Savage Messiah – Hands Of Fate

I Savage Messiah ci ricordano che per fare un buon album metal, in fondo, basta la classica regola di riff portante, strofa, assoli e chorus dal buon appeal, ovviamente supportati da un buon lavoro in fase di produzione, e Hands Of Fate rispecchia queste caratteristiche.

I thrashers inglesi Savage Messiah si accasano alla Century Media ed escono con il loro lavoro migliore, Hands Of Fate, successore del pur buono The Fateful Dark e di altri due full length in dieci anni di attività.

La band londinese, capitanata dal chitarrista e cantante David Silver, non risparmia cascate di melodie all’inteno di un power thrash potente e dall’approccio heavy, rispettoso della tradizione, ma assolutamente in grado di giocarsela alla pari con i gruppi più moderni grazie ad arrangiamenti e produzione al passo coi tempi.
Ma il bello dell’album sono appunto le melodie, incastonate in brani metallici, fatti di quel thrash statunitense che ricorda non poco i Testament dei primi album e, a tratti, i The Almighty di Ricky Warwick.
Gran bella voce, soluzioni ritmiche mai banali per il genere ed un lavoro accurato sul songwriting fanno di Hands Of Fate un album ispirato dove tutto è nel posto giusto, dai ritornelli da cantare a gran voce, ai solos che dall’heavy metal prendono le caratteristiche peculiari.
I Savage Messiah ci ricordano che per fare un buon album metal, in fondo, basta la classica regola di riff portante, strofa, assoli e chorus dal buon appeal, ovviamente supportati da un buon lavoro in fase di produzione, e Hands Of Fate rispecchia queste caratteristiche.
La title track apre l’album e veniamo travolti da questa tempesta di potenza e melodia: Silver si dimostra un vocalist dalla personalità debordante, le asce tagliano spartiti come tronchi di quercia con solos ispirati e la sezione ritmica fa il suo sporco lavoro, travolgendo con potenti mid tempo su cui il gruppo piazza melodie su melodie (Wing And Prayer, Solar Corona).
Un album che si fa ascoltare, con una manciata di altri brani notevoli, tra tutti Last Confession, e si piazza come outsider tra le migliori opere del genere.

Tracklist
1. Hands of Fate
2. Wing And A Prayer
3. Blood Red Road
4. Lay Down Your Arms
5. Solar Corona
6. Eat your Heart Out
7. Fearless
8. The Last Confession
9. The Crucible
10. Out Of Time

Line-up
David Silver – Lead Guitar, Vocals
Sam S Junior – Lead Guitar, Backing Vocals
Mira Slama – Bass Guitar
Andrea Gorio – Drums

SAVAGE MESSIAH – Facebook

Aquiver – Frames

Le esperienze maturate negli anni dai diversi componenti del gruppo sono servite per aumentare la ricchezza di questo progetto comune, che ha grandi ambizioni e mezzi molto saldi per soddisfarle.

Gli Aquiver sono un gruppo di Reggio Emilia che rappresenta benissimo la congiunzione moderna tra metal, rock e pop.

Il loro debutto Frames è un disco ben composto ed eseguito con padronanza tecnica ed una sapiente produzione, e fa trasparire tutto il loro suono moderno. Il gruppo reggiano usa alcune cose del metal e del post hardcore, come inserti pop e qualcosa anche dell’indie, il tutto a seconda di ciò che vogliono esprimere nell’occasione. Il risultato è un suono molto americano, che sfocia in momenti aor, sempre intrisi di dolcezza ma adeguatamente induriti quando serve. Tecnicamente il gruppo ha una buona padronanza, con tutti gli elementi che si mettono in luce, ma spiccano soprattutto come collettivo più che come musicisti singoli. In Frames quasi tutti i brani sono possibili successi radiofonici o su internet, anche se il prodotto è un qualcosa che apprezzeranno sicuramente fuori dai confini patri, per questioni di gusti musicali. E la carriera internazionale è un qualcosa che sarà la maturale prosecuzione del discorso musicale di questi ragazzi, che sono giustamente ambiziosi. Questo suono può portare al successo se viene proposto ad un determinato bacino di utenza, data la natura giovanile dei generi trattati. Inoltre Frames è la dimostrazione che con talento, ma soprattutto voglia, si riescono ad ottenere buoni risultati anche per un underground che vuole emergere ed avere un seguito più ampio, facendo proposte di qualità. Le esperienze maturate negli anni dai diversi componenti del gruppo sono servite per aumentare la ricchezza di questo progetto comune, che ha grandi ambizioni e mezzi molto saldi per soddisfarle. Solidità e melodia sono i punti forti degli Aquiver.

Tracklist
01. Absence Rebound
02. CaSo
03. Save Your Day
04. Drawing Circles
05. Fall From Grace
06. Downfall
07. No More Words
08. A Million Red Lights
09. Moving Emotions
10. The One
11. Empty Space

Line-up
Luca Pretorius: Vocals
Marco Profeta: Bass
Daniele Fioroni: Guitar, Back vocals
Francesco Pani: Guitar, Back vocals
Luca Setti: Drums

AQUIVER – Facebook

Dancing Scrap – This Is Sexy Sonic Alternative Iron Punk

Un altro ottimo album, vario ed originale ad opera di un gruppo a cui non mancano coraggio e buone idee, da consumare se siete amanti del rock a prescindere da odiati compartimenti stagni.

Cambio di monicker (da Dancing Crap a Dancing Scrap), qualche aggiustamento ulteriore nella line up e Ronnie Abeille torna con la sua band ì, con una S in più ma non solo.

Avevamo lasciato la band nostrana all’indomani dell’uscita di Cut It Out, debutto sulla lunga distanza licenziato un paio di anni fa, ed è già tempo di nuova musica, mentre il sound ha subito qualche leggero cambiamento sterzando verso atmosfere più moderne e, come suggerisce il titolo, alternative.
This Is Sexy Sonic Alternative Iron Punk risulta infatti meno pervaso dallo spirito rock ‘n’ roll che aveva contraddistinto il suo predecessore, le sfumature elettroniche e funky contribuiscono a rendere l’album in sintonia con il rock americano più mainstream, facendo sì che le parti campionate e alternative, già comunque presenti in Cut It Out, diventino preponderanti nell’economia dell’album.
Se tutto questo è un bene dipende molto dai gusti di chi presterà ascolto a questa nuova raccolta di brani, sicuramente il gruppo (con la supervisione di Gianmarco Bellumori, che si è occupato del mix e della masterizzazione dell’album) ha fatto un buon lavoro, cercando di non soffermarsi troppo su un genere ma allargando i suoi orizzonti così da presentarsi come una realtà di non facile catalogazione.
This Is Sexy Sonic Alternative Iron Punk vive di alternative metal come di rock ‘n’ roll, sguazza in soluzioni elettropop e ci sbatte in faccia quell’irriverenza punk che continua ad essere l’arma in più del sound, con Abeille che a tratti ricorda non poco il Johnny Rotten post Sex Pistols.
Mezzora di musica dritta sul muso dei rockers, dallo stivale al Regno Unito, che Acid presenta al pubblico con un riff appunto acido e i ritmi che si mantengono su di un mid tempo rock, per poi trasformarsi in un irresistibile alternative funky alla Red Hot Chili Peppers in Big Fuckin’ Deal.
Il singolo I Like It, uscito qualche mese fa, segue le linee di ciò che poi si svilupperà lungo l’intero lavoro, con un rock sporcato di elettronica e punk che gioca a nascondino tra montagne di campionamenti.
I brani si susseguono con dei picchi di originalità (SWC e la conclusiva Bitch… And You Know It) che valorizzano il lavoro svolto dal gruppo, che continua imperterrito ad alternare i generi descritti non lasciando mai una traccia sicura per seguire l’andamento e riuscendo nell’impresa di non far perdere attenzione all’ascoltatore, ora sorpreso, ora divertito dai vari scenari musicali presentati su This Is Sexy Sonic Alternative Iron Punk.
Un altro ottimo album, vario ed originale ad opera di un gruppo a cui non mancano coraggio e buone idee, da consumare se siete amanti del rock a prescindere da odiati compartimenti stagni.

Tracklist
1.Acid
2.Big Fuckin’ Deal
3.I Like It
4.Renegades
5.SWC
6.Ready for the Show
7.The Rocker You’re Not
8.My Goddess
9.Yet to Come
10.Watered Down Drink
11.Bitch… and You Know It (The Drunken Bass Song)

Line-up
Ronnie Abeille – Vox
Sal Ariano – Guitar
Eugenio “The Joker” Pavolini – Guitar
Bobby Gaz – Bass
Danilo “Wolf” Camerlengo – Drums

DANCING SCRAP – Facebook

Acephalix – Decreation

Un album brutale e pesantissimo, oscuro e maligno, niente di nuovo o che non si sia già sentito centinaia di volte, ma la forza che sprigionano brani dall’impatto feroce non passerà senza fare danni ai padiglioni auricolari degli amanti del genere.

San Francisco, Bay Area: il virus, che all’alba degli anni novanta ha tramutato molti giovani in orde di musicisti assetati di sangue e devoti al death metal, ha rallentato il suo dipanarsi ma ancora oggi infetta umani, trasformati in enormi orchi con strumenti in mano a caccia di un pasto.

Dieci anni di militanza nella storica scena e terzo full length per questo pezzo di granito estremo chiamato Acephalix, quartetto che nel suo sound immette, senza nessun riguardo, dosi abbondanti di death metal old school pescando dalla tradizione del suo paese, ma con non pochi riferimenti anche alla scena nord europea.
Decreation infatti risulta un macigno pesantissimo, diviso tra mid tempo, lente frenate e ripartenze devastanti, con il growl uscito dall’ugola di un essere per metà uomo e per metà mostro; sette brani medio lunghi per quasi quaranta minuti in caduta libera nel più profondo abisso, tra neanche troppo velate ispirazioni a Cannibal Corpse e Morbid Angel e guardando alla Scandinavia, Entombed e Dismember.
Ne esce un album brutale e pesantissimo, oscuro e maligno, niente di nuovo o che non si sia già sentito centinaia di volte, ma la forza che sprigionano brani dall’impatto feroce come Upon This Altar, Excremental Offerings o la title track non passerà senza fare danni ai padiglioni auricolari degli amanti del genere.
La copertina di Adam Burke ricorda quelle dei primi devastanti massacri degli eroi del death metal scandinavo, l’album ha un impatto notevole e gira senza grossi intoppi, risultando un ascolto in grado di soddisfare gli amanti del death metal vecchia scuola.

Tracklist
1. Upon This Altar
2. Suffer (Life In Fragments)
3. Mnemonic Death
4. God Is Laughing
5. Excremental Offerings
6. Egoic Skin
7. Decreation

Line-up
Luca – Bass
Dave Benson – Drums
Kyle House – Guitars
Daniel Butler – Vocals

ACEPHALIX – Facebook

Woe Unto Me – Among The Lightened Skies The Voidness Flashed

Gli Woe Unto Me confermano comunque la loro bravura proponendosi come una delle band di riferimento del funeral doom est europeo.

Tre anni dopo l’ottimo esordio intitolato A Step into the Waters of Forgetfulness ritornano, con un nuovo album, i bielorussi Woe Unto Me, indiscussi portabandiera del verbo funeral doom del loro paese.

La band guidata dal talentuoso Artem Serdyuk, con questo Among The Lightened Skies The Voidness Flashed fa le cose in grande, rischiando a mio avviso anche qualcosina nell’offrire agli appassionati un doppio cd per oltre due ore complessiva di musica dalle coordinate ben distinte tra i due supporti magnetici: se, infatti, il primo regala un’interpretazione più ortodossa, anche se come vedremo non proprio in tutti i frangenti, il secondo è invece all’insegna di una vena acustica ed intimista dai risultati alterni.
Sinceramente, da vecchio adoratore del funeral, ritengo che solo i primi lunghi cinque brani rappresentino l’album vero e proprio, derubricando le sette canzoni contenute nella seconda parte ad una sorta di pur valido bonus cd , alla luce anche del suo oggettivo scostamento dalle linee guida del genere.
Partiamo quindi dall’opener Triptych: Shiver, Shelter, Shatter, uno dei piatti forti del lavoro, non fosse altro che per la presenza di diversi ospiti, alcuni illustri (Daniel Neagoe e Jon Aldarà ), altri meno (Patryk Zwoliński): il brano, bellissimo, cambia umore di volta in volta con l’avvicendarsi dei diversi vocalist, risultando prima cupo e drammatico, con il solito terrificante growl di Neagoe, per poi farsi più aspro in coincidenza con le harsh vocals di Zwoliński e raggiungendo infine  il proprio picco emotivo quando la meravigliosa voce del faroese Aldarà spinge il brano su un piano irresistibilmente evocativo.
Un’altrettanto valida Of Life That Never Showed Its Face inaugura la parte del disco in cui l’alternanza tra il growl di Serdyuk e le clean vocals di Oleg Vorontsov diviene pressoché sistematica, aprendo peraltro sbocchi compositivi in passato inesplorati dagli Woe Unto Me, con una parte in odore di ambient con tanto di utilizzo dei fiati che prelude ad uno splendido finale.
I Come To Naught si apre in maniera alquanto cupa per poi aprirsi improvvisamente in passaggi ariosi che ricordano non poco i Dark Suns del loro capolavoro Existence: anche qui il sax diviene un interessante elemento di discontinuità in un brano senz’altro originale se rapportato al genere offerto e, di conseguenza, decisamente intrigante.
Breath Of A Grief, se si eccettua un bell’incremento emotivo nella sua parte finale, nonostante resti comunque un brano di buono spessore rappresenta il momento meno scintillante del primo cd, forse anche perché subito dopo arriva la vera perla dell’album, Drawn By Mourning, magnifico e drammatico esempio di come si suona il funeral doom nelle lande ex sovietiche, con il suo dolente incedere punteggiato dal lamento della chitarra ed uno sviluppo sempre improntato alla ricerca di sonorità toccanti ma non scontate.
Il secondo cd, come detto, sposta tutto su un piano molto più rarefatto che, alla fine, finisce per rendere un po’ troppo omogenei i contenuti: questo non impedisce alla band bielorussa di regalare brani splendidi come In A Stranglehold e Fall-Dyed Lament, che si vanno a collocare stilisticamente tra gli Anathema ed di Novembers Doom acustici, o come Leave Me To My Sorrows, che si rifà al pathos recitativo di Thomas Jensen negli album dei Saturnus ma, nel complesso, l’impatto e l’intensità non raggiungono quello del cd, per così dire, canonico.
Posto che il funeral è genere anticommerciale per definizione, la scelta degli Woe Unto Me è doppiamente coraggiosa, anche se questa separazione netta tra le due anime dell’album non giova all’economia dell’intero lavoro, nel senso che, pur mantenendo la versione con duplice supporto, mescolando il tutto ed alleggerendo di 2-3 brani il fatturato complessivo, Among The Lightened Skies The Voidness Flashed si sarebbe reso probabilmente più accessibile ad ascolti completi. Infatti, ritengo che molti potrebbero alla lunga accantonare la parte acustica per privilegiare l’eccellente vis compositiva esibita da Serdyuk nei primi cinque brani.
Il voto, per quel che vale, è la media matematica tra il 9 del primo cd ed il 7 del secondo ma, con la soluzione da me auspicata in precedenza, la valutazione avrebbe potuto raggiungere anche un mezzo punto in più.
Poco cambia, se non per le statistiche, visto che gli Woe Unto Me confermano comunque la loro bravura proponendosi come una delle band di riferimento del funeral doom est europeo.

Tracklist:
CD1:
1.Triptych: Shiver, Shelter, Shatter
2.Of Life That Never Showed Its Face
3.I Come To Naught
4.Breath Of A Grief
5.Drawn By Mourning

CD2:
1.In A Stranglehold
2.Leave Me To My Sorrows
3.Along Came The Imminence
4.Fall-Dyed Lament
5.A Year-Long Waiting
6.My Joy Lies Behind
7.The Snide Sun

Line up:
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Oleg Vorontsov – clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums

WOE UNTO ME – Facebook

Coburg – The Enchantress

Un album piacevole e senz’altro riuscito, una sorpresa per gli amanti del genere che sapranno cogliere la bellezza dei brani che compongono The Enchantress a prescindere dalla splendida dea al microfono.

Se oltre alla musica anche i vostri occhi vogliono la loro parte, allora senza ulteriori indugi vi presento i Coburg, monicker che deriva dal cognome della splendida cantante e modella Anastasia, alla guida di questa symphonic rock band londinese.

The Enchantress è il loro debutto, licenziato dalla Evolve Or Die Records, un lavoro che sa tanto di rock, moderno e gotico, che non punta solo sull’aspetto della sua musa ma si avvale di una raccolta di brani melodici ed accattivanti, sinfonici il giusto per attirare gli amanti del gothic/dark da club.
La Coburg oltre a cantare suona chitarra e tastiere, segno che non siamo di fronte alla sola bellezza ma ad un’artista e musicista che sa il fatto suo, ed interpreta le moderne trame dark rock di The Enchantress con la giusta dose di fatale teatralità.
Quasi un’ora di musica nel corso della quale raffinata eleganza gotica, dark rock e mai invadenti sinfonie fanno da colonna sonora alla voce della singer, ottima interprete di brani a tratti suadenti, altri pregni di un’urgenza elettrica, altri che si muovono tra le note sinfoniche ed orchestrazioni che ricamano melodie melanconiche in brani come Echoes In The Night, The Hall Of Ghosts, la splendida Requiem, dalle accentuate ispirazioni new wave, o Till The Bitter End, dall”oscura atmosfera romantica.
Un album piacevole e senz’altro riuscito, una sorpresa per gli amanti del genere che sapranno cogliere la bellezza dei brani che compongono The Enchantress a prescindere dalla splendida dea al microfono.
Quando la bellezza va di pari passo con la bravura: il debutto dei Coburg ne è un esempio lampante.

Tracklist
1.A Cold Day In Hell
2.Echoes In The Night
3.The Hall Of Ghosts
4.Into The Darkness
5.Requiem
6.The Enchantress
7.Thy Dagger
8.Till The Bitter End
9.Warrior’s Blood
10.Rise

Line-up
Anastasia Coburg – Lead Vocals, Lead Guitar & Synths
Dean Baker – Synths & Backing Vocals
Mark Spencer – Bass Guitar & Backing Vocals
Sarah Sanford – Rhythm Guitar & Backing Vocals
Pietro Coburg – Drums & Backing Vocals

COBURG – Facebook

Grog – Man Of Low Moral Fiber

Le emozioni non mancano in questo disco strumentale partorito da due menti musicalmente bulimiche, che abbracciano una moltitudine di situazioni e di gusti musicali.

I Grog sono un duo di Reggio Calabria al loro secondo ep per la netlabel Musichette Records.

Il loro suono è una jam di math e noise rock, un gioioso effluvio di note e di progressione musicale. Le emozioni non mancano in questo disco strumentale partorito da due menti musicalmente bulimiche, che abbracciano una moltitudine di situazioni e di gusti musicali. Non ci si annoia mai in giro fra questi suoni, tra momenti alla Don Caballero ed aperture ambient molto belle, tra il noise più graffiante e la psichedelia più sfrenata. Il disco dovrebbe essere visto ma soprattutto ascoltato come un continuo musical-temporale, infatti qui le divisioni e i titoli servono a ben poco, di fronte ad un fiume lavico di note. Il suono dei Grog non è potentissimo o distorto, ma pieno di idee e di invenzioni musicali. Si passa attraverso molti specchi tenendo ben ferme le coordinate musicali zappiane, ovvero non avere coordinate ma spaziare il più possibile. In questo contesto la musica è molto soggettiva, nel senso che questi suoni fanno scaturire in ognuno di noi qualcosa di diverso. Grande è stata la lezione per i Grog da parte di gruppi come gli Zu o altri compari della nouvelle vague rumorosa italiana, quel suonare senza limiti dando una visione distorta della distorta realtà. Ci sono dischi come questo che sono totalmente alieni al concetto di commerciale o alternativo, sono momenti musicali alti e stimolanti, assolutamente alieni rispetto alla musica normale. Ritmo, deviazioni, accelerazioni e miliardi di accordi, con uno stile compositivo molto vicino all’improvvisazione jazz, porta della libertà totale. In definitiva questo è letteralmente un disco di drum and bass.

Tracklist
1. The great Jeeg in the sky
2. Got Ham
3. Give more water, please everybody
4. L.A. Crime

Line-up
Luigi Malara – basso, glockenspiel, clavietta, tastiere
Filippo Buglisi – batteria, tastiere

GROG – Facebook

Town Tundra – Misanthropy Never Fails

Il gruppo russo ci travolge con Misanthropy Never Fails, album composto da dieci brani che con sagacia riesce a far convivere modern metal e melodic death , con un piede negli Stati Uniti e l’altro in Svezia.

Quando nella prima metà degli anni novanta le storiche band scandinave uscirono con i primi lavori che portavano un fresco sentore melodico in un genere estremo come il death metal, il mondo metal fu attraversato da un’euforia meritata per questi pionieri che, coraggiosamente, sfidavano i fans duri e puri inserendo parti classiche, progressive e melodiche, partendo dall’uso della voce pulita che andava ad affiancare il brutale scream/growl in uso nel genere.

Come tutti i generi anche il melodic death metal, dopo un periodo florido, finì con il tornare nell’underground estremo, a parte quella manciata di band che ancora oggi fanno parlare, alcune con ancora molte cose da dire, altre ormai perse nel loro cercare il successo a tutti i costi mascherandolo per processo evolutivo (chi ha detto In Flames?).
Ovviamente come la storia musicale insegna, scavando nel sottobosco musicale senza fermarsi ai soliti nomi, ci si può ancora imbattere in ottimi lavori come il nuovo dei Town Tundra, gruppo proveniente dalla madre Russia, al secondo full length (il primo, Telegonia è targato 2014) e con un terzetto di ep a completare la discografia incentrata su un death metal melodico, dalle sfumature moderne, ma con uno sguardo alla tradizione nord europea.
Freschi di firma con la nostrana Wormholedeath, che di ottime realtà nel metal estremo se ne intende, il gruppo russo ci travolge con Misanthropy Never Fails, album composto da dieci brani che con sagacia riesce a far convivere modern metal e melodic death , con un piede negli Stati Uniti e l’altro in Svezia, paesi lontanissimi sul mappamondo ma non se si parla di musica.
E di musica i Town Tundra ne fanno uscire tanta dagli altoparlanti, furiosa, devastante e melodica, ottimamente prodotta e dal grande appeal, ispirata dai Soilwork (la band storica da cui i musicisti russi hanno attinto di più) e dai gruppi più cool che si spintonano per un posto al sole dall’altra parte dell’oceano.
Chiaramente. se si parla di sound americanizzato non si può non nominare gli In Flames, che fanno capolino quando le note di Senseless And Merciless, Jack Of Spades o della splendida Hell Bleeds With Oil si fanno ipermelodiche e i chorus in clean guardano più al metalcore da classifica che al death metal.
Non fraintendetemi però, perché l’album spacca che è un piacere, e la furia estrema è presente tra le trame di episodi come la title track o The Last Rome, mentre i giochi si fanno duri e l’alternanza tra melodia e violenza si fa ancora più accentuata.
In conclusione si può certamente affermare che Misanthropy Never Fails sia un lavoro riuscito, rappresentando una gradita sorpresa per gli amanti del genere, intrattenuti non dai soliti nomi ma da anche ottimi outsider.

Tracklist
01. Anti-Psalm .21
02. Senseless and Merciless
03. Wit From Woe
04. Jack Of Spades (Fuck & Chic)
05. Misanthropy Never Fails
06. Ill Itch (Sick Of Revolutions)
07. Wolves Of Shame
08. The Last Rome
09. Hell Bleeds With Oil
10. Humiliating And Insulting

Line-up
Vladimir Alekseenko (Warren Crow) – vocals
Aleksei Lavrentev (J.G.K.) – guitars
Ilya Dyuzhin (William) – drums
Anton Bagrov (Anthony Crimson) – bass
Aleksei Firsov (Alexis Fiersen) – guitars

TOWN TUNDRA – Facebook

Infest – Addicted To Flesh

Il genere è questo, prendere o lasciare, e gli Infest lo suonano con un attitudine ed un impatto che rende loro merito.

Si torna sul campo di battaglia a respirare l’odore di morte e putrefazione lasciato dai cadaveri, pupazzi senza vita travolti da Vandal, Tyrant, Zombie, e dal nuovo arrivato Warlust, componenti di un’arma metallica micidiale proveniente dalla Serbia, chiamata Infest.

Avevamo avuto a che fare con il quartetto in occasione del precedente lavoro, il devastante Cold Blood War licenziato dal gruppo di Jagodina tre anni fa, e Addicted To Flesh, quinto mostruoso attacco sul fronte del death/thrash tra Vader e classico Slayer Sound, continua il massacro con la sua mezz’ora che spazza via qualsiasi cosa sulle note estreme cariche di odio di Hail The Mother War, Deathrash Legion 666 e l’allucinante Stigmatized, un bombardamento a tappeto che Zombie alle pelli enfatizza senza soluzione di continuità.
Un trio di ospiti rallegra la compagnia (Adrie dei Sinister, Honza degli Avenger e Thebon dei Keep Of Kalessin), mentre i corvi fanno la loro comparsa sul campo di battaglia, nelle strade ed i mezzo ai resti delle case sventrate dalla micidiale forza d’urto creata da Addicted To Flesh.
Il genere è questo, prendere o lasciare, e gli Infest lo suonano con un attitudine ed un impatto che rende loro merito.

Tracklist
1. Intro
2. Hail The Mother War
3. Deathrash Legion 666
4. Addicted To Flesh
5. I Bring You War
6. Nailed To Your Spine
7. Stigmatized
8. The Blind One Leads The Way
9. The Awakening Failed

Line-up

Vandal – rhythm guitars and vocals
Zombie – drums
Vrag – bass)
Tyrrant – lead guitars

INFEST – Facebook

Sombre Croisade – Balancier des Âmes

I Sombre Croisade difficilmente vedranno mutare il loro status di band di nicchia, ma sono anch’essi annoverabili tra i molti interpreti di un’ortodossia stilistica non sempre foriera di esiti indimenticabili ma che, nella maggioranza dei casi, garantisce la fruizione di lavori ugualmente interessanti.

Ancora dalla fertile scena black metal francese ecco giungere il secondo full length dei Sombre Croisade, duo provenzale formato da Malsain (chitarra e batteria) e Alrinack (voce e basso), musicisti attivi anche in diverse altre band.

Balancier des Âmes non è caratterizzato da spinte sperimentali, come sovente accade a chi approccia il genere in terra d’oltralpe, ma offre uno spaccato abbastanza fedele della materia, con un substrato malinconico che funge da linea guida per un andamento ritmico lineare e di buono spessore, anche se complessivamente privo di sussulti particolari.
Tra i sei lunghi brani offerti, la cui matrice appare fedele ai dettami scandinavi, vanno citati i due episodi centrali (Don Ténébreux e Midiane), che si rivelano leggermente più intensi rispetto alla media, con il primo che si ammanta di una certa tensione dopo un’introduzione acustica, mentre il secondo spicca grazie ad una linea melodica molto bella e relativamente memorizzabile.
I Sombre Croisade difficilmente vedranno mutare il loro status di band di nicchia, ma sono anch’essi annoverabili tra i molti interpreti di un’ortodossia stilistica non sempre foriera di esiti indimenticabili ma che, nella maggioranza dei casi, garantisce la fruizione di lavori ugualmente interessanti e tutt’altro che spiacevoli, come è appunto il caso di Balancier des Âmes.

Tracklist:
1. Renaissance
2. Balancier des âmes
3. Don ténébreux
4. Midiane
5. Voeux illusoires
6. Souffles d’ailleurs

Line-up:
Malsain – Guitars, Drums
Alrinack – Vocals, Bass

SOMBRE CROISADE – Facebook

The Fright – Canto V

Canto V è un disco che non riesce smuovere l’ascoltatore a livello emotivo, risultando perfetto ad un livello superficiale ma rivelandosi, alla lunga, privo della necessaria profondità.

Recentemente ho avuto modo di parlare di ottimi dischi catalogabili in quel settore, in verità abbastanza sfaccettato, definibile post punk / dark wave, prima grazie all’interpretazione più eterea e, a tratti, intimista dei Soror Dolorosa e, successivamente, con il robusto e goticheggiante incedere dei magnifici Grave Pleasures.

Tocca oggi ai tedeschi The Fright mettersi alla prova in tale ambito con Canto V, che richiama nel titolo sia un’ispirazione lirica dantesca sia la progressione numerica di quello che, infatti, è il loro quinto full length.
Qui l’orientamento è sì verso sonorità dark ma ampiamente contaminate da un’anima hard rock, tanto che il più delle volte la proporzione tra gli ingredienti base appare tranquillamente invertita.
L’opener Bonfire rimanda in maniera evidente ai The Cult e come partenza non sarebbe affatto male, visto che il brano si imprime nella memoria in maniera abbastanza convincente: da lì in poi però si susseguono tracce che si muovono in maniera ondivaga tra Him, Sentenced e The 69 Eyes, con ampie aperture melodiche ed un’orecchiabilità che troppe volte sconfina in un’insostenibile leggerezza, senza che i The Fright possiedano a sufficienza la sensualità dei primi, il background metal dei secondi e l’indole gotica dei terzi, e la stessa Oblivion è una potenziale hit che però sembra provenire dalla discografia più recente della band di Jirky, coincidente appunto con una fase che ha visto prevalere la forma sulla sostanza.
Il risultato che ne consegue è un disco che non riesce smuovere l’ascoltatore a livello emotivo, risultando perfetto ad un livello superficiale ma rivelandosi, alla lunga, privo della necessaria profondità.
Del resto non può essere neppure un caso il fatto stesso che il brano più convincente, alla fine, sia In Sicherheit, cover della punk band tedesca Fliehende Stürme, alla quale anche l’utilizzo della lingua madre dona quell’aura decadente che purtroppo latita nel resto del lavoro.
Nonostante Canto V sia fondamentalmente indirizzato ai fruitori abituali di musica dark, ritengo che invece possa trovare maggiori favori in chi, amando l’hard rock, potrà goderne una versione dai toni più cupi: detto ciò, il nuovo lavoro dei The Fright non può essere definito brutto, ma chi predilige nella musica un’oscurità tangibile e non patinata, ricercando un rapporto di empatia emotiva con i musicisti, finirà per rivolgersi altrove.

Tracklist:
1. Bonfire
2. No One
3. Wander Alone
4. Love Is Gone
5. Fade Away
6. Oblivion
7. Leave
8. Drowned In Red
9. Century Without A Name
10. In Sicherheit

Line-up:
Lon Fright – Vocals
Kain – Bass
Kane – Guitar
Danny – Guitar
Luke Seven – Drums

THE FRIGHT – Facebook

Venenum – Trance of Death

Esordio che lascia a bocca aperta: la capacità esecutiva e compositiva della band tedesca sigla un’opera dove il death si contamina e si muta in un caleidoscopico mondo intenso, maestoso e ricco di emozioni.

Si sono presi tutto il tempo necessario, i Venenum, per esordire sulla lunga distanza: dopo un EP, uscito solo su cassetta nel 2011, hanno lavorato sul loro suono e ora, per Sepulchral Voice, presentano Trance of Death, cinquanta minuti di death di altissimo livello nel suo intreccio di note old school con aromi psichedelici, trash e progressive.

Il tempo sarà galantuomo, spero, perchè il full length è veramente di gran classe, ricco di idee, di suoni stratificati, intrecciati con una classe compositiva di primo livello. I musicisti sanno quello che vogliono, hanno la mente aperta a svariate contaminazioni, non si abbandonano a funambolismi o a inutili tecnicismi ma sono concentrati nello sviluppare un distillato di death oscuro, aggressivo amalgamandolo con mille idee sempre coese con lo sviluppo del brano, per un risultato intenso e maestoso. Fanno parte della stessa famiglia di band come Execration, Obliteration, Tribulation, tutte entità che non si accontentano di proporre il lato brutale del suono della morte ma lo aprono a mutazioni e contaminazioni. Il suono si mantiene potente, aggressivo, ottimamente condotto da una coppia di chitarre che si muovono impazzite ricercando linee melodiche cariche di oscuri presagi (Merging Nebular Drapes), mentre il growl deciso accompagna noi ascoltatori in un mondo grigio e desolato. Due brani come The Nature of the Ground e Cold Threat, al di là dell’impatto terremotante con un drumming preciso, vario e potente, contengono tanti cambi di atmosfera sia nelle parti veloci che lente, che hanno bisogno di tempo per essere completamente apprezzati. L’apoteosi e la totale sublimazione della loro arte è nella title track divisa in tre parti, per ventisei minuti caleidoscopici dove la band ci regala una interpretazione epica, maestosa, densa: la prima parte, Reflections, è disumana nella sua potenza, le linee melodiche toccano lidi voivodiani creando suoni ultraterreni. La seconda parte, Metanoia Journey, si abbandona a una vena maggiormente progressive ammorbidendo i toni ma non l’inventiva; intriganti suoni di tastier aggiungono ulteriore sapore alla tavolozza dei colori. L’inizio lento ma carico di tensione della terza parte, There are other worlds, è ingannevole perché il gruppo scatena la propria forza inerpicandosi su strade acide e psichedeliche, forgiando atmosfere dilanianti sempre colme di inventiva in cui le chitarre si rincorrono, si attorcigliano sempre in cerca di… other worlds. Un esordio che lascia a bocca aperta !!!

Tracklist
1. Entrance
2. Merging Nebular Drapes
3. The Nature of the Ground
4. Cold Threat
5. Trance of Death, Part I – Reflections
6. Trance of Death, Part II – Metanola Journey
7. Trance of Death, Part III – There Are Other Worlds…

Line-up
H.L. Songwriting (tracks 2, 3, 5)
F.J.L. Drums
P.T. Guitars
F.S.A. Vocals, Bass
D.P. Guitars, Keyboards

VENENUM – Facebook

Howls of Ebb / Khthoniik Cerviiks – With Gangrene Edges ​/​ Voiidwarp

Musica che risulta estrema anche per chi non disdegna abitualmente l’ascolto di generi come il death o il black metal: cacofonica, difficile, blasfema, violenta ma affascinante.

Uno split album che ci presenta due mostruose realtà: il duo statunitense Howls Of Ebb e i death/black metallers tedeschi Khthoniik Cerviiks, alle prese rispettivamente con tre e cinque brani.

With Gangrene Edges e Voiidwarp, così si intitolano le due sezioni dell’opera, insieme formano un occulto e cacofonico inno al male oscuro e senza compromessi, con il duo statunitense che invita ad un rito estremo, un morboso e allucinante esempio di musica malvagia.
Attivi dal 2012, gli  Howls Of Ebb hanno consegnato ai loro seguaci due full length ed un ep, prima di questa alleanza blasfema con la band tedesca, tornando con queste tre visioni di morte e demoni, mostri creati da visionari sacerdoti che racchiudono il tutto in un sound claustrofobico e fuori dagli schemi.
Più in linea con il black/thrash dai rimandi al death metal primigenio è, invece, la proposta dei Khthoniik Cerviiks, una spirale di morte e dolore imprigionata in un sound feroce, violento e diabolico.
Puro male in musica che ha il suo epicentro nei tredici minuti della destabilizzante Spiiral Spiire Stiigmata, suite infernale che racchiude Mercury Deluge e con l’altra lunga Come To The Subeth forma il fulcro malefico della proposta dell’ apocalittico trio.
Musica che risulta estrema anche per chi non disdegna abitualmente l’ascolto di generi come il death o il black metal: cacofonica, difficile, blasfema, violenta ma affascinante.

Tracklist
HOWLS OF EBB – With Gangrene Edges
1. Babel’s Catechism
2. With Gangrene Edges…
3. Bellowed

KHTHONIIK CERVIIKS – Voiidwarp
4. Ketoniik Katechesiis (KC Exhalement 3.0)
5. Spiiral Spiire Stiigmata (including Mercury Deluge)
6. Traumantra
7. Come to the Subeth
8. Paralaxiis (KC Inhalement 3.0)

Line-up
HOWLS OF EBB
RoTn’kbLisK – Drums
zELeVthaND – Vocals, Guitars

KHTHONIIK CERVIIKS
Okkhulus Siirs – Bass, Vocals
Ohourobohortiik Ssphäross – Drums
Khraâl Vri*ïl – Guitars, Vocals

KHTHONIIK CERVIIKS – Facebook

Descrizione Breve

Profetus – Coronation of the Black Sun/Saturnine

Coronation of the Black Sun in questa nuova veste diventa appetibile anche per chi già ne conosce il funesto contenuto, grazie all’allargamento della tracklist ai brani che facevano parte di Saturnine, demo d’esordio dei Profetus.

L’attiva label giapponese Weird Truth, specializzata nelle forme più catacombali del doom, con un roster che comprende tra gli altri Ataraxie, Mournful Congregation e Worship, immette sul mercato questa eccellente riedizione di una delle migliori espressioni del funeral doom fnlandese più recente, ovvero Coronation of the Black Sun, primo full length dei Profetus, pubblicato originariamente nel 2009.

La band di Tampere, che ha all’attivo anche un altro album si lunga distanza, l’ottimo …to Open the Passages in Dusk, fin da subito è apparsa l’ideale trait d’union tra le due seminali band del funeral, non solo in ambito finnico, Thergothon e Skepticism, prendendo l’abissale e depressivo incedere dei primi e le solenni atmosfere punteggiate dall’organo dei secondi.
Pur essendo un lavoro da consigliare a chi volesse far propria una selezione ristretta di una ventina di dischi funeral, ai fini di una full immersion in un genere fino a quel momento sconosciuto, Coronation of the Black Sun in questa nuova veste diventa appetibile anche per chi già ne conosce il funesto contenuto, grazie all’allargamento della tracklist ai brani che facevano parte del demo Saturnine, risalente al 2007 ed edito all’epoca solo in cassetta (il che equivale di fatto alla sua attuale irreperibilità).
Tutto ciò non riveste esclusivamente un valore storico, visto che i due brani aggiunti, Skull Of Silence e Winter Solstice, sono perfettamente allineati per caratteristiche e qualità alle altre tre litanie funebri costituite da The Eye of Phosphorus, Coalescence of Ashen Wings e il capolavoro Blood of Saturn, riproposto in coda alla tracklist anche in versione live, in occasione di un concerto tenuto dai Profetus a Kuopio.
In particolare, Winter Solstice appare davvero come una perla che sarebbe stato delittuoso non riportare alla luce, trattandosi di un brano di struggente e terribile bellezza che rappresenta, fondamentalmente, la quintessenza del funeral doom, con le sue atmosfere soffocanti e allo stesso tempo commoventi.
Spesso la riedizione di album relativamente recenti si rivela poco incisiva se non superflua, ma non è certo questo il caso, proprio perché, al di là del valore intrinseco del lavoro in questione, sono proprio i contenuti aggiuntivi a fare la differenza, rendendo la scelta della Weird Truth meritevole di un plauso incondizionato.

Tracklist:
1. Skull of Silence
2. The Eye of Phosphorus
3. Coalescence of  Ashen Wings
4. Blood of Saturn
5. Saturnine Night
6. Winter Solstice
7. Blood of Saturn (Kuopio live)

Line-up:
V. Kujansuu – Drums
Eppe Kuismin – Guitars
A. Mäkinen – Guitars, Vocals
S. Kujansuu – Keyboards

PROFETUS – Facebook

ENRICO SARZI

Il lyric video di “Drive Through”, dall’album omonimo in uscita a novembre (Street Symphonies Records).

Il lyric video di “Drive Through”, dall’album omonimo in uscita a novembre (Street Symphonies Records).

5 Star Grave – The Red Room

The Red Room è assolutamente da non perdere: travolgente, personale ed irriverente risulterà una vera bomba per chi ama i generi che vanno a creare questa miscela pericolosamente esplosiva.

A tratti irresistibile, il nuovo album dei 5 Star Grave lascia le sicure strade del thrash per inseguire quelle meno ovvie di una riuscita commistione tra thrash, rock ‘n’ roll e punk rock e che, viste le tematiche, potremmo definire horror metal/rock ‘n’ roll.

Licenziato dalla Sliptrick Records, The Red Room è il terzo lavoro di una band che nel 2018 compie dieci anni di attività con l’attuale monicker (precedentemente Ground Zero), avendo all’attivo due full length (Corpse Breed Syndrome e Drugstore Hell) e potendo contare sulla presenza nel ruolo di vocalist di Claudio Ravinale, conosciuto per la sua militanza negli ottimi Disarmonia Mundi.
The Red Room non lascia tregua, è tutto un susseguirsi di riff travolgenti che sanno di hard rock, si trasformano in veloci cavalcate thrash ma non perdono assolutamente quell’irriverenza punk rock (o rock ‘n’ roll se preferite) che ne determinano la riuscita ed il travolgente appeal.
Non c’è scampo, le natiche cominciano a vibrare, la testa a prendere di mira il muro per poi rompersi tra la polvere dell’intonaco, mentre l’opener Hic Sunt The Motherfuckers risveglia dal lungo letargo mostri, vampiri e zombie e l’unica nostra alternativa è scappare per non finire in mano alle truppe della notte.
Once Upon A Time fa venire voglia di dimenarsi sopra una tomba mentre Alice esce dalla cripta e ci invita alla danza sfrenata guardando negli occhi del mostro.
Hell On Heels sembra mollare leggermente il tiro con il suo acustico ricamo, ma è un attimo perché il brano si trasforma in un mid tempo che richiama, in un unico brano, The Cult, Misfits e AC/DC.
For Better Or Worse è una deflagrazione thrash/punk e There Is No Heaven, con la sua atmosfera dark, rompe l’incantesimo ed invita tutti a tornare nelle proprie cripte, catacombe e casse brulicanti di vermi.
The Red Room è assolutamente da non perdere: travolgente, personale ed irriverente risulterà una vera bomba per chi ama i generi che vanno a creare questa miscela pericolosamente esplosiva.

Tracklist
1.Hic Sunt The Motherfuckers
2.Eat You Alive
3.Once Upon A Time
4.The Ballad Of The Vampire
5.Alice
6.Through The Eyes Of The Monster
7.He Never Died
8.Hell On Heels
9.For Better Or Worse
10.There Is No Heaven

Line-up
Claudio Ravinale – vocals
Andrea Minolfi – bass, vocals
Thierry Bertone – guitars
Alessandro Blengino – guitars
Hervè De Zulian – synth
Domenico Fazzar – drums

URL Facebook
https://www.facebook.com/5SGOfficial

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