Cardinal Wyrm – Cast Away Souls

La band dice: ”We walked till dawn to find the doorway to the stars”, proseguiamo con loro…

Magnifica la Svart Records, label finnica che in questi ultimi anni ci ha permesso di conoscere alcune grandi band, come ad esempio Oransii Pazuzu, Katla, Domovoyd, che elaborano un loro suono, assolutamente fuori da schemi prefissati.

Dagli Stati Uniti, dalla zona della Bay Area, provengono i Cardinal Wyrm che con Cast Away Souls producono il loro terzo full length, il secondo per Svart dopo Black Hole Gods del 2014; sono in tre, con la particolarità di avere il batterista, Panjal Tiwari, che si occupa anche delle vocals che passano da un tono declamatorio dai rimandi a Peter Steele  ad un growl “schizzato”.
Il loro sound, denso, bizzarro e teatrale, parte da basi doom, ma incontra variazioni heavy, acide e psichedeliche soprattutto nelle parti soliste di chitarra, creando un ponte tra passato e presente, cercando di trovare una strada per apparire personale.
Questo atteggiamento si avverte già nel primo brano (Silver Eminence) che parte doom, ai confini del funeral con un organo pesante come un macigno, per poi dopo un paio di minuti esplodere in un riff heavy vicino al trash, proseguendo poi con densità sludge e riflessi addirittura simil-voivodiani.
Gli altri cinque brani, sei in tutto per circa quarantasei minuti di puro godimento, sono sempre dello stesso alto livello, pieni di variazioni che possono essere colte da ascoltatori attenti (esempio l’intro spettrale di Grave Passages o le vocals darkwave all’inizio di The Resonant Dead); ulteriore nota di merito per Lost Orison, delicato brano aperto e punteggiato da una tromba immaginifica e dalle voci della bassista, Leila Abdul-Rauf (Vastum) e del batterista.
Cover particolare virata su colori viola e nero e testi, scritti dal batterista, declamanti storie di occultismo, depressione e realtà alternative invitano, come al solito, a ripetuti ascolti per scoprire un modo diverso di pensare e suonare doom “mutante”.

TRACKLIST
1. Silver Eminence
2. The Resonant Dead
3. Grave Passage
4. Lost Orison
5. Soul Devouring Fog
6. After the Dry Years

LINE-UP
Nathan Verrill – Guitars,Organ,Bass
Pranjal Tiwari – Drums, Vocals
Leila Abdul-Rauf – Live Bass, Trumpet, Vocals

CARDINAL WYRM – Facebook

Wolf Counsel – Ironclad

Ironclad si rivela un lavoro soddisfacente anche se privo di quella scintilla in grado di ergerlo ad di sopra della soglia della normale attenzione da parte dei potenziali ascoltatori.

Da Zurigo arrivano i Wolf Counsel, gruppo dedito ad un doom metal piuttosto canonico, fatto salvo qualche sporadico elemento stoner presente nei brani più dinamici.

La materia viene ben trattata ed Ironclad, full length che segue l’esordio dell’anno scorso Vol.I, alla fine si rivela un lavoro soddisfacente, anche se privo di quella scintilla in grado di ergerlo ad di sopra della soglia della normale attenzione da parte dei potenziali ascoltatori.
Infatti, ascoltate Pure as the Driven Snow, brano doom dall’andamento indolente ma piuttosto evocativo, e la più stonerizzata e psichedelica title track, il resto dell’album si snoda dignitosamente verso la sua fine, dove ritroviamo comunque una buona Wolf Mountain, senza che il tutto provochi ulteriori sussulti.
I Wolf Counsel eseguono bene il compito, anche da punto di vista prettamente strumentale, ma qualche dubbio lo lascia la voce del leader Ralf Winzer Garcia, al quale manca un po’ di personalità per riuscire ad incidere maggiormente.
Nel complesso, quindi, Ironclad non può essere considerato un disco non riuscito, ma sicuramente fatica a fare breccia in chi, come me, del doom apprezza maggiormente le derivazioni più estreme od atmosferiche, mentre è probabile che l’accoglienza possa essere migliore da parte di chi è legato alla matrice più tradizionale del genere: resta il fatto che, anche in questo caso, l’eccellenza sta altrove, per cui un ascolto è senz’altro doveroso, ma con il serio rischio che non abbia alcun seguito.
Forse, spingere con maggiore convinzione sul versante psichedelico del sound potrebbe aiutare i Wolf Counsel a scongiurare il rischio di restare confinati nell’affollato limbo delle band di discreto livello ma destinate, a lungo andare, ad un inevitabile oblio.

Tracklist:
1. Pure as the Driven Snow
2. Ironclad
3. Shield Wall
4. The Everlasting Ride
5. Days Like Lost Dogs
6. When Steel Rains
7. Wolf Mountain

Line-up:
Ralf Winzer Garcia – Bass, Vocals
Reto Crola – Drums
André Mathieu – Guitars
Ralph Huber – Guitars

WOLF COUNSEL – Facebook

Exploding Head Syndrome – World Crashes Down

Un album consigliato ai fans dell’hardcore/punk ma che non mancherà di ringalluzzire anche gli amanti del rock più ribelle, irriverente e sguaiato.

La sindrome della testa che esplode è un disturbo del sonno il cui sintomo principale è la percezione di forti rumori immaginari o una sensazione esplosiva prima di addormentarsi o al risveglio.

E di esplosioni nella testa ne diverrete succubi dopo l’ascolto del nuovo album del quintetto di Oslo, attivo dal 2010 con un full length targato 2013 alle spalle, un ep, ed ora in sella alla fiera hardcore/punk World Crashes Down, nuovo album sotto l’ala della WormHoleDeath.
Niente di più che un adrenalinico album di genere si rivela questa mezzora abbondante di musica firmata dal gruppo norvegese, animaoa da uno spirito rock ‘n’ roll che ne fa scaturire un risultato appunto esplosivo, prodotto egregiamente ed in grado di darci saltare dalla poltrona ad ogni nota.
Non si fermano neanche un attimo i ragazzi scandinavi a suon di devastante punk ‘n roll, dalle potenti ritmiche che dall’hardcore prendono forza: l’interpretazione del genere rimane forse ancorato ai propri cliché, ma gli Exploding Head Syndrome sanno trattare la materia e le dieci canzoni proposte ci travolgono con la loro selvaggia attitudine, ben rappresentate da suoni cristallini, da un groove che ormai nel rock non manca mai e da una voce che urla ribellione punk.
Il sound richiama la scena statunitense, ma nello spartito del gruppo non manca quell’approccio tutto scandinavo al rock’n’roll che è il quid in più di brani come la title track, Invincible e la conclusiva End Game.
Un album consigliato ai fans dell’hardcore/punk ma che non mancherà di ringalluzzire anche gli amanti del rock più ribelle, irriverente e sguaiato.

TRACKLIST
1. Wasting Away
2. World Crashes Down
3. Walk Alone
4. The Fine Line Between Hardcore and Hipster
5. Of Sanity and Dignity
6. Happy
7. Invincible
8. Fun and Regrets
9. Left Alone
10. Moving On
11. End Game

LINE-UP
Eirik
Lars
Håvard
Remi
Morten

EXPLODING HEAD SYNDROME – Facebook

Draugsól – Volaða Land

I Draugsól fanno un black metal unico per intensità, potenza e melodia, vicino ai primi Ulver per epicità e maestosità.

Black metal dall’Islanda, incredibile vulcano musicale sempre attivo, con una qualità incredibile. Questa volta la splendida isola ci regala un disco di black metal molto bello e nero.

I Draugsól fanno un black metal unico per intensità, potenza e melodia. In un vortice sonoro questi islandesi, anche grazie ad un’ottima produzione riescono a metterci dentro davvero tante cose, riuscendo ad essere incisivi come pochi altri gruppi. Il loro orientamento è classicheggiante, ma hanno anche bordate improvvise, specialmente con le chitarre che li fanno avvicinare al migliore death metal. La musica che proviene dai Draugsól potrebbe essere la colonna sonora dell’avanzata verso la città di Minas Tirith, una massa abnorme e crudele. Ma in fondo queste narrazioni, il tutto fieramente in islandese, sono paradigmi per descrivere la lotta che abbiamo dentro noi stessi in quanto uomini, quelle continue tensioni e lanci nel vuoto. I Draugsól sottolineano il tremendo fatto che noi siamo i creatori e allo stesso tempo i distruttori di noi stessi, in un incessante cambio di abiti mentali e di progressioni miste a cadute incredibili. Si lotta senza tregua, come una canzone, ed è riduttivo definire così le creazioni dei Draugsól. In tutto ciò fa capolino la paura dello sconosciuto, tema che gli islandesi penso conoscano molto bene, dato che per loro c’è stato molto di sconosciuto, ma tutto ciò li ha portati ad essere un popolo ben definito e soprattutto un popolo che suona. Un album eccezionale, epico e maestoso, che ricorda i primi Ulver, ma che in realtà è solo Draugsól. Un gran disco di black metal islandese pubblicato da una grande etichetta portoghese, e nel black metal questa è la chiusura perfetta del cerchio.

TRACKLIST
1.Volaða Land
2.Formæling
3.Bót Eður Viðsjá Við illu Aðkasti
4.Spáfarir Og Útisetur
5.Váboðans Vals
6.Holdleysa

DRAUGSOL – Facebook

Oh My Dog! – Silent Scream

Primo ep per hard rockers lombardi Oh My Dog!, dal monicker simpatico ed originale ma con un sound che non scherza affatto.

Dopo i primi anni del nuovo millennio in cui i suoni moderni sembravano aver soffocato le sonorità classiche, in questo ultimo periodo le sonorità old school e vintage hanno ripreso il loro cammino sempre più alla luce del sole, anche se nelle sconosciute (ai più) strade dell’underground.

Nel nostro paese la scena hard rock può contare di numerose ed ottime band, dalle sonorità varie che vanno dal classico rock settantiano a quello street/sleazy degli anni ottanta, molte delle quali lo potenziano con dosi alquanto esplosive di groove dall’impatto moderno e catchy.
Tornando a sonorità più classiche vi presento il primo ep degli hard rockers lombardi Oh My Dog!, dal monicker simpatico ed originale (al sottoscritto ricorda Black Dog degli Zep), ma dal sound che non scherza affatto.
Il quintetto nasce sei anni fa per volere del chitarrista Sean Danzante e del batterista Stefano Ceriotti a cui si aggiungono il vocalist Anthony, la chitarra ritmica di Taia ed il basso di Alessandro, ed inizia la sua avventura nel mondo delle sette note suonando cover dei gruppi storici del rock; la voglia di cimentarsi con brani propri però è tanta e, finalmente, in questo fine anno giungono al traguardo del primo lavoro, un ep di tre brani dal titolo Silent Scream.
E’ una chitarra dal retrogusto blues che ci dà il benvenuto nel mondo musicale del gruppo: Atlantis, primo brano in scaletta, alterna atmosfere sofisticate a refrain di potente hard rock con l’ugola del singer in primo piano ed un più grintoso finale in crescendo.
Sfumature ed armonie orientali soni quelle che rinveniamo nella splendida From Alexandria To Istanbul (la Kashmir del gruppo), molto suggestiva nel suo andamento da viaggio epico, dove non mancano ottimi cambi di tempo e un bell’assolo, il tutto impreziosito da una intrigante vena prog.
Lady Godiva torna ad arricchirsi di atmosfere hard blues, tra Led Zeppelin e Deep Purple, concludendo questi quindici minuti di hard rock classico e davvero ben congegnato.
Una bella sorpresa: date un ascolto a Silent Scream e mettetevi comodi ad aspettare con me l’auspicabile primo full lenght, passo decisivo per la carriera degli Oh My Dog!

TRACKLIST
1.Atlantis
2.From Alexandria To Istambul
3.Lady Godiva

LINE-UP
Anthony – Vocals
Sean – Guitars
Taia – Guitars
Alessandro – Bass
Stefano – Drums

OH MY DOG! – Facebook

Godzilla In The Kitchen – Godzilla In The Kitchen

I tre giovani ragazzi tedeschi si lanciano senza particolari remore in un impresa dagli esiti incerti ma dalla quale escono alla fine piuttosto bene, pur non restando immuni da qualche pecca.

I Godzilla In The Kitchen, trio proveniente dall’ex Germania Est (Jena), si propongono sulla scena con un’interessante progressive strumentale, adottando una formula connotata, di norma, da diverse controindicazioni alle quali questo album d’esordio non si sottrae.

Prendendo come spunto primario una band come i Tool (e, quindi, per proprietà transitiva, i King Crimson) i tre giovani ragazzi tedeschi si lanciano senza particolari remore in un impresa dagli esiti incerti ma dalla quale escono alla fine piuttosto bene, pur non restando immuni da qualche pecca.
La mancanza della voce come sempre presenta il conto dopo qualche decina di minuti, nel corso dei quali si ha la possibilità di apprezzare le apprezzabili intuizioni dei nostri ma che, alla lunga, creano una certa assuefazione; in aggiunta, va anche segnalata una produzione non impeccabile per quanto riguarda i suoni della batteria, a mio avviso troppo secchi ed eccessivamente in primo piano rispetto a chitarra e basso.
Cercato (e trovato) il pelo nell’uovo, la prova dei Godzilla In The Kitchen (monicker strambo ma di una certa efficacia) si rivela tutt’altro che riprovevole, tra brani brevi e quindi maggiormente concisi (Broken Dance, The Fridge, Provoking As Teenage Sex), alcuni più lunghi nei quali prendono corpo pulsioni psichedeliche (Stick To Your Daily Routine) ed altri in cui emerge in maniera ben definita una vena più robusta e dinamica (Up The River) che potrebbe essere sfruttata meglio, costituendo un discreto elemento di discontinuità rispetto a buona parte del lavoro.
La sensazione è che il terzetto abbia buone potenzialità ma sia ancora leggermente acerbo sia dal punto di vista compositivo, sia da quello esecutivo, cosicché, alla lunga, certe soluzioni tendono a ripetersi, ma evidentemente si parla di imperfezioni comprensibili in un gruppo all’esordio: buona la prima, in definitiva, per i Godzilla In The Kitchen, tenendo ben presente che si può certamente fare meglio.

Tracklist:
1.Up The River
2.Broken Dance
3.The Turn
4.Elis Speech
5.Propagation Of Violence
6.Dr.Moth
7.Stick To Your Daily Routine
8.Provoking As Teenage Sex
9.The Universe Is Yours
10.The Fridge

Line-up:
Eric Patzschke – Guitars
Felix Rambach – Drums
Simon Ulm – Bass

GODZILLA IN THE KITCHEN – Facebook

Era Decay – Inritum

Gli Era Decay sono autori di una prestazione convincente, compatta e priva di particolari sbavature anche se, almeno per ora, incapace di scalare lo spesso gradino che separa l’album bello da quello imprescindibile.

I rumeni Era Decay, nonostante siano attivi solo dal 2008, con Inritum arrivano già al loro quinto full length, una produzione quindi già corposa rispetto alla media.

Anche se sovente viene sottovalutato, questo è un aspetto del quale bisogna tenere conto nel momento in cui si devono esprimere delle valutazioni dopo l’ascolto di un album: ne deriva, pertanto che, da band al primo o secondo disco si tollererà maggiormente una mancanza di originalità, ricercando piuttosto la freschezza compositiva, mentre, al contrario, a chi ha già una discografia abbastanza cospicua alle spalle verrà richiesta con più rigore una manifestazione di personalità.
Gli Era Decay si trovano in una situazione un po’ spuria, in tal senso, visto che se il loro fatturato discografico è già pari a certe band di ultraquarantenni, sono ancora piuttosto giovani e quindi con intatte possibilità di sviluppare ulteriormente il proprio percorso musicale.
La peculiarità della band rumena è quella di muoversi in uno spazio stilistico che sta a metà strada tra il melodic death ed il death/doom, e non sempre l’equilibrio è perfetto anche se, indubbiamente, ciò evita loro di apparire fotocopie sbiadite di gruppi più famosi appartenenti all’una o all’altra scena.
A mio avviso, rispetto a quanto mi sarei atteso, la componente doom non è così marcata ed è proprio quando ciò avviene che ne vengono fuori i colpi migliori (splendide sia Sharp Words che Restlessness), facendo pensare che, spingendo un po’ di più su quel versante, un disco già buono sarebbe potuto diventare eccellente.
Penso sia sostanzialmente una questione di gusti, perché di certo chi predilige il melodic death la penserà diversamente da me, con più di una buona ragione, dato che i ragazzi rumeni sono autori di una prestazione convincente, compatta e priva di sbavature anche se, almeno per il mio metro di giudizio, incapace di scalare lo spesso gradino che separa l’album bello da quello imprescindibile.
A mio avviso, gli aspetti sui quali gli Era Decay possono sicuramente migliorare (e l’avere dei margini di miglioramento quando si è già piuttosto bravi va visto solo in un’ottica positiva) sono due: il primo è la riduzione della forbice esistente tra i due brani citati, ottimi esempi di death doom, ed altri come Ferocious e Syncope, episodi molto più diretti e di matrice death nel vero senso del termine, mentre il secondo potrebbe essere un ricorso ragionato alle tastiere con il compito di legare il sound nei brani più melodici, perché talvolta il risultato che ne scaturisce è un po’ troppo asciutto ed essenziale.
Detto questo, Inritum è un lavoro che merita d’essere ascoltato a prescindere dal genere assegnatogli in sede di presentazione, anche perché etichettarlo come death/doom rischia d’essere fuorviante, andando a discapito degli stessi Era Decay.

Tracklist:
01 – Intro
02 – Beyond Delirium
03 – Ferocious
04 – Perfidious
05 – Sharp Words
06 – Repugnance
07 – Restlessness
08 – Syncope
09 – The Past is Mine to Bear
10 – Faker
11 – Becoming Unstoppable
12 – Coming for You (The day I die)

Line-up:
Sandru Serban – vocals
Calin Colo – lead guitars
Adrian Galbau – drums
Alexandru Tipa – bass
Frij Vladimir Petrut – rythm guitars

ERA DECAY – Facebook

Esperoza – Aum Corrupted

Un cantico oscuro, un’ora di musica estrema e dalle evocative atmosfere sinfoniche

Un cantico oscuro, un’ora di musica estrema e dalle evocative atmosfere sinfoniche, in cui la parte gotica viene violentata da un bombardamento metallico, per un’opera che va molto vicino ai suoni di in un girone infernale messo a soqquadro dall’arma più letale in mano alle forze oscure, la musica.

Se è vero che l’arte delle sette note, o almeno una sua gran parte, è quanto di più vicino alle forze demoniache ci sia in questo mondo, se l’uomo si allontana da dio ipnotizzato dalle melodie lascive che amoreggiano con la brutalità dell’estremo, se l’umano lato oscuro è continuamente messo alla prova e ammaliato dal mistero e dalla perversione, con Aum Corrupted, nuovo album del gruppo moldavo Esperoza, siamo vicini alla perfezione.
Il trio di Chisinau è l’ennesima scoperta della WormHoleDeath, un altro gruppo assolutamente fuori dai soliti canoni, una creatura che fa dell’arte oscura una meravigliosa e destabilizzante musica estrema, classica nell’approccio, varia nel saper muoversi con sagacia in molti dei generi estremi, originale nell’amalgamare orchestrazioni con un metal brutale, devastante, intenso e a suo modo progressivo.
La musica degli Esperoza è teatrale nella sua più pura concezione, iniziando dall’uso della voce operistica, ma lontana anni luce dalle female fronted band odierne, interpretativa, evocativa, come uno spirito che porta la morte o la possessione, terribilmente affascinate ma pericolosissima, mentre il male, diretto, violento e terribile arriva ad imprigionare l’anima con growl e scream direttamente dal più buio pozzo di anime nere: quella la voce, che fino ad un momento prima, ipnotizzava e ci trascinava inconsapevoli verso la perdizione, si trasforma in un demoniaco ed ultimo cantico prima del buio infinito ed il silenzio perenne.
Zoya Belous , Dmitrii Prihodko e Vadim Cartovenko hanno creato un’opera entusiasmante, difficile da catalogare con la classica etichetta da scrivere in calce alla recensione: Aum Corrupted è un contenitore di musica che ha nell’estremo il suo credo, ma che si riempie di sfumature ed atmosfere, talmente varie da perdere ogni certezza man mano che ci avviciniamo alla conclusione.
Black metal, death, doom, dark prog, gothic, symphonic, ognuno troverà il suo appiglio per non perdersi irrimediabilmente tra i meandri di un sound che lascia indizi come le briciole di Pollicino, ma che se verranno seguite porteranno là, da dove non si torna più ed è facile che accada ascoltando gemme oscure come Egohypnotized, Tomb Of Deeds, Periods Of 8, ma è tutto il lavoro che lascia senza fiato.
Come detto è molto difficile fare paragoni, il sottoscritto ha trovato in molte atmosfere il maligno ed orrorifico talento dei Devil Doll, chiaramente in versione più estrema e sinfonica, ma le note che escono dal tocco dei tasti d’avorio mi conducono verso il mondo di Mr.Doctor, poi la furia estrema tocca devastanti vertici black, death e doom, che mantengono sempre alta la tensione in questa colonna sonora pregna di magnifica, teatrale e diabolica oscurità.

TRACKLIST
01. A Broken Passage (Intro)
02. Egohypnotized
03. Unknown Summons
04. Tomb of Deeds
05. Nocturne Opus 93
06. Blame it on Me
07. Periods of 8
Desolate Grief (Interlude)
09. I Rot
10. ..and here comes the immaculacy / Aum Mantra (you will be punished for your prayers)

LINE-UP
Zoya Belous – Vocals
Dmitrii Prihodko – Guitar
Vadim Cartovenko – Drums

ESPEROZA – Facebook

Deceit Machine – Resilience

Finalmente un album moderno nel quale viene data la giusta importanza al lavoro della chitarra solista, qualità non così scontata oggigiorno, che nella musica dei Deceit Machine torna (insieme alla voce) ad essere protagonista.

Ecco ci risiamo, mi ritrovo con un’altra bomba pronta ad esplodere nei vostri padiglioni auricolari, una deflagrazione di hard rock metal, moderno e coinvolgente, cantato, suonato e prodotto come meglio non si potrebbe e che non presenta la minima pecca … a parte forse il fatto che il gruppo, essendo italiano, rischia sempre di non essere presentato e supportato a dovere.

Il quartetto in questione si chiama Deceit Machine, arriva da Milano ed il suo debutta si intitola Resilience.
L’album è stato registrato da Larsen Premoli presso i Rec Lab Studios e vede la partecipazione dietro alle pelli di Federico Paulovich dei Destrage.
Il gruppo viene presentato come un’alternative metal band e se, si pensa al metal classico, l ‘accostamento ci può stare, ma a sentir bene è forse più giusto descrivere il sound del gruppo nostrano come un hard rock moderno che alterna aggressione metallica e vincenti melodie rock, grazie soprattutto all’enorme potenziale della voce di Michela Di Mauro, così come deii vari brani che compongono Resilience.
Si diceva hard rock, pregno di groove, metallizzato da un lavoro chitarristico eccellente (Gabriele Ghezzi), con assoli che a tratti richiamano la scuola classica, per poi seviziarci con riff che sputano sangue americano, alternando feeling hard rock e potenti muri di suono alternative.
La sezione ritmica concede poche ma significative tregue (nell’elegante e raffinata Here Now), per poi bombardarci senza pietà e, mentre il cd gira nel lettore, siamo arrivati alla sesta traccia (la devastante Watchdog) e la qualità continua a rimanere altissima.
Resilience è, finalmente, un album moderno nel quale viene data la giusta importanza al lavoro della chitarra solista, qualità non così scontata oggigiorno, mentre nella musica dei Deceit Machine torna (insieme alla voce) ad essere protagonista, virtù che piacerà non poco anche agli amanti dei suoni più classicheggianti ma con l’orecchio attento ai suoni del nuovo millennio.
Un album che raccoglie una serie di hit e li spara a cannone, mentre la Di Mauro fa scintille nella splendida Absence che, con la devastante Wonderland, fa da preludio al brano più bello di Resilience, Flow ispirata a mio avviso ai primi Soundgarden, quelli ancora selvaggi e veraci del capolavoro Louder The Love.
Dunque, che vi piaccia alternative metal o modern hard rock , poco importa, l’album è davvero bello e merita la vostra attenzione: band da supportare senza se e senza ma.

TRACKLIST
1. Shinigami
2. Garden
3. K.A.R.M.A.
4. Here Now
5. My Raven
6. Watchdog
7. Absence
8. Wonderland
9. Flow
10. Awakening

LINE-UP
Michela Di Mauro – Vocals
Gabriele Ghezzi – Guitar
Stefano Paolillo – Bass
Davide Ferrario – Drums

DECEIT MACHINE – Facebook

Huldre – Tusmørke

Alla seconda prova gli Huldre confermano di essere un gruppo onesto ed in grado di far vivere all’ascoltatore quarantacinque minuti di musica che rievoca foreste nascoste tra la bruma, vecchi focolai accesi e la dura vita di un tempo

Viviamo in tempi di ordinaria follia, aggrediti non solo dall’idiozia dell’uomo attento solo a distruggere ma anche dalla natura, ormai ribellatasi definitivamente ai continui soprusi da chi sulla Terra non è il padrone ma solo un fastidioso ospite.

Ecco che c’è bisogno sempre più di fuggire dalla realtà, almeno per chi ha ancora un minimo di sensibilità e si confronta ogni giorno con il declino del genere umano, male incurabile del pianeta e non (come dovrebbe essere) custode delle ricchezze che ci regala.
Per sfuggire per un po’ dal male di vivere con cui tutti i giorni ci dobbiamo confrontare, la musica può essere un’ottima compagna ed il nostro amato mondo metallico un alleato fedele.
Uno dei generi che più aiuta nel viaggio mentale verso un mondo alternativo è indubbiamente il folk metal con le sue sonorità fuori dal tempo, le sue atmosfere epico/evocative e quella poesia intrinseca di cui molte volte abbiamo il bisogno.
Vero che negli ultimi anni il genere si è sviluppato a macchia d’olio, specialmente sul territorio del vecchio continente, partendo dalla penisola scandinava fino a toccare le coste del Mediterraneo.
Tornando al nord e precisamente in Danimarca, incontriamo il sestetto degli Huldre che, a dieci anni esatti dal loro primo demo, licenziano il secondo lavoro sulla lunga distanza intitolato Tusmørke.
Il gruppo danese accodatosi da diversi anni al carro tirato dai gruppi che hanno trovato i favori di chi bazzica la scena metallica (Finntroll ed Eluveitie), spostano le loro coordinate stilistiche verso atmosfere folk più marcate.
Il metal fa da accompagnamento alle trame sognanti ed evocative dei nove brani qui proposti, tutti cantati in lingua madre dalla personale voce di Nanna Barslev, in un’apoteosi di suoni e strumenti tradizionali.
Qualche ritmica più sostenuta mantiene alta l’attenzione, ma l’approccio rimane cantautorale per tutta la durata del disco, con buoni livelli emozionali, specialmente quando gli strumenti tradizionali hanno in mano per intero il sound del gruppo.
Sui brani più tirati l’approccio è maggiormente lineare, in ossequio ai dettami del genere, niente di nuovo dunque, ma certamente ben congegnato.
Alla seconda prova gli Huldre confermano di essere un gruppo onesto ed in grado di far vivere all’ascoltatore quarantacinque minuti di musica rimembrante foreste nascoste tra la bruma, vecchi focolai accesi e la dura vita di un tempo, ormai esclusiva di chi ha ancora voglia di fuggire, aiutato in questo caso dalle buone melodie di Hindeham, Farstemand e Nattesorg.

TRACKLIST
1.Jagt
2.Hindeham
3.Varulv
4.Underjordisk
5.Skifting
6.Fæstemand
7.Mørke
8.Tæring
9.Nattesorg

LINE-UP
Nanna Barslev – Vocal
Laura Bec – Violin
Troels Dueholm – Hurdy Gurdy, Flutes
Shawm Lasse Olufson – Guitar, Lute
Bjarne Kristiansen – Bass
Jacob Lund – Drums, Percussion

HULDRE – Facebook

Trees Of Eternity – Hour Of The Nightingale

Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Occuparsi di un disco come questo, ben sapendo tutto ciò che accaduto prima della sua uscita, rende dannatamente difficile mantenere il giusto distacco, fondamentale per evitare che il coinvolgimento emotivo finisca per deformare sensazioni ed impressioni.
Quindi proverò a parlare, almeno a livello descrittivo, di Hour Of The Nightingale come se fosse il “normale” disco d’esordio di una “normale” band.

I Trees Of Eternity nascono come progetto parallelo di Juha Raivio, chitarrista e compositore principale degli immensi Swallow The Sun, che ha chiamato a sé, oltre al suo vecchio compagno di band Kai Hahto alla batteria, la splendida vocalist sudafricana Aleah Stanbridge ed i fratelli Fredrik e Mattias Norrman, noti soprattutto per esser stati a lungo due travi portanti dei Katatonia.
Da una simile configurazione non poteva che venirne fuori una band dedita ad un sound oscuro ma, ovviamente, rispetto al robusto death doom melodico dei Swallow The Sun, viene esplorato il lato più intimista e soffuso, favorito dal timbro vocale di Aleah, delicato, a tratti quasi un sussurro lontano anni luce da gorgheggi o tentazioni operistiche e, forse anche per questo, del tutto adeguato alle intenzioni di Raivio.
Hour Of The Nightingale si rivela, fondamentalmente, uno scrigno di emozioni dal primo all’ultimo minuto, e non potevano esserci dubbi al riguardo, perché il musicista finnico ha dimostrato in tutti questi anni d’essere un compositore dotato di una sensibilità fuori dal comune, capace con il suo inconfondibile tocco chitarristico di indurre alla commozione gli innumerevoli fan della sua band principale.
Nei Trees Of Eternity, ovviamente, le coordinate sono ben diverse: la chitarra tesse sempre melodie struggenti, ma il tutto viene asservito alla voce carezzevole della Stanbridge piuttosto che a quella ben più ruvida di Kotamaki, e l’andamento dell’album procede di conseguenza, per oltre un’ora di poesia e bellezza che si fanno talvolta tangibili, quasi fisiche.
Dieci gemme musicali si susseguono senza che una pesante cappa di malinconia cessi di aleggiare sulle note prodotte da un gruppo in grado di offrire, a chi adora queste sonorità, un’esperienza unica per coinvolgimento emotivo …

Oh, al diavolo! Come si fa a continuare a parlare di questo disco senza tenere conto che Aleah non è più tra noi da quasi sei mesi? Come si può evitare d’esser trascinati in un gorgo di tristezza e disperazione nell’ascoltare le struggenti trame musicali e le laceranti e profetiche liriche che lei stessa ha scritto?
A partire da My Requiem, brano che apre l’album, dove Aleah canta “Too late you’re calling out my name /
To raise me up out of my grave / Alive in memory I’ll stay” fino ad arrivare alla strofa conclusiva di Gallows Bird (“As the last ray of hope is lost / fight and resistance / Nothing remains to hold / me to this existence”), non viene mai meno un costante groppo alla gola, che costringe ad un impari battaglia con la propria sensibilità per provare a ricacciare indietro le lacrime.
Quest’ultima, lunghissima traccia, che arriva dopo lo splendore acustico di Sinking Ships, ha davvero il sapore del commiato, con le sue atmosfere drammatiche nella fase iniziale, che riportano il sound al doom più dolente: la chitarra tesse melodie di incommensurabile bellezza mentre Aleah ci dona il privilegio di ascoltarla per l’ultima volta regalandoci, dopo l’intervento di un Nick Holmes mai così cupo, un’ultima parte in cui prevale, invece, un rabbrividente senso di pace e di consapevolezza.
Hour Of The Nightingale sarebbe stato lo stesso un disco stupendo, ma non si può negare che gli eventi nefasti precedenti l’uscita abbiano moltiplicato all’ennesima potenza un impatto emotivo già di suo oltre la norma.
Però, ripensandoci, l’idea di parlare di Aleah al presente non è stata affatto sbagliata: voglio credere che il suo spirito sia sempre accanto al suo compagno di vita Juha, aiutandolo a superare la sua perdita fornendogli l’ispirazione per elargirci altre impagabili emozioni.
E, in fondo, è proprio grazie all’immortalità conferita dall’arte che Aleah Stanbridge occuperà per sempre un posto di rilievo anche nel nostro cuore di semplici appassionati ed umili cronisti di tanta bellezza: Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Tracklist:
1.My Requiem
2.Eye Of Night
3.Condemned To Silence (feat. Mick Moss)
4.A Million Tears
5.Hour Of The Nightingale
6.The Passage
7.Broken Mirror
8.Black Ocean
9.Sinking Ships
10.Gallows Bird (feat. Nick Holmes)

Line-up:
Aleah Stanbridge – Vocals, Lyrics, Songwriting
Juha Raivio – Guitars, Songwriting
Kai Hahto – Drums
Fredrik Norrman – Guitars
Mattias Norrman – Bass

TREES OF ETERNITY – Facebook

childthemewp.com