Vulgar Devils – Temptress Of The Dark

I Vulgar Devils non pretendono sicuramente di cambiare il corso della musica, bensì di farci passare mezz’ora di puro divertimento, peraltro riuscendoci …

Trentadue minuti di hard rock tripallico tra heavy metal e rock’n’roll, questo è Temptress Of The Dark, debutto del trio statunitense Vulgar Devils.

Licenziato dalla Pure Rock Records, l’album dei tre diavoli americani non mancherà di far saltare dalla poltrona più di un rocker, con il suo irriverente, ignorante ma assolutamente coinvolgente sound.
D’altronde la ricetta è semplice, e i tre cuochi usciti dalla cucina di hell’s metal non si sono fatti problemi a proporla a noi ingordi consumatori di hard rock.
Un pizzico di Motorhead, qualche spruzzata di Iron Maiden (For The Kill), una spolverata di Ac/Dc e tanto rock’n’roll, per un piatto ricco di adrenalina ed elettricità.
Temptress Of The Dark è il classico lavoro che nella sua diretta e semplice struttura conquista al primo ascolto e non si può fare a meno di scapocciare al frenetico ritmo dell’opener Devil Love, dell’hard rock scarno ed essenziale di Come And Get It, per poi urlare al cielo gli inni metallici For The Kill e Forget About Tomorrow.
Poco più di mezzora, tempistica perfetta per sparare a mitraglia una serie di brani che sono lampi metal rock nel buio della musica odierna, mandando al diavolo (ogni riferimento è voluto) tecnica ed eleganza per pogare fino allo sfinimento con questi tre rocker dall’attitudine old school.
I Vulgar Devils non pretendono sicuramente di cambiare il corso della musica, bensì di farci passare mezz’ora di puro divertimento, peraltro riuscendoci …

TRACKLIST
1. Devil Love
2. Come And Get It
3. For The Kill
4. Forget About Tomorrow
5. Worlds End
6. Slump Buster
7. Temptress Of The Dark
8. Vulgar Devils

LINE-UP
Vulgar Dave Overkill – vocals, guitar
Erin Lung – bass
Matt Flammable – drums

VULGAR DEVILS – Facebook

Sonus Mortis – Hail The Tragedies Of Man

Ogni ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.

Il progetto solista del dublinese Kevin Byrne, denominato Sonus Mortis, era stato nel 2014 una di quelle piacevoli scoperte capaci di cambiare in meglio l’umore di ogni appassionati di musica a 360 gradi.

Propaganda Dream Sequence aveva evidenziato un approccio fresco e personale alla materia estrema nel suo abbinare elementi sinfonici, pulsioni industriali e una base death doom, anche se, ovviamente, per sua natura il sound dei Sonus Mortis risultava rallentato solo a tratti, prediligendo spesso ritmi più martellanti.

Il successivo War Prophecy ha poi consolidato il livello raggiunto con il full length d’esordio e, mantenendo la cadenza di in un’uscita all’anno, Kevin nel 2016 ha puntualmente offerto ai propri estimatori questo Hail The Tragedies Of Man.
Se vogliamo, l’unico aspetto negativo del fare centro al primo colpo con un lavori di livello superiore alla media, rende più complessa la progressione con i lavori successivi, ma non è neppure facile mantenere comunque uno standard ugualmente elevato: il musicista irlandese ci riesce anche stavolta in virtù di una capacità di scrittura sempre efficace e in grado di integrare un sound aspro con notevoli spunti melodici.
Non resta che ribadire, ad uso e consumo di chi si volesse avvicinare all’operato del bravo Byrne, gli accostamenti naturali con gli ultimi Samael e soprattutto con i Mechina (e di conseguenza Fear Factory): in particolare il parallelismo con la creatura di Joe Tiberi (che puntualmente ha pubblicato il suo probabile nuovo capolavoro nel primo giorno dell’anno) appare il più interessante proprio per un percorso simile ma che diverge in maniera sostanziale per il diverso background musicale dei musicisti counvolti.
Se dall’altra parte dell’oceano quella che giunge fino a noi è una tempesta di suoni futuristici, solenni e spaziali, nel senso più autentico del temine, i Sonus Mortis mettono in scena il lato più atmosferico e, non a caso, gran parte dei brani si avvalgono di incipit rallentati che preludono a altrettante esplosioni sonore, alternate a brillanti aperture atmosferiche; inoltre, va segnalato un più ampio ricorso a clean vocals che si rivelano del tutto efficaci nella sua alternanza al più consueto screaming growl filtrato, pur non possendo il buon Kevin un estensione vocale particolarmente ampia.
Hail The Tragedies Of Man mostra una serie di variazioni sul tema che rendono interessante il lavoro in ogni frangente, in barba alla sua ora e passa di durata: a tale riguardo, basti l’ascolto di due brani contigui per collocazione in scaletta ma ben diversi per approccio, come The Great Catholic Collapse, dalle magnifiche progressioni chitarrstiche ed un andamento più rallentato, e I See Humans But No Humanity, furiosa per la prima metà nel suo snodarsi per oltre otto minuti (seconda per durata solo all’opener Chant Demigod) per poi adagiarsi su un assolo prolungato e vibrante.
Non è parlando di ogni brano che si rende il servizio migliore ai Sonus Mortis: l’ascoltatore preparato ed attento proverà il giusto piacere addentrandosi con pazienza e curiosità nella musica creata da Kevin Byrne, ideale soundtrack delle sue visioni apocalittiche.
Come per i già citati Mechina, continuo a meravigliarmi del fatto che nessuna label di spessore internazionale non abbia ancora gettato il suo sguardo sui Sonus Mortis: un peccato, soprattutto perché la conoscenza di realtà di tale spessore meriterebbe d’essere estesa ad un’audience infinitamente più ampia di quanto possa produrre un volenteroso passaparola sul web.

Tracklist:
1.Chant Demigod
2.Null And Void
3.Subproject 54
4.No Escape
5.And So We Became Slaves Forever
6.End Of Days
7.The Great Catholic Collapse
8.I See Humans But No Humanity
9.Chaos Reigns
10.Wretched Flesh, I Embrace
11.Hail The Tragedies Of Man

Line-up:
Kevin Byrne

SONUS MORTIS – Facebook

Necronomicon – Advent Of Human God

Tornano i canadesi Necronomicon con il loro sound che ultimamente ha posato gli occhi sulla scena polacca, ma che presenta orchestrazioni e sinfonie oscure dai rimandi alle opere dei Dimmu Borgir.

Il genere che, dalla seconda metà degli anni novanta in poi, fece sfracelli tra i fans del metal estremo, oggi risulta un sound sorpassato se non inutile, almeno per molti degli addetti ai lavori.

Ebbene sì, il symphonic black metal non è più uno dei generi top dell’estremo suonare, ma se si scova tra l’underground metallico qualche buona proposta la si trova ancora, in barba ai soliti criticoni dalla bocciatura facile.
Advent Of Human God, per esempio è un buon lavoro, arriva dal Canada e a crearlo è una band storica del genere, i Necronomicon, trio attivo dalla fine degli anni ottanta e con (oltre ad un ep) quattro precedenti album tra il 1999 ed il 2013.
Tre anni sono passati dall’ultimo lavoro ed il gruppo torna con il suo death/ black che ultimamente ha posato gli occhi sulla scena polacca, ma che presenta orchestrazioni e sinfonie oscure dai rimandi alle opere dei Dimmu Borgir.
Dopo l’intro d’ordinanza prende avvio l’ascesa dagli inferi con la title track, un compendio di ritmiche serrate e blast beat, fino ad arrivare alla prima frenata atmosferica orchestrale e tornare alla carica con The Golden Gods e l’ottima Crown Of Thorns, scelta come video e brano trainate dell’album.
Il trio di Fjord Of Sanguenay, zona che si avvicina molto per conformazione alla famosa costa norvegese e che ispira da sempre, insieme ai testi di Lovecraft, i Necronomicon, convince nelle parti violente mentre qualche orchestrazione risulta forzata nell’economia dei brani, ma siamo ai dettagli: se ancora tra i vostri ascolti compaiono il gruppo di Shagrath ed i Behemoth, Advent Of Human God risulterà senza dubbio un ascolto soddisfacente.

TRACKLIST
1. The Descent
2. Advent of the Human God
3. The Golden Gods
4. Okkultis Trinity
5. Unification of the Pillars
6. Crown of Thorns
7. The Fjord 8. Gaia
9. I (Bringer of Light)
10. Innocence and Wrath [Celtic Frost cover]
11. Alchemy of the Avatar

LINE-UP
Rick – Drums
Rob “The Witch” Tremblay – Vocals, Guitars
Mars – Bass

NECRONOMICON – Facebook

Zeit – The World Is Nothing

Questo hardcore è suonato molto bene, è estremo e molto interessante, con interessanti linee melodiche e giusti sconfinamenti in molti generi, dal technical death metal, al math, al noise ed altro ancora.

Ristampa in cd a cura di diverse etichette del primo disco di questo gruppo hardcore veneziano.

La loro proposta è un concentrato di velocità e potenza, molto vicino al chaotic hardcore e al percorso tracciato dai Converge e gruppi affini. La potenza degli Zeit non è inferiore alla loro tecnica, che è notevole, e tutto ciò si va a sposare con un’ottima capacità compositiva, che fa di questa prima prova sulla lunga distanza un gran disco. Questo hardcore è suonato molto bene, è estremo e con interessanti linee melodiche e giusti sconfinamenti in diversi generi, dal technical death metal, al math, al noise ed altro ancora. In The World Is Nothing troviamo la giusta tensione ed il giusto pathos che devono essere presenti in un buon disco hardcore, ma qui dentro c’è di più. Molti gruppi sono potenti, calibrati e fanno sensazione, ma l’hardcore deve scavarti qualcosa dentro, ed in questo gli Zeit sono molto bravi. Come detto il disco ha visto la luce in cd grazie alla collaborazione fra diverse belle realtà musicali, e gli Zeit collaborano anche musicalmente e non con alcune realtà veneziane, come Trivel Collective e Venezia Hardcore, facendo parte di una florida scena assieme a gruppi come gli Slander, ma gli Zeit sono maggiormente metallici e contundenti.
Un debutto di grande hardcore, let’s mosh.

TRACKLIST
01. World And Distances
02. Weaving
03. Distance And Difference
04. Disguised
05. Chasing The Void
06 Tautologies
07. Lack Of Parts
08. No Conception
09. The Walls Of The World
10. Past Meanings

LINE-UP
Alessandro Maculan – Guitar
Sebastiano Busato – Voices
Gabriele Tesolin – Bass
Francesco Begotti – Drums

ZEIT – Facebook

Invisible Mirror – On the Edge of Tomorrow

Un’altra band da annoverare tra le più brillanti scoperte dell’insaziabile WormHoleDeath, con un album da custodire gelosamente se siete amanti dell’heavy metal dai tratti progressivi e dark.

Che la Svizzera, oltre ad essere una terra incantevole, sia anche madre di molte importanti band del mondo metallico non è una novità.

Puntuali come i suoi famosi orologi, ogni anno spuntano nuove realtà che si affacciano sul mercato continuando la tradizione hard & heavy del paese del cioccolato, tra violenza estrema e melodie hard rock, continuando ad essere punto di riferimento degli amanti dei suoni metallici europei.
La WormHoleDeath, label che pesca talenti metallici come pesce azzurro sulle coste mediterranee, si aggiudica le prestazioni degli Invisible Mirror, band di heavy power melodic metal, all’esordio con questo bellissimo lavoro dal titolo On The Edge Of Tomorrow, prodotto niente meno che da Connie Andreska (ex Mystic Prophecy) e Dani Löble (Helloween), coppia d’assi del power metal europeo.
Ero curioso di ascoltare questo lavoro, non fosse altro per la scelta dell’etichetta italiana, al solito attenta a sonorità estreme, dal death al core, passando per il symphonic gothic metal, ma finora parca di proposte classiche e la mia curiosità è stata premiata.
La band, infatti, è protagonista di un heavy metal dalle melodie oscure, molto melodico, a tratti progressivo e di classe, non facendo mancare ritmiche riconducibili al power, ma elegante nel far confluire nel proprio sound elementi U.S. metal in un contesto che, comunque, rimane europeo.
E allora prendete il metal dalle tinte dark dei Metal Church e valorizzatelo con parti progressive alla Stygma IV o Evergrey, e power heavy metal di scuola Angel Dust, ed avrete un’idea di massima della musica prodotta dal quartetto: certo non manca qualche assolo e parti più classicamente indirizzate verso nomi altisonanti dell’heavy metal, ma l’eleganza artistica degli Invisible Mirror ne avvicina la musica a quei gruppi meno fruibili dalle masse, ma di livello altissimo in quanto a mera qualità musicale.
Menzione particolare per Chris Schwarz, un cantante dotato di qualità interpretative sopra la media , che funge da ciliegina sulla torta ad un gruppo tecnicamente buono, quanto basta per creare emozioni a profusione.
E di emozioni vive On The Edge Of Tomorrow, tragico, dark sontuosamente metallico e trascinato da un lotto di brani che trovano il loro punto più alto nelle notevoli Frozen River, nella monumentale title track e nella power progressiva The Loner.
Un’altra band da annoverare tra le più brillanti scoperte dell’insaziabile WormHoleDeath, con un album da custodire gelosamente se siete amanti dell’heavy metal dai tratti progressivi e dark.

TRACKLIST
1. Frozen River
2. Strike Back
3. Different Ways
4. Believe
5. Conspiracy of Minds
6. Life of a Stranger
7. Hungry for Love
8. On the Edge of Tomorrow
9. Beyond the Sky
10.The Loner

LINE-UP
Chris Schwarz – Lead Vocals
Ricky Bonazza – Bass, Vocal
Claude Magyar – Guitars
Seba Dixon – Drums

INVISIBLE MIRROR – Facebook

Tàlesien – Tàlesien

Un gruppo che sa manipolare la materia progressiva con soluzioni orchestrali sontuose e almeno due o tre brani sopra la media, ma la scelta della lingua madre rischia di limitare le potenzialità di un’opera del genere,

I Tàlesien sono un sestetto galiziano che propone un buon esempio di metal prog: attivi già tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, tornano con un nuovo lavoro tramite la Suspiria Records dopo tre full length di cui l’ultimo (El Silencio) uscito nel 2012.

Una buona fama raggiunta nel loro paese (anche per l’uso della lingua madre) negli anni li ha portati a dividere il palco con alcuni nome importanti del metal internazionale, ed il nuovo lavoro conferma la buona salute del metal nato in quelle terre.
Lontano dal prog folk dei Mago de Oz, così come dal power di Tierra Santa e Avalanch, il sound del gruppo è da annoverare nel classico metallo progressivo sulle orme lasciate negli anni dai Dream Theater, a cui il gruppo deve molto e da cui si differenzia, oltre che per l’uso dell’idioma, per qualche soluzione melodica più accentuata, specialmente nelle orchestrazioni che a tratti rasentano il musical (Sexta Extinciòn).
Una marcata vena melodica, qualche ritmica più potente e poi, con questo quarto album omonimo, la band vola sulle ali del progressive, con ottimi cambi di tempo nelle ritmiche, solos che non mancano di brillare per tecnica e gusto, chorus azzeccati, una buona prova del vocalist il quale ha molte frecce da scagliare nell’ora di musica a disposizione del gruppo.
I Tàlesien sono una band che sa manipolare la materia progressiva con soluzioni orchestrali sontuose e almeno due o tre brani sopra la media, ma la scelta della lingua madre rischia di limitare le potenzialità di un’opera del genere nei confronti di chi è abituato al più classico idioma britannico, ma se la cosa non crea disturbo Tàlesien risulterà un buon ascolto.

TRACKLIST
1. Noa
2. Lazarus
3. A-Legato
4. Sexta Extinciòn
5. Neftalì
6. Incomprensiòn
7. Alama Encadenada
8. Insomnio
9. Apàtrida
10. Màrtires
11. Sublime

LINE-UP
P. Javier García – Vocals
Juan Carlos Cotelo – Guitars
Nano Vikendi – Guitarra
M.A. Justo “Macaco” – Bass
Iñigo Uribe – Orchestration
Anxo Silveira – Drums

TALESIEN – Facebook

Ovnev – Cycle Of Survival

A causa di qualche imperfezione formale l’album non raggiunge l’eccellenza ed è un peccato, perché l’interpretazione del genere è genuina e ricca di spunti tutt’altro che banali.

Ovnev è il nome di una delle tante valide one man band che sorgono negli Stati Uniti con l’intento di proporre black metal, per lo più dai tratti atmosferici.

Quindi, se è lecito non attendersi qualcosa di innovativo, è altrettanto plausibile avvicinarsi con una certa fiducia riguardo all’esito di questo lavoro d’esordio.
Cycle Of Survival è, infatti, un album che si dipana con grande scorrevolezza andando a lambire le diverse sfaccettature del black, pur non spingendosi mai sul versante più tradizionale; del resto, da qualcuno che quale manifesto esibisce uno copertina con montagne innevate non c’è che da attendersi un’espressione austera, solenne e melodica al contempo, con più di un riferimento naturale alla corrente cascadiana del genere.
In questi frangenti siamo ben lontani da produzioni cristalline e soprattutto i passaggi di chitarra solista, fondamentali nell’economia dell’album, sono incrinati da qualche limite esecutivo che la bontà della scrittura ed il loro potenziale evocativo non riescono a nascondere. Proprio per questo l’album non raggiunge l’eccellenza ed è un peccato, perché l’interpretazione del genere è genuina e ricca di spunti tutt’altro che banali; comunque chi ricerca, a prescindere, una certa purezza nell’approccio alla materia dia un ascolto ad una traccia come The Observatory, che rappresenta in maniera efficace i contenuti di un lavoro interessante ma decisamente perfettibile nei suoi aspetti formali.

Tracklist:
1. The Observatory
2. Thrill of Pursuit
3. Prosperous Desperation
4. Cycle of Survival
5. Suspended In Spirit

Line-up:
West

OVNEV – Facebook

Skáphe – Skáphe²

Gli Skáphe tentano di rendersi interessanti rendendosi fastidiosi: se la loro missione era di provocare all’ascoltatore una tremenda emicrania, missione compiuta

Gli Skáphe – progetto recente di quell’Alex Poole, stacanovista dell’extreme metal, che si è imposto al mondo del metal sotto lo pseudonimo Chaos Moon (oltre a Esoterica e Krieg) – prima di Skáphe² erano una delle innumerevoli band statunitensi, di Philadelphia, di discrete prospettive e aspirazioni: l’esordio nel 2014, dal titolo omonimo, difficilmente avrebbe potuto far pensare ad un secondo lavoro di questa portata, nel bene e specialmente nel male.

L’uscita di Skáphe² – una specie di black metal / horror noise dai molteplici riferimenti – è stata accompagnata da un certo hype nel mondo del metal, essendo stato arruolato per l’occasione quel D.G. dei Misþyrming (oltreché Naðra) che piuttosto bene avevano fatto nel 2015, con Söngvar elds og óreiðu.
Vi sarebbe molto di cui discutere sulla legittimità del riferirsi a quest’album di circa 36 minuti – fortunatamente per chi lo deve ascoltare il disco non è eccessivamente lungo – definendolo un album black metal, e non tanto perché i nostri facciano un uso massiccio di harsh noise, suoni dronici che sconfinano in territori pseudo-avanguardisti (ricercati specialmente tramite ritmiche squinternate), quanto perché – almeno per la prima parte del disco – non vi è la possibilità di distinguere precisamente finanche un solo riff o una qualche forma di melodia: quanto invece una pressoché completa atonalità e una mancanza di qualsivoglia senso dell’armonia. L’unica cosa che un ascoltatore percepirà durante la prima metà del disco – rinominato I, II e III – sarà un’atmosfera orrorifica ma monotona, miasmi da incubo che vorrebbero a loro modo suonare dejonghiani. Discernere la fine e l’inizio di un brano dall’altro e provare ad analizzarli singolarmente è virtualmente impossibile (tant’è che le stesse tracce sono semplicemente ordinate tramite numerazione romana, come facessero parte di una suite, da intendersi come un flusso). Un ulteriore guaio per i tre brani iniziali, da ascoltarsi preferibilmente come un unico e lungo intro, risiede nel fatto che il tutto non riesce neppure a suscitare il tanto agognato inferno esistenziale che invece manifestamente ricerca: in termini sonici il wall of sound è certamente monolitico, ma suona un po’ retorico, come se fosse più importante il concetto astratto della concreta esperienza sonora. Al punto che sembra quasi che se si prendesse una qualsiasi frazione di una traccia e la si spostasse altrove non verrebbe tolto e aggiunto pressoché nulla all’esperienza finale di ascolto: il ché non è definibile esattamente come “un risultato apprezzabile”, se parliamo di “cose black metal” e non di cose merzbowiane. Poi succede qualcosa e, superata la metà del disco, a partire da IV, il tutto magicamente si apre a ricametti, cacofonie e circolarità – finanche interessanti e non banali – post-metal, mentre in V si raggiunge il climax ritualistico del lavoro. Ma è troppo poco per impressionare: nel momento in cui comincia ad essere divertente l’album presto finisce.
Riferimenti: gli Skáphe saccheggiano un po’ da tutti e rovinano un po’ tutto, da alcune tra le cose migliori dei Deathspell Omega e dei Blut Aus Nord fino ai Portal e ai Mitochondrion, e soprattutto da un Gnaw Their Tongues appiattito e privato della sua consueta eleganza di stampo mefistofelico (eleganza manifesta anche nell’ultimo Hyms for the Broken, Swollen and Silent, questo invece, sì, un disco notevole). In conclusione: il fatto che Skáphe² risulti ermetico non significa necessariamente che sia un album profondo. L’impossibilità di cogliere – a larghi tratti – non dico significati e sensi (e “la musica” – tra la quale ovviamente anche il BM -, ricordiamolo, è o dovrebbe essere in prima istanza fondazione di significati e sensi) ma anche solamente una qualche sorta di melodia non nobilita necessariamente un disco: a tratti Skáphe² è affascinante, molto più spesso è retorico, ma alla fine resta fondamentalmente un prodotto di mera estetica, troppo superficiale, astratto e tronfio, oltreché terribilmente fastidioso all’orecchio, per poter rappresentare il futuro del black metal.

TRACKLIST:
1. I
2. II
3. III
4. IV
5. V
6. VI

LINE-UP
Alex Poole
D.G.

SKAPHE – Facebook

Mars Era – Dharmanaut

Dharmanaut non è un disco comune grazie alla sua intensità e potenza, con un’ottima unione fra desert stoner e psych settanta, e ci si può trovare anche uno spruzzo di grunge.

I Mars Era sono nati a Firenze nel 2014, ispirandosi allo stoner, e più in particolare alla scena desertica statunitense che tante gioie ha regalato.

Per il loro debutto discografico però questi ragazzi vanno ben oltre, confezionando un concept album che si basa sull’idea di un lungo dialogo fra lo Ying e lo Yang, che ci riporta al dualismo fra bene e male e a tanti altri dualismi sia della filosofia orientale che di quella occidentale. La musica dei Mars Era è molto energica e di forte impronta settantiana, con una potente benzina di modernità. Il disco è molto bello, con canzoni veloci ed altri momenti maggiormente dilatati, e stupisce la maturità sonora di questo gruppo esordiente, che certamente non propone novità rivoluzionarie, ma confeziona un disco molto ben fatto e piacevole, intenso e coinvolgente. Il suono è vitaminico e ben bilanciato, con una forte impronta anni settanta come si diceva prima, e partendo da qui i Mars Era sviluppano un suono peculiare ed importante, ben definito e con ulteriori margini di miglioramento. Dharmanaut non è un disco comune grazie alla sua intensità e potenza, con un’ottima unione fra desert stoner e psych settanta, e ci si può trovare anche uno spruzzo di grunge. Il concept si sviluppa con un film accompagnato da una musica davvero notevole, che rende l’opera molto interessante. Disco di rara intensità e pathos che spalanca un futuro davanti ai Mars Era.

TRACKLIST
01. Enemy Was a Friend of Mine
02. Emprisoned
03. The Leap
04. Revolution
05. Red Eclipse
06. Licancabur
07. Desolate Wasteland

LINE-UP
M. Verdelli _guitars
D. Ferrara_vocals
L. Storai_bass
T. Tassi_drums

MARS ERA – Facebook

The Furor – Cavalries of the Occult

Prendete, una per genere, la band più estrema in circolazione di death, black e thrash metal, ed avrete un’idea della forza bruta di questi demoni australiani, autori di un disco comunque consigliato solo ai fans più incalliti di questi stili.

Ci eravamo occupati di questa devastante band australiana un paio di anni fa, quando DIzazter diede alle stampe il quarto full lenght della sua creatura, chiamata The Furor.

Attiva dal 2002 questa assatanata ed apocalittica creatura estrema continua la sua guerra contro l’umanità a colpi di black/death/thrash devastante, un uragano orgiastico di suoni estremi senza soluzione di continuità, questa volta sotto l’ala della Transcending Obscurity, la sola novità che si porta con se questo ennesimo assalto metallico.
Aiutato da Hellhound e The Grand Impaler, il demone australiano torna a dichiarare guerra al mondo con una serie di bombe atomiche musicali, feroci e senza compromessi, apocalittiche nel senso più devastante del termine.
Anche Cavalries of the Occult, come l’album precedente non lascia scampo, guerra totale dalla prima all’ultima nota, con brani che risultano un massacro ben congegnato e martellante (la title track, Death Manifest e Storm Of Swords) e gli altri che continuano le nefandezze perpetrate da questo esercito di mostri liberi di perpetrare le azioni più orribili sulla terra.
Il problema di Cavalries of the Occult è la durata: quasi un’ora di una tempesta sonora di proporzioni bibliche diventa difficile da portare fino in fondo, ed infatti verso la fine l’attenzione immancabilmente scende, provati da tanto odio e caos primordiale.
Album che diviso in due avrebbe sicuramente reso maggiormente, ma se vi piacciono le esagerazioni in musica, i The Furor sono sicuramente uno dei gruppi più estremi in circolazione.
Prendete, infatti, una per genere la band più estrema in circolazione di death, black e thrash metal, ed avrete un’idea della forza bruta di questi demoni australiani, autori di un disco comunque consigliato solo ai fans più incalliti di questi stili.

TRACKLIST
1.30 Year War
2.Cavalries of the Occult
3.Death Manifest
4.Fomes Peccati
5.Lake of Fire
6.Rampage upon the Rational
7.Second Coming Slaughtered
8.Storm of Swords
9.Totaliterror

LINE-UP
DIzazter – Khaos Drum Molestations/ Vocal Missiles,
Hellound – Merciless Christ Axecution
The Grand Impaler – Ballistic Bass from Beyond

THE FUROR – Facebook

Impure Ziggurat – Serenades of Astral Malevolence

Sono pochi due brani per imprimere un definitivo marchio di qualità al black/death metal della band transalpina, ma bastano per rinvenire un’attitudine sincera e la voglia di provare a raccontare qualcosa che vada oltre satanismo o paganesimo.

Breve Ep per i francesi Impure Ziggurat, dopo il demo rilasciato all’inizio del 2015 quale primo atto ufficiale della loro storia.

Sono pochi due brani per imprimere un definitivo marchio di qualità al black/death metal della band transalpina, ma bastano per rinvenire un’attitudine sincera e la voglia di provare a raccontare qualcosa che vada oltre satanismo o paganesimo, utilizzando quale mezzo un genere suonato comunque in maniera piuttosto ortodossa.
Le tematiche riguardanti le civiltà antiche (intuibili dal monicker) e l’astrosofia ben si addicono ad un sound oscuro e avvolgente, magari non sempre impeccabile a livello esecutivo, ma dotato dei numeri sufficienti per attirare l’attenzione: i rallentamenti doom che aprono entrambi i due brani principali, Convocation Of M64 Abominations e Summoning Oort’s Semen (l’opener Teleos Eniautos è una breve intro di stampo sinfonico), le buone melodie chitarristiche in tremolo ed un growl catacombale di matrice death, vanno a formare una quadro massiccio ma abbastanza versatile, in relazione al tipo di sound offerto.
Una prova che bada più alla sostanza che alla forma, positiva perché, in fondo, a noi piace anche così …

Tracklist:
1.Teleos Eniautos
2.Convocation Of M64 Abominations (Abhorrent Portal OF Flesh, Collapsed)
3.Summoning Oort’s Semen (Crawling Into The Serpent’s Nest)

Line-up:
LDVC – Bass
RM – Drums
CDRK – Guitars
TR – Vocals, Guitars

IMPURE ZIGGURAT – Facebook

Heart Avail – Heart Avail

Buon esordio per una band che sa di non poter strafare e si accontenta di dosare in buona misura grinta e melodie gotiche: per gli amanti di Evanescence e Within Temptation un ascolto soddisfacente.

Nuova proposta, in arrivo dagli States, di hard gothic metal sulla scia di Evanescence e Within Temptation, con un tocco moderno nelle ritmiche e nei suoni di chitarra prettamente americani che non guastano affatto.

Partendo da una base gothic metal, gli Heart Avail, band di Spokane capitanata dall’ugola della singer Aleisha Simpson, immettono nel proprio sound pesanti dosi di metal alternativo, a tratti potente, in altri sincopato e melodico stile primi Lacuna Coil, così da variare quel tanto che basta il mood dei brani presenti (cinque) tutti circondati da un’aura di già sentito ma tutto sommato carini.
La band è al debutto, quindi potenzialmente dal sound migliorabile anche se la Simpson è molto brava e le tracce si lasciano ascoltare, tra gothic ed alternative metal che si prendono a spintoni per regnare sul sound delle varie Broken Fairytale, dell’ottima Always e della conclusiva, metallica Pink Lace.
In sintesi, buon esordio per una band che sa di non poter strafare e si accontenta di dosare in buona misura grinta e melodie gotiche: per gli amanti di Evanescence e Within Temptation un ascolto soddisfacente.

TRACKLIST
1.Broken Fairytale
2.Vacillation
3.Always
4.No Remorse
5.Pink Lace

LINE-UP
Aleisha Simpson – Vocals
Greg Hanson – Guitar
Mick Barnes – Bass
Seamus Gleason – Drums

HEART AVAIL – Facebook

Mangog – Awakens

L’effetto di insieme è notevole e questo Awakens è un disco gigantesco, con pesanti giri di chitarra ed un’interpretazione canora affatto comune: la bestia avanza lentamente.

Ci sono luoghi dove certe cose vengono fatte meglio rispetto al resto del mondo, per esempio nel Maryland il doom classico lo fanno meglio, e il nuovo disco dei Mangog ne è la dimostrazione.

Questa nuova bestia che porta riff e cattiveria è formata da membri di altri notevoli gruppi del Maryland, come Beelzefuzz, Iron Man e Revelation. Tutti questi gruppi hanno in comune una visione classica del doom metal, fatta di grassi e lenti giri di chitarra, un basso ben piazzato e batteria piuttosto sabbathiana. L’effetto di insieme è notevole e questo Awakens è un disco gigantesco, con pesanti giri di chitarra ed un’interpretazione canora affatto comune: la bestia avanza lentamente.
Questo è un disco di doom underground al 100 % e ogni canzone scava a fondo, rompendo tutto ciò che incontra. Il suono della chitarra ha vari registri, e non ci sono solo giri lenti, ma anche canzoni più veloci, che testimoniano la versatilità del gruppo che rende di altro livello tutte le canzoni. In alcuni momenti ci sono anche offerte a dei di altri generi, tanto che la voce di Myke Wells sembra quasi heavy metal, e il gruppo offre sempre ottimi spunti.
Nell’insieme questa seconda prova dei Mangog, dopo l’ep del 2015 Daydreams Within Nightmares, è un disco meravigliosamente pesante, che farà la gioia di chi ama il doom classico, ma molti elementi musicali vanno ben oltre la classicità. I Mangog uniscono vari stili pera arrivare ad un risultato notevole, e Awakens sta riscuotendo già ottime accoglienze, sia per il peso dei nomi coinvolti sia per la sua qualità. Tutte le canzoni sono ottime, e la produzione minimale aggiunge ancora maggior peso al disco. Da Baltimora la musica del destino.

TRACKLIST
1. Time Is a Prison
2. Meld
3. Ab Intra
4. Of Your Deceit
5. Into Infamy
6. Modern Day Concubine
7. A Tongue Full of Lies
8. Daydreams Within Nightmares
9. Eyes Wide Shut

LINE-UP
Myke Wells – Vocals
Bert Hall, Jr. – Guitars, vocals, devices
Darby Cox – Basses
Mike Rix – Drums

MANGOG – Facebook

Deathfucker – Fuck The Trinity

Fuck The Trinity è un esempio di musica underground nella più pura concezione del termine, è metallo disturbante e malvagio, dove mere disquisizioni tecniche lasciano spazio ad impatto ed attitudine, presentandoci una nuova realtà estrema che trae linfa dai padri storici del metal estremo ottantiano.

Pei i Deathfucker il tempo si è fermato ai primi anni del decennio ottantiano, quando nella fiorente scena heavy metal muovevano i primi passi realtà molto più estreme e pericolose.

Devoto al signore oscuro e fortemente anticristiano, questo progetto vede coinvolti Insulter (chitarra, basso, voce e testi) e J.K. (batteria), nel passato membri di gruppi come Raw Power, Valgrind ed Inferi.
Questo demo di tre brani ci presenta una realtà malvagia, famelica e ingorda di male, che si nutre del più marcio thrash metal underground e lo potenzia di devastante attitudine death.
Il lavoro denota un approccio di inumana violenza, senza compromessi, satanico ed assolutamente old school, roba per maniaci del metal estremo underground: i tre brani (Dechristianized, Fuck The Trinity, Intoxication Of The Soul), sono altrettante spallate metalliche di diabolica violenza, frustate che dal braccio di Insulter arrivano alla schiena, conficcando i chiodi tra le scapole come nel supplizio del Cristo.
Fuck The Trinity è un esempio di musica underground nella più pura concezione del termine, è metallo disturbante e malvagio, dove mere disquisizioni tecniche lasciano spazio ad impatto ed attitudine, presentandoci una nuova realtà estrema che trae linfa dai padri storici del metal estremo ottantiano.

TRACKLIST
1.Dechristianized
2.Fuck The Trinity
3.Intoxication Of The Soul

LINE-UP
J.K – Drums
Insulter – Guitars, Bass, Vocals

DEATHFUCKER – Facebook

Screamer – Hell Machine

Lo spirito della macchina infernale, costruita nei primi anni ottanta a colpi di Iron Maiden, Thin Lizzy e Tyger Of Pan Tang, si è impossessata di questi cinque musicisti svedesi

Se avete amato e continuate ad amare l’heavy metal classico, allora non potete fare a meno degli Screamer e del loro Hell Machine.

Lo spirito della macchina infernale, costruita nei primi anni ottanta a colpi di Iron Maiden, Thin Lizzy e Tyger Of Pan Tang, si è impossessata di questi cinque musicisti svedesi che già avevano stupito tutti con i primi due album, Adrenaline Distractions, uscito nel 2011, ed il precedente Phoenix, licenziato tre anni fa: ci consegna una band indemoniata, completamente succube del demone ottantiano, ma assolutamente in grado di rinverdire i fasti delle opere storiche dell’heavy metal con una serie di brani eccezionali.
Intanto la produzione, senza essere troppo patinata, è perfettamente allineata alle produzioni dell’epoca, le ritmiche si mantengono serrate, le chitarre si ricorrono sui manici come facevano Dennis Stratton e Dave Murray sull’esordio dei Maiden, la voce di Andreas Wikström è perfetta per il genere, mentre l’epicità aleggia tra una serie di brani talmente belli che commuovono.
Ne parliamo continuamente di attitudine old school: di questi tempi i suoni vintage sono cool, specialmente in un certo tipo di hard rock, e nell’heavy metal hanno regalato più delusioni che gioie, ma qui siamo nell’inferno metallico, che brucia sotto le fiammate delle varie tracce che si susseguono una più bella dell’altra, conquistandoci al primo ascolto.
Il songwriting è perfettamente classico, senza un refrain che non sia esaltante, senza un assolo che non ferisca, schiacciato dentro quello strumento di tortura che si chiama vergine di ferro e che ha reso Steve Harris e soci immortali.
Ma Hell Machine non è solo Iron Maiden; tra i solchi di Alive, della title track, di Lady Of The Night, di Denim And Leather (se non sapete dove avete già sentito questo titolo, smettetela subito di leggere) e della cavalcata The Punishment troverete dettagli, note, sfumature che vi porteranno alla mente le band descritte e molte altre, in un delirio metallico splendidamente classico.
Che album, che gruppo; grazie al Dio del metal ci siamo noi a parlarvene, serve altro ?

TRACKLIST
1.Alive
2.On My Way
3.Hell Machine
4.Lady of the Night
5.Warrior
6.Denim and Leather
7.Monte Carlo Nights
8.The Punishment

LINE-UP
Andreas Wikström – Vocals
Anton Fingal – Guitar
Dejan Rosić – Guitar
Fredrik Svensson – Bass
Henrik Petersson – Drums

SCREAMER – Facebook

The Great Saunites – Green

I The Great Saunites spingono in maniera decisa e senza tentennamenti verso un impatto lisergico che avvolge nelle sue insidiose e piacevoli spire l’ascoltatore.

Dopo oltre 3 anni dall’ottimo The Ivy, del quale avevo già avuto occasione di parlare sulle pagine di In Your Eyes, e circa ad uno di distanza da Nero, arriva l’atto secondo della trilogia iniziata proprio con quest’ultimo lavoro da parte dei lombardi The Great Saunites.

Rispetto ai due lavori precedenti, il duo composto da Atros e Leonard K. Layola spinge in maniera decisa e senza tentennamenti verso un impatto lisergico che avvolge nelle sue insidiose e piacevoli spire l’ascoltatore di turno: i brani sono solo due ma, insieme, assommano più di tre quarti d’ora di musica, con Dhaneb che martella implacabilmente reiterando le poche variazioni sul tema fino a portare all’assuefazione, ed Antares che viaggia sulla stessa falsariga, con la grande differenza che, mentre la prima traccia si placa nella sua parte finale, la seconda dopo circa un quarto d’ora intensifica ulteriormente suoni e ritmi.
Anche se qualcuno potrà sostenere che The Ivy fosse senz’altro più vario, alla luce della sua distribuzione su cinque brani piuttosto diversi tra loro, personalmente ritengo che, con Green, la band riesca a focalizzare molto meglio le proprie naturali pulsioni, lasciando da parte una vena sperimentale che, invece, era stata evidenziata maggiormente in Nero: a livello di approccio, inoltre, Green sembra ripartire da quello che era il brano migliore dell’album d’esordio, Medjugorje, del quale riprende l’impagabile ed ossessivo incedere.
Ciò che ne resta (molto) è una sorta di lunghissima jam session nella quale la noia è bandita se si hanno nel proprio dna i primi Pink Floyd, gli Hawkwind o gli stessi Ozric Tentacles, rispetto ai quali però i The Great Saunites possiedono un’anima ben più robusta.
Per chi apprezza i nomi succitati Green è un’opera che darà molte soddisfazioni, mentre magari potrebbe trovare qualche ostacolo in più nel penetrare in chi non ha familiarità con questi suoni: di sicuro, il fatto che quest’album sia di assoluto valore è un dato oggettivo, che depone a favore delle doti compositive dei The Great Saunites, capaci di provocare con la loro musica alterazioni di coscienza senza dover ricorrere a sostanze illegali, nonché in grado di prodursi in una progressione stilistica costate e priva di calcoli di convenienza.

Tracklist:
1. Dhaneb
2. Antares

Line-up:
Atros – basso
Leonard K. Layola – batteria, tastiere, chitarra

THE GREAT SAUNITES – Facebook

Violent Magic Orchestra – Catastrophic Anonymous

Tragiche e sublimi visioni di un manipolo di gente iper-pessimista

Catastrophic Anonymous del collettivo Violent Magic Orchestra è un album – un collage sonico per pochi – estremo, maestoso e massimalista nel senso più estremo, maestoso e massimalista del termine, comprendente una moltitudine di generi: dall’harsh noise a quel metal d’avanguardia, giapponesissimo, che trova il suo nucleo nella classica poetica dei Vampillia, fino a scenari techno-industrial, accenni di jpop, grind e via dicendo.

Basterebbe elencare la sfilza di nomi coinvolti in questo progetto internazionale – senza eccessivi principi d’autorità – per destare più d’una lecita curiosità. Un Régimbeau sugli scudi che più che Mondkopf è qui in versione Extreme Precautions (si vedano certi suoi lavori precedenti come le varie Untitled di I, del 2014). Un Plotkin in versione mastermind che più che Khanate – come recita la press sheet – qui ricorda concettualmente quel Phantomsmasher dell’album omonimo del 2002: un disco, come questo, la cui brutalità mascherava altro, brutalità in ogni caso mai fine a sé stessa. Ogni brano è un mondo a sé, legato da un filo rosso a tutti gli altri: dalle note di piano di Acts of Charity alle riflessioni occulte-cosmicheggianti – presto riportate a terra da un’elettronica fredda e lucida – di At The Bank. Dagli organi di One Day Less – intermezzo che sembra una paralisi dello spirito – all’harsh noise di tracce come In Favour of Cruelty, che ha invece distorti echi lontani da console videoludiche anni ’90. Dalle disperate vocalità DSBM che fanno capolino qua e là su paesaggi dronici modellati su blast beat tanto furiosi quanto nostalgici di brani come The Beginning Of Fortune e Pursuit of Dignity fino alla conclusiva Out of Orbit, che è pura sintesi – di una malinconia commovente – e che scorre come un unico pensiero di una mente nichilista che si approssima a lasciare il pianeta. L’enorme potere di questo disco non sta tanto nella somma delle pur eccellenti individualità coinvolte (tra gli altri, per l’occasione, sono stati assoldati Pete Swanson, Attila Csihar e quel Chip King che proprio nel 2016 ha firmato il bellissimo No One Deserves Happines coi The Body, oltre al discreto One Day You Will Ache Like I Ache in collaborazione coi Full of Hell), né nel loro lavorare – seppur perfettamente – all’unisono: quanto nel concept generale che scorre come un unico flusso di coscienza, quasi joyciano nel dar l’impressione di rappresentare in maniera temporalmente dilatata moti interiori istantanei, e che sembra descrivere con estrema sincerità le sensazioni di una mente tanto misantropa quanto a suo modo – per un ossimoro – nutrita di una tenue speranza.

TRACKLIST
1. The Beginning Of Fortune
2. Acts Of Charity
3. In Favor Of Cruelty
4. Divorcer
5. Halved
6. One Day Less
7. At The Bank
8. Brick Wall
9. Pursuit Of Dignity
10. Out Of Orbit

VIOLENT MAGIC ORCHESTRA

Ephedra – Can’ – Ka No Rey

Gli Ephedra vanno in profondità nello scrivere le loro canzoni e fanno provare all’ascoltatore un’esperienza nuova, ampliando le possibilità della musica strumentale, con la loro miscela di stoner doom ed heavy metal.

Le miscele se equilibrate e fatte bene sono irresistibili.

E’ questo il caso degli Ephedra, da Zofingen nel cantone Argovia, quartetto svizzero che propone un suono davvero particolare, a cavallo di molti generi, tra i quali lo stoner, il doom, ma con un fortissimo substrato di heavy metal, più che altro un sentire. In questo disco d’esordio gli Ephedra fanno sfoggio di un suono che non è facile da sentire, possiamo prendere come punto di partenza la musica pesante strumentale dei Karma To Burn. ad esempio, anche se qui la filigrana è più sottile, ma giusto per far capire all’ascoltatore cosa lo aspetta. Partendo da queste coordinate gli Ephedra viaggiano fra i generi, e nella stessa canzone possiamo ascoltare post rock, post metal ed altro. Ancora più in profondità la struttura della maggior parte delle canzoni è composta da un’epicità e classicità metal davvero peculiare. Gli Ephedra vanno in profondità nello scrivere le loro canzoni e fanno provare all’ascoltatore un’esperienza nuova, ampliando le possibilità della musica strumentale, rendendo Can’- Ka No Rey un disco molto particolare. Il titolo del disco deriva dal nome di un luogo nella saga della Torre Nera di Stephen King, e questo già rende bene l’idea dell’epicità fantasy insita in questo disco, che è davvero piacevole alle orecchie di chi lo sente, perché è strutturato davvero bene. Gli svizzeri fanno venire voglia di sentirli molte volte, e sarà interessante testarli dal vivo, anche perché il loro suono è stato costruito sui palchi delle loro numerose esibizioni di fronte al pubblico. Un album di esordio molto positivo, ma che soprattutto si distacca dalla media dei lavori di altre band a loro affini.

TRACKLIST
1.Vicious Circle
2.Bad Hair Day
3.Mother Stone
4.Cornfield Disaster
5.Monday Morning
6.Metamorphosis Calypso
7.Coco Mango Soup
8.Happy Threesome
9.Road Trip
10.Barstool Philosophy
11.Moonshiner
12.Southern Love

LINE-UP
Roman Hüsler -Guitar
Andy Brunner – Guitar
Kilian Tellenbach – Bass
Tomi Roth – Drums

EPHEDRA – Facebook

Azooma – The Act Of Eye

The Act Of Eye è un concept diviso in otto capitoli, altrettanti atti di un’opera estrema progressiva tutta da seguire nelle sue scorribande tra le varie anime del death metal.

Arriva sul mercato tramite la Xtreem il debutto sulla lunga distanza dei notevoli Azooma, band iraniana che aveva stupito con il primo ep licenziato un paio di anni fa, A Hymn Of The Vicious Monster, e del quale ci eravamo occupati all’epoca si In Your Eyes.

Ci avevamo visto giusto allora, visto la qualità altissima di questo nuovo lavoro del gruppo proveniente dalla città di Mashhad.
Gli Azooma suonano un death metal progressivo, tecnicamente sono dei mostri, ma il bello risulta l’emozionalità altissima dei loro brani, oscuri, estremi ma tremendamente coinvolgenti, anche per l’ottimo uso, a tratti, di atmosfere prese in prestito dalla loro cultura, così lontano dalla nostra, ma estremamente affascinante.
The Act Of Eye è un concept diviso in otto capitoli, altrettanti atti di un’opera estrema progressiva tutta da seguire nelle sue scorribande tra le varie anime del death metal, ora brutale, ora ultra tecnico, ora stupendamente progressivo, un vagabondare perdendosi nell’anima oscura di questi musicisti, tra ritmiche destabilizzanti, attimi progressivi dai richiami crimsoniani e del death classico.
Aiutati dal mastermind della label e vocalist degli Avulsed, Dave Rotten, sulla prima traccia (Act 1-Plague Of Predator), il quartetto iraniano si supera e con questo lavoro imprime il suo marchio sul genere proposto: a conferma di tutto ciò arriva come un uragano di note due brani capolavoro come Act 3 – The Ocular Dominance, undici minuti di perfetto connubio tra il progressive rock sperimentale dei King Crimson, il death metal tecnico dei Death e l’oscura brutalità dei Morbid Angel, e la splendida orchestralità di Act 4 – Erosion of Shadows, symphonic/technical/progressive death metal che entusiasma non poco.
Vi ho parlato di soli due brani, ma potrei prendervi per mano e, nominandoli tutti, accompagnarvi tra i meandri di quest’opera senza tempo ne confini, vi lascio invece con ancora in testa la spettacolare Act 5-Non Entity Of Visions, talmente varia nelle atmosfere e nelle ritmiche da farla sembrare almeno tre brani uniti in un solo gioiello estremo, e con l’invito a non perdervi una sola nota di questa bellissima opera di musica totale.

TRACKLIST
1.Act 1 – Plague of Predator
2.Act 2 – Umbra of Mirth
3.Act 3 – The Ocular Dominance
4.Act 4 – Erosion of Shadows
5.Act 5 – Non-Entity of Visions
6.Act 6 – Flare of Flames
7.Act 7 – Objectivity of Oblivion
8.Act 8 – The Eyes: A Tale of Sight and Shadows

LINE-UP
Shahin Vaqfipour – vocals
Ahmad Tokallou – guitar
Farid Shariat – bass
Saeed Shariat – drums

AZOOMA – Facebook

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