Vis – Vis Et Deus

Ancora una volta la Jolly Roger si distingue per un’iniziativa che aiuta a conoscere e comprendere la scena italiana dei primordi, valorizzando il lavoro e la passione di questi autentici pionieri del metal nel nostro paese.

Per suonare hard & heavy ci vuole anche forza (in latino Vis) e il gruppo nostrano di forza hard rock ne sprigionava molta, anche se Vis Et Deus, demo autoprodotto valse alla band un contratto con la Promosound che non portò successivamente altri frutti.

Fondata nel lontano 1984 dal batterista Mario Rusconi e dal chitarrrista Marco Becchetti, con il basso di Gino Ammaddio e la voce di Johnny Salani (con un passato nella Strana Officina), la band torna a far parlare di sé grazie al prezioso lavoro della nostrana Jolly Roger, che si è premurata di rimasterizzare l’album.
Vis Et Deus è un buon esempio dell’hard & heavy che si suonava all’epoca, con uno sguardo all’heavy metal britannico, all’hard rock che arrivava dalla terra dei canguri con qualche riff ispirato dai fratelli Angus e chiaramente debitore della band leggenda di quegli anni nel nostro paese, la Strana Officina.
L’album parte benissimo con Maria Stuarda, heavy rock dal retrogusto epico, ma la ballad Lacrime nella Pioggia riporta la band sulle strade dell’hard blues.
Inno Al Rock (dal titolo scontato) è forse il brano più puramente metallico di tutto il disco, dalle ritmiche che ricordano i primi Saxon, mentre Caronte è un mid tempo dove torna quel leggero tocco epico, già evidenziato sull’opener.
Il resto dei brani sono puro ottanta Style, perciò tanto entusiasmo da parte del gruppo (all’epoca non era così facile lasciare il segno per i gruppi metal) espresso tramnite inni hard & heavy che ora possono rivelarsi scontati, ma che all’epoca inorgoglivano i fans del genere.
Ancora una volta la Jolly Roger si distingue per un’iniziativa che aiuta a conoscere e comprendere la scena italiana dei primordi, valorizzando il lavoro e la passione di questi autentici pionieri del metal nel nostro paese.

TRACKLIST

1.Maria Stuarda
2.Lacrime Nella Pioggia
3.Inno Al Rock
4.La Ballerina Nera
5.Nanà La Gatta
6.Caronte
7.Rocker Batti Il Tuo Pugno
8.Vis Et Deus

LINE-UP

Johnny Salani – Vocals
Marco Becchetti – Lead Guitar
Gino Ammaddio – Bass
Mario Rusconi – Drums

VOTO
7.50

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Dead End – Reborn from the Ancient Grave

Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.

Gli olandesi Dead End provengono dalla scena death metal olandese dei primi anni novanta e fanno parte di quella variante estrema che vi accostava al potenti rallentamenti doom e sfumature gotiche, tipiche di quello che viene consciuto dagli amanti dei suoni estremi come doom/death.

Gli inizi del gruppo portano al 1988 e ai primi tre anni del decennio successivo, periodo dove il gruppo rilasciò due demo ed un ep ed affiancò in sede live nomi storici del metal nato nei Paesi Bassi come Gorefest, Phlebotomized e Pestilence.
Un silenzio durato più di vent’anni, rotto lo scorso anno dall’annuncio da parte della Vic Records del ritorno in pista del gruppo, in mano all’unico membro originario, il bassista Alwin Roes.
Puntuale arriva dopo circa dodici mesi un nuovo lavoro, il primo sulla lunga distanza, un album che, nel genere, è da considerare certamente old school.
Non sono più molte infatti le band che adottano queste sonorità, all’epoca nuova frontiera del metal estremo, poi evolutosi con l’aggiunta di sfumature dark/gothic e sinfonie, accompagnate molto spesso da femminee voci operistiche.
Niente di tutto questo, Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.
Meno gotici dei primissimi Paradise Lost, oscuri e pesanti come i primi The Gathering e Celestial Season, con il sound potenziato da dosi massicce di Bolt Thrower e Asphyx, l’album nel suo genere è un toccasana per le anime oscure che a dolci sinfonie preferiscono le malate trame chitarristiche pervase da un malsano odore di morte, tratti magmatici che si ritrovano a profusione tra le trame delle buone Haze of Lies, Mea Culpa e la sepolcrale Wearing the Cloak, la più gotica ed emozionante traccia del lotto che conclude alla grande questo manifesto ai primi passi del genere.
Un buon ritorno, c’è da sperare che i Dead End riescano a trovare ulteriore nuova spinta da questo lavoro.

TRACKLIST
01. David’s Theme (Intro)
02. Dead End (Reborn)
03. Haze of Lies
04. Trail of Despair
05. Mea Culpa
06. Wither
07. Another Weakness
08. Venture
09. Nails of the Martyr
10. Wearing the Cloak

LINE-UP
Bryan – Vocals
Jeroen R – Guitar
Arjan – Guitar
Alwin Roes – Bass
Harald – Drums

DEAD END – Facebook

Misanthropic Rage – Gates No Longer Shut

Come appare chiaro dal monicker scelto, la misantropia la fa da padrone, una malinconica e rabbiosa solitudine raccontata attraverso sette brani articolati di black metal progressivo.

Debuttano, tramite la Godz Ov War Productions, gli avantgarde black metallers Misanthropic Rage, duo polacco formatosi solo lo scorso anno.

Un ep di rodaggio licenziato all’inizio dell’anno ed ora questo Gates No Longer Shut, lavoro sufficientemente ispirato per accontentare gli amanti del black metal dalle trame progressive e dalle molte parti atmosferiche.
Il duo composto da W. alla voce e dal polistrumentista AR. rientra nella schiera di gruppi che, all’approccio oscuro ed maligno del black, aggiunge soluzioni atmosferiche intimiste e buone parti in cui risalta l’uso vario delle ritmiche.
Non mancano chiaramente le classiche sfuriate chitarristiche, lo scream diabolico e le partenze a razzo, ma in generale i brani mantengono la caratteristica di piccole e varie suite dove il gruppo si lascia andare in cangianti sfumature dai colori scuri.
Come appare chiaro dal monicker scelto la misantropia la fa da padrone, una malinconica e rabbiosa solitudine raccontata attraverso sette brani articolati che vedono nelle armonie acustiche di Into The Crypt, nel violento incedere che si trasforma in una marcia doom della seguente Niehodowalny e nelle trame maligne della conclusiva I Took The Fate In My Hands, i momenti migliori di Gates No Longer Shut.
In generale l’album risulta in grado di regalare spunti interessanti, aiutato da una produzione discreta, manca forse il classico brano sopra la media che possa trainare tutti gli altri, ma si può certo considerare il lavoro dei Misanthropic Rage come una buona partenza.

TRACKLIST
1.In A Blind Dimension
2.Gates No Longer Shut
3.I, The Redeemer
4.Into The Crypt
5.Niehodowalny
6.Cross Hatred
7.I Took The Fate In My Hands

LINE-UP
W. – Vocals
AR. – Vocals, All instruments

MISANTHROPIC RAGE – Facebook

Heavy Baby Sea Slugs – Teenage Graveyard Party

Un suono che sta tra gli Oblivians e gli Eyehategod, una fusione che potrebbe sembrare impossibile ed invece è schifosamente bella

Prendete il blues, il garage, e fondatelo con uno sludge metalloso che picchia tantissimo.

Questa bestia è immonda e cattivissima, picchia molto duro e non ha pietà, perché sono le ossa dei teenagers americani che ballavano il rock negli anni cinquanta, e che sono resuscitati incazzatissimi perché hanno scoperto che il sogno americano altro non è che il trionfo del male. Questi zombie hanno deciso di allearsi con dei bluesman vampiri, ed ecco qui che ci stanno attaccando. Un ep folgorante, un trascinarsi tra paludi e fogne. Queste entità vengono dal Texas, e dopo alcune convincenti prove mietono altre vittime con questo ep che è davvero impressionante per potenza, sporcizia e vitalità. Un suono che sta tra gli Oblivians e gli Eyehategod, una fusione che potrebbe sembrare impossibile ed invece è schifosamente bella.

TRACKLIST
1.King Midas of Shit
2.Teenage Graveyard Party
3.Pit Bait
4.Zero One

Eris Pluvia – Different Earths

Un buon lavoro, ispirato ed emozionante, pervaso di oscura e melanconica tristezza e perciò, in questi tempi di allegria artefatta, non per tutti.

Il rock progressivo torna sulle pagine di MetalEyes con il terzo lavoro dei genovesi Eris Pluvia, attivi dal 1980 anche se non troppo prolifici.

Siamo infatti arrivati solo al terzo album in più di trent’anni, eppure l’esordio Rings Of Earthly Light è considerato un must del rock progressivo uscito dallo stivale, dopo l’epoca aurea del decennio precedente.
Gli Eris Pluvia tornano così con un nuovo album ed una formazione rivoluzionata, dopo che Third Eye Light segnò il primo lavoro del nuovo millennio, anche se arrivato solo nel 2010 e, per di più, il gruppo l’anno dopo deve scontrarsi con il destino che li priva del tastierista Paolo Raciti, elemento importantissimo nell’economia del loro sound.
L’opera a lui dedicata, Different Earths, pur con qualche elemento innovativo prosegue la tradizione il percorso del gruppo ligure, il progressive rock che esce dalla mente e dagli strumenti è assolutamente ispirato alla tradizione, dunque l’album è dedicato ai fans del genere e nel genere si specchia nel suo elegante e raffinato incedere.
Trattasi di un concept legato alla condizione del pianeta e dell’impatto negativo dell’uomo su di essa, raccontato con una vena melanconica che porta inevitabilmente a pensare, lasciando che la musica fluisca in noi come l’acqua di un ruscello montano.
La musica degli Eris Pluvia mantiene un approccio delicato e, anche nei momenti più tragici e bui, la band continua a cesellare note incantevoli, intimiste ed avvolte in una tristezza radicata in anni testimoni del decadimento del nostro pianeta e dunque dell’uomo, ormai totalmente alla mercé di sé stesso.
Nove i brani che caratterizzano Different Earths, con il cuore dell’album lasciato alla bellissima ed emozionate Heroes Of The Dark Star e all’ incantevole Aqua.
Buona la prestazione, raffinata e mai urlante, di Roberto Minniti alla voce, e quella di Roberta Piras al flauto, che valorizza con interventi crimsoniani il sound di Different Lights, incentrato come giù espresso sul progressive rock tradizionale di Genesis e Camel.
Un buon lavoro, ispirato ed emozionante, pervaso di oscura e melanconica tristezza e perciò, in questi tempi di allegria artefatta, non per tutti.

TRACKLIST
1. Renaissance (TDOMS Reprise)
2. Man on a Rope
3. Aqua
4. Rain is Falling
5. Poet’s Island
6. Black Rainbow
7. Heroes of the Dark Star
8. Springtime Drop
9. The Door of my Soul

LINE-UP
Alessandro Cavatorti – guitars, words
Marco Forella – bass, piano, acoustic guitar, keyboards, drums, percussion
Roberta Piras – flute
Roberto Minniti – vocals

ERIS PLUVIA – Facebook

Revel In Flesh – Emissary Of All Plagues

Il gruppo tedesco è oggi uno dei migliori rappresentanti della vecchia scuola nord europea, con in sound che non ha nulla di originale ma porta con sé atmosfere uniche nel suo genere

Era il finire del 2014 quando uscì Death Kult Legions, terzo lavoro sulla lunga distanza degli straordinari deathsters tedeschi Revel In Flesh, un album che si posizionò molto in alto nelle preferenze del sottoscritto un paio di anni fa.

I nostri tornano dopo due anni esatti da quel monumento al death metal scandinavo con un nuovo album, confermando l’assoluta qualità del loro death metal,  ed Emissary Of All Plagues risulta un altro monolite pesante, oscuro, malvagio e quanto mai devastante.
Accompagnato da una splendida copertina, che più horror e catacombale non si può (Juanjo Castellano, artista dal talento smisurato che ha imprestato la sua matita anche per i lavori di Paganizer, Putrevore, Ribspreader e molti altri), ma soprattutto con ancora la supervisione del guru Dan Swanö negli storici Unisound studios, il nuovo lavoro torna a tormentare le notti dei deathsters con una serie di brani d’alta scuola, alternando come da prassi mid tempo, rallentamenti e devastanti ripartenze in un’apoteosi di sonorità old school da applausi.
Il gruppo tedesco è oggi uno dei migliori rappresentanti della vecchia scuola nord europea, con in sound che non ha nulla di originale ma porta con sé atmosfere uniche nel suo genere, con un talento nel saper inserire solos, ripartenze e brusche frenate che ha del miracoloso.
Come già nel suo predecessore qui non c’è un brano senza un appeal estremo sopra la media: solos melodici forgiati in cimiteri dimenticati dal tempo, valorizzano brani nati per produrre massacri, mentre il growl cavernoso si staglia sul sound che ricorda a più riprese ora i Sanity del loro maestro, ora gli Entombed, prima che la furia iconoclasta dei primi Hypocrisy prenda il sopravvento.
Un album che non ha un cedimento alcuno e che riversa fiumi di sangue con una serie di tracce tra le quali Casket Ride, Servants Of The Deathkult e Sepulchral Passage sono quelle trainanti, con la conclusione lasciata alla cover di Doctor Doctor degli storici hard rockers UFO, che volete di più?

TRACKLIST
1. Emissary of All Plagues
2. Casket Ride
3. Fortress Of Gloom
4. Servants Of The Deathkult
5. Torture Throne
6. The Dead Lives On
7. Lord Of Flesh
8. Sepulchral Passage
9. Dead To This World
10. Doctor Doctor (UFO-Cover)

LINE-UP
Haubersson – Vocals
Maggesson – Guitars
Vögtsson – Drums
Herrmannsgard – Guitars
Götzberg – Bass

REVEL IN FLESH – Facebook

Damnatus – Io Odio La Vita

Una buona prova d’esordio, alla quella forse manca soltanto qualche spunto melodico più incisivo e melodico in grado d’imprimersi più a lungo nella memoria.

Damnatus è il nome dato al proprio progetto solista dal musicista alessandrino Oikos, all’esordio con questo ep intitolato Io Odio La Vita.

Ci troviamo mani e piedi negli anfratti più oscuri e dolenti del depressive black, che qui viene offerto in maniera molto esplicita anche dal punto di vista lirico. Se le coordinate sonore e stilistiche sono quelle consuete del dsbm, con i protagonisti che urlano tutto il loro disagio su una base piuttosto malinconica e melodica, non si può mai fare a meno di apprezzare questa particolare forma musicale, capace di far riflettere ciascuno sui pensieri più negativi ed autodistruttivi che ognuno prova in determinati momenti della propria esistenza.
L’operato dei Damnatus rientra nella media per la sua resa finale, rivelandosi ben eseguito, tutto sommato ben prodotto per gli standard del genere e convincente anche a livello lirico, pur evidenziando a volte qualche accentuazione retorica di troppo: di sicuro, però, alla fine dell’ascolto resta la consapevolezza del fatto che l’alienazione ed il desiderio di fuga del protagonista verso un solo approdo, la morte, rappresentano un qualcosa appartenente al vissuto di tutti noi e con il quale, prima o poi, si è destinati a dover fare i conti.
Anche per questo amo il depressive, per il coraggio di chi lo suona nel mettere in piazza, con un auspicabile effetto catartico, quel malessere che spesso viene nascosto sotto maschere di convenienza che non riescono a celare del tutto l’inanità di gran parte dei nostri gesti quotidiani.
Per Oikos, quindi, una buona prova d’esordio, alla quella forse manca soltanto qualche spunto melodico più incisivo e melodico in grado d’imprimersi più a lungo nella memoria.

Tracklist:
1. Intro
2. Primavera depressa
3. Ricaduta
4. Le ferite non si rimarginano
5. Il ricordo inesistente di una vita andata a male

Line-up:
Oikos – Vocals, All Instruments

Perpetual Demise – Arctic

Ristampa che, per gli amanti della buona musica estrema, risulta un acquisto obbligato, ed un ringraziamento alla Vic Records per le molte chicche metalliche riportate alla luce nell’ultimo periodo.

I Perpetual Demise fanno parte della scena olandese dei primi anni novanta, un nido di talenti che ha dato alla scena metallica estrema più di quello che molti esperti sostengano, anche a distanza di decenni.

Un manipolo di band che al death metal ha sempre avuto un approccio progressivo, chi imbastardendolo con sonorità doom/gothic, chi evolvendolo con suoni provenienti da generi agli antipodi come jazz e fusion, chi invece, mantenendo un approccio furioso e selvaggio, ma sempre condizionato da sperimentazioni ed una fantasia mai doma.
Nato a cavallo tra gli anni ottanta ed il decennio successivo, il gruppo proveniente dalla terra dei tulipani rientra nella schiera delle realtà dell’epoca, con un modo di suonare metal estremo che conciliava la pesantezza e brutalità del death metal con atmosfere vicine al doom ed una tecnica che permetteva alle band di avvicinarsi al progressive, prime avvisaglie di quello che poi si sarebbe sviluppato e diventato suo malgrado un trend, specialmente nei paesi scandinavi.
La ristampa in questione presenta il primo e solo album sulla lunga distanza targato 1996, più vari brani presenti nei primi demo della band, in particolare When Fear Becomes…, uscito nel 1993.
La musica dei Perpetual Demise, pur con la sua vena progressiva e doom, conquista subito l’ascoltatore: il sound pesante e a tratti monolitico ha, nel combinare growl e voce pulita, il suo punto di forza (non così abituale ai tempi), coniugato ad un’ottima tecnica strumentale e a cambi repentini di tempo e sfumature.
Più di settanta minuti, praticamente tutto quello che in sette anni il gruppo ha saputo offrire ai fans dell’epoca, non poco vista la qualità della musica proposta, di livello altissimo come nella scena estrema olandese dell’epoca.
Ristampa che, per gli amanti della buona musica estrema, risulta un acquisto obbligato, ed un ringraziamento alla Vic Records per le molte chicche metalliche riportate alla luce nell’ultimo periodo.

TRACKLIST
1.Of Confusion and Brutality
2.The Lord Paramount
3.Arctic
4.The Observer
5.Pyramids
6.Fall
7.Triangle Eye
8.The Tower
9.Upon Dark Grounds
10.On the Edge
11.Denial & Faith
12.Where the Ancients Remains
13.Cynical Control
14.Scarred by Silence
15.Awaiting the Unexpected
16.Conspiracy of Fear
17.Massacre To Be

LINE-UP
Mike Antoni – Guitars
Alex Krouwel – Bass
Alex Dubbeldam – Drums
Armand Wijskamp – Guitars, Vocals

Captain Quentin – We’re Turning Again

I Captain Quentin fanno musica con la manopola del flusso di coscienza totalmente aperta, note che fluttuano nel nostro cervello in un’inebriante doccia sonora piena di forza e di originalità.

Perché dovreste sentire un disco, o peggio, perché sprecare parte del vostro prezioso e sempre più esile tempo per ascoltare un disco ?

Dovreste proprio essere convinti e fortemente motivati. Nel disco dei Captain Quentin non vi dovreste più preoccupare del tempo, perché qui il tempo perde materialità per diventare assoluto, ovvero slegato dal tutto. I Captain Quentin fanno musica con la manopola del flusso di coscienza totalmente aperta, note che fluttuano nel nostro cervello in un’inebriante doccia sonora piena di forza e di originalità. Come nume tutelare ovviamente abbiamo il buon caro vecchio Mr. Zappa, ma qui c’è di più, c’è più melodia e naturalezza rispetto ad una nouvelle totalmente vague. In questo disco il gruppo ha fatto tutto il processo di registrazione da solo e si sente il risultato. Il mix è stato poi fatto da due membri degli Appaloosa nel loro studio di Pisa. L’album è davvero piacevole e stupisce sempre con sorprese, come il maggior uso dei sintetizzatori rispetto agli altri lavori. Gioia, passione, originalità e divertimento.
E comunque, Yoko no, sempre no.

TRACKLIST
1. Dieci minuti lunghi trenta
2. Caffè connection
3. Zewoman
4. Malmo
5. Avevo un cuore che ti amava
Franco
6. Say no no to the lady
7. Aghosto
8. Yoko, o no?

CAPTAIN QUENTIN – Facebook

Dead Behind The Scenes – Black EP

Come già scritto in occasione del primo lavoro, i Dead Behind The Scenes sono una band da seguire con molta attenzione, oltre che rappresentare uno degli esempi più fulgidi della bontà della scena alternative dello stivale.

A distanza di un anno tornano i Dead Behind The Scenes con il Black ep che segue il precedente White, uscito sempre con il supporto della Atomic Stuff.

Per chi non conoscesse la band milanese, il quintetto è dedito ad un rock alternativo ispirato da una vena progressiva (specialmente in questo capitolo) ed un impatto da punk rock band, con il singer Dave Bosetti dal particolare cantato che si avvicina a quella di Les Claypool dei Primus, ed una personalità spiccata che riesce a far risultare il gruppo sempre convincente in ognuna delle sfumature musicali che compogono il suo sound.
Il Black ep è molto più ragionato ed intimista rispetto al primo lavoro, anche il concept che si basa sulle paure ed il rifiuto di esse da parte dell’individuo, è perfettamente inserito in questo ottimo esempio di rock alternativo tragico ed oscuro, che accompagna il viaggio nei meandri dell’io.
Il risultato è convincente e la parte tooliana del sound del gruppo è chiaramente più in luce rispetto al passato, apportando una velo di sperimentazione che preclude un facile ascolto ma non per questo ne abbassa la qualit, tutt’altro.
Living On My Own cambia subito le carte in tavola rispetto all’opener Empty Skies, più progressiva rispetto all’approccio alternative /punk della seconda, ma è un attimo perché Etius e Valentine, dal tappeto di synth in stile dark wave, portano a Mr.Paranoia, capolavoro non solo di questo album ma di tutta la discografia finora prodotta dal gruppo, in un crescendo di emozioni tra Tool e Smashing Pumpkins.
Si ritorna all’alternative rock progressivo dell’opener, con la conclusiva A.T.M. (All These Memories) sunto del mood oscuro e tragico di questo lavoro, un dischetto che ipoteticamente accompagnato dal primo (lasciandoli comunque separati) formerebbe un’unica opera assolutamente interessante e fuori dagli schemi.
Come già scritto in occasione del primo lavoro, i Dead Behind The Scenes sono una band da seguire con molta attenzione, oltre che rappresentare uno degli esempi più fulgidi della bontà della scena alternative dello stivale.

TRACKLIST
1. Empty Skies
2. Living On My Own
3. Etius
4. Another Valentine
5. Mr. Paranoia
6. A.T.M. (All These Memories)

LINE-UP
Dave Bosetti – lead vocals, guitar
Marco Tedeschi – guitar
Lorenzo Di Blasi – keyboards, piano
Valerio Roman – bass
Chris Lusetti – drums, backing vocals

DEAD BEHIND THE SCENES – Facebook

Myrkgrav – Takk og farvel; tida er blitt ei annen

Un album entusiasmante, che merita l’attenzione non solo dei fans del genere, ma anche degli amanti della buona musica.

Dalle lande scandinave arriva il menestrello Lars Jensen, polistrumentista e studioso norvegese trapiantato in Finlandia, che con la sua creatura musicale arriva con questo lavoro alla seconda uscita sulla lunga distanza.

Dieci anni fa usciva il primo album (Trollskau, Skromt Og Kolabrenning), poi una manciata di lavori minori fino ad arrivare a questo bellissimo Takk og farvel; tida er blitt ei annen, un ‘opera che nel genere si piazza tra le migliori uscite degli ultimi tempi.
Non è un caso che i Myrkgrav siano diventati un nome di culto nel panorama folk metal, la loro musica evocativa e molto profonda riesce ad entusiasmare per un’ottima padronanza della materia e non mancherà di convincere gli amanti del genere.
La musica prodotta dai Myrkgrav è quanto di più evocativo mi sia capitato di sentire nel folk metal, ben bilanciata tra cavalcate metalliche e brani dalle sognanti armonie.
Aiutato in qualche brano da Erlend Antonsen (basso), Bernt Fjellestad (clean vocals) e Olav Luksengård Mjelva (violino tradizionale), Larsen sfoggia una tecnica notevole ed un songwriting ispiratissimo, la sua musica si fa spazio dentro di noi come se avesse qualcosa di magico e non sono pochi i momenti in cui, chiudendo gli occhi, potremmo ritrovarci immersi nella natura norvegese, circondati dalla foresta o al cospetto di baite perse nel bianco manto di neve.
Una vena malinconica attraversa l’album, tanto da ritenere di non scrivere un’eresia giudicando l’opera come un disco d’autore più che di semplice folk metal d’assalto.
I brani da menzionare sarebbero molti, ma in particolare colpiscono i bellissimi strumentali, addirittura quattro, intensi, metallici e armoniosi, colonne sonore paesaggistiche di una Norvegia da scoprire e di cui Spålsnatt e la splendida Østa glette sono gli esempi più fulgidi del talento di Jansen.
Takk og farvel; tida er blitt ei annen risulta così un album entusiasmante, che merita l’attenzione non solo dei fans del genere, ma anche degli amanti della buona musica.

TRACKLIST
1.Skjøn jomfru (Norwegian version)
2.Vonde auer
3.Bakom gyrihaugen
4.Soterudsvarten
5.Om å danse bekhette (10th anniversary edition)
6.Spålsnatt
7.Tørrhard
8.Finnkjerringa (10th anniversary edition)
9.Østa glette
10.Sjuguttmyra
11.Uttjent
12.Tviom!
13.Skjøn jomfru (English version)
14.Takk og farvel

LINE-UP
Lars Jensen – All instruments and vocals
Olav Luksengård Mjelva – Hardanger fiddle
Erlend Antonsen – Bass
Bernt Fjellestad – Clean vocals

MYRGRAV – Facebook

Dreariness – Fragments

I Dreariness confermano e rafforzano con Fragments il loro status di band capace di produrre musica di bellezza cristallina, ammantata da una spessa coltre di oscurità ed inquietudine.

Attendevo con curiosità il secondo album dei Dreariness, band che mi aveva colpito alla sua prima uscita (My Mind Is Too Weak To Forget – 2013) con una proposta radicata nel depressive, ma con quel qualcosa in più a livello poetico e melodico in grado di fare la differenza.

In questo nuovo Fragments il sound appare più meditato in molte sue parti, ma nulla cambia riguardo al tormento e la sofferenza che la musica dei Dreariness induce, utilizzando come strumento aggiunto la voce di Tenebra, che si dimostra una delle interpreti più credibili del settore.
Il suo screaming esasperato è accompagnato da vocals pulite (altro elemento di novità rispetto al passato) che ne sono l’ideale contraltare, e il tutto va a comporre un quadro compositivo che si potrebbe definire depressive blackgaze ma che, in fondo, è solo un modo come un altro, per quanto necessario, di definire un sound in cui le melodie create da Gris e ben punteggiate dal drumming di Torpor vengono trasformate in qualcosa di realmente inquietante dagli interventi vocali.
Infatti, se gli Alcest, con il loro shoegaze, ci conducono per mano all’interno dei sogni di Neige, con i Dreariness ci si addentra in una realtà onirica prossima all’incubo, quasi che le asprezze vocali intendano riportarci bruscamente ad una realtà che la mente immagina meno ostile e più rassicurante.
Vengono rappresentati frammenti di luce, a tratti abbacinante, che vivono nella nostra mente lo spazio della vita di una lucciola, prima d’essere oscurati dall’inquietudine e dal senso di costante inadeguatezza di fronte al mistero dell’esistenza: un qualcosa che ogni mente dotata di n minimo di raziocinio non può fare a meno di provare.
Melodie struggenti sono la colonna sonora di una vita in frantumi, la cui catarsi finale però non avviene necessariamente con l’autoannientamento, ma può giungere anche attraverso un azzeramento del proprio vissuto propedeutico ad una nuova rinascita.
Di certo l’ascolto di un album dei Dreariness non è mai né semplice né banale: questa è musica che provoca non poco turbamento, anche se le sonorità meno aspre rispetto al più classico depressive favoriscono un approccio meno ostico per chi dovesse approdare a Fragments con un background meno estremo.
Quasi un’ora di musica sognante, che la voce di Tenebra trasforma sovente in un incubo dal quale il risveglio, però, potrebbe rivelarsi tutt’altro che una liberazione, è il magnifico contenuto di un album dall’elevato impatto emotivo, nel quale ogni passaggio è funzionale allo scopo e dove The Blue ( traccia “novembrina” non solo per il titolo) e In The Deep Of Your Eyes catturano qualche consenso in più nella mia personale scala di gradimento, prima che la splendida Catharsis chiuda il lavoro quale autentico manifesto concettuale reso ancor più potente dall’utilizzo della nostra lingua.
I Dreariness confermano e rafforzano con Fragments il loro status di band capace di produrre musica di bellezza cristallina, ammantata da una spessa coltre di oscurità ed inquietudine: francamente, oggi, non credo ci sia in giro un’altra realtà, in questo specifico settore, capace di trasmettere con eguale forza e cristallina bellezza un tale senso di senso di prostrazione e smarrimento.

Tracklist:
1. Starless Night
2. The Blue
3. Essence
4. In the Deep of Your Eyes
5. Somnium
6. No Temporary Dreams
7. Catharsis

Line-up:
Tenebra – Vocals
Grìs – Guitars, Bass, Keys
Torpor – Drums

DREARINESS – Facebook

childthemewp.com