Dark Awake – Anunnaki

Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient.

Dark Awake è un progetto dark ambient attivo da circa un decennio per volontà del musicista greco Shelmerdine VI°, e Anunnaki è il quarto full length, uscito originariamente nel 2014 e riedito in vinile, alla fine del 2016, dalla label ellenica Sleaszy Records in edizione limitata a 500 copie.

Il disco in questione mostra un approccio piuttosto lontano dalla più consueta riproposizione ad oltranza di limitati spunti sonori o rumoristici: per una volta, la dichiarazione di intenti di un’artista corrisponde pienamente alla realtà e così, quando sul bandcamp dei Dark Awake ne leggiamo la definizione di progetto dedito a musica neoclassica, marziale, dark ambient e neo folk, non si può che essere del tutto d’accordo.
Impressionano non poco le soluzioni adottate da Shelmerdine, specie quando riesce a far convivere partiture di stampo classico con spunti industrial ambient, come avviene magistralmente in Die Nibelungen, ma l’effetto straniante non è da meno nella greve litania con voce femminile Decay o nelle pulsioni liturgiche di Towards The Nine Angles, deviate da un percussionismo ritmato e da rumorismi assortiti.
Euphoria (Of The Flesh) è un esempio di musica classica dai tratti inquietanti e malevoli, mentre la dark ambient più riconoscibile della title track schiude la strada alla notevole Sacrarium, traccia che riporta alla già battuta strada classico-liturgica.
Chiaramente si tratta di un lavoro per intenditori audaci e pervasi anche da una discreta dose di masochismo: va detto però, ad onor del vero, che la forma di ambient perseguita dai Dark Awake è più movimentata, grazie alle numerose variazioni sul tema e ad una parvenza melodica presente in quasi tutti i brani, benché qui venga meno ogni effetto cullante e rassicurante, catapultando invece l’ascoltatore in un’atmosfera sovente da incubo.
Un album molto convincente, che il formato in vinile dovrebbe ancor più valorizzare rendendolo appetibile agli estimatori del genere, oltre a costituire una buona base di partenza per esplorare il resto della discografia firmata Dark Awake.

Tracklist:
1. Blut Ist Feuer
2. Die Nibelungen
3. Decay
4. Towards The Nine Angles
5. Virgo Lucifera
6. Euphoria (Of The Flesh)
7. Thy Satyr
8. Anunnaki
9. Sacrorum

Line-up:
Shelmerdine VI° – All Instrumentats, Orchestration
Sekte – Vocals

DARK AWAKE – Facebook

Firewind – Immortals

Un album travolgente, una prova di forza per una delle migliori band europee nel genere, perfetta macchina da guerra tra power metal teutonico ed heavy prog.

Più che recensirlo (termine alquanto antipatico e che sinceramente non rappresenta il mio spirito di semplice narratore della musica che vado ad ascoltare) l’ennesimo album di una band importante come i Firewind di Gus G. va appunto descritto, o meglio raccontato, tanto lo sappiamo tutti che al suo interno troveremo nobile metallo epico, tra power e prog, drammatico, intenso, suonato e prodotto in modo impeccabile.

Apollo Papathanasio è uscito dal gruppo, il suo microfono è stato messo nelle mani del bravissimo Henning Basse che il suo mestiere lo sa fare alla grande, specialmente quando l’atmosfera si fa infuocata e, senza mezzi termini, si fa power heavy metal con gli attributi all’ennesima potenza, d’altronde si parla del tipo che fece fuoco e fiamme sugli album dei Brainstorm e Metalium.
I Firewind per questo lavoro hanno scelto di affrontare l’avventura monotematica del concept album per la prima volta in carriera, ed ovviamente la scelta non poteva che cadere sulla storia del loro paese, culla culturale del Mediterraneo e ricca, nella sua millenaria storia, di battaglie epiche e leggendarie come in questo caso quelle delle Termopili e di Salamina, durante la seconda invasione persiana del 480 a.C.
Immortals è poi stato messo nelle mani di Dennis Ward, che ha produtto, mixato e masterizzato l’abum (prima volta che il gruppo collabora con un produttore esterno), aiutando pure Gus G. nella sua stesura.
Insomma, Immortals per il gruppo assomiglia tanto ad un nuovo inizio, anche se le avvisaglie di un spostamento del sound verso un più diretto power metal dai rimandi tedeschi si era già intravisto nel precedente lavoro (Few Against Many), qui accentuato dall’epicità del concept, dal notevole lavoro di una sezione ritmica devastante e da un Gus G. che, se i fans me lo permettono, descriverei più diretto nelle sue scorribande chitarristiche da guitar hero (e se attualmente è l’uomo di fiducia di Ozzy, un motivo ci sarà).
Poi su tutti e tutto emerge l’enorme talento del singer tedesco che, senza fare inutili paragoni con il suo storico (per la band ed i suoi fan) predecessore conquista, annienta, stravolge e mette l’ombrellino su questo cocktail da consumare con parsimonia, altrimenti si rischia di uscirne ubriacati dalla pienezza della musica dei Firewind.
Un album travolgente, una prova di forza per una delle migliori band europee nel genere, perfetta macchina da guerra tra power metal teutonico ed heavy prog, tragico ed oscuro come gli attimi più estremi della musica di Michael Romeo ed i suoi Symphony X.
Fin dall’opener Hands Of Time verrete travolti dalla potenza delle battaglie: sangue, orgoglio, epicità, coraggio che la sei corde di Gus G. riesce a rendere reali, mentre Basse sfiora la perfezione, con una prova rabbiosa e colma di fierezza su spettacolari episodi veloci come il vento caldo che spazza i territori dell’antica Grecia, teatro di queste leggendarie imprese.
Ode To Leonidas, la successiva Back To The Throne, il mid tempo di Live And Die Bye The Sword sono il cuore pulsante, tenuto in mano e alzato al cielo dal guerriero Basse, di questo notevole lavoro, anche se troverete di che godere per tutta la sua intera durata.
Inutile dire che Immortals è uno dei primi top album di questo inizio 2017, obbligatorio per chiunque ami il genere e in senso lato per chi ama la musica metal in una delle sue più nobili forme.

TRACKLIST
01. Hands Of Time
02. We Defy
03. Ode To Leonidas
04. Back On The Throne
05. Live And Die By The Sword
06. Wars Of Ages
07. Lady Of 1000 Sorrows
08. Immortals
09. Warriors And Saints
10. Rise From The Ashes

LINE-UP
Gus G. – Guitars
Petros Christo – Bass
Bob Katsionis – Keyboards
Johan Nunez – Drums
Henning Basse – Vocals

FIREWIND – Facebook

Dantalion – …And All Will Be Ashes

La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera.

Nell’ascoltare questo disco mi sono reso conto all’improvviso che, nel parlare della scena doom death spagnola, ho sempre omesso di citare i Dantalion ma, a ben vedere, un buon motivo c’era: la band galiziana, infatti, nella prima parte della sua carriera era dedita ad una black oscuro, a tratti persino avvicinabile al depressive (ho apprezzato molto, all’epoca, All Roads Lead To Death), prima di approdare in maniera totale alla musica del destino, nelle sue forme più estreme e dolorose, con Where Fear Is Born, risalente al 2014.

E’ molto probabile che il cambiamento  sia giunto anche in seguito al pesante rimpasto della line-up avvenuto dopo Return To Deep Lethargy (2010), ma quella che non è cambiata è la realtà di una band capace sempre di maneggiare in maniera efficace la materia oscura, indipendentemente dal genere prescelto.
Oggi le coordinate stilistiche spingono in direzione decisa verso una band seminale come i Novembers Doom, senza ovviamente dimenticare la naturale “dipendenza” dai My Dying Bride e non disdegnando di guardare alle splendide e consolidate band connazionali come Evadne ed Helevorn: quello che ne esce fuori è un gran bel disco, specialmente quando la band di Vigo lascia sfogare la propria vena più melodica e malinconica (Crimson Tide) .
…And All Will Be Ashes parte molto bene, con i primi tre brani (oltre a quello già citato, la bellissima ed evocativa Fleshly Sin e A River Of Depravation, che ossequia a tratti i primi Paradise Lost) efficaci e intensi come si richiede al genere, per poi scemare leggermente nella fase centrale: Desperation Nights viene risollevata, dopo un inizio piuttosto opaco, da un bel lavoro chitarristico nella seconda parte, Shadows Doomed To Die ne ricalca a grandi linee gli aspetti, mentre Tears Of Ash, posizionata nel mezzo, è un breve ed interlocutorio strumentale.
Ci pensa la conclusiva No Place For Faith, contraddistinta come il resto del lavoro dal pregevole lavoro della chitarra solista, a riporta l’album al livello della sua prima metà, lasciando così soprattutto buone sensazioni.
La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera: a chi volesse approfondire proprio questo periodo consiglio di ascoltare l’esaustiva compilation The Ravens Fly Again, uscita nel 2014,che raccoglie il meglio dei primi quattro full length, mentre agli altri non resta che seguire il gruppo spagnolo in questa sua nuova incarnazione, senz’altro allo stesso modo convincente.

Tracklist:
1. Fleshly Sin
2. A River Of Depravation
3. Crimson Tide
4. Desperation Nights
5. Tears Of Ash
6. Shadows Doomed To Die
7. No Place For Faith

Line-up:
Villa – Drums
Brais – Guitars
Rober – Bass
Andres – Guitars
Diego – Vocals

DANTALION – Facebook

Cromo – Hereafter

Hereafter è un disco intenso e perfettamente suonato e cantato: per i Cromo un esordio da non perdere.

I Cromo suonano heavy metal classico forgiato nell’acciaio, con fuoco e fiamme che modellano e domano la lega che dalla notte dei tempi accompagna l’arma degli eroi e delle leggende.

La band festeggia i dieci anni di attività con il debutto sulla lunga distanza che segue il primo demo uscito nel 2010 (Heavy Metal Lover) ed il primo mini cd (Unchained), licenziato quattro anni fa.
Hereafter è stato affidato per la produzione a Salvatore Addeo negli Aemme Recording Studios di Lecco, mentre per il mastering ci si è spinti fino ai Metropolis Studios di Londra (The Clash, The Cure, Led Zeppelin, Iron Maiden, The Who, Slipknot, Garbage).
Tanta gavetta live e palchi divisi con glorie metalliche come Girlschool ed Angel Witch hanno forgiato il sound ed i suoi creatori, ed ora le note metalliche di Hereafter possono conquistare la scena metallica underground a colpi di musica dura, a tratti epica come solo il metal classico sa essere, conquistando grazie ad  intrecci chitarristici che nascono negli anni ottanta per esplodere in tutta la loro magnifica potenza nel nuovo millennio: quale valore aggiunto ecco poi un vocalist (Matteo “Blade” Musolino) che a tratti commuove nel suo saper dosare quello che la storia del genere gli ha messo a disposizione, non un semplice emulo ma un animale di razza, tra Dickinson, Halford e … sé stesso .
I primi cinque brani dell’album sono da scolpire sulle tavole della legge dell’heavy metal: ritmiche serrate, solos potenti e melodici, chorus da urlare a squarciagola prima di tuffarsi nella mischia di uno scontro o semplicemente sotto il palco, cominciando dall’opener Unchained, dalla priestiana Supersonic e dall’inno Pedal To The Metal, a livello di sound una perfetta via di mezzo tra Primal Fear e Manowar.
Non mancano piacevoli riferimenti al Bruce Dickinson solista di The Chemical Wedding su questo lavoro, specialmente nelle ottime Heart Of The Brave e Waiting For The Death To Come, mentre si arriva in un attimo alla fine delle ostilità, passando per Desperate Cry e Desert Tales, fino all’epic folk heavy metal di Iron Call, altro brano su cui il gruppo comasco potrà costruire i prossimi fiammeggianti live.
Hereafter è un disco intenso e perfettamente suonato e cantato: per i Cromo un esordio da non perdere.

TRACKLIST
01. Unchained
02. Supersonic
03. Heart Of The Brave
04. Pedal To The Metal
05. Waiting For The Death To Come
06. Dreams Still Remain
07. Desperate Cry
08. Format
09. Desert Tales
10. You Are Not Alone
11. Iron Call
12. Silver Shade

LINE-UP
Marco “Edge” Musolino – basso, voce
Matteo “Blade” Musolino – voce, synth, chitarra
Davide “Iron” Zamboni – batteria, voce
Claudio “Clod” Conci – chitarra, voce

CROMO – Facebook

ZOLIBORZ

Il video del singolo Mirin Dajo.

Il video del singolo Mirin Dajo.

Please be informed about a debut activity of Zoliborz (progressive metal, Russia) in a new lineup, including a singer from Italy Gabriele ‘GaB’ Grilli (ex-Doomsword, ex-Fury’n’Grace):

Lineup:
Gabriele ‘GaB’ Grilli – vocals, voices
Vitaly Mimoladov – guitars
Steve Di Giorgio – bass
Yanic Bercier – drums

ZOLIBORZ – Facebook

Hobbs’ Angel of Death – Heaven Bled

In questo ritorno di fiamma delle sonorità old school, il thrash metal fa la parte del leone con nuovi lavori e nuove band affiancate da gruppi storici, tornati a bombardare i padiglioni auricolari dei thrashers sparsi per il mondo.

Non poteva certo mancare Peter Hobbs con la sua creatura Angel Of Death, band storica della scena australiana, ferma al 1995, anno di uscita dell’ultimo album, Inheritance.
Attivo dalla seconda metà degli anni ottanta, il gruppo di Melbourne diventò subito oggetto di culto tra gli amanti del genere grazie ad un sound diretto, scarno, metallico e senza compromessi: thrash metal classico con velleità estreme, ma con un occhio di riguardo per il metal old school, ricetta che si sposa anche con questo ritorno targato 2016 e licenziato da High Roller Records per il vecchio continente.
L’opener Il Mostro Di Firenzi, omaggia il nostro paese e i due membri del gruppo (il bassista Alessio “Cane” Medici ed il batterista Iago Bruchi) di chiare origini italiane, presentandoci questo buon esempio di thrash old school, velocissimo come da tradizione, magari leggermente prolisso (un’ora circa di durata è un po’ pesante da digerire se non si è fans accaniti del genere) ma diretto come un pugno ai bassifondi, ruvido e dannatamente old school.
Potranno piacere o meno, ma è indubbio che gli Hobbs’ Angel of Death si lanciano con energia e buona tecnica in una serie di cavalcate aggressive, con la voce del leader feroce e sgraziata il giusto per il sound senza compromessi di questo Heaven Bled.
Per gli amanti delle sonorità old school un ritorno interessante.

TRACKLIST
1. Il Mostro Di Firenzi
2. Walk My Path
3. Final Feast
4. Suicide
5. Drawn And Quartered
6. Heaven Bled
7. Sadistic Domination
8. Son Of God
9. Depopulation
10. TMMF
11. Hypocrites
12. Abomination

LINE-UP
Peter Hobbs – Guitar, Vocals
Simon Wizen – Lead Guitar
Alessio “CANE” Medici – Bass
Iago Bruchi – Drums

HOBBS’ ANGEL OF DEATH – Facebook

Raj – Raj

La prova dei Raj è di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Ep d’esordio per i Raj, band lombardo/veneta dedita ad uno sludge/stoner doom davvero intrigante.

La prima cosa che balza all’occhio è la durata dei brani, imprevedibilmente brevi per gli standard del genere, mentre appare molto più in linea con le abitudini il sound, piacevolmente retrò nel suo unire pulsioni sabbathiane, a partire dalla voce (spesso filtrata) di Francecsco Menghi, con le atmosfere diluite dello sludge e la psichedelia dello stoner.

Chitarra e base ritmica contribuiscono ad erigere un muro sonoro che non stravolge i canoni stilistici conosciuti, puntando su un impatto ossessivo che il riffing dai toni ribassati rende efficace e gradevole a chi è avvezzo al genere; interessante anche il break ambient costituito dalla quarta traccia Black Mumbai, indicatore di una propensione sperimentale che forse meriterebbe d’essere maggiormente distribuita all’interno del disco.
Come detto, il suo essere rivolto al passato, a volte in maniera ostentata, non si rivela affatto una nota di demerito per il gruppo: chi suona questo genere è una sorta di medium, capace di rendere del tutto vive ed attuali sfumature sonore che a molti possono apparire datate; i Raj lo fanno con competenza e convinzione, andando a fondere talvolta il sound più psichedelico dei Doomraiser con certo doom sciamanico in voga negli anni scorsi (Omegagame ne è forse l’esempio migliore ) oppure richiamando in maniera più esplicita, ma comunque non calligrafica, il marchio di fabbrica sabbathiano (Kaluza).
Dovendo cercare il pelo nell’uovo, al netto delle citata traccia ambient, questo ep autointitolato mostra a tratti un’eccessiva uniformità compositiva e, inoltre, non sempre convince la scelta di deformare il timbro vocale; resta il fatto che la prova dei Raj è senz’altro di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Tracklist:
1. Omegagame
2. Eurasia
3. Magic Wand
4. Black Mumbai
5. Kaluza
6. Iron Matrix

Line-up:
Marco Ziggiotti – guitars
Daniel Piccoli – drums
Francesco Menghi – vocals
Davide Ratti – bass

RAJ – Facebook

Enemy Of Reality – Arakhne

La musica sontuosamente sinfonica trova negli stilemi del genere la sua linfa, per poi arricchirsi di suggestioni emozionanti ed atmosfere che passano dal sinfonico al metal, oppure che fondono all’unisono i due generi ancora una volta in modo del tutto naturale.

Senza starci a girare troppo intorno, gli Enemy Of Reality hanno creato un’opera bellissima e colma di pathos, ma non crediate di trovarvi al cospetto di un album originale, Arakhne è infatti il classico lavoro di metal sinfonico con molti pregi e sinceramente nessun difetto, inciso con l’aiuto di diversi importanti ospiti della scena metallica: un concept epico che si nutre della tradizione letteraria greca e di quel quid teatrale/cinematografico fondamentale nell’economia dell’opera.

Questo ottimo gruppo ellenico si è formato solo tre anni fa ed ha un full length alle spalle, Rejected Gods del 2014, passato quasi inosservato, mentre venivano preparati i cannoni per sparare quest’anno una serie di bordate sinfoniche devastanti con Arakhne, magnifico lavoro che vede la partecipazione di Christos Antoniou (Septicflesh, Chaostar), Giménez Ailyn (Sirenia), Mike LePond (Symphony X), Androniki Skoula (Chaostar), Maxi Nil (Jaded Stella, ex Visions of Atlantis), Jeff Waters (Annihilator), Fabio Lione (Rhapsody Of Fire, Angra) e Chiara Malvestiti (Therion / Crysalys).
L’album è stato registrato da George Emmanuel (Rotting Christ) e narra del mito di Arakhne, giovane tessitrice invidiata da tutte le Muse per i suoi splendidi lavori, ma soprattutto dalla dea Atena gelosissima della giovane della Lidia, la cui sorte non è difficile da immaginare anche per chi non ha familiarità con la mitologia.
La prima cosa che salta all’orecchio è la magnifica voce della singer Iliana, operistica, interpretativa e teatrale, suggestiva nei vocalizzi classici come solo migliore Turunen, mentre l’impianto sonoro è dei più epici e sinfonici sentiti ultimamente.
Rispetto per esempio all’ultimo disco degli Epica, massima espressione del genere ma moderno nell’approccio, gli Enemy Of Reality confezionano un’opera d’altri tempi, dando vita alle storie che si svolgono nella culla della cultura mediterranea con un’emozionante serie di atmosfere specchio delle antiche vicende trattate.
La musica sontuosamente sinfonica trova negli stilemi del genere la sua linfa, per poi arricchirsi di suggestioni emozionanti ed atmosfere che passano dal sinfonico al metal, oppure che fondono all’unisono i due generi ancora una volta in modo del tutto naturale.
Nouthetisis, Showdown e In Hiding sono i brani migliori di un’opera che si rivela un’autentica sorpresa e riesce a dare ossigeno ad un genere che era sul punto di venire soffocato da album e gruppi troppo di maniera.

TRACKLIST
1.Martyr
2.Reflected
3.Weakness Lies Within
4.Time Immemorial
5.Nouthetisis
6.Afraid No More
7.Showdown
8.The Taste of Defeat
9.In Hiding
10.I Spare You
11.A Gift of Curse

LINE-UP
Thanos – Bass
Philip Stone – Drums
Steelianos Amoiridis – Guitars
Iliana Tsakiraki – Vocals
Leonidas Diamantopoulos – Keyboards

ENEMY OF REALITY – Facebook

Archaeos – Forgotten Art Of Sacrifice

Passione, sincerità e la giusta dose di misantropia antireligiosa costituiscono gli ingredienti di una ricetta sempre appetitosa, ma non imprescindibile.

I greci Archaeos sono una delle tante band underground che sono finite tra le sapienti mani della War Producitons, etichetta portoghese specializzata in particolare nella pubblicazione di album in formato tape.

Una maniera antica di ascoltare musica che sta nuovamente prendendo piede, nonostante molto la dessero per estinta, in virtù non solo dei costi ridotti (che in tempi di vacche magre ha sempre un suo perché) ma anche di una resa sonora che, pur non raggiungendo i livelli di pulizia del cd, si rivela più adatta di altre al metal, con preferenza per quello con meno fronzoli come lo è sicuramente il black metal.
Forgotten Art Of Sacrifice è il primo Ep per quello che era nato come progetto solista di Archaeos Archon, raggiunto in quest’occasione da Gregor, il quale si occupa di tutta la parte ritmica, lasciando al mainman il compito di districarsi con la restante strumentazione, oltre che vomitare il suo efferato screaming.
Il black degli Archeaos è quanto mai tradizionale e, per ora, non offre spunti indimenticabili, in grado di portarne il nome in particolare evidenza: passione, sincerità e la giusta dose di misantropia antireligiosa costituiscono gli ingredienti di una ricetta sempre appetitosa, ma non imprescindibile, che viene servita agli appassionati un po’ a tutte le latitudini.
Questo avviene, per lo meno , per buona parte di un lavoro comunque breve, prima che il finale epico di Oath Of The Warrior schiuda improvvisamente la strada ad un approccio più arioso, nel quale anche la componente folk acquista un suo peso, facendo intendere (anche nei brevi strumentali Aeolian Mayhem e Sequence to Hades) un potenziale che va oltre le sfuriate in blast beat: infatti, in maniera intermittente (Fiery Winds Over Acherontas), affiora quel gusto anche melodico che potrebbe fare la differenza in una prossima prova su lunga distanza.
Per ora gli Archaeos stanno comodamente in gruppo tenendo le ruote dei migliori, ma la volata finale è affare di altri.

Tracklist:
1. Aeolian Mayhem
2. Fiery Winds Over Acherontas
3. Hail Pan, The Horned One
4. Oath of Warrior
5. Hymn to Nymphs
6. Sequence to Hades

Line-up:
Archaeos Archon – Guitars, Vocals, Keyboards, Songwriting
Gregor – Drums, Bass

ARCHAEOS – Facebook

From the Shores – Of Apathy

Una battaglia infernale tra cielo, terra e acqua, molto swedish non solo nei riff ma nella sua struttura, tra death metal old school e black melodico.

Una band italiana alla corte della Metal Scrap, label ucraina della quale MetalEyes ha avuto il piacere di occuparsi, parlando delle sue band, di buon livello medio e dedite ai generi più disparati.

Il sound dei From The Shores è un death metal feroce, in cui non mancano soluzioni vicine al black ed ottimi spunti melodici: il quintetto veneto, nato nel 2008 e con solo un ep ed un singolo alle spalle, di ormai cinque anni fa, è al primo lavoro sulla lunga distanza.
Of Apathy è furente, suonato con un’urgenza tipica del thrash metal , ma oscuro e devastante e dalle chiare influenze death/black scandinave.
le melodie, molto importanti nell’economia dei brani sono lasciate a solos di ottima fattura, che non scendono sotto il limite di una velocità disumana, ma mantengono un ottimo appeal e rendono i brani godibili nella loro furia estrema, una vera battaglia infernale tra cielo terra e acqua, molto Swedish, non solo nei riff ma nella struttura, tra death metal old school e black melodico.
Quasi quaranta minuti di metal estremo di matrice nordeuropea (Dissection, At The Gates), con il growl deciso e perfetto di Luca Cassone, le ritmiche infernali della coppia Nicolò ‘Theo’ Del Zotto (basso) e Nicolò Sambo (batteria) e l’ottima vena dei due chitarristi Leonardo Manente e Giorgio Dorigo, davvero bravi nel mantenere un approccio melodico alle sfuriate estreme del loro strumento come in Heaven’s Dark Harbinger, Incest of the Wretched e Hourglass.
Un esordio più che positivo per la band veneta ed ottimo colpo della Metal Scrap: Of Apathy risulta un lavoro soddisfacente ed un nuovo e solido punto di partenza per i From The Shores.

TRACKLIST
1. This Ain’t Another Feast For Crows
2. Heaven’s Dark Harbinger
3. The Constellation Thirst
4. To Rest In Arms Of Perfection
5. Incest Of The Wretched
6. Primal
7. Opus XIII
8. Hourglass
9. I, The Firebreather
10. Weakness Of The Flesh

LINE-UP
Luca Cassone – vocals
Nicolò ‘Theo’ Del Zotto – bass & vocals
Leonardo Manente – guitar
Giorgio Dorigo – guitar
Nicolò Sambo – drums

FROM THE SHORES – Facebook

Inferno – Genética Humana

Gli Inferno suonano musica senza compromessi, mantenendo un approccio duro e puro per gli amanti della musica arrabbiata, non solo musicalmente ma soprattutto socialmente.

Attivi dal 2009, i thrashers spagnoli Inferno debuttano sulla lunga distanza con Genètica Humana, trentadue minuti di thrash metal con qualche spunto death ed hardcore, una mazzata devastante e senza soluzione di continuità .

Dunque solo un ep a rompere il silenzio discografico, un paio di anni fa con Arrodíllate, poi la band finalmente si è messa al lavoro per dare alle stampe questo full length che, senza far gridare al miracolo risulta un buon esempio di metal d’assalto, cantato in lingua madre e dall’impatto live.
Band, infatti, che dà il meglio di sé su di un palco, il quintetto di Ceuta non molla il piede dall’acceleratore e l’album dall’inizio alla fine è un turbine di devastante velocità ed impatto, che accompagna testi socio/politici, dunque dall’attitudine più hardcore che thrash, anche se tra i solchi delle agguerrite Cien mil golpes, Cultura del egoismo,
Millones de ratas echi di Angelus Apatrida e primi Anthrax, fanno capolino tra solos velocissimi e ritmiche spaccaossa.
Un album in verità solo per i fans accaniti del genere: gli Inferno suonano musica senza compromessi, mantenendo un approccio duro e puro per gli amanti della musica arrabbiata, non solo musicalmente ma soprattutto socialmente.

TRACKLIST
1.Avaricia
2.Cien mil golpes
3.Asesino
4.Muérete
5.Cultura del egoísmo
6.No es tu Dios
7.Tu credo
8.Millones de ratas
9.Genética humana
10.Amnesia

LINE-UP
Carlos Bermejo – Bass
Miguel Osuna – Drums
Antonio González – Guitars
Juan Manuel León – Vocals
Koto – Guitars

INFERNO – Facebook

Ultha – Converging Sins

La band afferma di essere un blend di USBM, Scandinavian BM,doom miscelato con darkwave vocals;altamente consigliato

Nell’oscuro e multiforme mondo del black metal esistono realtà che cercano di emozionare l’ascoltatore, creando un suono che memore delle nobili radici possa evolvere in un qualcosa di personale e riconoscibile.

A mio parere questo è il caso degli Ultha, quintetto teutonico proveniente da Colonia, giunto con Converging Sins al secondo full length dopo l’esordio “Pain Cleanses Every Doubt” del 2014; band estremamente prolifica, visto che nel giro di due anni ha prodotto anche un EP e uno split di omaggio ai Bathory (le nobili radici) con il brano Raise the dead.
Gli Ultha ci propongono un album monumentale sia come lunghezza, cinque brani per sessantaquattro minuti circa, sia come varietà di suoni; non vi è nulla di sperimentale nel loro suono o di particolarmente complicato, ma è la loro capacità di miscelare diverse influenze a fare, secondo me, la differenza con altre opere: si colgono echi di Emperor, sprazzi di Wolves in the Throne Room e altre delizie che lascio all’ascoltatore che si vorrà cimentare nell’ascolto. Le atmosfere si fanno subito intriganti fin dal primo lunghissimo brano, circa diciotto minuti, che inizia in pieno clima atmospheric con un evocativo e affascinante arpeggio di chitarre doppiato da avvolgenti tastiere, per poi esplodere in una sfuriata black, sorretta da uno scream particolarmente efficace; il guitar work è sempre piuttosto creativo nell’elaborare momenti suggestivi e “melodici” per un risultato melanconico ma al contempo aggressivo. Anche la presenza , nella prima parte del secondo brano di nove minuti, di clean vocals femminili a sorreggere la struttura, non scalfisce il mood oscuro che si manifesta pienamente nella seconda parte con un disperato scream e i suoni taglienti delle chitarre. Gli altri tre brani offrono ulteriori particolarità sonore con una menzione speciale per l’ ultimo brano che presenta un intro particolarmente sinistro, lento e surreale per poi deflagrare in una cavalcata infinita. Così dovrebbe essere inteso il black metal oggi, come la possibilità di poter intessere mille idee su un genere da sempre aperto alle sperimentazioni, cosa che farà inorridire tutti i credenti del “true”, ma credo che la strada intrapresa da questa giovane band possa essere quella giusta per poter esprimere la propria personalità; mi aspetto ulteriori grandi cose da loro in futuro.

TRACKLIST
1. The Night Took Her Right Before My Eyes
2. Mirrors in a Black Room
3. Athame | Bane Emanations
4. You Will Learn About Loss
5. Fear Lights the Path (Close to Our Hearts)

LINE-UP
Chris Noir Bass, Vocals
Manuel Schaub Drums
Andy Rosczyk Electronics
Ralph Schmidt Guitars, Vocals
Ralf Conrad Guitars

ULTHA – Facebook

Acranius – Reign Of Terror

Un buon lavoro, consigliato sia agli amanti del genere sia a chi si aggira per il mondo estremo con totale naturalezza.

Le tribù degli Acranius hanno invaso la foresta e hanno massacrato ogni essere vivente che nel sottobosco vi dimorava, hanno distrutto tutto, mentre gli abitanti sono stati uccisi tra atroci tormenti, impalati, bruciati e seviziati dagli abominevoli mostri.

Benvenuti nel mondo degli Acranius, brutal death metal band tedesca, attiva dal 2009 e con una già buona discografia alle spalle che vanta un ep e tre full length. compreso questo ultimo guerresco e brutale Reign of Terror.
Il brutal death metal del quartetto di Rostock risulta alimentato da ottime ritmiche hardcore che si alternano ai blast beat e ai rallentamenti di disumana potenza, rendendo il lavoro vario e di ottima presa.
La devastante atmosfera da massacro che aleggia sui brani mantiene, insieme al growl da orco sadico del buon Kevin, quella brutalità insita nel sound del gruppo ma che viene addomesticata dalle ottime ritmiche chitarristiche di stampo hardcore, che sulla maggior parte dei brani fa la differenza.
Quando poi sono i mid tempo a prendere possesso della trama musicale del disco, sono dolori, schiacciati da tonnellate di note pregne di estremismo al limite dell’umano.
Si passa così da brani di genere come Kingmaker, a rallentamenti mostruosi che debordano da Return To Violence, a tracce che lasciano trasparire la vena hardcore del gruppo come Built On Tradition.
Il resto continua su questa falsariga, rendendo l’ascolto di Reign Of Terror alquanto interessante e sicuramente non noioso.
Un buon lavoro, consigliato sia agli amanti del genere sia a chi si aggira per il mondo estremo con totale naturalezza.

TRACKLIST
1.Born a King
2.Kingmaker
3.Return to Violence
4.Outlaw
5.Built on Tradition
6.The True Reign
7.Warpath
8.Battle Scars
9.The Executioner
10.Died a Liar

LINE-UP
Lars Torlopp – Bass
Björn Frommberger – Guitars
Rob Hermann Arndt – Drums
Kevin Petersen – Vocals

ACRANIUS – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Pain Of Salvation – In the Passing Light of Day

Daniel Gildenlöw riversa in questo disco tutte le esperienze vissute in questi ultimi anni, mettendosi a nudo di fronte agli ascoltatori e realizzando, con il fondamentale contributo dei suoi compagni d’avventura, il disco forse più maturo e completo dei Pain Of Salvation.

Negli anni a cavallo del nuovo millennio i Pain Of Salvation si palesarono sulla scena musicale come una sorta di inattesa supernova, proponendosi come band capace di rileggere, finalmente in maniera personale, fresca ed esaltante, la materia progressive, ammantandola di una robusta intelaiatura metallica e rifuggendo sempre il pericolo del tecnicismo fine a sé stesso.

Personalmente, dal 1997, anno di uscita dell’album d’esordio Entropia, fino al 2002, quando venne pubblicato Remedy Lane, ho considerato la band di Daniel Gildenlöw la manifestazione più eccitante e luminosa di talento musicale che quegli anni ci avessero regalato, riuscendo nella non facile impresa di lasciar riposare sugli scaffali, per molto più tempo del solito, i dischi dei grandi del passato, prossimo o remoto a seconda della sponda di approdo di ciascuno al prog metal (etichetta di comodo che è sempre stata stretta ai Pain Of Salvation).
Poi, quando tutti attendevano l’annunciata parte seconda del capolavoro The Perfect Element, arrivò invece Be, opera ambiziosa che provocò reazioni contrastanti e che, al di là di chi avesse torto o ragione, segnò l’inizio di una fase musicale sempre di alto livello ma, a mio avviso, meno brillante ed innovativa: seguirono infatti il controverso Scarsick e i due Road Salt, dischi questi ultimi senz’altro riusciti e capaci di portare nuovi estimatori alla band, ma decisamente differenti e in qualche modo dall’impatto meno dirompente rispetto ai primi quattro lavori.
Dopo di che il proscenio venne preso dall‘imprevedibilità della vita, ovvero la malattia gravissima che colpì Daniel nel 2014, seguita, fortunatamente, dalla sua lenta ma definitiva ripresa: un fatto del genere lascerebbe il segno in chiunque, figuriamoci in un artista di rara sensibilità come il musicista svedese. Tutto questo ha contribuito a far maturare, successivamente, un lavoro come In the Passing Light of Day che, fin dal titolo, è del tutto intriso di tematiche inerenti l’esile confine che separa la vita dalla morte e il concentrato di sensazioni e stati d’animo derivanti: tutti aspetti, questi, che assumono un altro spessore quando a parlarne è qualcuno rimasto sospeso a lungo su quella sottile fune, rischiando seriamente di piombare nel baratro.
Ne consegue che questo atteso album è il più duro e, al contempo, il più cupo tra quelli mai usciti a nome Pain Of Salvation, ritornando stilisticamente ai fasti di The Perfect Element, laddove la robustezza delle partiture metal andavano a sposarsi con naturalezza ad aperture melodiche capaci di commuovere ed imprimersi per sempre nella mente dell’ascoltatore; è anche vero, d’altronde, che a livello di tematiche lo si potrebbe considerare piuttosto l’ideale seguito di Remedy Lane, disco che non a caso viene citato in diversi momenti, soprattutto nei brani conclusivi.
Tutto questo ci conduce, tanto per sgombrare il campo da equivoci ed andare dritti al punto, al primo capolavoro di questo 2017, nonché all’album che, chi aveva amato i Pain Of Salvation nella prima fase della loro carriera, pensava di aver perso definitivamente la possibilità di ascoltare.
Detto questo, è necessaria una doverosa avvertenza: In the Passing Light of Day necessita d’essere ascoltato con la dovuta dedizione più e più volte, e solo dopo almeno 4 o 5 passaggi diverrà oggetto di un loop dal quale difficilmente ci si riuscirà a sottrarre.
L’impatto iniziale non lascia dubbi: l’incipit strumentale di On a Tuesday è metal ai limiti del djent, prima di aprirsi al più familiare riffing di matrice Pain Of Salvation, mentre le prime parole sussurrate da Gildenlöw, idealmente nel suo letto d’ospedale, fanno rabbrividire (sono nato in questo edificio / fu il primo martedì che io avessi mai visto / e se vivo fino a domani / quello sarà il mio martedì numero 2119) rivelando quella che sarà la portata emotiva dell’intero lavoro: la robustezza delle linee sonore si alterna a melodie vocali nelle quali, per la prima volta nella storia della band svedese, il leader si alterna ad un altro componente della band, il chitarrista islandese Ragnar Zolberg, dotato di una timbrica più sottile che ben si integra con quella di Daniel.
Tongues of God, che arriva subito dopo è una traccia notevole e dai toni robusti quanto oscuri, che non possiede però lo stesso carico emotivo di tutti gli altri brani: il primo di questi è Meaningless, per il quale è stato girato anche un video, secondo alcuni di dubbio gusto ma che, in realtà, se si ascoltano con attenzione le parole e lo si inquadra correttamente nel contesto lirico dell’album, appare crudo quanto funzionale alla causa; musicalmente non si rinvengono i crismi canonici del singolo apripista, essendo tutt’altro che una canzone orecchiabile, se si eccettua un chorus reso trascinante dal ricorso alle due voci all’unisono.
Silent Gold riporta l’album a toni più riflessivi e poetici, trattandosi di una e vera e propria ballad che prepara il terreno al quarto d’ora più robusto dell’album, rappresentato dalla magnifica Full Throttle Tribe e da Reasons, secondo brano scelto per essere accompagnato da un video: nella prima canzone si possono già cogliere accenni, pur se non troppo espliciti, a Remedy Lane, e riascoltare certe note è una sorta di ritorno a casa per gli estimatori di vecchia data dei Pain Of Salvation, sempre tenendo conto che il tutto non fa venire meno il pathos e la drammaticità dell’album e che l’ultimo minuto e mezzo riversa una dote di violenza degna dei connazionali Meshuggah (non del tutto un caso, se si pensa che l’ottimo bassista Gustaf Hielm ne ha fatto parte dal ’95 al ’98). Reasons riparte come si era chiusa la traccia precedente, rivelandosi alla fine l’episodio più definibile a ragion veduta come prog metal dell’intero album, nel suo alternare sfuriate di matrice djent e stop and go a melodie cristalline e deliziose parti corali.
Qui termina la prima metà dell’album e ne inizia un altra nella quale vengono quasi del tutto abbandonate le pulsioni metalliche, per regalare una mezz’ora abbondante di emozioni a profusione, difficili da descrivere se non dicendo che Angels of Broken Things possiede una tensione sempre sul punto di esplodere fino al prolungato sfogo chitarristico di un eccellente Zogberg, che The Taming of a Beast gode di un crescendo inarrestabile e che If This Is the End è, semplicemente, il brano più drammatico e intenso che i Pain Of Salvation abbiamo mai inciso, beneficiando dell’interpretazione sentita di chi ha vissuto davvero sulla propria pelle tutto quanto viene raccontato, inclusa l’invocazione rabbiosa di Dio, un momento capace di accomunare in certe circostanze atei e credenti, pur se con approcci diametralmente opposti.
Resta da parlare brevemente dell’ultima e lunghissima canzone, la title track, non a caso summa e manifesto sonoro e lirico dell’album, con suoi richiami (ora sì più scoperti) a Remedy Lane: un quarto d’ora in cui i Pain Of Salvation si concedono un lungo quanto gradito congedo, lasciandoci in eredità un nuovo e grande album che li riporta meritatamente nel ristretto novero delle band contemporanee per le quali ogni aggettivo appare superfluo ed ogni paragone fuori luogo.
Daniel Gildenlöw riversa in questo disco tutte le esperienze vissute in questi ultimi anni, mettendosi a nudo di fronte agli ascoltatori e realizzando, così, con il fondamentale contributo dei suoi compagni d’avventura, il disco forse più maturo e completo della storia della sua creatura; anche chi non dovesse trovarsi d’accordo con le mie valutazioni sulle diverse fasi del percorso dei Pain Of Salvation, non potrà fare a meno di approvare questa nuova svolta che non rappresenta, comunque, una completa inversione di marcia, bensì la definitiva forma di coesione tra le diverse espressioni musicali da loro esibite in questi vent’anni.
Mi piace l’idea di chiudere questa recensione riprendendo una dichiarazione di Daniel riportata nelle note di accompagnamento al promo dell’album, utile a capire quanto lo spessore dell’uomo non sia certo inferiore rispetto a quello del musicista : “ … quando sono uscito (dall’ospedale) ho dovuto imparare di nuovo come fare le scale. NON ho imparato, invece, che è necessario trascorrere più tempo con la mia famiglia, NON ho imparato che dovrei sprecare meno tempo della mia vita preoccupandomi o stressandomi, NON ho imparato che la vita è preziosa e che lo è ogni suo singolo secondo. No, io non ho imparato tutte queste cose, semplicemente perché già le conservavo nel mio cuore. Noi tutti lo facciamo. Le nostre priorità non cambiano di fronte alla morte, vengono solo rafforzate …
Grazie Daniel, anche solo per queste parole …

Tracklist:
1. On a Tuesday
2. Tongue of God
3. Meaningless
4. Silent Gold
5. Full Throttle Tribe
6. Reasons
7. Angels of Broken Things
8. The Taming of a Beast
9. If This Is the End
10. The Passing Light of Day

Line-up:
Daniel Gildenlöw – vocals, guitars, lute, additional keyboards, additional bass, additional drums and percussion, accordion, zither
Ragnar Zolberg – guitars, vocals, additional keyboards, samplers, accordion, zither
Daniel D2 Karlsson – grand piano, upright, keyboards, backing vocals
Gustaf Hielm – bass, backing vocals
Léo Margarit – drums, percussion, backing vocals

PAIN OF SALVATION – Facebook

The Black Crown – Fragments

Fragments è un album bellissimo, perfetto nei dettagli e composto da dieci piccole gemme musicali.

Che album questo Fragments, opera prima dei The Black Crown, trio capitanato da Paolo Navarretta voce, chitarra e produttore accompagnato in questa ombrosa, drammatica e seducente avventura da Fulvio Di Nocera al basso e Scott Haskitt alle pelli.

Partiamo da questo insindacabile concetto: ogni decennio, in un modo o nell’altro, ha lasciato qualcosa di importante nella storia della musica contemporanea e questi primi anni del nuovo millennio a mio parere, non solo verranno ricordati come il ritorno delle sonorità vintage, ma anche per l’altissima qualità delle proposte del mondo underground.
Se negli anni ottanta ed in parte nel decennio successivo l’underground venne visto quasi come un commovente sottobosco di musicisti poi rivalutati in seguito, oggi proprio da lì arrivano le maggiori soddisfazioni a livello qualitativo e questo Fragments ne è il più fulgido esempio: un metal alternativo che si nutre di dark elettronico, grunge, nu metal e hard rock moderno d’autore, in un stupendo esempio di poesia industriale, un arcobaleno di tonalità che dal grigio portano al nero, come le facciate di palazzi in una città post atomica.
Fragments è la colonna sonora di un film ambientato tra mille anni, dove gli uomini vampiri sono costretti a muoversi di notte per sfuggire ai robot, cloni senz’anima, annientatori di emozioni, tiranni e padroni di ogni forma d’arte in un mondo dove dal nero del cielo una pioggia acida bagna strade ormai non più percorribili.
L’elettronica accompagna l’andamento di brani dal forte sentore alternative metal, il dark moderno ammanta di atmosfere tragicamente oscure brani che mantengono un appeal elevato, la sezione ritmica picchia come e più di una metal band moderna, ed una poetica intimista e drammatica prende direttamente allo stomaco l’ascoltatore, in un delirio di influenze che vedono  God Machine, Nine Inch Nails e i Sundown del capolavoro Design 19, mentre veniamo catapultati nel mondo ombroso e acido di Forge, Ghosts, Rising e delle altre straripanti tracce.
Fragments è un album bellissimo, perfetto nei dettagli e composto da dieci piccole gemme musicali: non resta che farlo proprio.

TRACKLIST
1. Gate
2. Forge
3. Wheel
4. Ghosts
5. Clay
6. Icona
7. Feed
8. Flames
9. Rising
10. Pieces

LINE-UP
Paolo Navarretta – Voce, Chitarra
Fulvio Di Nocera – Basso, Contrabbasso
Scott Haskitt – Batteria

THE BLACK CROWN – Facebook

In My Embrace – Black Waters Deep

Il metal estremo melodico di questi tempi ha nell’underground archi dai quali scoccare ottime frecce, e Black Water Deep è una di queste.

Un gruppo attivo dal 2004, ma che oltre ad un ep uscito un paio di anni fa (Dead to Dust Descend) non aveva licenziato nulla fino a questo primo album, qualcosa in termini di opportunità ha sicuramente lasciato indietro: un vero peccato, perché il primo lavoro degli svedesi In My Embrace è un ottimo esempio di death/black melodico, con un piglio epico a garantire un buon riscontro tra gli amanti dei Dissection, dei Bathory e di tutta la tradizione scandinava in fatto di metal estremo.

Un album ben eseguito, prodotto e suonato, con una manciata di brani ben strutturati tra cavalcate e mid tempo epico battaglieri e veloci sfuriate black metal, nulla di originale ed assolutamente legato alla tradizione del genere:
il pregio maggiore di Black Water Deep è quello di risultare un disco onesto, senza ruffianerie, andando al cuore del genere e dei suoi fans con la sola arma della semplicità.
Dunque black metal melodico, a tratti trascinante, con almeno un paio di brani (Into Oblivion – Dead To Dust Descend part II e Next Chapter) molto suggestivi ed una vena melodica sopra le righe, nulla di più, nulla di meno.
Il metal estremo melodico di questi tempi, pur trovando il successo solo con la sua anima più moderna e core, ha nell’underground archi dai quali scoccare ottime frecce, e Black Water Deep è una di queste, specialmente se si guarda al lato più classicamente black della scena scandinava.

TRACKLIST
1. The Coming Storm
2. Black Waters Deep
3. Into Oblivion – Dead To Dust Descend part II
4. Of Ache And Sorrow
5. Thy Abhorrence
6. The Road Of Hanging On
7. Next Chapter
8. Voyage Of Thoughts
9. Killing Spree
10. Autumn Storm Despair

LINE-UP
Kenneth Larsson – Lead Vocals
Johan Sjöblom – Guitar and Vocals
Bosse Öhman – Guitar
Jon Brundin – Bass
Tommy Holmer – Drums (session)

IN MY EMBRACE – Facebook

Æðra – Perseiderna

Un lavoro stupefacente dal primo all’ultimo secondo, grazie ad una proprietà di scrittura tipica dei fuoriclasse,, e in grado di fondere con naturalezza disarmante black e death, nelle loro versioni atmosferiche, finendo per creare l’ibrido ideale che ogni appassionato vorrebbe creare a tavolino.

Come glielo (ri)spiego, a chi non ascolta da anni un disco nuovo di una band sconosciuta, che là fuori ci sono tali e tante magnifiche realtà musicali che non basterebbe una vita intera per poter godere di ogni singola nota che viene prodotta.

Se qualcuno pensa che stia esagerando cominci a buttare un orecchio (possibilmente aperto, dopo aver fatto altrettanto con la mente) a questo gioiello di metal estremo melodico ed atmosferico marchiato Æðra.
Di questa one man band statunitense, dietro la quale c’è il talento di Erik Lagerlöf, se ne sentiva parlare bene già da un po’, fin dall’uscita del primo demo autointitolato e del full length d’esordio The Evening Red, risalente al 2011.
Tempo ne è trascorso parecchio da allora, ma Erik si fa perdonare con un lavoro stupefacente dal primo all’ultimo secondo, grazie ad una proprietà di scrittura tipica dei fuoriclasse, in grado di fondere con naturalezza disarmante black e death, nelle loro versioni atmosferiche, finendo per creare l’ibrido ideale che ogni appassionato vorrebbe creare a tavolino: un entità capace di esprimere l’impeto epico degli Amon Amarth, le trascinanti melodie dei migliori Dark Tranquillity e quel pizzico di solenne ed oscura glacialità delle band americane (Agalloch e Wolves In The Throne Room).
Perseiderna è tutto questo, e se tale affermazione può apparire eccessiva, prego gli astanti di accomodarsi all’ascolto di questo disco esaltante per freschezza ed intensità: quale ulteriore garanzia c’è il nome dell’etichetta che ha licenziato il lavoro, la Naturmacht, realtà piccola che non inflaziona certo il mercato con le sue produzioni ma che, quando propone una band o un progetto, lo fa sempre a ragion veduta.
Erik, il cui cognome tradisce in maniera evidente radici nordeuropee, si rivela anche un ottimo chitarrista, infarcendo di gustosi assoli i brani di Perseiderna, e non se la cava male nemmeno con la voce, anche se il suo screaming è il piatto meno prelibato della casa (meglio, allora, i rari passaggi in growl); in generale, comunque, funziona tutto alla perfezione, anche quando il musicista dell’Illinois si lancia in un sempre rischioso strumentale pianistico (The Shoreline’s A Starting Point …) o quando decide di chiudere l’album con una traccia di oltre un quarto d’ora di durata, ambiziosa per intento e ricca di variazioni ritmica senza far mai scemare la tensione compositiva ed esecutiva, chiudendo così idealmente il cerchio aperto con la spettacolare doppietta iniziale (la title track seguita da The Rainflower Crest).
Al di là dei prodromi emersi in passato, è innegabile che questo lavoro costituisca una sorpresa dai riflessi abbaglianti mentre, al contrario, non stupisce il fatto che ciò provenga dal nuovo mondo piuttosto che dalla vecchia Europa, patria di queste sonorità, perché proprio l’essere al di fuori di una scena dagli sviluppi piuttosto codificati può consentire di dare sfogo ad una creatività frutto di influenze immagazzinate e rielaborate con mente fresca e libera da condizionamenti di sorta.
Peccato solo che quest’album sia uscito proprio nella seconda metà di dicembre, restando inevitabilmente fuori dalle classifiche del 2016, immaginando che molti, come me, lo avranno ascoltato per la prima volta solo nell’anno nuovo, ma sinceramente è solo un problema per chi tiene alle statistiche, di certo non per quelli che ricercano come l’ossigeno musica buona e, soprattutto, inedita.

Tracklist:
1 Perseiderna
2 The Rainflower Crest
3 Tracing Luna’s Path
4 Alpenglow
5 Svartån
6 The Shoreline’s A Starting Point…
7 …For The Long Road Home

Line-up:
Erik Lagerlöf

Æðra – Facebook

Scream Of The Soul – Children Of Yesterday

Siamo solo agli inizi, ma gli Scream Of The Soul promettono molto: cercheremo di non perderli di vista, nel frattempo cercatevi questo gioiellino di hard rock.

L’Ethereal Sound Works è una delle label underground più importanti del Portogallo e non manca di farci partecipi delle ottime realtà che, dal metal estremo all’hard rock, si aggirano per la terra lusitana, non solo patria dei Moonspell ma con una sua profonda tradizione per quanto riguarda il metal/rock.

Ultimo gruppo proposto dall’etichetta sono gli Scream Of The Soul, quattro rockers provenienti da Vila Nova de Famalicão nel nord del Portogallo, e il loro primo album viene licenziato dopo aver dato alle stampe un ep, ormai sei anni fa, dal titolo Pathfinder.
Prodotto dal guru lusitano Pedro Alves, Children Of Yesterday è un hard rock album che spazia tra le sonorità classiche del periodo settantiano (Deep Purple) e hard rock moderno, creando atmosfere cangianti, dettate dal sempre presente hammond, arma in più del combo e del suo sound.
Infatti le tastiere sono protagoniste di questa fusione ben bilanciata tra suoni moderni e sfumature tradizionali, così, mentre la chitarra e le ritmiche mantengono un’aggressività di stampo grunge, le tastiere impregnano la musica del gruppo di fumi settantiani, tra Deep Purple ed un tocco immancabile di Led Zeppelin.
Ottime The Exorcist, Rainbow Night e Spectrum, ma è tutta la mezz’ora di durata che funziona alla grande, mettendo in mostra un quartetto affiatato e ogni pezzo del puzzle musicale è al posto giusto per regalare rock duro di buon livello.
Siamo solo agli inizi, ma gli Scream Of The Soul promettono molto: cercheremo di non perderli di vista, nel frattempo cercatevi questo gioiellino di hard rock.

TRACKLIST
1.Oblivious Waters
2.The Exorcist
3.Snail
4.Rainbow Knight
5.Brothers In Heart
6.Spectrum
7.Spiritual Leprosy

LINE-UP
Cristiano Silva – Guitars, Vocals
Andrè Silva – Bass
Rudi Sliva – Keyboards
Alexandre Vale – Drums

childthemewp.com