Atlas – Death & Fear

Il quartetto crea così un lavoro colmo di contrasti tra la forza e la pesantezza del genere e veloci ripartenze thrash di scuola statunitense.

Non solo suoni estremi nella fredda Scandinavia, la tradizione hard rock consolidatasi da quelle parti questa volta ci porta tra le sonorità che più hanno dato soddisfazioni in questi primi anni del nuovo millennio.

Con gli Atlas si parla di doom/stoner, più stoner che doom a dirla tutta, di ispirazione statunitense, con un occhio agli anni settanta e piedi ben saldi negli anni duemila.
Come nel nostro paese, foriero di grandi band di genere, lo stoner ha trovato terreno fertile un po’ ovunque e gli Atlas con questo secondo ep si accodano alla scia dei gruppi che seguono la pista tracciata nella Sky Valley, ma con una loro personale interpretazione.
Composto da sei tracce, Death & Fear è un concentrato di suoni hard rock desertici, influenzati da umori settantiani e potenza che in alcuni casi (Black Smoke), sfiora il thrash, per poi tornare a muoversi lento e cadenzato tra i fumi dello stoner/doom (Dog With Two Bones).
Il quartetto crea così un lavoro colmo di contrasti tra la forza e la pesantezza del genere e veloci ripartenze thrash, anche in questo caso di scuola statunitense, muovendosi così tra la sabbia della Sky Valley e quella della Bay Area.
Un gran lavoro della sezione ritmica, sommata a riff che tra irruenza e pesantezza sono scolpiti nel rock/metal americano, fanno di Death & Fear un altro buon tassello aggiunto alla ancora limitata discografia del gruppo svedese che, se saprà utilizzare le sue ispirazioni ed influenze in un futuro full length, si potrebbe ritagliare uno spazio nel mercato stonerizzato.
A Waltz, immancabile jam dai tratti psichedelici, si regala momenti atmosferici e drogati ed esplosioni di metal devastante, risultando il brano top di questo album.
Lasciamo la Svezia e aspettiamo pazienti il primo lavoro sulla lunga distanza, prova del nove per gli Atlas.

TRACKLIST
01.Wermland
02.Black Smoke
03.Dog With Two Bones
04.Covered In Gold
05.A Waltz
06.Death & Fear

LINE-UP
Kalle Persson – guitar
Alexander Huss – bass/vocals
Claes Josefsson – drums
Torsten Gabrielsson – guitar

ATLAS – Facebook

Serpent – Trinity

Trinity per i fans del doom è un album da riscoprire: non imperdibile, ma senz’altro consigliato agli appassionati del genere.

Ennesimo gioiellino metallico pescato tra polverosi scaffali e riedito dalla Vic Records.

Si parla di doom metal classico con gli svedesi Serpent, trio che nel 1993, anno della sua nascita, vedeva collaborare Lars Rosenberg (ex Entombed) e Andreas Wahl (Therion) più Johan Lundell.
La discografia del gruppo è limitata a tre album: il primo, In the Garden of Serpent uscito nel 1996, seguito da Autumn Ride dell’anno dopo, poi riedito nel 2007, anno in cui esce questo ultimo lavoro, Trinity.
Il trio ad oggi è completamente rivoluzionato e vede Piotr Wawrzeniuk (ex-Therion, basso e voce), Ulf Samuelsson alla sei corde e Per Karlsson alle pelli.
Trinity, masterizzato agli Unisound da Dan Swanö, è un buon esempio di musica del destino che da una base sabbathiana sviluppa le sue coordinate stilistiche verso il genere di ispirazione Candlemass e Count Raven.
Lunghe litanie cadenzate si danno il cambio con brani dai ritmi leggermente più sostenuti, le atmosfere messianiche e la voce evocativa rientrano nei canoni della musica del destino di stampo classico ed old school, e il gruppo dà il meglio quando il ritmo diventa un battito cardiaco che si avvia ad un lento spegnersi.
Brani più lineari si intervallano a tracce ispirate come in Serpent Bloody Serpent (chiaro tributo ai Black Sabbath) e December Mourning, un episodio sofferto, lentissimo e violentato da una sei corde satura di watt.
Chasing The Oblivion, più aperta ed heavy, torna ai Count Raven di High on Infinity, mentre la conclusione è affidata a Monolith, che come promette il titolo risulta uno strumentale granitico, dalle atmosfere nere come la pece.
Trinity per i fans del doom è un album da riscoprire: non imperdibile, ma senz’altro consigliato agli appassionati del genere.

TRACKLIST
1.Lamentation
2.Serpent Bloody Serpent
3.Nightflyer
4.Erlkönig
5.December Morning
6.Disillusions
7.Chasing The Oblivion
8.Monolith

LINE-UP
Piotr Wawrzeniuk – Bass, Lead Vocals
Perra Karlsson – Drums
Ulf Samuelsson – Guitar

Alma Irata – Deliverance

Non è solamente la nostalgia che vive in queste note, ma una forza che è rimasta silente per troppo tempo, ovvero quella del rock pesante e pensante.

Disco assai folgorante, con un suono anni novanta davvero speciale.

Nella mia ignoranza mi ricordano i Ritmo Tribale, più grunge e con il cantato in inglese, ma con la stessa forza di impatto. Si torna positivamente indietro di venti anni con gli Alma Irata, un gruppo italiano che spicca per originalità in un momento di tanti buoni cloni. Questi romani hanno una forza ed un’impronta davvero unica. Il loro suono è potente eppure ha la capacità di sgusciare via come il migliore grunge, andando a scavarsi un proprio corso dove scorrere impetuosamente. Alle spalle hanno solamente un ep, Errore Di Sistema, coprodotto dall’italoamericano Ray Sperlonga, per poi approdare a questo disco davvero intenso e suggestivo. Gli Alma Irata ci riportano a quella dimensione di rock pesante con le canzoni composte in maniera intelligente, con vari livelli sia sonori che lirici, e con testi che parlano del nostro quotidiano inferno. L’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un ottimo disco e ad un gruppo che se continuerà la sua maturazione diventerà qualcosa di davvero speciale. Non è solamente la nostalgia che vive in queste note, ma una forza che è rimasta silente per troppo tempo, ovvero quella del rock pesante e pensante.
Un disco davvero affascinante.

TRACKLIST
1.Colac
2.Minimum Wage
3.Crushed Bones
4.Between Two Lines
5.Three Steps to Evil
6.Perfect Lips
7.Viper Tongue
8.The Ship

LINE-UP
Sander – voce, chitarra
Mau – chitarra
Massi – voce, basso
Santos . batteria

ALMA IRATA – Facebook

Double Malt – Addiction

L’album mantiene per tutta la sua durata una buona varietà di ritmi ed atmosfere senza tralasciare il rock’n’roll, padre putativo di questo lavoro.

Ci spostiamo ormai con buona costanza tra i meandri dell’hard rock nato nella nostra penisola, di certo non avara di ottime band che, all’hard rock classico, aggiungono verve e soluzioni moderne con sempre più buoni risultati.

I Double Malt sono un sestetto abruzzese nato nel 2010, con un ep alle spalle (Woman) accolto molto bene dagli addetti ai lavori e che ha permesso loro di calcare i palchi con nomi importanti della scena hard rock italiana e mondiale, come Pino Scotto, Paul Gilbert, John Corabi, Faster Pussycat.
L’album, uscito da un po’ di tempo, è un buon esempio di hard rock americano, dalla vena street, ma che non manca di sfumature alternative, comunque mantenendo costante un approccio stradaiolo.
Le sei corde sparano riff metal rock, mentre le ritmiche tengono stretto un forte legame con il punk rock, genere che viene fuori anche nel cantato sporco del singer Alfredo Mariani.
C’è ne davvero per tutti i gusti in Addiction: tra le tracce fanno capolino una buona fetta dei gruppi storici del rock ottantiano e del decennio successivo, passando agevolmente tra ispirazioni losangeline (Guns ‘n’ Roses, L.A Guns), rock alternativo del decennio successivo, con che l’album che mantiene per tutta la sua durata una buona varietà di ritmi ed atmosfere non dimenticando il rock ‘n’ roll , padre putativo di questo lavoro.
Tra i brani, Room 182, il punk rock di Let Me Roll ed il rock irriverente di Therapy colpiscono nel segno, canzoni d’impatto che non mancheranno di appagare i gusti dei rockers sparsi per lo stivale.

TRACKLIST
1.Right Time
2.Hear Me, I Scream
3.Room 182
4.P.H.
5.Let Me Roll
6.Just You Know Why
7.Goodnight
8.Therapy (feat. Dario Rosignoli)
9.Long Way
10.Me and the Sweet Dark Side

LINE-UP
Alfredo Mariani – Voice
Vittoriano Palerma – Keyboards and synth
Angelo Lo Tesoriere- Guitar and backing vocals
Bruno Sciri – Guitar and backing vocals
Davide D’Amico – Drums
Francesco Casoli – Bass and backing vocals

DOUBLE MALT – Facebook

Across the Burning Sky – The End Is Near

Composti da una line up di musicisti attivi da più di vent’anni, debuttano il melodic deathsters svedesi Across The Burning Sky con questo buon esempio di come veniva suonato il genere nei suoi primi anni di vita.

Infatti,  per il quintetto scandinavo, il tempo sembra essersi fermato agli anni in cui la scena melodic death esplodeva sul mercato con una serie di album diventati storici così come molte delle band protagoniste.
Se questo è un male o un bene decidete voi, il sottoscritto vi può solo garantire che The End Is Near è pura goduria per i deathsters che non hanno ancora digerito la svolta americana di In Flames e Soilwork (tanto per fare dei nomi) e malinconicamente si trastullano ancora con le vecchie opere della band di Anders Friden e Children Of Bodom, ma soprattutto, Unanimated e Night In Gales.
L’impronta black metal è forte nel sound del gruppo, i brani pur concedendo un ottimo lavoro chitarristico, con le melodie a farla da padrone nei solos, risultano veloci e agguerriti.
Lo scream è di quelli tosti, nervosi e senza compromessi, le ritmiche sono sferraglianti e l’approccio è da considerare assolutamente old school.
Per chi conosce in maniera superficiale la scena direi che i Children Of Bodom orfani delle tastiere e con una predisposizione per il black metal si avvicinano a quello che gli Across The Burning Sky, con le loro devastanti Towards The Sky, Call Of The Ancient Gods ed Ashes To Ashes vogliono trasmettere.
Pure fucking melodic death metal, prendere o lasciare … io prendo.

TRACKLIST
1.The Death March
2.Demons Rising
3.Towards The Sky
4.Sacrifice
5.Call of the Ancient Gods
6.The Fourth Deadly Sin
7.Shadows Embrace
8.Ashes to Ashes
9.Bloodlines
10.The End
11.The Final March

LINE-UP
Hakon – Bass
Sethor – Drums
Zodiac – Guitars
Matte – Guitars
Aki – Vocals

ACROSS THE BURNING SKY – Facebook

Endemise – Anathema

La band dei fratelli Sauvé, con questo disco, si crea decisamente la possibilità di uscire dai confini nordamercani per approdare ad un Europa senz’altro più ricettiva a questo tipo di sonorità

Lavoro di grande impatto per i canadesi Endemise, autori, con Anathema, del loro terzo full length.

La band di Ottawa è attiva da circa una decina d’anni nel corso dei quali ha senza dubbio affinato la propria conoscenza e la capacità di riproporre al meglio le sonorità symphonic black che fecero la fortuna, alla fine del secolo scorso di Cradle Of Filth e Dimmu Borgir, ed è soprattutto a questi ultimi che i nostri si rifanno, anche se in maniera non così smaccata come si potrebbe temere, un po’ come i loro colleghi statunitensi Abigail Williams.
Infatti, se il symphonic black degli Endemise è tutt’altro che sorprendente per i suoi contenuti, lo è invece per la qualità con il quale viene proposto, a partire dalla produzione, passando per una prova impeccabile a livello strumentale e vocale, e finendo con un songwriting di livello, capace di attrarre con melodie ariose che spesso di infrangono sulle accelerazioni furiose ma sempre ben controllate.
Due brani magnifici (la title track e Soma) ed un’altra manciata di episodi trascinanti e mai stucchevoli sono il fatturato più che positivo che gli Endemise mettono sul piatto: il genere offerto non sarà forse il più fresco ed innovativo possibile ma, quando viene esibito con tale cognizione di causa, è sempre un bel sentire.
La band dei fratelli Sauvé, con questo disco, si crea decisamente la possibilità di uscire dai confini nordamercani per approdare ad un Europa senz’altro più ricettiva a questo tipo di sonorità, non fosse altro che per il fatto d’avervi dato i natali.
Un lavoro che stupirà chi degli Endemise non ha mai sentito parlare, e mi si consenta, per finire, una piccola nota di colore volta anche a dirimere eventuali dubbi: anche se il vocalist di chiama Franky Falsetto non attendetevi un’interpretazione in stile King Diamond, perché il nostro si produce in uno screaming growl impietoso e di rara efficacia, che davvero non ha nulla a che spartire con il suo cognome …

Tracklist:
1.Nocturne
2.Anathema
3.Blackening
4.Procreator
5.Fragments in Stone
6.Soma
7.Come Serene Dark
8.Fragments in Flame

Line-up:
Franky Falsetto – Vocals
Dale Sauvé – Guitar
Graham Murpy – Guitar
Alex Aksentyev – Bass
David Sauvé – Drums

ENDEMISE – Facebook

Burial in the Sky – Persistence of Thought

Un buon album che gli amanti del technical death metal apprezzeranno sicuramente.

Ottimo lavoro da parte dei Burial In The Sky, duo di polistrumentisti e funamboli della sei corde provenienti dalla Pennsylvania.

Con Samus Paulicelli,drummer dei Decrepith Birth ed ex Abigail Williams, Will Okronglis (chitarra e voce) e James Tomedi (chitarra, basso e tastiere) debuttano sulla lunga distanza dopo due ep rilasciati rispettivamente nel 2013 (anno di fondazione) e 2014.
Il loro death metal, molto tecnico e alquanto brutale, si impreziosisce di atmosfere progressive con accelerazioni devastanti, blast beat, per poi trasformarsi in attimi di sulfuree e delicate parti armoniche, e ripartire infine a velocità impazzite verso universi sconosciuti.
Musicalmente il tutto è perfettamente bilanciato e smorza quel senso di forzato, comune ad opere del genere, merito di un buon songwriting e dell’importanza che il gruppo dà alle parti estreme.
L’atmosfera progressive vive nelle melodie settantiane di cui i Burial In The Sky fanno uso, prendendo spunto dai Pink Floyd e dallo spirito psichedelico dei loro primi album, mentre come una belva in agguato la parte estrema si catapulta con tutta la sua ferocia sullo spartito, così da risultare un continuo botta e risposta tra le due facce del sound.
La grande tecnica non inficia la buona presa dei brani, specialmente i primi tre che vanno a comporre un mini concept (Entry I, Entry II e Entry III), mentre nella seconda parte sono le armonie intense e brutali di Galaxy Of Ghosts a fare la parte del leone.
Un buon album che gli amanti del technical death metal apprezzeranno sicuramente.

TRACKLIST
1.Entry I
2.Entry II
3.Entry III
4.Anchors
5.Galaxy of Ghosts
6.Dimensions Divide

LINE-UP
Will Okronglis – Guitars (rhythm), Vocals
James Tomedi – Guitars, Keyboards, Bass

BURIAL IN THE SKY – Facebook

Almassacro – Ostilità

Uno dei migliori dischi underground italiani dell’anno, ed uno dei migliori lavori in ambito rapcore.

La musica ha molti usi, ognuno dentro di sé ne conosce il più intimo, quello più adatto a lui, ma sicuramente è il veicolo migliore della propria rabbia, e qui in Ostilità dei sardi Almassacro di rabbia ce n’è tanta.

Questo disco è una cosa rara, nel senso che musicalmente siamo nei sobborghi della New York anni novanta, dove il rap si abbracciava mortalmente al metal, o nella Los Angeles dei Downset, stessi codici facce diverse, come nella Sardinia del 2016. Gli Almassacro fanno un disco fantastico di metal e di rap, di cuore e di stomaco, testi bellissimi e una musica che viaggia benissimo. Il loro è un rapcore esplosivo, nemmeno politico, è rabbia che viene dal basso, contro i capi e i loro sgherri. Ostilità è proprio ciò che dice il titolo, ed è un lavoro esplosivo fatto benissimo, che fa il paio con un’altra meraviglia, ovvero il disco dei La Furia, altro capolavoro. Qui rispetto ai La Furia c’è più metal, più rapcore, anche perché i ragazzi del gruppo provengono da altre esperienze con gruppi prevalentemente hardcore, per cui le coordinate sono quelle ma si va oltre. Fa tantissimo anche l’essere sardi, perché sull’isola la rabbia gioca sempre in champions league. Colpisce durissimo questo disco, a partire da A.c.a.b.che non è la solita canzone contro le guardie, ma è molto di più, perché certi schemi in Italia si ripetono sempre e sono immutabili: leggete qui , e vedete se non vi ricorda Stefano Cucchi e molti altri, ma è un omicidio poliziesco del 1897…
Una delle cose migliori di questo disco sono i testi, davvero notevoli e intrisi di poesia urbana (che è un termine di merda ma è per intenderci), ed è uno dei migliori dischi underground italiani dell’anno nonchè in ambito rapcore. Qui non troverete salvezza, democrazia come la intendete voi, ma rabbia e voglia di vendetta di chi sulla strada c’è si è fatto le nocche dure; inoltre va a continuare una linea rossa che va dai Tear Me Down fino agli Almassacro, per continuare con gruppi come i Coru e Figau, e passa per spazi liberati, morti e carceri e non si interrompe mai, ma grida ancora.

TRACKLIST
1. Per Chi Sputa Sangue
2. Maschere di Cera
3. Atena Suicida
4. Colpo di Grazia
5. A.c.a.b.
6. Attitude
7. Nervi Tesi

LINE-UP
Ese – voice-
Yari – voice-
Sgrakkio – guitar-
Deddu – drum-
Safety – bass-

ALMASSACRO – Facebook

Daniel Gazzoli Project – Night Hunter

Un album riuscito ed interessante, proprio per l’enorme varietà di atmosfere ed influenze che, sotto le bandiere del classic metal e dell’hard rock, vivono in questi nove ottimi brani.

Classic metal d’alta scuola quello che ci presenta la nostrana Street Symphonies Records con il progetto del chitarrista e compositore Daniel Gazzoli il quale, aiutato da una manciata di musicisti della scena hard rock melodica dello stivale, ci consegna un piccolo gioiellino hard’n’heavy ottantiano, che alterna grinta metallica alla raffinata tradizione aor.

A collaborare con Gazzoli troviamo Leonardo F. Guillan, singer preparato e collaboratore in sede live con i Soul Seller, Luke Ferraresi batterista dei Perfect View ed il tastierista Luca Zannoni, con il chitarrista che si occupa anche del basso e dei synth.
Pronti via e con Night Hunter si sale sulla macchina del tempo, si torna al metal patinato delle grandi band hard rock del passato: il sound di ispirazione americana alterna classici anthem da arena rock ad effervescenti brani dove il blues sporca di attitudine il rock melodico del gruppo, con più di un passo nel metal tutta grinta e melodie che faceva capolino nelle classifiche rock nei lontani anni ’80.
Prodotto, cantato e suonato molto bene, Night Hunter è un prodotto molto professionale sotto ogni punto di vista, ma quello che più è importante è la musica e allora, cari miei rockers, tuffatevi tranquillamente in questo mare di note che risultano un tributo all’hard & heavy melodico, composto da una serie di tracce ispirate che vanno dal classic metal della title track e di Forged By The Pain, all’hard blues di Self Destruction Blues, dall’aor della splendida Liar, al rock da arena dell’altrettanto melodicissima Heartblame, fino alla ballatona Prayer For An Angel e al ritorno al metal tagliente della rabbiosa The Beast Of My Heart.
Un album riuscito ed interessante, proprio per l’enorme varietà di atmosfere ed influenze che, sotto le bandiere del classic metal e dell’hard rock, vivono in questi nove ottimi brani.

TRACKLIST
1. Night Hunter
2. Forged By The Pain
3. Liar
4. Self Destruction Blues
5. Heartblame
6. Run
7. Prayer For An Angel
8. Dont Leave Me Alone
9. The Beat Of My Heart

LINE-UP
Daniel Gazzoli – Guitar, Bass, Synth and Backing Vocals
Leonardo F. Guillan – Lead and Backing Vocals
Luke Ferraresi – Drums
Luca Zannoni – Keyboards

DANIELE GAZZOLI PROJECT – Facebook

Shambles – Realm Of Darkness Shrine

Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.

A quasi vent’anni dalla nascita i deathsters thailandesi Shambles licenziano il primo full length, questo oscuro e morboso Realm Of Darkness Shrine.

Il gruppo orientale in tutti questi anni si era affacciato sul mercato solo con una serie di lavori minori e finalmente quest’anno giunge a noi un’opera sulla lunga distanza, traguardo raggiunto dopo anni passati nell’underground più profondo.
Il sound del gruppo rispecchia l’attitudine dei quattro musicisti, un death metal marcissimo, fortemente old school e reso ancora più morboso e catacombale da lunghe parti doom.
Un lento corteo funebre parte dai meandri di Bangkok e arriva, oscuro e malvagio, nel vecchio continente: una lunga discesa nelle catacombe, imputridite dalla morte e dai vermi che banchettano su resti umani dimenticati dal tempo.
Il growl cavernoso di Chainarong Meeprasert ci fa da Caronte nei cunicoli dove l’oscurità regna sovrana, le ritmiche sono lente marce mortifere, a tratti pervase da un urgenza estrema che attanaglia la gola, bruciante dall’aria malata che si respira nelle tetre atmosfere dei brani che non concedono il minimo richiamo ad una luce ormai abbandonata.
Rosarium è l’opener che ci introduce in questo mondo di blasfemia e morti orrende, seguita da una serie di brani sempre più oscuri e malati, con la title track apice doom/death dell’album, inquietante nelle sue esplosioni di violenza a destabilizzare il ritmo lentissimo del suo magmatico e funereo incedere.
Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.

TRACKLIST
1.Rosarium
2.Call from the Further Tomb
3.Breath of the Deathprayer
4.Onward into Chasms
5.Haxanwomb
6.Realm of Darkness Shrine
7.Bitter Abysmal Depths

LINE-UP
Issara Panyang – Guitars
Thotsaphon Ayusuk – Bass
Thinnarat Poungmanee – Drums
Chainarong Meeprasert – Vocals

SHAMBLES – Facebook

Dark Lunacy – The Rain After The Snow

I Dark Lunacy sono una delle eccellenze, ma soprattutto una delle certezze, espresse dal movimento musicale italiano, non solo in ambito metal:

Prendendo in considerazione l’intero movimento metal italiano, i Dark Lunacy meriterebbero qualcosa di simile ad un premio alla carriera.

Intendiamoci, non si parla certo dell’omologo riconoscimento che viene conferito ad artisti imbolsiti e anche un po’ rincoglioniti: qui, infatti, si fa riferimento ad una realtà che continua ad essere guida ed esempio per tutte le band nostrane che vogliano aprirsi una strada peculiare per fare breccia nel cuore degli appassionati.
Mike prosegue nel suo percorso iniziato ormai nel lontano 1997, quando un manipolo di ragazzi parmensi si mise in testa l’idea meravigliosa di fondere il death metal con la musica classica: da allora ne sono scaturiti sei full length, dei quali uno seminale (Forget Me Not) ed un capolavoro assoluto (The Diarist), entrambi racchiusi nella fase centrale dello scorso decennio.
L’instabilità della line-up che ha visto nel corso degli anni avvicendarsi fin troppi musicisti alla corte di Mike, non ha certo contribuito a fornire ai Dark Lunacy quella continuità necessaria per continuare a sfornare lavori di quel livello: così, dopo un più opaco Weaver Of Forgotten, The Day Of Victory ha riportato la barra su coordinate vicine a The Diarist, sia riaffrontando tematiche legate alla cultura ed alla storia sovietica, sia ritrovando quella brillantezza che era venuta parzialmente meno nel lavoro precedente.
In The Rain After The Snow, ci si muove invece in scenari stilistici più vicini a Forget Me Not, con la differenza non da poco dell’introduzione di un elemento orchestrale quanto mai “reale” e perfettamente integrato con le pulsioni estreme del sound, grazie anche ad una produzione impeccabile.
Il tutto va ricondotto anche alla continuità compositiva offerta da Jacopo Rossi, musicista genovese attivo in diverse band di nome del capoluogo ligure (Antropofagus, Nerve, Will’O’Wisp), che ormai da qualche anno si sta rivelando l’ideale partner musicale di Mike.
The Rain After The Snow affronta il tema del passaggio tra la stagione invernale e quella primaverile quale metafora dell’esistenza stessa e, come avviene da anni, l’afflato poetico riversato da Mike nelle sue liriche si scontra non poco con il sempre roccioso e caratteristico growl; il fulcro del lavoro si trova nella fase centrale con l’accoppiata Gold, Rubies and Diamonds (non a caso la traccia scelta per essere accompagnata da un ottimo video) e la più struggente Precious Things, ma l’album è nella sua interezza una raccolta di brani preziosi, ricchi di un impatto melodico ed emotivo che rende l’ascolto piuttosto scorrevole, anche se in questo caso non si può certo parlare di un approccio leggero.
I Dark Lunacy sono una delle eccellenze, ma soprattutto una delle certezze, espresse dal movimento musicale italiano, non solo in ambito metal: al di là del merito d’aver aperto una strada che altri hanno parzialmente seguito ottenendo giustamente grandi riscontri (Fleshgod Apocalypse su tutti), non è così banale ritrovare una band capace, dopo vent’anni, di produrre arte di simile spessore, e credo che non servano altre parole per esortare chiunque di musica si nutre affinché venga tributato alla band parmense un supporto del tutto adeguato al suo indiscusso valore.

Tracklist:
1. Ab Umbra Lumen
2. Howl
3. King with No Throne
4. Gold, Rubies and Diamonds
5. Precious Things
6. Tide of My Heart
7. The Rain After the Snow
8. Life Deep in the Lake
9. The Awareness
10. Fragments of a Broken Dream

Line-up:
Mike Lunacy – Vocals, Lyrics
Jacopo Rossi – Bass, Piano
Marco Binda – Drums
Davide Rinaldi – Guitars

DARK LUNACY – Facebook

Monsternaut – Monsternaut

Il disco non dura molto e la durata è giusta, ma se ne vorrebbe ancora dei Monsternaut, ed il perché lo capirete ascoltandoli.

Suoni stoner desertici dalla Finlandia, sulla traccia dei Fu Manchu, Kyuss e Queens Of The Stone Age, ma con una forte personalità.

Fondati nel 2012 da Tuomas Heiskanen e Perttu Härkönen, i Monsternaut hanno cambiato diversi batteristi prima di arrivare ad una stabilità con Jani Kuusela, nel gruppo dal 2014. I tre da Kerava fanno uno stoner rock con influenze desertiche, e di loro ci aggiungono molta personalità ed un tocco di attitudine punk che ci sta sempre bene. Il disco è molto potente e convince in pieno, perché ha una struttura forte ed inoltre il groove è davvero possente. La produzione è assai adatta a questo disco perché mette in risalto le peculiarità del lavoro e soprattutto quelle distorsioni così lascive che lavorano così bene. L’impasto sonoro dei Monsternaut non è nulla di nuovo, ma è fatto molto bene, con forza e personalità. Certamente i punti di partenza sono ben noti, e forse solo ora si sta comprendendo fino in fondo che influenza abbiano avuto gruppi come Kyuss, Fu Manchu e Queens Of The Stone Age, che con il loro suono hanno indirizzato profondamente le scelte di generazioni di musicisti attuali, soprattutto con la loro idea di impalcatura sonora. Il disco non dura molto e la durata è giusta, ma se ne vorrebbe ancora dei Monsternaut, ed il perché lo capirete ascoltandoli. Il disco è l’unione di due differenti sessioni di registrazioni, una del 2012 e l’altra del 2014, per cui ci sono ancora ore di Monsternaut da gustare nel nostro futuro.

LINE-UP
Tuomas Heiskanen – Guitars / Vocals
Perttu Härkönen – Bass
Jani Kuusela – Drums

MONSTERNAUT – Facebook

TENEBRAE + CHECKMATE : Genova 3/12/2016

Alcuni mesi dopo l’uscita in digitale del nuovo album, i Tenebrae hanno scelto la data del 3 dicembre 2016 per la presentazione dal vivo di My Next Dawn, presso la tradizionale location dell’Angelo Azzurro, quello che ormai è rimasto, di fatto, il solo avamposto genovese per gli amanti del rock e del metal.

Come già scritto in sede di recensione, i Tenebrae, con il loro ultimo lavoro, hanno trovato la probabile quadratura del cerchio di un percorso musicale che, con i due precedenti full length Memorie Nascoste e Il Fuoco Segreto, affondava le sue radici nella scuola progressive tricolore ammantandone le atmosfere di un’aura a tratti gotica: con My Next Dawn, invece, Marco “May” Arizzi sposta decisamente la barra su una forma di metal oscura ed atmosferica, dai molti richiami al doom, che si va a completare con l’uso della lingua inglese anziché di quella madre.
Ero molto curioso di scoprire quale sarebbe l’accoglienza del pubblico nei confronti della nuova opera, alla luce di una sua dimensione più ortodossamente metal: ho sempre ritenuto, infatti, che un elemento penalizzante nei confronti della band genovese fosse, per assurdo, proprio il fatto di muoversi all’interno della scena metal pur proponendo un genere che lo stesso leader in passato ha sempre preferito definire art rock: con My Next Dawn l’equivoco (ammesso che fosse tale) pare essersi definitivamente risolto, pur senza disconoscere l’enorme valore artistico delle due precedenti prove, ed il numero considerevole di persone accorse per l’occasione ha suffragato questa mia sensazione.

Veniamo quindi al racconto della serata: il compito di aprire è stato affidato ai milanesi Checkmate, band che onestamente non conoscevo, sia perché di recente formazione, sia per la proposta di un genere che non rientra tra i miei ascolti abituali: mi sono imbattuto, quindi, in un metal alternativo piuttosto grintoso e convincente in più di un passaggio, contraddistinto dall’alternanza tra voce femminile e growl maschile, ma forse non ancora abbastanza peculiare per riuscire a fare breccia nell’attenzione di ascoltatori distratti da miriadi di uscite. Le potenzialità per riuscirci però paiono esserci tutte, alla luce di quanto offerto nel corso della breve esibizione, dimostrandolo anche con la rielaborazione piuttosto personale di un brano storico come You Spin Me Round dei Dead Or Alive, dedicata alla memoria del recentemente scomparso Pete Burns.
Nel 2017 i Checkmate hanno pianificato l’uscita del loro album d’esordio, prova alla quale li attendiamo con un certo interesse.

checkmate

Dopo un cambio di palco piuttosto rapido sono entrati in scena i Tenebrae, alla prima uscita dal vivo con la formazione che ha registrato My Next Dawn – Paolo Ferrarese (voce), Marco Arizzi (chitarra), Fabrizio Garofalo (basso), Fulvio Parisi (tastiere) e Massimiliano Zerega (batteria).
Come in ogni release party che si rispetti, la band ha presentato dal vivo per intero la nuova opera, con la sola eccezione della riproposizione, a metà del set, della title track dell’album d’esordio Memorie Nascoste, per la quale stato chiamato sul palco l’originario tastierista Flavio Bignone. La resa on stage di My Next Dawn è stata decisamente ottimale, partendo comprensibilmente un po’ in sordina per poi snodarsi in un costante crescendo, grazie alla buona coesione dimostrata dai vari componenti e da suoni piuttosto buoni che hanno consentito di godere appieno di tutte le sfumature contenute nell’album.
Il nuovo corso dei Tenebrae ha senz’altro riscosso i favori dei presenti, ma non si trattava certo di una previsione azzardata: proprio l’orientamento più metallico del sound ha senza dubbio favorito l’assimilazione, da parte di un pubblico con un simile background, di brani splendidi come The Fallen One, Careless, My Next Dawn e As The Waves, solo per citare gli episodi migliori di una scaletta inattaccabile per qualità.

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Paolo Ferrarese ha dimostrato ancora una volta le sue doti di vocalist versatile, riuscendo a passare con disarmante semplicità da evocative clean vocals ad un growl profondo, incisivo e sempre intelligibile, ed ha visto valorizzata ancor più la sua convincente prestazione dal prezioso controcanto femminile prestato per l’occasione da Ilaria Testa, tastierista della band sul precedente Il Fuoco Segreto, mentre Marco Arizzi non apparterrà probabilmente alla categoria dei virtuosi delle sei corde, ma possiede la dote non comune di riuscire a comunicare emozioni con il suo strumento, una peculiarità questa che, a mio modo di vedere, è ben più importate rispetto a quello che per altri chitarristi troppo spesso si rivela un arido sfoggio di tecnica esecutiva.

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Il resto della band ha ben sorretto il lavoro dei due, contribuendo in maniera decisiva alla riuscita di una serata che ha visto, finalmente, un locale piuttosto affollato da un pubblico partecipe e desideroso di far sentire ai Tenebrae la propria approvazione relativa ad una svolta stilistica che, sicuramente, poteva presentare qualche rischio. Nonostante tutto, infatti, il trademark caratteristico della band genovese non viene meno, cambia solo il modo con il quale viene veicolato al pubblico e questo si è potuto cogliere appieno proprio quando è stata proposta Memorie Nascoste, una canzone che, pur nella sua evidente diversità rispetto ai brani di My Next Dawn, ha dimostrando senza ombra di dubbio che l’impronta compositiva è rimasta immutata.
Dopo diversi periodi carichi di dubbi e di incertezze è probabile che i Tenebrae, sia grazie all’accordo raggiunto con la Black Tears di Daniele Pascali, sia dopo aver potuto toccare con mano l’affetto e la vicinanza dei propri estimatori, possano trovare nuovo impulso ed ulteriore convinzione nel proporre la propria musica, perché, è inutile girarci attorno, My Next Dawn è stato in assoluto uno dei migliori album usciti quest’anno in Italia in ambito metal e si tratta solo di fare in modo che se accorga un numero di presone sempre maggiore.
Nel nostro piccolo noi di MetalEyes IYE la nostra parte la stiamo facendo, il resto è compito degli appassionati della buona musica.

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