morte, inizio e fine.

Tracklist
1. I Leave A Silver Trail
2. Through Blackness

Line-up
Massimo Pupillo
Thighpaulsandra

COUNSULING SOUNDS – Facebook

In Vain – Currents

Currents esplode in fuochi artificiali progressivamente metallici e alterna splendide atmosfere avanguardiste a sfuriate estreme.

La nuova scena progressiva che accomuna metal estremo e classico in una più ampia visione musicale, accoglie da più una decina d’anni gli In Vain, gruppo che nello spazio di tre lavori sulla lunga distanza ed un ep si è costruito una solida reputazione, tanto da prestare quattro quinti della band agli storici Solefald nella versione live!

La band norvegese torna con un nuovo album, appunto il quarto, intitolato Currents, un’opera che si avvicina inesorabile alla definizione di capolavoro, un bellissimo quadro musicale che mai come questa volta unisce in maniera quasi perfetta death metal melodico, progressive, epicità e sfumature post rock.
Prodotto da Jens Bogren (Opeth, Dimmu Borgir, Katatonia, Devin Townsend, Kreator, etc) ai Fascination Street Studios e con l’artwork curato dall’artista Costin Chioreanu (Paradise Lost,Enslaved, At The Gates, etc), Currents esplode in fuochi artificiali progressivamente metallici già dall’opener Seekers Of The Truth e alterna splendide atmosfere avanguardiste a sfuriate estreme, dove death e black metal vengono ricamati e colorati di sfumature epiche, armonie e sinfonie orchestrali, così come di riff classici e melodici.
Una serie di ospiti valorizzano con la loro presenza questo inno al progressive moderno di scuola nordica, e tra questi vanno citati Baard Kolstad (Leprous, Borknagar) alla batteria e Matthew Kiichi Heafy (Trivium) e Kristian Wikstøl (From Strength to Strength) alla voce.
Bellissimo ed emozionante, l’album regala momenti di grande musica moderna in Blood We Shed come in As The Black Horde Storms, estrema e matura, varia nel combinare atmosfere differenti in un unico sound, mentre Origin è il brano più rock del lotto ed il sax crimsoniano della conclusiva Standing On The Grounds Of Mammoths fa da prologo ad una parte semiacustica nell’unica traccia spiccatamente settantiana, almeno per i canoni estremi del gruppo norvegese.
Il resto, come scritto, è quanto di meglio il genere possa offrire, con la band che gioca a suo piacimento con ispirazioni legate a nomi come Amorphis, Leprous, Opeth e Solefald, in un vortice di note entusiasmante.

Tracklist
1. Seekers of the Truth
2. Soul Adventurer
3. Blood We Shed
4. En Forgangen Tid (Times of Yore Pt. II)
5. Origin
6. As The Black Horde Storms
7. Standing on the Ground of Mammoths

Line-up
Johnar Håland – Guitars, synth pads, bgv
Sindre Nedland – Lead vocals and clean vocals
Alexander Bøe – Bass
Kjetil Domaas Petersen – Solo guitar
Andreas Frigstad – Vocals

Guest musicians:
Baard Kolstad (Leprous, Borknagar) – Drums
Kristian Wikstøl (From Strength to Strength) – Hardcore vocals
Matthew Kiichi Heafy (Trivium)– Vocals
Simen Høgdal Pedersen – Vocals
Audun Barsten Johnsen – B3 Hammond and church organ
Magnhild Skomedal Torvanger – Violin and viola
Ingeborg Skomedal Torvanger – Cello
Line Falkenberg – Saxophone

IN VAIN – Facebook

Disorder / Distruptor – Underworld

Uno split album che mostra una band dal buon potenziale ma decisamente ancora da sgrezzare (Distruptor) ed un’altra (Disorder) che sembra già pronta a far breccia negli appassionati sia del nuovo che del vecchio continente.

Pur ammettendo che tra i generi estremi il thrash è quello che è sempre stato meno nelle mie corde, devo dire che mi intriga non poco scoprire come venga interpretato in nazioni nelle quali la tradizione per certe sonorità è quanto mai recente, anche per motivi prettamente geografici.

Per esempio questo split album, con il quale la Witches Brew ci propone i nepalesi Disorder ed i peruviani Distruptor, finisce per riconciliarmi non poco con il genere perché, in assenza di qualsiasi parvenza di novità o di variazione sul tema, si viene abbondantemente ripagati dal punto di vista dell intensità e della genuinità dell’approccio.
I Disorder, i quali condividono il monicker con circa un’altra quindicina di band, più o meno aventi lo stesso raggio d’azione stilistico, non sono certo delle mosche bianche in una scena metal nepalese che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi anni, ma fa sempre un certo effetto associare l’immagine degli altipiani e delle vette montuose del pese himalayano per eccellenza con questi quattro assatanati che, nei sei brani a loro disposizione, partono cosi come arrivano, ovvero sparati senza risentire della rarefazione dell’aria.
Il thrash dei Disorder è, manco a dirlo, old school, ma ciò deve essere visto nell’accezione più positiva del termine, perché mi riesce difficile pensare ad una band europea o nordamericana capace di restituire questo sound con la stessa freschezza ed urgenza; non manca comunque qualche digressione, perché se Underworld, il brano che dà il titolo allo split, è un ottima fotografia di quanto appena descritto, troviamo una Aslil Manav Sabhyata che si spinge a lambire in maniera convincente territori hardcore. Detto ciò vale senz’altro la pena di riscoprire il loro unico full length Corrupted Influence, datato 2016.
I Distruptor sono invece praticamente all’esordio, visto che i quattro brani contenuti in Underworld corrispondono alla tracklist del loro demo Social Disorder, uscito all’inizio del 2017. Forse anche per questo il sound risulta un po’ meno pulito ma senza inficiare più di tanto il risultato per questi ragazzi provenienti da Lima, i quali restano ben ancorati a sonorità del secolo scorso ma imbastardiscono il loro thrash con abbondanti iniezioni di death, eleggendo quali propri numi tutelari band come gli Slayer piuttosto che i Testament, tanto per fornire qualche coordinata più chiara. Il tutto sembra decisamente più perfettibile rispetto a quanto offerto dai Disorder, ma le caratteristiche di base (convinzione, genuinità e giusta cattiveria) sono esattamente le stesse e non si può fare a meno di applaudirle.
In definitiva, Underworld è uno split album che mostra una band dal buon potenziale ma decisamente ancora da sgrezzare (Distruptor) ed un’altra (Disorder) che sembra già pronta a far breccia negli appassionati sia del nuovo che del vecchio continente.

Tracklist:
1. DISORDER – Corrupted Influence
2. DISORDER – Devastation
3. DISORDER – Underworld
4. DISORDER – Disorder Unleashed
5. DISORDER – Junga Bahadur Rana
6. DISORDER – Aslil Manav Sabhyata
7. DISTRUPTOR – Social Disorder
8. DISTRUPTOR – Tragedy
9. DISTRUPTOR – Annihilation
10. DISTRUPTOR – Traumatic Death

Line-up:
DISORDER:
Romeo – Bass, Vocals
San Jv – Drums
Pramod – Guitars
Den – Guitars

DISTRUPTOR:
Joel N. – Bass
Frank D. – Drums
Charly War – Guitars (lead)
Abel R. – Vocals, Guitars

DISORDER – Facebook

DISTRUPTOR – Facebook

NAGAARUM

Il video di “A befalazott”, dall’album “Homo Maleficus” (GrimmDistribution / NGC Prod).

Il video di “A befalazott”, dall’album “Homo Maleficus” (GrimmDistribution / NGC Prod).

“The videoclip was made by myself. The track’s subject is the deformity of the human nature. “A befalazott” means “immured” and I would like to show via this idiom that the mankind slowly turns a dead end. People wall into themselves to a cabin.” (Nagaarum )

The Homo Maleficus album can be listened and ordered here:
https://ngcprod.bandcamp.com/album/homo-maleficus

Lyrics translated to English:

One includes everyone – the skies they shun.
Souls in vessels malformed by desire.
A fetus – born onto this world
succumbs in the blackground in a ruinous tower.

Formed by age, ripen, misshapen,
determined by the road not taken
– and shaken – will then pay,
and play the game ends today – and every day.

Heads in the world of dreams enwrapped in slumber,
heads rolling down the streams in many a number,
sparkling stars in a halo unencumbered.
Is this real, or have I just gone under? I wonder…

Snapshots, human lots – contorted, gone astray…
Vessels heading home – nowhere else to roam…
The advent is black in the tower they dwell, three in a cell…
The master, the whore and the ego in a shell.

Starsoup – Castles Of Sand

Vario e pieno di soprese, Castles In The Sand passa con disinvoltura da un genere all’altro, mantenendo un filo conduttore che attraversa il concept fino alla sua conclusione.

Bellissimo lavoro progressivo, questo nuovo album del progetto Starsoup del chitarrista russo Alexey Markov, in forza ai Distant Sun.

Castles Of Sand segue di quattro anni il primo album (Bazaar Of Wonders) e risulta una vera sorpresa per chi si crogiola nella musica progressive dalle sferzate metalliche.
Cambi di tempo e d’atmosfere, sfumature orientaleggianti (Brother’s Plea) che valorizzano tastiere pompose e chitarre ruvide, sono le virtù principali di questo tuffo nel metal progressivo che guarda ai Dream Theater come ai Pain Of Salvation, ma si veste di un’anima epico sinfonica alla Ayreon.
E Anthony Lucassen è il vero padrino ed ispiratore del collega moscovita, dotato di un gran talento non solo con la sei corde ma pure dietro al microfono, con un’interpretazione varia e sentita, un tono maschio che dà al lavoro quel carisma necessario per non passare inosservato, anche per i non pochi passaggi folk che arricchiscono la proposta musicale degli Starsoup (Your World Is Dead).
Vario e pieno di soprese, Castles In The Sand passa con disinvoltura da un genere all’altro, mantenendo un filo conduttore che attraversa il concept fino alla sua conclusione, tra ballate acustiche, brani progressivi, impennate heavy metal e rude hard rock, in un arcobaleno di note che non mancheranno di sorprendere gli ascoltatori che con il genere hanno sufficiente confidenza.
Non mi rimane che consigliarne l’ascolto, una vera immersione tra le mille sfumature della musica del buon Alexey Markov e dei suoi Starsoup.

Tracklist
1. The Catcher in the Lie
2. Into the Woods
3. Brother’s Plea
4. Your World Is Dead
5. Rumors of Better Love
6. Escapist
7. Winter in Shire
8. Castle
9. The World That Has Moved On
10. Light Up the Stars
11. Moon on the Shore
12. Road to Sunset

Line-up:
Artem Molodtsov – Bass
Mikhail Sorokin – Drums
Alexey Markov – Guitars, Vocals

STARSOUP – Facebook

Ungoliantha – Through The Chaos, Through Time, Through The Death

Un ottimo esempio di black metal sinfonico che possiede la grande dote di non essere il prevedibile scopiazzamento dei Dimmu Borgir e di tutta la successiva genia, mantenendo invece ben salde le radici musicali della propria terra, in quanto le orchestrazioni conservano quell’aura solenne tipica della musica classica dell’est Europa.

E’ sempre più frequente la riedizione di album composti da band dell’estremo est europeo, con il lodevole tentativo di renderli appetibili anche al di fuori dell’area di utilizzo dell’alfabeto cirillico, rivestendoli quantomeno di titoli in inglese, pur mantenendone ovviamente l’impronta della madre lingua a livello lirico.

Questo avviene anche per gli ottimi Ungoliantha, ucraini dalla storia quanto meno singolare, visto che il qui presente Through The Chaos, Through Time, Through The Death, immesso sul mercato dalla Satanic Art Media nello scorso novembre, è il loro primo full length uscito nel 2015 con il più criptico (per noi) titolo Сквозь хаос, сквозь время, сквозь смерть; questo benché le prime apparizioni della band risalgano addirittura alla fine del scolo scorso, per poi ritornare fugacemente con un demo nel 2006 ed infine rompere il nuovo periodo di oblio discografico con il citato lavoro su lunga distanza,
Perché tutto ciò debba interessare chi legge è presto detto: siamo di fronte ad un ottimo esempio di black metal sinfonico che possiede la grande dote di non essere il prevedibile scopiazzamento dei Dimmu Borgir e di tutta la successiva genia, mantenendo invece ben salde le radici musicali della propria terra, in quanto le orchestrazioni conservano quell’aura solenne tipica della musica classica dell’est Europa, riuscendo a delineare il suono in maniera peculiare.
Il bello è che siamo di fronte ad un’opera persino perfettibile in più di un punto (la voce di Lord Sinned non è il massimo dell espressività, ricordando a tratti quella di Gunther Theys degli Ancient Rites, e forse qualcosa di più a livello di produzione si poteva fare ) eppure, nonostante questo l’impatto dirompente degli Ungoliantha non viene mai meno.
Due delle tracce provengono dallo scorso millennio ma la rielaborazione alla quale sono state sottoposte ne preserva la freschezza: Black Essence of Christ e Black Winds sono tra gli episodi migliori del lavoro e stringono tra le loro grinfie in scaletta la cover di Pressed Down By The Fallen Pivot Of Life dei Lucifugum (storico combo black metal ucraino), altra traccia nella quale il connubio tra il lavoro tastieristico e le ritmiche forsennate fornisce frutti prelibati.
La furiosa Armageddon (dotata di un apporto percussivo molto particolare, almeno per l’ambito black) chiude un lavoro davvero notevole per un’intensità che non viene sminuita dall’approccio un po’ naif della band ucraina; la nuova versione della Satanic Art prevede tre bonus track tutto sommato trascurabili, trattandosi delle versioni originali, decisamente inferiori in tutto e per tutto a quelle attuali, delle già citate Black Essence of Christ e Black Winds, e della cover di Lost Wisdom di Burzum.
Ma quello che interessa maggiormente è il potenziale manifestato da una band di fatto fino ad oggi sconosciuta nella vecchia Europa, il che fa pensare a quante e quali possano essercene di pari livello e pronte a essere portate alla luce nella sterminata area geografica corrispondente all’ex Unione Sovietica.

Tracklist:
1.Intro
2.Following The Black Kindness
3.To The Ultimate Gates
4.Black Essence of Christ
5.Pressed Down By The Fallen Pivot Of Life (Lucifugum cover)
6.Black Winds
7.Reckoning
8.Through The Death
9.Armageddon
10.Black Essence of Christ Demo
11.Black Winds Demo
12.Lost Wisdom (Burzum cover)

Line-up:
Vitaly Karavaev – Guitars
Igor Vershinin – Keyboards
Lord Sinned – Vocals, Bass

AEREN

Il video di Breath Of Air, dall’album Breakthru, in uscita a marzo (Sliptrick Records).

Il video di Breath Of Air, dall’album Breakthru, in uscita a marzo (Sliptrick Records).

Drive By Wire – Spellbound

La maturità compositiva è fuori discussione, il gruppo è già da tempo pronto per essere conosciuto dal grande pubblico e questo disco è un fantastico biglietto da visita.

Tornano gli olandesi Drive By Wire al loro decimo anno di attività, festeggiato con la ristampa su Argonauta Records del loro disco The Whole Shebang.

Il nuovo Spellbound ci mostra il gruppo nel suo massimo splendore, con un suono che è un felice incrocio di desert rock, stoner e molto blues, soprattutto nell’attitudine e nell’incedere. I Drive By Wire fanno molto bene e con più ruvidezza ciò che i Blue Pills hanno portato alla ribalta con il loro suono, e anche gli olandesi hanno una splendida voce femminile a guidarli, quella di Simone Holsbeek, bravissima a coprire una moltitudine di registri, versatile e calda. Il gruppo ci guida nel suo mondo, fatto di mistero, blues e note ruvide, con una voce calda e sognante che ci porta a seguirla sotto la luce della luna, benedicendo il femmineo. Si viene trascinati in questo sabba desertico da una musica che si fonde benissimo con la voce di Simone, e che raggiunge vette che pochi gruppi nel genere hanno saputo toccare. La qualità media del disco è molto alta, le tracce sono legate l’una all’altra non tanto da un concept, quanto da una comune visione che si esplica in una musica fortemente influenzata dal blues. Proprio quest’ultimo è il mojo principale di questo disco e la sua presenza è fortissima, sia nella composizione che nello spirito dell’album. Il coinvolgimento dello spettatore è una delle peculiarità maggiori degli olandesi, riescono a stimolare la tua curiosità e ti portano con un groove ipnotico. I riferimenti ci sono ma è tutto molto personale ed originale. I Drive By Wire riescono inoltre a dare una propria personale versione del desert rock che è una delle migliori in assoluto in giro, e questo disco è da primi dieci ascolti desertici da fare. La maturità compositiva è fuori discussione, il gruppo è già da tempo pronto per essere conosciuto dal grande pubblico e Spellbound è un fantastico biglietto da visita.

Tracklist
1. Glider
2. Where Have You Been
3. Mammoth
4. Apollo
5. Blood Red Moon
6. Superoverdrive
7. Van Plan
8. Lost Tribes
9. Devil’s Fool
10. Lifted Spirit
11. Spellbound

Line-up
Simone Holsbeek
Alwin Wubben
Jerome Miedendorp de Bie
Marcel Zerb
Rene Rutten

DRIVE BY WIRE – Facebook

Riksha – Five Stages Of Numb

Se amate i suoni moderni nati aldilà dell’oceano in questi ultimi anni e figli del nu metal e dei suoni mainstream, Five Stages Of Numb merita un ascolto.

Nascosto dietro all’etichetta di groove progressivo si muove il sound degli statunitensi Riksha, modern metal band proveniente dallo Utah, attiva dal 2010 e con altri due lavori alle spalle, prima dell’arrivo di Five Stages of Numb fe dei suoi esplosivi ventitré minuti di assalto sonoro.

L’esempio di come l’etichettare troppo frettolosamente il sound porti molte volte fuori tema è ben evidenziato da questo nuovo lavoro targato Riksha, un album di metal moderno, estremo ed attraversato da parti atmosferiche oscure e fortemente dark, ma che con il progressive non hanno nulla a che fare.
Il quartetto si muove con buona disinvoltura tra il groove metal e la potenza del thrash odierno, alimentando la vena dark con qualche accordo pianistico o acustico ma niente di più.
Non fraintendetemi, Five Staged Of Numb non è un brutto album e la sua breve durata aiuta non poco ad assimilarlo tutto d’un fiato, ma le parti atmosferiche smorzano un po’ troppo sonorità che si muovono in un contesto moderno: siamo di fronte quindi al classico album senza grossi picchi e che viaggi sulla sufficienza abbondante, lasciando alla title track la palma del brano più diretto e riuscito del lotto.
Se amate i suoni moderni nati aldilà dell’oceano in questi ultimi anni e figli del nu metal e dei suoni mainstream, Five Stages Of Numb merita un ascolto.

Tracklist
1.Departure Eminent
2.Five Stages of Numb
3.Shovel It
4.Skeleton Rain Dance
5.Banging Danger
6.Repo Man
7.Save Me

Line-up
Palmer – Vox
Kevin Bronson – Bass
Max Dail – Drums
Ian Law – Guitar

RIKSHA – Facebook

Meden Agan – Catharsis

La band produce uno sforzo notevole per quanto riguarda gli arrangiamenti e l’album letteralmente deflagra in un’apoteosi di metal orchestrale, strutturato su ritmiche serrate, ottimi interventi della sei corde del leader Koutsogiannopoulos e fughe sui tasti d’avorio dal retrogusto neoclassico di Tolis Mikroulis.

Primi fuochi d’artificio metallici del 2018 con il nuovo lavoro della symphonic metal band greca Meden Agan.

Il gruppo nasce per volere di Diman Koutsogiannopoulos che negli anni regala una precisa identità alla sua creatura, partendo da un metal sinfonico, dalle prepotenti cavalcate power e dall’eleganza portata da sfumature gotiche ed orchestrali.
Il primo full length è datato 2005 (Illusions), segue un periodo dove la carriera del gruppo rallenta per tornare nel 2011 con il secondo album Erevos Aenaon, seguito dopo tre anni da quello che era l’ultimo parto della band, Lacrima Dei.
L’importante cambio di cantante porta il gruppo all’incontro con la notevole singer Dimitra Panariti e all’uscita, tramite No Remorse Records, di Catharsis, nuova sinfonia metallica targata Meden Agan.
Catharsis è un uno di quei lavori che, mantenendo inalterate le coordinate di un genere che poco di nuovo ha da mostrare agli ascoltatori, se ben suonato e ottimamente cantato sa come produrre emozioni, magari valorizzato da un ottimo songwriting come in questo caso.
La band produce uno sforzo notevole per quanto riguarda gli arrangiamenti e l’album letteralmente deflagra in un’apoteosi di metal orchestrale, strutturato su ritmiche serrate, ottimi interventi della sei corde del leader Koutsogiannopoulos e fughe sui tasti d’avorio dal retrogusto neoclassico di Tolis Mikroulis.
Poi, ovviamente, lo stato di grazia nel songwriting fa il resto, con i Meden Agan protagonisti di una serie di brani che esaltano, entusiasmano e lasciano senza fiato.
Solo all’ottava traccia (Salvation) la band si prende una pausa e noi rifiatiamo, travolti da una tracklist che fino al quel momento non conosce tregua con una serie di brani magniloquenti e che hanno in Cleanse Their Sins, l’arabeggiante Whispers In The Dark e la bombastica Veil Of Faith i principali picchi di questa notevole opera.
Nightwish, Epica, i nostrani Elegy Of Madness sono i gruppi che più si avvicinano alla band ateniese, una delle nuove realtà di una scena sinfonica data per morta troppo presto.

Tracklist
1. Catharsis (Intro)
2. The Purge
3. Cleanse Their Sins
4. No Escape
5. Whispers In The Dark
6. Shrine Of Wisdom
7. Veil Of Faith
8. Salvation
9. A Curse Unfolding
10. Lustful Desires
11. Weaver Of Destiny

Line-up
Dimitra Panariti – Vocals
Diman Koutsogiannopoulos – Guitars
Tolis Mikroulis – Keys
Aris Nikoleris – Bass & Male Vocals
Panos Paplomatas – Drums

MEDEN AGAN – Facebook

Cruentator – Ain’t War In Hell?

Qui si fa metal estremo tripallico, lo si allontana da qualsiasi tipo di contaminazione e lo si lascia libero di portare terrore e distruzione a colpi di feroci ripartenze, sfuriate tempestose e tanta fottuta attitudine.

Un’altra realtà estrema fa la sua devastante apparizione sulla scena thrash metal nostrana ed europea: sono i lombardi Cruentator, nati nel 2015 dalle menti di un paio di membri dei brutal deathsters Bowel Stew.

Riccardo (batteria) ed Omar (chitarra) sono infatti i maggiori responsabili di questa tempesta thrash old school, raggiunti in seguito dal vocalist Ambro (compagno della coppia nel gruppo lombardo), dal chitarrista Massi FD e dal bassista Vanni.
Il loro esordio, intitolato Ain’t War In Hell, esce in questo inizio d’anno per l’attivissima label iberica Xtreem Music, un sodalizio niente male, visto la qualità delle proposte offerte dall’etichetta di Dave Rotten.
E i cinque musicisti ci vanno giù pesante con una mezzora di thrash metal vecchia scuola che non lascia spazio a dubbi sulle loro intenzioni: portare il più alto possibile la bandiera del genere.
Qui si fa metal estremo tripallico, lo si allontana da qualsiasi tipo di contaminazione e lo si lascia libero di portare terrore e distruzione a colpi di feroci ripartenze, sfuriate tempestose e tanta fottuta attitudine.
Gli strumenti seguono l’ugola al vetriolo del vocalist e, come armi, colpiscono con mitragliate devastanti: l’atmosfera si fa sempre più estrema tra i solchi di brani che seguono la via tracciata a suo tempo dagli eserciti di Sodom, Kreator e compagnia di antieroi metallici.
Una devastazione sonora da spararsi senza indugi dall’inizio alla fine, seguendo il rigagnolo di sangue che vi porterà, tramite l’opener Merciless Extermination, Barbaric Violence, The Nightstalker e Cluster Terror, verso il cumulo di corpi lasciato dai Cruentator.

Tracklist
1.Merciless Extermination
2.Tyrants of the Wasteland
3.Barbaric Violence
4.Evil is Prowling Around
5.The Nightstalker
6.Marching Into a Minefield
7.The Shining Hate
8.Cluster Terror

Line-up
Ambro – Vocals
Omar – Guitars
Massi FD – Guitars
Vanni – Bass
Riccardo – Drums

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Aporya – Dead Men Do Not Suffer

Dead Men Do Not Suffer, grazie al lavoro chitarristico di grande classe fornito da Cristiano Costa, pur essendo catalogabile alla voce death doom potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.

Il Brasile non sembrerebbe essere terreno fertile per il doom come per i generi più estremi o il metal classico, almeno a livello quantitativo; la qualità, invece, non può essere messa in discussione se pensiamo ad una scena capace di offrire nomi già consolidati come HellLight eMythological Cold Tower, o di più recente affermazione come i Jupiterian.

A provare ad inserirsi in tale novero provano gli Aporya, band nata solo scorso anno per l’impulso del chitarrista Cristiano Costa che ha poi trovato il suo ideale completamento nel vocalist Tiago Monteiro: Dead Men Do Not Suffer è il titolo del loro interessante esordio, all’insegna di un death doom melodico che a tratti ricorda i Tiamat epoca Clouds, specialmente in un brano come One More Day, forse anche a di un’impostazione vocale a tratti simile a quella utilizzata ai tempi da Edlund, con un growl non troppo profondo e a tratti quasi sussurrato.
Al di là di questo, si capisce che gli Aporya sono un progetto nato dalla mente di un chitarrista proveniente dal metal classico, visto l’abbondante quanto appropriato ricorso ad assoli dolenti e melodici che prendono piede, soprattutto, nella seconda metà dell’album, invero ingannevole al suo avvio con un brano death tout court (ma notevolissimo) come Cry of the Butterfly, che va a spezzare l’iniziale incantesimo creato dalla tenue intro Blood Rain.
Da The Sad Tragedy (I’m Crushed Down) in poi il lavoro comincia ad assumere le coordinate promesse, ovvero quelle di un death doom melodico, elegante ma dall’impatto emotivo che si mantiene sempre apprezzabile, grazie al connubio tra le linee chitarristiche, il soffuso supporto delle tastiere ed un’interpretazione vocale che non va a sovrapporsi in maniera eccessiva alle tessiture strumentali.
Dead Men Do Not Suffer prende quota ancora più nella sua parte finale, in coincidenza con quei brani nei quali Costa sfoga tutto il suo sentire melodico abbinato ad un tocco chitarristico di grande classe; anche per questo l’album, pur essendo catalogabile alla voce death doom, potrebbe rivelarsi molto appetibile anche per chi apprezza l’ heavy metal dai tratti più malinconici.
In definitiva gli Aporya si rivelano una gradita sorpresa e l’approdo alla configurazione di band vera propria, finalizzata alla riproposizione dal vivo dei brani contenuti nell’album, non potrà che rivelarsi un valore aggiunto nell’ambito di un percorso iniziato nel migliore dei modi.

Tracklist:
1. Blood Rain
2. Cry of the Butterfly
3. The Sad Tragedy (I’m Crushed Down)
4. Little Child in the Grave
5. One More Day
6. Pain and Loneliness
7. Dead Men Do Not Suffer

Line-up:
Cristiano Costa – Guitars (lead), Songwriting
Tiago Monteiro – Vocals, Lyrics

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