Perished – Kark

Atmosferici, ma senza spingersi fino ad un approccio sinfonico, e aspri, ma senza scadere in soluzioni monocordi, i Perished proponevano in maniera esemplare il genere, probabilmente in una forma anche più convincente rispetto a nomi ben più celebrati.

Facciamo un bel passo indietro di circa un ventennio dedicandoci alla ristampa di Kark, primo dei due full length pubblicati dai Perished, band black metal norvegese scioltasi poi nel 2003, dopo la pubblicazione di Seid.

L’attiva etichetta italiana ATMF rimette in circolazione questo lavoro in formato digitale ed in CD (dopo che due anni fa la Darkness Shall Rise si era occupata della riedizione solo come musicassetta) compiendo un’opera di divulgazione e recupero di un album di sicuro valore, passato però in secondo piano all’epoca della sua uscita: comprensibile, se pensiamo che nel 1998a le band di maggior spicco erano reduci da lavori fondamentali come Anthems To The Welkin At Dusk (Emperor), Nemesis Divina (Satyricon) e Enthrone Darkness Triumphant (Dimmu Borgir), con l’attenzione degli appassionati focalizzata essenzialmente su una manciata di nomi di simile levatura.
I Perished proponevano però con grande competenza e buoni esiti un black metal che, tutto sommato, finiva per risultare una via di mezzo tra gli stili delle band citate, peccando in tal senso in peculiarità ma risultando ben più che gradevole o meritevole di una limitata attenzione.
Atmosferico, ma senza spingersi fino ad un approccio sinfonico, e aspro, ma senza scadere in soluzioni monocordi, il quartetto di Hommelvik proponeva in maniera esemplare il genere, a mio avviso in una forma anche più convincente rispetto a nomi ben più celebrati: probabilmente il trovarsi lontano geograficamente dalle due fucine del black metal come Bergen e Oslo ha continuato a rendere i Perished più marginali di quanto avrebbero dovuto.
Con i suoi validi otto brani originali, tra i quali spicca una magnifica Paa Nattens Vintervinger, più le tre bonus track costituite da altrettante tracce provenienti dal demo Through the Black Mist del 1994 (A Landscape Of Flames, quando i nostri si esprimevano ancora in inglese) e dall’ep autointitolato del 1996 (Kald Som Aldri Foer e Gjennom Skjaerende Lys), Kark risulta un lavoro che merita d’essere quantomeno riscoperto, rappresentando una nitida fotografia di quello che nel secolo scorso era il valore delle band cosiddette di retrovia del black metal norvegese.

Tracklist:
1.Introduksjon
2.Imens Vi Venter…
3.Stier Til Visdoms Krefter
4.Paa Nattens Vintervinger
5.Iskalde Stroemmer
6.Og Spjuta Fauk
7.Befri De Trolske Toner
8.Renheten Og Gjenkomsten
9.A Landscape Of Flames
10. Kald Som Aldri Foer
11.Gjennom Skjaerende Lys

Line-up:
Bruthor – Bass
Jehmod – Drums
Ymon – Guitars
Bahtyr – Vocals

Jack Starr’s Burning Starr – Stand Your Ground

Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Colpaccio della High Roller che licenzia in questa torrida estate Stand Your Ground,  uno degli album heavy metal dell’anno firmato da Jack Starr, ex chitarrista dei Virgin Steele.

Opera maestosa, il settimo sigillo del musicista americano si presenta con un artwork classicamente epico disegnato da Ken (Rainbow, Kiss, Manowar), prodotto da Bart Gabriel, con Kevin Burnes (Dokken, Raven) al mix e Patrick W.Engel al master.
Lo storico chitarrista americano affiancato da un’altra icona del metal classico statunitense, l’ex Manowar Rhino alle pelli e con due assi come il singer Todd Michael Hall ed il bassista Ned Meloni, sforna un album spettacolare che per più di un’ora immerge nelle atmosfere epiche, guerresche e gloriose tipiche del metal nato nel nuovo continente, spogliato da inutili orpelli power e rivestito di armature d’acciaio.
Un apoteosi di riff e solos forgiati da fabbri nel cuore di montagne dimenticate dal tempo, una serie di chorus da cantare al cielo rosso del sangue degli dei, in un delirio metallico chiamato Stand Your Ground, questo ci regalano i Jack Starr’s Burning Starr e questo vorremmo sentire sempre, almeno quando ci avviciniamo da un album heavy epic metal.
Todd Michael Hall è protagonista di una performance straordinaria, trattandosi di un singer dotato di una voce metal fuori dal comune e perfetto narratore delle storie leggendarie e delle epiche avventure che il gruppo mette in musica fin  dall’opener Secrets We Hide, passando per l’epica cavalcata che dà titolo all’opera, brano di una bellezza commovente per intensità, talento melodico e cori che spaccano il cielo per arrivare direttamente agli dei.
Ariosa e dal piglio hard rock è Destiny, dal refrain irresistibile e dal chorus che entra in testa al primo passaggio, mentre arriviamo al brano numero sette prima di riposarci da giorni di battaglia, con la super ballad Worlds Apart che ci accompagna all’accampamento, luccicante delle fiamme dei falò che rischiarano la notte.
L’inizio maideniano di Escape From the Night arriva giusto per non perdere l’altro picco di questo splendido lavoro, We Are One, un crescendo di epica e fiera musica metal che esplode nelle due guerresche tracce (Stronger Than Steel e False Gods) che fanno da preludio alla conclusiva semi ballad To The Ends, intensa, drammatica ed epica conclusione di questo straordinario lavoro.
Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Tracklist
1. Secrets We Hide
2. The Enemy
3. Stand Your Ground
4. Hero
5. Destiny
6. The Sky Is Falling
7. Worlds Apart
8. Escape From The Night
9. We Are One
10. Stronger Than Steel
11. False Gods
12. To The Ends

Line-up
Todd Michael Hall – lead and backing vocals
Jack Starr – guitars
Ned Meloni – bass guitar
Kenny “Rhino” Earl – drums

Kevin Burnes – additional rhythm, harmony and acoustic guitars

JACK STARR’S BURNING STARR

https://www.youtube.com/watch?v=fwbmQN5YHs8

Bug – O’Brien Shape

Il ponte che unisce la musica rock degli anni settanta, attraversa il decennio successivo e tocca territori novantiani, è ben saldo nella musica dei Bug, autori di un lavoro che lascia presagire ottime potenzialità oltre ad un’originalità di idee che spaziano dal progressive all’alternative.

Si continua ad incontrare ottima musica rock alternativa nella scena underground dello stivale, magari poco seguita o molte volte del tutto ignorata dagli ascoltatori ma indubbiamente foriera di opere di valore.

Noi che di musica underground scritta ne abbiamo fatto una missione, cerchiamo di farvi partecipi dei movimenti musicali che si muovono nel sottobosco italiano ed internazionale, stupendoci ogni volta dell’alta qualità della musica rock creata specialmente sul nostro territorio.
Uscito da un po’ ma arrivato a MetalEyes IYE solo ora, vi presentiamo il primo lavoro dei Bug, quintetto lombardo nato tre anni dalle menti di Jacopo Rossi (chitarra) e Patrick Pilastro (batteria), raggiunti in seguito da Andrea Boccaruso (chitarra, voce), Giorgio Delodovici (voce) e Mattia Gadda (basso).
O’Brien Shape è il loro primo album in versione ep, sei brani per mezzora circa attraversati da umori che vanno dal grunge di Seattle al rock degli anni settanta, per tornare poi all’alternative in una congiunzione di suoni più vicini di quello che molti possano credere.
Quindi il ponte che che unisce la musica rock degli anni settanta, attraversa il decennio successivo e tocca territori novantiani, è ben saldo nella musica dei Bug, autori di un lavoro che lascia presagire ottime potenzialità oltre ad un’originalità di idee che porta a brani come The Tide e O’Brien Shape, tra Pearl Jam e Pink Floyd, mentre gli Alice In Chains dopo la cura Bug passano dall’essere la band più metal della scena grunge (specialmente nei primi due lavori) ad una camaleontica realtà progressiva.
Twice sposta le turbolenze progressive sui Pearl Jam, mentre le ritmiche si muovono tra il funky ed il crossover tipico di metà anni novanta.
Il suono è perfetto, l’album è curato nei minimi dettagli e il gruppo dimostra di saperci fare sia con il songwriting che con i ferri del mestiere, motivo in più per fermarvi, voltarvi all’indietro e cercare O’Brien Shape, non ve ne pentirete.

Tracklist
1.March of the Worms
2.The Tide
3.Chain Stemmed
4.O’ Brien Shape
5.Twice
6.This Flood

Line-up
Patrick Pilastro – Drums
Giorgio Delodovici – Vocals
Jacopo Rossi – Guitars
Andrea Boccarusso – Guitars, Vocals
Mattia Gadda – Bass

BUG – Facebook

Cities Of Mars – Temporal Rifts

Il disco è una summa di come si può fare musica di generi che non brillano per originalità e trovare una propria personalissima via, facendo musica pesante in maniera fantastica.

I Cities Of Mars possiedono un’andatura doom stoner sludge molto superiore rispetto ai gruppi nella media dei generi, e sono venuti dalla Svezia per accompagnarci nel lungo viaggio verso l’inferno.

Il gruppo nasce dall’incontro tra i tre componenti Danne Palm, Christoffer Norén e Johan Küchler, ed insieme arrivano a questo debutto su Argonauta Records. Il disco è una summa di come si può fare musica di generi che non brillano per originalità e trovare una propria personalissima via, facendo musica pesante in maniera fantastica. Come riferimenti possono essere nominati gli Sleep per una certa attitudine sonora, i Mastodon per la voce soprattutto, si sentono ovviamente risuonare i divini Neurosis ma poi tutta la farina è del sacco dei Cities Of Mars. Inoltre questo concept album è un ulteriore capitolo della storia dell’astronauta russa Nadia, partita per una missione segreta su Marte nel 1971, e sparita dopo aver scoperto che Marte è abitato da ere molto antiche, anteriori all’uomo. Nel dipanarsi di questa fiction i Cities Of Mars compongono un’alchimia sonora di grande effetto, sempre con un substrato doom soprattutto nella cadenza, e poi inseriscono mille risvolti diversi, senza molti assoli, orientando la melodia in molte direzioni diverse, riuscendo sempre a non passare per la stessa strada già battuta. L’orecchio esperto nel genere subito non sentirà particolare emozione, ma in poco tempo verrà invece conquistato dal suono di questi svedesi, composto da molte soluzioni diverse, tutte interessanti. Temporal Rifts è un distillato sonoro del meglio della musica pesante fatta con cuore, stomaco e cervello e alza di molto l’asticella per i gruppi e i dischi che seguiranno in questi ultimi mesi del 2017. La formula sonora dei Cities Of Mars è tutta da sentire e garantirà parecchi ascolti, grazie ai mille giri che compie questo distillato musicale negli alambicchi del suono.

Tracklist
1. Doors of Dark Matter Pt 1: Barriers
2. Envoy of Murder
3. Gula, a Bitter Embrace
4. Children Of The Red Sea
5. Caverns Alive!

Line-up
Danne Palm, bass & vox
Christoffer Norén, guitar & vox
Johan Küchler, drums & vox

CITIES OF MARS – Facebook

https://youtu.be/wRIVKceqGPc.

Sparzanza – Announcing The End

Difficile immaginare se questa svolta possa rivelarsi un male o un bene per gli Sparzanza, che sicuramente hanno ha optato per un approccio molto più melodico che in passato, caratteristica che si evince fin dalle prime battute dell’album.

Degli Sparzanza ricordavo la forte componente groove e la furia panteriana incanalata in un sound debitore della scena hard rock statunitense a cavallo tra gli ultimi anni del secolo scorso e questo inizio del nuovo millennio.

D’altronde la storia parla del 1996 come inizio delle attività del gruppo di Karlstad e un esordio discografico targato 2001 (Angels Of Vengeance), una lunga strada che l’ha ha portato fino ai nostri giorni e all’uscita di Announcing The End, nono lavoro di una carriera senza interruzioni ma perennemente nel limbo dell’underground.
La Despotz Records licenzia dunque questa raccolta di brani che fanno del quintetto una nuova hard rock band dalle facili melodie, magari ancora vivacizzate da una leggera componente metal, ma sicuramente più vicina al post grunge che al groove metal dei precedenti lavori.
Difficile immaginare se questa svolta possa rivelarsi un male o un bene per la band, che sicuramente ha optato per un approccio molto più melodico che in passato, caratteristica che si evince fin dalle prime battute dell’album.
Lasciato indietro il groove metal, gli Sparzanza del 2017 puntano il mirino sugli Stati Uniti, da sempre patria musicale del gruppo e brani come Whatever Come May Be o Breathe In The Fire provano a centrare il bersaglio del rock mainstream, in parte riuscendoci.
Chiaramente il meglio arriva dalle tracce in cui il gruppo si ricorda delle sue prime influenze, ed è così che escono potenti canzoni hard & heavy come Damnation e The Dark Appeal.
Quando decidono di andarci giù pesante gli Sparzanza sono una garanzia, tra Pantera, Metallica periodo Black Album, mentre l’anima melodica più evidente in questo lavoro prende spunto dal post grunge, magari non melenso come quello da classifica ma pur sempre pregno di facili melodie radiofoniche.
Una sterzata decisa per provare dopo tanti anni a raggiungere gli ascoltatori del rock che sul mercato conta davvero, ma dagli esiti incerti, specialmente per chi proviene da un passato underground.

Tracklist
1. Announcing The End
2. Damnation
3. One Last Breath
4. Whatever Come May Be
5. Vindication
6. The Dark Appeal
7. Breathe In The Fire
8. The Trigger
9. The One
10. We Are Forever
11. Truth Is A Lie

Line-up
Calle Johannesson – Guitar
Anders Åberg – Drums
Johan Carlsson – Bass
Fredrik Weileby – Vocals
Magnus Eronen – Guitar

SPARZANZA – Facebook

Sinister – Gods Of The Abyss

Un reperto storico ad uso e consumo dei fans accaniti dei Sinister, mentre a tutti gli altri va il consiglio di procurarsi il prezioso full length.

Si torna a parlare di storia del death metal sempre per merito della Vic Records, che ci regala una chicca targata Sinister.

Le presentazioni sarebbero inutili per il gruppo estremo olandese, attivo dal 1990 e con una discografia infinita che conta ben tredici full length con l’ultimo, Syncretism, uscito proprio quest’anno.
Ma la label connazionale degli storici deathsters ristampa per i collezionisti questo demo di quattro brani, scritto dopo il temporaneo scioglimento avvenuto nel 2003.
La storia racconta di due terzi del gruppo alla prese con questi brani per dar vita ad una nuova band, i No Face Slave, poi serviti invece per trovare l’accordo con la Nuclear Blast e l’uscita del capolavoro Afterburner, ancora una volta con in evidenza lo storico monicker.
Di fatto i quattro storici brani furono poi inseriti nell’album seguente, dunque i deathsters che sicuramente lo conoscono sapranno benissimo cosa aspettarsi: ritmiche serrate, blast beat a manetta, una violenza esecutiva fuori dai canoni dello stesso gruppo, ma una qualità molto alta, caratteristica non solo del demo ma anche delle altre tracce presenti su Afterburner.
Diciamo che con Afterburner la band orange si conquistò l’immortalità nel panorama estremo, ma è vero che ancora oggi il death metal old school del gruppo continua imperterrito e a discapito degli anni a mietere vittime.
Un reperto storico ad uso e consumo dei fans accaniti dei Sinister, mentre a tutti gli altri va il consiglio di procurarsi il prezioso full length.

Tracklist
1. The Grey Massacre
2. Afterburner
3. Altruistic Suicide
4. Men Down

Line-up
Aad – vocals
Alex – guitars, bass
Paul – drums

SINISTER – Facebook

Steven Wilson – To The Bone

Detto senza alcuna remora, To The Bone è rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti.

Steven Wilson condivide la sorte di quelli che, quando eravamo ragazzini, venivano costantemente elogiati da professori o dagli altri genitori come esempi di dedizione allo studio, educazione ed ulteriori virtù assortite, finendo loro malgrado per risultare antipatici a più di qualcuno.

Del resto il suo stesso aspetto professorale e la nomea di nuovo Re Mida del prog rock fanno sì che la voglia di coglierlo in fallo superi talvolta la speranza di ascoltare buona musica: con questo suo nuovo album solista, intitolato To The Bone, il musicista inglese prova a fornire altri spunti ai suoi abituali detrattori, abbandonando del tutto o quasi ogni ortodossia di stampo progressive per concedersi digressioni verso i generi più disparati, spingendosi in qualche caso persino ad un utilizzo del falsetto degna della disco music dei tempi d’oro.
La mia impressione è che Wilson, dopo aver ammaliato noi appassionati (anche) di metal con il formidabile In Absentia, nella restante produzione con i Porcupine Tree e in altri progetti abbia sempre goduto di una buona stampa che andava ben oltre l’effettivo valore di album ricchi di forma più che di sostanza, sebbene fosse dotato di una classe superiore alla media non sempre sfruttata a dovere per colpire ed emozionare realmente gli ascoltatori; così, con il fucile ben carico e spianato, mi sono immerso nell’ascolto di quest’album che, come da copione quando si parte armati di cattive intenzioni, mi è piaciuto invece molto proprio in virtù della sua varietà e di una certa voglia di osare.
In sede di presentazione dell’album è stato ipotizzato un parallelismo tra Wilson e Peter Gabriel, accomunando l’approccio stilistico del primo in To The Bone alla svolta che fece a suo tempo l’ex vocalist dei Genesis con So: un paragone, questo, che lì per lì può sembrare quasi un delitto di lesa maestà ma che, a ben vedere, ci può stare a livello di attitudine, ferme restando la diversa caratura complessiva dei due musicisti e soprattutto una differente incisività a livello interpretativo; poi, se la splendida Pariah è un po’ la Don’t Give Up gabrieliana, con relativo supporto di una voce femminile e tematiche non del tutto dissimili, Permanating, con il suo incedere danzereccio può equivalere a Sledgehammer, anche se in realtà sembra trovare più le sue radici nei migliori Style Council.
Qui, in fondo, finisce il gioco dei parallelismi e comincia invece la necessità di valutare con onestà l’operato di un musicista che, effettivamente, possiede la capacità innata di creare melodie fruibili, apparentemente leggere ma capici invece di occupare più a lungo del previsto ampi spazi nella memoria di chi ascolta.
Oltre alle canzoni citate, anche la title track, la hogarthiana Refuge, la tenue Blank Tapes, secondo duetto dopo quello di Pariah con un’interprete entusiasmante come Ninet Tayeb (sempre sia lodato Steven per averci fatto scoprire questa meravigliosa cantante israeliana), la progressiva nel senso più autentico del termine Detonation e la conclusiva Song Of Unborn vivono di un’intensa luce propria, perché se è vero che Wilson in più di un frangente può ricordare questa o quella band più in singoli passaggi che per interi brani (per esempio alcuni break vocali in The Same Asylym richiamano gli Yes di 90125), è innegabile che grazie al suo talento il tutto appare ben lontano dall’essere solo un abile lavoro di taglio e cucito.
Forse l’unico momento dell’album nel quale il nostro esce fuori dal seminato è una inoffensiva Song Of I, con il suo pseudo trip hop, mentre il resto è, diciamolo pure senza remore, una rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti (con esclusione forse delle fasce più retrive di progsters che vedevano in Wilson un possibile successore dei grandi del passato).
To The Bone non è un’opera che lascerà segni profondi nella storia della musica ma è un disco brillante e a suo modo onesto, proprio perché Steven Wilson non si nasconde dietro ad un approccio cervellotico o intellettualoide per giustificare (perché mai dovrebbe?) una svolta decisa verso sonorità più dirette ma tutt’altro che di valore trascurabile.

Tracklist:
1.To The Bone
2.Nowhere Now
3.Pariah
4.The Same Asylum As Before
5.Refuge
6.Permanating
7.Blank Tapes
8.People Who Eat Darkness
9.Song Of I
10.Detonation
11.Song Of Unborn

Line up:
Steven Wilson – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Paul Stacey – Guitars
Adam Holzman – Hammond, Piano
Pete Eckford – Percussions
Jeremy Stacey – Drums
Ninet Tayeb – Vocals on 3. 7.
Sophie Hunger – Vocals on 9.
Mark Feltham – Harmonica on 1. 5.

STEVEN WILSON – Facebook

Jordablod – Upon My Cremation Pyre

Un notevole esordio da parte di questa band svedese che ci fa conoscere la propria visione del black metal, tramite un’opera avvincente, complessa e personale.

Un lungo viaggio nel profondo cuore del black metal con un’impronta particolare e personale: l’underground, come al solito, non delude e per la sempre attenta Iron Bonehead esordiscono con il primo full i Jordablod, band proveniente da Malmo nel sud della Svezia.

Non molte notizie sulla band: hanno esordito nel 2015 con un EP, seguito nel 2016 da un demo e ora l’opera prima che evidenzia la grande personalità del terzetto, pronto ora anche ad esibirsi live.
Disco non facile da descrivere, sette brani in cui i musicisti sono animati da un sacro fuoco interpretativo dove la scrittura dei brani ha un ruolo importante; la profonda conoscenza della materia black nordica, sia svedese che norvegese, si aggiunge alla passione di chi ama questo suono.
I brani scritti dal terzetto creano, amalgamando black, death, psichedelia e aromi doom, un viaggio dove l’inventiva la fa da padrona, la capacità della chitarra di creare suoni, melodie in un qualcosa di peculiare, un viaggio lungo circa un’ora che non annoia minamamente, anzi, svela ad ogni ascolto nuovi particolari. L’opera ha veramente bisogno di numerosi ascolti per essere capita e valutata appieno. Brani come Chants for the black one e Of fiery passion con la chitarra che elabora suoni visionari e acidi va al di là della comune idea di black metal, con la sezione ritmica che segue traiettorie varie, le vocals sinistre con il loro scream e, il guitar sound penetrante, vario e incisivo incendiano l’atmosfera occulta e visionaria che permea tutto il lavoro; la band, anche quando rallenta i ritmi, per la verità mai comunque velocissimi, incanta con armonie arcane e traiettorie sonore mai scontate (Hin håle). L’omonimo brano finale deflagra in un black doom oscurissimo dove le blasfeme litanie non possono non portare ad una unica invocazione finale …may my deathly mother dance upon my cremation pyre.
Non ci sono riempitivi e il lavoro fa della complessità la sua forza, attirando numerosi ascolti e lasciando sempre soddisfatta la nostra voglia di arte nera. Una copertina molto particolare aggiunge valore a quest’opera prima, figlia di una visione personale e profonda conoscenza della musica estrema.

Tracklist
1. En Route to the Unknown
2. Liberator of Eden
3. Chants for the Black One
4. Hin håle
5. A Sculptor of the Future
6. Of Fiery Passion
7. Upon My Cremation Pyre

JORDABLOD – Facebook

AVATARIUM

Il lyric video di ‘Medusa Child’, dall’album “Hurricanes And Halos” (Nuclear Blast)

Il lyric video di ‘Medusa Child’, dall’album “Hurricanes And Halos” (Nuclear Blast)

Pulvis Et Umbra – Atmosfear

Atmosfear non si rivela un ascolto facile, perché il sound non si limita mai ad un’unica soluzione: le parti atmosferiche incutono ancora più terrore, mentre le sfuriate estreme alternano veloci e violente parti blackened death metal a più cadenzate ritmiche deathcore.

Tra i meandri estremi nascosti nel nostro paese vivono realtà che si nutrono di ispirazioni tradizionali e moderne, lasciate sfogare in un sound la cui la parola d’ordine è massacro, devastante maligno e senza soluzione di continuità.

Noi italiani, poi, vi aggiungiamo poi quel pò di atmosfere oscure di cui siamo maestri e che rendono le proposte personali in un genere dove la ripetitività è pari alla violenza espressa.
Con i Pulvis Et Umbra, one man band creata dal polistrumentista lombardoDamy Mojitodka che. con questo nuovo lavoro chiamato Atmosfear, giunge al traguardo del terzo full length dopo Reaching The End (2012) ed Implosion Of Pain (2014), ci troviamo al cospetto di un sound che amalgama e alterna death, black e soluzioni moderne dalle tinte horror ed evil, una commistione di atmosfere e sfumature estreme che non lascia scampo.
Aiutato da altri musicisti quasi esclusivamente in sede live, Mojitodka canta e suona tutti gli strumenti, aiutato da Riccardo Grechi per i suoni di batteria e da Lility Caprinae al microfono nella black metal song Crows Belong To Her.
Atmosfear non si rivela un ascolto facile, perché il sound non si limita mai ad un’unica soluzione: le parti atmosferiche incutono ancora più terrore, mentre le sfuriate estreme alternano veloci e violente parti blackened death metal a più cadenzate ritmiche deathcore.
Affiorano melodie nei solos della melodic death metal Darkest Sorrow, ma è solo un attimo prima della caduta nell’abisso con la superba Divinity Or Icon, brano di una fredda malignità che scuote e sconvolge, mentre il demone ci porta via l’anima.
Unica pecca di questo lavoro è la produzione, che a tratti nelle parti più violente tende ad appiattire il suono, mentre la tensione estrema rimane altissima così come la componente oscura.
Hanno del teatrale le sfumature su cui si muove Atmosfear, che infligge l’ultimo mortale colpo con il black/doom della demoniaca Blinded By Thoughts e chiude la porta dell’inferno con l’outro strumentale Predominio Tecnologico.
Un buon lavoro, consigliato agli amanti del metal estremo aperti a più soluzioni stilistiche che portino in ogni caso ad un solo approdo, il male assoluto.

Tracklist
1.The Soul Collectress
2.Atmosfear
3.Crows Belong To Her
4.Virus
5.Darkest Sorrow
6.Divinity Or Icon
7.The Price Of Trust
8.Can’t Handle
9.Blinded By Thoughts
10.Predominio Tecnologico

Line-up
Damy Mojitodka – all instruments / vocals
Mirko Costa – Guitar (session live member)
Francesco Garatti – Guitar (session live member)
Riccardo Grechi – Drums (session live member)

PULVIS ET UMBRA – Facebook

Neun Welten – The Sea I’m Diving

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore.

I tedeschi Neun Welten ritornano con il loro terzo full length, a ben otto anni di distanza dal precedente Destrunken.

Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore attraverso la voce e la chitarra di Meinolf Müller, il violino ed il piano di Aline Deinert ed il violoncello, la chitarra ed il basso di David Zaubitzer: la profonda connessione con tematiche naturalistiche (in questo caso con l’acqua quale elemento cardine a livello lirico) è percepibile in ogni singolo passaggio in quanto, nonostante l’approdo ad una più tradizionale forma canzone, le modifiche intervenute nel “mondo” dei Neun Welten non hanno affatto stravolto quella che è sempre stata l’essenza primaria della loro forza compositiva.
Momenti di alto lirismo si vanno ad intrecciare, così, con altri nei quali la voce quasi sussurrata di Müller accarezza i timpani; indubbiamente la musica del trio è rivolta a chi vuole trovare un’oasi di pace, pur se virtuale, una sorta di immaginaria radura all’interno della foresta nella quale giacere e meditare, magari consentendo ad un pizzico di malinconia di illanguidire l‘animo.
Il sound dei Neun Welten è pura poesia, ed il gradito inserimento delle parti vocali rende ancor più tangibile tale aspetto facendo sì che canzoni splendide come Drowning, Nocturnal Rhymes, Human Fail e la più post rock oriented In Mourning siano solo i picchi di un’opera da godersi nella sua interezza e con la giusta predisposizione: l’arricchimento, sia morale che musicale, è assolutamente garantito …

Tracklist:
01. Intro
02. Drowning
03. The Dying Swan
04. Cursed
05. Nocturnal Rhymes
06. Floating Mind
07. Earth Vein
08. Lonesome October
09. Lorn
10. Human Fail
11. In Mourning

Line-up:
Aline Deinert : Violin, Piano
David Zaubitzer : Guitar, Cello, Bass
Meinolf Müller : Guitar, Vocals

NEUN WELTEN – Facebook

Buzzøøko – Giza

Noise fatto in maniera intelligente, mai ovvia e con una grande ricerca musicale: potrebbe essere questa in poche parole la sintesi della musica dei Buzzøøko.

Noise fatto in maniera intelligente, mai ovvia e con una grande ricerca musicale: potrebbe essere questa in poche parole la sintesi della musica dei Buzzøøko.

Il loro noise nervoso e frammentato, mai troppo distorto secondo la lezione dei Don Caballero, è frutto di un lavoro certosino e si va a collocare nel solco della scuola noise italiana, che deve molto ai mostri di oltreoceano ma anche a gruppi nostrani, come gli Zu per esempio. Qui la melodia è data dalla somma dei componenti, in un fluttuare continuo tra accelerazioni e sospensioni del tempo. Il basso lancia acuti, mentre le chitarre lanciano segnali mai uguali e la batteria traccia solchi per contenere il tutto. Vi sono molte sfaccettature in questo disco, e per apprezzarlo fino in fondo bisogna riascoltarlo tutto più e più volte, cogliendo sempre di più le sfumature che compongono il disco. In alcuni momenti si può anche ascoltare la rielaborazione personale del grunge da parte dei Buzzøøko, substrato importante di un certo noise. Certamente nel discorso sui generi si può anche nominare il math perché è presente, ma il risultato ed il fine ultimo è il noise, ovvero quel frazionare la melodia e ricostruire il tutto, facendo un cut up sull’originale. In questo i Buzzøøko sono molto bravi, poiché partendo da territori diversi riescono a dare un organicità al loro lavoro. Giza è un disco profondo e con diversi livelli di lettura, i quali esistono a discrezione dell’ascoltatore e dei suoi pregiudizi in fatto di musica. Inoltre i Buzzøøko danno l’impressione di avere tutti i mezzi per fare ancora meglio di questo disco, essendo presenti potenzialità molto forti che danno sicurezza per il futuro. Non è semplice il discorso musicale che portano avanti, soprattutto negli odierni tempi dell’appiattimento musicale e non. Strade sconnesse e tanto da scoprire, questo è quello che ci offrono i Buzzøøko.

Tracklist
1.Jerry The Joker
2.Love Is Indie Hair
3.Gettin’ Sick
4.Lady Led
5.Hollow Man
6.P.s.h.
7.The Riot

Line-up:
Simon – guitar, vocals
Marco – bass
Lorenzo – drums

BUZZOOKO – Facebook

Rapheumet’s Well – Enders Door

Una bella sorpresa, una band ed un lavoro assolutamente da non perdere per gli amanti del death/black sinfonico.

Provenienti dall’underground estremo statunitense, i Rapheumet’s Well fanno parte di quella nutrita schiera di gruppi che segue la via oscura tracciata dai Dimmu Borgir.

Enders Door è il terzo full length del sestetto del North Carolina e, in effetti, il loro symphonic black/death prende ispirazione da quello del gruppo norvegese, per poi trovare una propria caratterizzazione fatta di aperture melodiche, uno straordinario lavoro ritmico ed una neanche troppo velata vena progressiva.
Teatrale, a tratti epico, l’album si nutre di oscure trame sinfoniche, cavalcate metalliche ed atmosfere decadenti, mantenendo un approccio vario, così da non stancare l’ascoltatore donandogli un’opera ben strutturata, suggestiva e a tratti molto affascinante.
Un mondo pieno di sorprese, un album estremo che non rinuncia a melodiche trame intimiste e progressive, per poi asfaltare gli astanti sotto un macigno orchestrale ed estremo.
Parte alla grande Enders Door con l’accoppiata The Traveller e Distress from the Aberrant Planet, brani che strizzano l’occhio felino e malvagio alla band di Shagrath, mentre l’ apice compositivo risulta il trittico sinfonico progressivo Lechery Brought the Darkness, la title track e Prisoner Of The Rift.
Una bella sorpresa, una band ed un lavoro assolutamente da non perdere per gli amanti del death/black sinfonico.

Tracklist
1.The Traveler
2.Distress from the Aberrant Planet
3.The Autogenous Extinction
4.Secrets of the Demigods
5.Lechery Brought the Darkness
6.Enders Door
7.Prisoner of the Rift
8.The Diminished Strategist
9.Nastarian Waltz
10.Ghost Walkers Exodus
11.Killing the Colossus
12.Eishar’s Lament
13.Unveiling the Sapient

Line-up
Jeb Laird – Lead Vocals
Annette Greene – Clean Vocals, Keys
Jon Finney – bass
Brett Lee – Guitar
Hunter Ross – Guitar
Joshua Ward (Nasaru) – drummer, Clean vocals

RAPHEUMET’S WELL – Facebook

An Electric Evening of ANTIMATTER

La DARK VEIL PRODUCTIONS, ancora in collaborazione con Kick Agency, è orgogliosa di annunciare ufficialmente un nuovo evento musicale di grande prestigio:

An Electric Evening of ANTIMATTER
Venerdì 6 Ottobre 2017
Wishlist Club, via dei Volsci, 126
Doors: 20.30
Start: 21.00
Ticket: 15 euro + 3 euro tesseramento Wishlist

Torna finalmente a Roma, dopo quattro anni, MICK MOSS di ANTIMATTER in:
“An Electric Evening of ANTIMATTER”
E’ Mick Moss stesso a raccontare l’evento per Dark Veil ed il pubblico in attesa:
“Sono passati quattro anni da quando Antimatter venne l’ultima volta nella bella e storica città di Roma, quando suonammo lì per la prima volta, e sono felice di annunciare che torneremo ad Ottobre… questa volta per offire il nostro primo concerto elettrico di sempre in questa città ed anche la nostra unica data italiana restante di quest’anno!”.
Sul palco come Special Guest i NO SOUND di Giancarlo Erra con la loro musica preziosa ed elegante. Band di punta della celebre Kscope, 12 anni di musica e 16 uscite ufficiali alle spalle, i Nosound si riaffacciano nella loro amata città d’origine.
Ad aprire i ROME in MONOCHROME già ospiti della Dark Veil, che il pubblico stavolta potrà apprezzare in versione elettrica.

Epica – The Solace System

La sublime magnificenza del metal sinfonico riprodotta da quella che ad oggi è la migliore realtà del genere, anche per questo l’ep risulta imperdibile.

The Holographic Principle è passato come una cometa, una brillante stella che ha illuminato la scena symphonic metal nel 2016 e come una cometa si è portato inevitabilmente dietro la sua splendente coda.

Infatti, questo nuovo The Solace System non è altro che un ep di sei brani, scritti dal gruppo nel periodo in cui la creazione del precedente e bellissimo full length era nella sua fase più fulgida.
Ovviamente, l’opera è pur sempre un ep di canzoni scritte nel recente passato e trovano la loro collocazione proprio come eredità del capolavoro licenziato dal gruppo lo scorso anno, quindi il sound non si discosta dalla produzione più recente del gruppo.
Nessuna novità e tanta buona musica, niente di più e niente di meno, da parte dei symphonic metallers olandesi, che confermano lo stato di grazia nel periodo della nascita di The Holographic Principle e piazzano sul mercato un degno epilogo.
Visto in questa dimensione The Solace System è l’ennesima mezzora di musica metallica e sinfonica ai suoi massimi livelli, colma di cori epici, sinfonie magniloquenti accompagnate da un power metal moderno e dall’impatto di un treno, con la Simmons che ci sfida a trovarle un difetto anche piccolissimo ed il gruppo che gira a mille come un perfetto bolide metallico.
La sublime magnificenza del metal sinfonico riprodotta da quella che ad oggi è la migliore realtà del genere, anche per questo l’ep risulta imperdibile, composto com’è da una manciata di canzoni sopra la media (la title track, la potente ed epico sinfonica Fight Your Demons e Wheel Of Destiny in particolare) risulta imperdibile.
La Simmons, al riguardo ha dichiarato alla stampa: “All’inizio della stesura di ‘The Holographic Principle‘ ci siamo resi conto di avere un enorme numero di canzoni. Quelle che non entravano perfettamente nell’album sono ora disponibili per voi in un EP speciale. Spero vi piacciano quanto piacciono a noi“. Speranza esaudita.

Tracklist
1.The Solace System
2.Fight Your Demons
3.Architect Of Light
4.Wheel Of Destiny
5.Immortal Melancholy
6.Decoded Poetry

Line-up
Simone Simons – vocals
Isaac Delahaye – guitars
Mark Jansen – guitars, growls
Coen Janssen – synthies, piano
Ariën van Weesenbeek – drums
Rob van der Loo – bass

EPICA – Facebook

Empty Chalice – Emerging is Submerging – The Evil

Le sonorità offerte da A. lavorano ai fianchi, costringono a pensare e lasciano un retrogusto amaro, rivelandone la grande profondità e la capacità di incidere sullo stato d’animo dell’ascoltatore.

Nello scorso dicembre avevamo parlato di Music For Primitive, album uscito a nome Gopota, creatura musicale che vede coinvolti Antonio Airoldi e e Vitaly Maklakov.

Il primo (che qui si firma come A.) si ripropone oggi alla nostra attenzione con il secondo atto di questo progetto denominato Empty Chalice, con il quale continua imperterrito l’opera di disturbo sonoro brillantemente proposta in quell’occasione.
Emerging is Submerging – The Evil mostra tratti più inquietanti che minacciosi e qui l’ambient opprime stendendosi come un velo di cenere sulle nostre percezioni sensoriali, proiettando nella mente un immaginario grigio ed opalescente.
Le vibrazioni sonore creano un flusso che potrebbe essere la riproduzione dell’ansito di un pianeta entrato nei suoi ultimi millenni (se non secoli) di vita, ma anche quello di chi sta rannicchiato nel proprio guscio, rifiutando di confrontarsi con un’umanità che precipita inconsapevole verso la sua estinzione; dico potrebbe, perché il bello di un espressione musicale così ermetica è proprio la sua capacità di offrire diverse chiavi di lettura che possono differire non poco a seconda della sensibilità di chi ascolta.
L’album, che esce per l’etichetta Industrial Ölocaust Records, si snoda lungo un’ora di ambient che vive di un rumorismo meno accentuato, specialmente nelle prime due tracce Look Into My Eyes e Muffled Scream, arrivando persino ad offrire dei barlumi melodici sotto forma di parti corali disturbate da campionamenti ed effetti nella magnifica Sidereal, episodio più breve del lotto.
Molto più caratterizzate da pulsioni death industrial sono invece Emerging Is Submerging e Stolen Breaths and Destroyed Hope, titoli che restituiscono in maniera piuttosto evidente quel senso di soffocamento che paradossalmente aumenta a dismisura, allorché si cerca appunto di emergere venendo ricacciati verso il basso da una realtà divenuta insostenibile.
Emerging is Submerging – The Evil è un esempio eloquente di quanto una musica che si muove nel solco degli album della mai abbastanza rimpianta Cold Meat Industry possa essere ben più annichilente e, a suo modo violenta, di molti dischi di metal estremo; le sonorità offerte da A. lavorano ai fianchi, costringono a pensare e lasciano un retrogusto amaro, rivelandone la grande profondità e la capacità di incidere sullo stato d’animo dell’ascoltatore.

Tracklist:
1.Look into my eyes
2.Muffled Scream
3.Sidereal
4.Emerging is submerging
5.Stolen breaths and destroyed hope

Line-up:
A.

EMPTY CHALICE – Facebook

Old James – Speak Volumes

Mezzora abbondante, quanto basta per premere nuovamente il tasto play e rituffarci in questa tempesta di suoni vintage.

Debutto adrenalinico di questo giovane trio canadese chiamato Old James che, con sfrontata irriverenza, ci colpisce ai bassifondi con Speak Volumes, un concentrato di hard rock vecchia scuola tripallico, deliziosamente funky e blues quanto basta per risultare a tratti irresistibile.

Mezzora abbondante, quanto basta per premere nuovamente il tasto play e rituffarci in questa tempesta di suoni vintage: ne esce un album perfetto nella sua scolastica dinamica, che tradotto vuol dire far divertire con il volume a manetta e una buona vena ritmica che varia come la voce, ora grintosa ora più sorniona ma pronta ad esplodere.
I riff sono devoti ai mostri settantiani, mentre l’approccio moderno ne fa un giusto compromesso ed un ottimo ascolto sia per le vecchie che per le nuove generazioni di rocker.
Brian Stephenson (voce e basso), Andy Thompson (chitarra) e Chris Stephenson (batteria) ci presentano un primo album che fa intravedere ottime potenzialità, piacevole all’ascolto e ruffiano il giusto nel saper amalgamare tra le note delle varie Don’t Put It on Me, Words as Weapons e Salutations, Led Zeppelin e Red Hot Chili Peppers, Deep Purple e Van Halen nello stesso candelotto di dinamite con la miccia accesa da una scintilla hard & heavy.
In un periodo nel quale un certo tipo di hard rock ha ripreso a viaggiare a mille sul mercato discografico, gli Old James sono pronti a ritagliarsi il loro spazio.

Tracklist
1. Don’t Put It on Me
2. Lemons
3. Words as Weapons
4. So Real
5. Salutations
6. Bass-Ik Instincts
7. Kill Off the Rose
8. Master Imploder
9. Eugene
10. Speak Volumes

Line-up
Brian Stephenson – Lead Vocals, Bass Guitar
Andy Thompson – Lead Guitar
Chris Stephenson – Drums/Backing Vocals

OLD JAMES – Facebook

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