Stone Ship – The Eye

Un bel lavoro, che probabilmente rappresenterà la prima ed ultima testimonianza discografica degli Stone Ship

Dei finlandesi Stone Ship non si può certo dire che in occasione del disco d’esordio abbiano attuato una politica dei piccoli passi.

The Eye, infatti, consta di due sole tracce per un totale di oltre tre quarti d’ora di musica, strano e forse audace, ma nemmeno tanto se si pensa alla matrice doom della band finnica.
Prendendo le mosse dai numi tutelari del genere quali Candlemass e Pentagram, gli Stone Ship riescono a giustificare la lunghezza delle due tracce con un’impostazione coerente con un’indole che li porta a sviluppare lunghe jam in sede compositiva.
Il risultato è senz’altro i linea con le aspettative di chi ama un genere che quelli della “nave di pietra” dimostrano di conoscere molto bene: passaggi in linea con la tradizione del genere si alternano a sprazzi di psichedelia, nel corso dei quali i musicisti lasciano libero sfogo all’istinto e alla creatività.
Nonostante questo, i due brani, benché lunghissimi, non sono particolarmente dispersivi, mantenendo ben salda l’impronta doom senza apprire audacemente sperimentali: merito di soluzioni sonore, queste sì, in linea con i dettami conosciuti, con accordature ribassate e voce stentorea e molto comunicativa.
Tra la coppia di lunghi brani, The Crooked Tree, il secondo dei due monoliti scagliati sul pianeta dalla band proveniente da Lahti (tempio degli sport invernali), gode di una line melodica molto ben definita , nonostante diversi cambi di passo, risultando più coinvolgente rispetto alla comunque buona The Ship Of Stone.
The Eye è stato pubblicato in formato musicassetta nel 2015 e solo quest’anno è stato edito su supporto digitale: questo sicuramente avrebbe potuto consentire agli Stone Ship di aumentare non poco i numeri dei propri estimatori, ma ci risulta che la band sia di fatto in stand by da circa due anni, da quando, purtroppo, il batterista e fondatore A. Lehto è tragicamente deceduto. I restanti tre ragazzi hanno dichiarato di non voler cercare un nuovo batterista, decidendo di dedicarsi alle altre band nelle quali sono coinvolti, il che fa presumere che The Eye possa, alla fine, costituire la prima e l’ultima testimonianza discografica degli Stone Ship.
Un vero peccato, perché questo gruppo aveva tutti i numeri per ritagliarsi un posticino tra le varie realtà di culto che la scena doom annovera, in virtù di un approccio molto settantiano in cui i suoni scorrono come un flusso lisergico e venefico.

Tracklist:
1. The Ship of Stone
2. The Crooked Tree

Line-up:
A. Lehto – Drums, Keyboards, Vocals (backing)
R. Pesonen – Bass, Guitars (acoustic), Narration
M. Heinonen – Vocals
J. Kuosmanen – Guitars

STONE SHIP – Facebook

Gaerea – Gaerea

Quello dei Gaerea è black metal di elevata qualità, corrosivo per contenuto ed aspro nella sua forma, nonostante non disdegni passaggi più melodici ed altri più ragionati.

Ep d’esordio per i Gaerea, band che mantiene un rigoroso mistero sulla propria provenienza (alcuni li danno per italiani, ma altri indizi farebbero pensare a dei portoghesi), un aspetto che, alla fine, si rivela marginale quando è la musica stessa a poter parlare.

Quello dei Gaerea è, infatti, black metal di elevata qualità, corrosivo per contenuto ed aspro nella sua forma, nonostante non disdegni passaggi più melodici ed altri più ragionati, come avviene nella conclusiva Void Of Numbness.
Sarà forse l’idea che possano essere portoghesi a farmi balenare questa sensazione, ma trovo nel sound dei Gaerea (specialmente nell’operer Sanctificato) qualcosa di quel piccolo gioiello di arte nera intitolato Hermeticum, rimasto un episodio isolato ed uscito a nome Daemonarch, che altri non erano se non i Moonspell sotto mentite spoglie.
Un approccio lacerante e impietoso, senza però apparire mai troppo algido come certe volte accade alle band scandinave o tedesche, depone a favore per una provenienza ed un background musicale se non mediterraneo, sicuramente di matrice sudeuropea; in questa mezz’ora scarsa i Gaerea ci fanno capire diverse cose, oltre a spiegarci il loro personale (e per lo più condivisibile) punto di vista sulle questioni religiose: nonostante il voler mantenere il riserbo sull’identità dei membri il più delle volte possa apparire un’inutile messa in scena, questi fanno decisamente sul serio e l’ep potrebbe costituire la premessa ad un futuro discografico di notevole importanza.
La tensione compositiva è palpabile, la produzione è di standard superiore alla media per il genere, così come l’abilità che questi musicisti dimostrano nei cinque brani contenuti in un ep che, senz’altro, farà parlare molto (e prevalentemente bene) gli addetti ai lavori, in attesa che il nome Gaerea venga del tutto sdoganato anche tra i non pochi appassionati dell’arte musicale più oscura.

Tracklist:
1.Santificato
2.Final Call
3.Pray To Your False God
4.Through Time
5.Void Of Numbness

GAEREA – Facebook

Zaum – Eidolon

Una musica non per tutti ma estremamente affascinante, ricca ed assolutamente fuori dal comune.

Immaginate di partire per un viaggio onirico ed astrale, passeggiare tra epoche millenarie mentre intorno a voi figure mitologiche appaiono e scompaiono o, semplicemente accompagnano il vostro peregrinare in mondi dimenticati dal tempo: questo è ciò che suscita l’ascolto di Eidolon, monumentale lavoro del duo canadese Zaum, parola che indica un linguaggio che un gruppo di poeti futuristi russi provò a creare nello scorso secolo.

Attraverso la musica di questa coppia di sciamani del nuovo millennio, Kyle Alexander McDonald (basso, sitar, synth e voce) e Christopher Lewis (batteria), verrete ancora una volta, dopo il debutto Oracles uscito due anni fa, trasportati fuori dal vostro corpo, in un’esperienza che trascende il reale per l’astrale, due brani di una ventina di minuti ciascuno, lenti e psichedelici, stonerizzati e messianici, un trip lunghissimo, da perdersi in un mondo lontano anni luce dal nostro vivere quotidiano.
Le due tracce partono lente, ipnotizzanti, per poi esplodere in attimi di doom/stoner potentissimo e ritornare subito dopo alle atmosfere sulfuree e spirituali.
Un doom mantra, come lo chiamano loro, e mai etichetta è stata più azzeccata per descrivere il sound prodotto nelle due lunghissime suite Influence Of The Magi e The Enlightenment.
Esperienze meditative, magari con qualche aiutino illegale, sfumature orientaleggianti, atmosfere magiche e profonde che necessitano di un ascolto attento e concentrato, musica per chi non si fa distrarre ed entra dalla porta principale nel mondo parallelo sognato dagli Zaum.
Una musica non per tutti ma estremamente affascinante, ricca ed assolutamente fuori dal comune.

TRACKLIST
1.Influence of the Magi
2.The Enlightenment

LINE-UP
Kyle Alexander McDonald – Vocals, Bass, Sitar, Synth
Christopher Lewis – Drums

ZAUM – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard – Y Proffwyd Dwyll

La band sostiene d’essere “la colonna sonora ideale per il nostro prossimo viaggio intergalattico”. Da sentire.

Dal Nord del Galles (Wrexham) discende questo immane flusso di energia doom con flavour psichedelico e cosmico; sono in quattro con stellare voce feminile (Jessica Ball) e sono emersi nel 2015 con un monolite nero (Nachthexen) di trenta minuti, replicato nello stesso anno con il full “Noeth ac Anoeth” che continua a definire il “loro” doom aggiungendo due ulteriori lunghe tracce ipnotiche e stordenti.

E ora nel settembre 2016 esplode, è proprio il caso di dirlo, questo nuovo lavoro con sei brani dal minutaggio più contenuto (in media 8-9 minuti) rispetto al precedente; il loro sound di una pesantezza trascendentale si alimenta di pachidermici riff accompagnati, sovrastati dalla ultraterrena voce della bassista e vocalist Jessica; il synth suonato un po’ da tutti i musicisti proietta il suono verso orizzonti cosmici sconfinati ed inesplorati, avvolgendo il tutto in spire scure e profonde.
A differenza della prima opera, dove spiccava il suddetto monolite nero di trenta minuti, qui i brani, tutti di simile alto valore, appaiono come una “massa” cangiante, inarrestabile nel suo scorrere che può ricordare il kraut rock degli anni 70′, con gocce ben udibili di suoni hawkindiani in alcuni tratti., il tutto sempre con spiccata sensibilità doom.
La band in questi 2 anni ha elaborato il suo suono, con diversi concerti in terra albionica e oltre mare suonando con gruppi come Monolord, Ramesses, All Them Witches, tutte realtà che profumano di doom “mutante”, non disdegnando di misurarsi anche con enormità come gli immensi Napalm Death e i polacchi Behemoth.
Accompagnato anche da un bella confezione apribile a formare una croce, il consiglio è quello di “assaggiare” il disco più e più volte per assaporare a fondo il viaggio intrapreso da questi ragazzi che, spero, decidano di farsi ascoltare “live” anche nelle nostre terre !

TRACKLIST
1. Valmasque
2. Y Proffwyd Dwyll
3. Gallego
4. Testudo
5. Osirian
6. Cithuula

LINE-UP
Paul M.Davies – lead guitar, moog synth, sampletron
Jessica Ball – bass,vocals, cello, sampletron
Wes Leon – rhythm guitar, moog synth
James Carrington – drums, moog synth

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

The Meaning Under – Cenotaph

Nell’anima di Cenotaph vivono e si scontrano luce e buio, sogni ed incubi, drammi e speranze, in perfetta e sontuosa armonia

Il prog metal, passata la tempesta Dream Theater tra la metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, si è attestato su un buon livello di popolarità anche grazie alla moltitudine di contaminazioni a cui è andato incontro, soprattutto con il metal estremo.

Le opere che si affacciano sul mercato negli ultimi tempi dimostrano la maturità artistica di chi si approccia al genere, non solo ridotto a  scusa per sfoggiare l’indubbia tecnica dei musicisti, ma scrigno di emozioni, molto spesso melanconiche, drammatiche ed intimiste.
La musica progressiva ormai a tutti gli effetti alleata con i suoni metallici è entrata nel nuovo millennio a testa alta, merito anche della scena underground, caldo nido di talenti dalle qualità espressive notevoli.
Il nostro paese, come ci ha ormai abituati, regge il passo delle scene d’oltralpe con gruppi dalle enormi potenzialità, ne è un esempio questo ottimo lavoro di debutto dei padovani The Meaning Under, intitolato Cenotaph.
La band veneta non manca di sorprendere con un lavoro maturo e molto professionale, sei anni dopo il primo ep, Overflow; tra le sue fila si agita l’anima oscura e teatrale di Claude Arcano, vocalist degli industrial gothic A Tear Beyond, qui in coppia con il singer Ben Moro tra bellissime parti pulite e sfuriate in growl, toni gotici e dark che suggellano una prova vocale molto sentita.
Il sound del gruppo si muove tra lo spartito della seconda fase del teatro di sogno, meno metallo classico dunque e più musica intimista, un drammatico ed emozionante viaggio tra il prog metal del nuovo millennio, come già detto molto più attento ad emozionare che non a specchiarsi in inutili ghirigori tecnici.
Il cuore dell’album è, a mio avviso, il più emozionante con almeno due tracce di prog metal dalle tinte dark che non lasceranno indifferenti come Deceaved By A Promise e The Tower Of The One (sulla seconda Arcano torna ai fasti estremi di Maze of Antipodes), mentre la title track riassume il concept lirico dell’album con undici minuti di musica sopra la media e splendidamente interpretata dai due singer.
Un ottimo debutto di un gruppo dalle potenzialità enormi e dalle ottime idee: Cenotaph è un opera tutta da ascoltare, perché nella sua anima vivono e si scontrano luce e buio, sogni ed incubi, drammi e speranze in perfetta e sontuosa armonia.

TRACKLIST
1.The New Perspective
2.Superstructure
3.Command: Abort
4.The End of Civilization
5.Sons of a Lie
6.Deceaved by a Promise
7.The Tower of the One
8.Cenotaph (Buried with No Name)
9.Confession (Of a Dictator)

LINE-UP
Matteo Rosin – Guitars, Bass
Filippo Galvanelli – Keyboards
Claude Arcano – Vocals
Ben Moro – Vocals

Manuel Vendramin – Drums (track 2)
Marco Sanguanini – Drums (tracks 4-5)
Andrea Bevilacqua – Bass (tracks 3, 6)
Alessandro Quarin – Bass (tracks 4-5)
Andrea Cancedda – Bass (track 7)
Andrea Scaramella – Violin
Francesco De Santi – Violin
Laura Giaretta – Viola
Maurizio Galvanelli – Cello
Roxanne Doerr – Vocals (track 2)
Chiara Badon – Vocals (choirs) (track 1)
Paolo Veronese – Drums (tracks 3, 6, 8)
Francesco Tresca – Drums (track 7)
Marco Costa – Bass (track 2)

THE MEANING UNDER – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=OQW5jz9FnbE

DARK SARAH

Il video di “Dance With The Dragon” feat. JP Leppäluoto, tratto dall’album “The Puzzle”.

Il video di “Dance With The Dragon” feat. JP Leppäluoto, tratto dall’album “The Puzzle”.

Dark Tranquillity – Atoma

Una band che, pur occupando con merito un posto di rilievo nella storia del metal, continua a calcare i palchi con lo spirito di un tempo e con la consapevolezza di chi sa di poter regalare ancora dell’ottima musica ai propri numerosi estimatori.

Circa 2000 anni fa Plutarco scrisse Le Vite Parallele, un opera importante che costituiva un primo esempio di letteratura biografica, utilizzando quale metodo narrativo la comparazione tra personaggi storici dalle analoghe caratteristiche appartenenti alla storia greca e romana.

Se lo scrittore e filosofo ellenico fosse stato un nostro contemporaneo e, magari, si fosse occupato anche di musica, avrebbe potuto sicuramente riservare un capitolo a due band che occupano un posto di rilievo nella storia del metal, In Flames e Dark Tranquillity.
Infatti, la storia di questi due gruppi, nati nella stesa città e pressapoco negli stessi anni, è emblematica di come, nella vita, ciascuno sia destinato prima o poi a prendere direzioni diverse pur percorrendo una strada comune per diverso tempo.
Inventori del Gothenburg Sound, più prosaicamente conosciuto come death melodico, Dark Tranquillity ed In Flames presero le mosse all’inizio degli anni ’90 e, a rimarcare la stretta connessione tra le due band, nei rispettivi full length d’esordio ebbero in comune persino il vocalist, visto che Mikael Stanne, storico singer dei Dark Tranquillity, prestò la sua voce all’esordio degli In Flames, intitolato Lunar Strain, prima di lasciare il posto in via definitiva ad Anders Friden.
Le due band percorsero la stessa strada, costellata di successi ed album di grande spessore, fino agli ultimi anni del secolo, quando i Dark Tranquillity impressero un’improvvisa svolta gothic al proprio sound con lo splendido Projector, mentre gli In Flames, con Colony, preparavano la svolta modernista di Clayman, album che sarebbe risultato lo spartiacque per la band di Friden, nonché l’imprevedibile imbocco di una strada senza ritorno.
Avvenne così che, mentre Stanne e soci, nonostante i buoni riscontri, tornarono sui propri passi rientrando nel loro più rassicurante trademark ma conservando, sia pure in maniera meno accentuata, gli aspetti peculiari immessi in Projector, gli In Flames impressero al loro sound una svolta commerciale che vide svanire progressivamente qualsiasi traccia di death per sostituirlo con una forma di metal moderno, discreto nelle sue prime espressioni ma resosi via via sempre più inoffensivo.
Il resto è storia dei nostri giorni: i Dark Tranquillity continuano a mettere a ferro e fuoco i palchi di tutta Europa, gratificando la numerosa frangia di fedeli seguaci con la riproposizione di un sound che potrà anche aver smarrito la propria carica innovativa, ma che viene proposto sempre con tanta e tale classe e maestria da risultare comunque al passo con i tempi. Ben diversa è la parabola degli storici dirimpettai, che quasi contemporaneamente (ed ecco quello che sarà forse l’ultimo parallelismo) hanno pubblicato Battles, album deludente del quale si può rinvenire, nella recensione scritta da Alberto per MetalEyes, tutta la delusione del fan di vecchia data.
Io ho sempre preferito, invece, tra le due band i Dark Tranquillity, e sono felice di constatare che la loro stella non ha smesso di brillare: lo scettro del death melodico è sempre nelle mani di Stanne e soci e, anche se vengono insidiati ormai da vicino da numerose realtà che, dalla loro, hanno quell’urgenza compositiva che non si può richiedere a chi calca la scena da oltre un quarto di secolo, non è solo il carisma a consentire loro il mantenimento di questo status ma sono i fatti parlare, sotto forma di un ottimo album come Atoma.
Infatti, considerando che i nostri mantengono ormai da un po’ un cadenza regolare di un album ogni tre anni, bisogna risalire a Fiction, datato 2007, per trovare un altra uscita di livello medio alto: nel nuovo lavoro, probabilmente, non sono rinvenibili brani epocali (i miei preferiti sono la title-track, The Pitiless e l’evocativa Merciless Fate) ma si tratta indubbiamente di una raccolta molto compatta e priva di filler.
La dozzina di canzoni vede un Mikael Stanne sempre in grande spolvero, anche nelle parti pulite, supportato da musicisti che riuscirebbero ad interpretare alla perfezione il genere anche con gli occhi bendati e le mani legate: chi li ha visti recentemente dal vivo non può che suffragare questa sensazione di trovarsi al cospetto di una band che, pur occupando con merito un posto di rilievo nella storia del metal, continua a calcare i palchi con lo spirito di un tempo e con la consapevolezza di chi sa di poter regalare ancora dell’ottima musica ai propri numerosi estimatori.

Tracklist:
1. Encircled
2. Atoma
3. Forward Momentum
4. Neutrality
5. Force of Hand
6. Faithless by Default
7. The Pitiless
8. Our Proof of Life
9. Clearing Skies
10. When the World Screams
11. Merciless Fate
12. Caves and Embers

Line-up:
Anders Iwers – Bass
Anders Jivarp – Drums
Niklas Sundin – Guitars
Mikael Stanne – Vocals
Martin Brändström – Electronics

DARK TRANQUILLITY – Facebook

Kansas- The Prelude Implicit

Questo nuovo album dimostra come una grandissima band attiva da oltre quarant’anni, peraltro rivoluzionata nella line-up per l’ennesima volta, possa tranquillamente reggere il cambiamento dei tempi.

Eccomi con grande emozione a parlare del nuovo prodotto di una band storica come i Kansas che, a distanza di sedici anni, riappare prepotentemente con un album nuovo di zecca, The Prelude Implicit.

Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un gruppo che apprezzo da sempre e che ha segnato una fase importante nella musica d’oltre oceano, oltre ad aver ispirato moltissimi gruppi che hanno tratto ispirazione dalla loro musica a piene mani. Questo nuovo prodotto è ovviamente maturo e dimostra come una grandissima band attiva da oltre quarant’anni, peraltro rivoluzionata nella line-up per l’ennesima volta, possa tranquillamente reggere il cambiamento dei tempi. Entrando nel dettaglio, si scopre così un ottimo vocalist come Ronnie Platt, grandissimo nell’essere originale e nel non voler ricordare a tutti i costi Steve Walsh. I pezzi si susseguono ed emerge la maestria di un gruppo sempre al vertice: The Voyage of Eight Eighteen è a mio parere il classico pezzo di punta dell’intero album, con i suoi 8’18” di pieno orgasmo prog. Commentare la bravura dei Kansas è difficile, basterebbe solo dire che The Prelude Implicit è un album sicuramente da ascoltare e che piacerà agli amanti sia del metalprog che del prog classico. Ballate, assoli e il classico violino di David Ragsdale faranno riaffiorare emozioni mai sopite negli amanti del genere. Phil Ehart e Billy Greer sostengono le dinamiche della band in maniera perfetta, Dave Manion alle tastiere risulta preciso e mai invadente e la coppia Williams-Rizvi alle chitarre, entrambi grandissimi, completano il combo. Insomma, da non perdere …

TRACKLIST
1.With This Heart
2.Visibility Zero
3.The Unsung Heroes
4.Rhythm in the Spirit
5.Refugee
6.The Voyage of Eight Eighteen
7.Camouflage
8.Summer
9.Crowded Isolation
10.Section 60

Bonus Tracks:
11.Home on the Range
12.Oh Shenandoah

LINE-UP
Ronnie Platt – voce, piano
Richard “Rich” Williams – chitarra acustica, chitarra elettrica
Billy Greer – basso, voce, cori
Phil Ehart – batteria, percussioni
David Manion – piano, tastiera, organo
Zak Rizvi – chitarra elettrica, cori
David Ragsdale – violino, cori

Hammer King – King Is Rising

Un album onesto, diretto e senza fronzoli, un tuffo nel metallo vecchia scuola, di madre tedesca ma con parentele rinvenibili tra la new wave of british heavy metal e il power scandinavo.

Tornano gli epici power metallers Hammer King con il secondo lavoro sulla lunga distanza, successore del debutto Kingdom of the Hammer King, uscito lo scorso anno.

Il quartetto continua la sua guerra a colpi di heavy power metal, tedesco fino al midollo anche se non mancano riferimenti all’heavy metal classico di Iron Maiden e Judas Priest.
L’album, registrato allo Studio Greywolf di Charles Greywolf (Powerwolf), non lascia scampo e la title track apre le ostilità a colpi di power metal epico dai chorus battaglieri, riff rocciosi ed una fierezza metallica commovente.
Ci metterei anche gli Hammerfall tra le influenze del combo, non solo per la voce di Titan Fox V, simile a Joacim Cans ed il monicker usato: il sound, pur nel suo essere teutonico di nascita, guarda anche alla famosa band svedese e porta il gruppo vicino le realtà uscite alla metà degli anni novanta più a nord, appunto Hammerfall ed in parte Nocturnal Rites.
King Is Rising continua la sua gloriosa battaglia, con le rocciose For God And The King, Battle Gorse e The Hammer Is The King, brani trascinati per il collo da ritmiche power, solos classici dalle melodie che nel genere non esiterei a definire ruffiane e chorus che, come da tradizione. portano alla mente concerti infuocati dove l’ugola si perde in urla ed orgoglio metallico, magari un po’ alticci per l’ennesimo litro di bionda.
Un album onesto, diretto e senza fronzoli, un tuffo nel metallo vecchia scuola, di madre tedesca ma con parentele rinvenibili tra la new wave of british heavy metal e il power scandinavo, consigliato ai truci true defenders tutti metallo, guerrieri e battaglie eroiche in nome del re.

TRACKLIST
1. King Is Rising
2. Last Hellriders
3. For God And The King
4. Warrior’s Reign
5. Reichshammer
6. Kingbrother
7. Battle Gorse
8. Kill The Messenger
9. The Hammer Is The King
10. Viva ‘La King
11. Battalions Of War
12. Eternal Tower Of Woe
13. Our Fathers’ Fathers (CD BONUS TRACK)

LINE-UP
Titan Fox – vocals , guitars
Gino Wilde – guitar
K.K. Basement – bass
Dolph A. Macallan – drums

HAMMER KING – Facebook

Doomcult – End All Life

End All Life rappresenta una bella novità che lascia una certa dose di curiosità nel vedere quali saranno le prossime mosse dei Doomcult.

Doomcult è il nome del progetto solsita di J.G. Arts, musicista olandese conosciuto in precedenza per la sua militanza nelle vesti di bassista e cantante dei thrashers Bulldozer Breed.

Trattandosi di una prima uscita, peraltro da parte di qualcuno che, almeno per quanto se ne possa sapere, non aveva avuto a che fare con il doom prima d’ora, End All Life è davvero un lavoro sorprendente.
Il pregio dell’album è quello di racchiudere una forma di doom piuttosto dinamica e con una buona dose di melodia, il che lo rende piuttosto ascoltabile anche se, ovviamente, quando ci si trova alle prese con questo genere, parlare di semplice fruibilità appare quasi una bestemmia.
In realtà, Arts riesce brillantemente a sfuggire alle tentazione di accodarsi alla florida scena gothic doom del suo paese, optando per una versione del genere molto naif, a partire dalla voce, un ringhio un po’ sgraziato, che può ricordare a grandi linee quello di Mister Curse dei grandi A Forest of Stars ed anche, a tratti, quello di Patrick Harreman dei connazionali Moon Of Sorrow.
Proprio questi ultimi, band capace di dare alle stampe alcuni album formidabili quanto sottovalutati all’inizio degli anni novanta, potrebbero essere audacemente considerati un possibile quanto inconscio punto di riferimento, soprattutto per l’aspetto melodico, anche perché i Doomcult sono comunque fedeli alla propria ragione sociale per cui i ritmi sono ovviamente più rallentati, ma una traccia come Ravens ne ricorda non poco le gesta, al netto di un sound più ruvido e privo dell’apporto delle tastiere.
Il musicista dei Paesi Bassi convince con il suo doom non così scontato, nonostante in sede di presentazione si citi l’immancabile triade albionica quale fonte di ispirazione, cosa che non mi trova affatto d’accordo dovendo basarmi su ciò che End All Life restituisce (forse qualcosa dei Paradise Lost, ma di primi Anathema e My Dying Bride non c’è alcuna traccia, direi); al di là di questo, che non è poi così importante, a fare molta della differenza sono le brillanti intuizioni chitarristiche che Arts dissemina in ogni brano, tenendosi alla larga da tentazioni sperimentali: qui il doom vien proposto in una forma ruvida, diretta e dannatamente efficace e, appunto, parzialmente inattesa visto il background musicale di Arts.
Non è un caso però, se i brani più efficaci sono anche i più movimentati, come Ravens e Wrath, ma nel complesso funziona tutto piuttosto bene all’interno di questi tre quarti d’ora di musica di grande sostanza.
End All Life rappresenta una bella novità che lascia una certa dose di curiosità nel vedere quali saranno le prossime mosse dei Doomcult.

Tracklist:
1. Angel
2. Master
3. Ravens
4. Wrath
5. Hammer
6. Dawn
7. End All Life

Line-up:
J.G. Arts Vocals, All instruments

DOOMCULT – Facebook

Smokey Fingers – Promised Land

Con Promised Land, gli Smokey Fingers continuano il loro elettrizzante viaggio nella musica a stelle e strisce.

Non capita spesso di scrivere di southern rock sulle pagine di MetalEyes, ma, come un temporale estivo, ecco che si palesano sulla mia scrivania tre album di rock americano ed il mio orgoglio sudista se ne giova assai.

Due statunitensi (e non potrebbe essere altrimenti) e, con grande sorpresa, una tutta italiana sono le band che in questo periodo mi hanno regalato un po’ di quella splendida musica che dalle terre rurali e dalla frontiera americana nasce e si rigenera.
Negli Stati Uniti il genere è una tradizione che, nella provincia, si tramanda di generazione in generazione, ma provateci voi a partire da Lodi e trasformare le pianure del nord Italia nelle assolate terre del sud.
Gli Smokey Fingers ci sono riusciti alla grande, e con passione e talento continuano il loro viaggio nella musica americana, tra southern, blues e country rock, iniziato con il primo lavoro (Columbus Way) e ora in continua marcia verso la terra promessa con questo bellissimo ed emozionante Promised Land.
E di viaggio si tratta per davvero, visto che molti dei brani inseriti nell’album sono stati pensati proprio nell’ottica di un percorso on the road lungo gli States e in quei paesi dove il genere è nato e trova la sua naturale collocazione.
Con queste premesse, Promised Land non può che risultare uno scrigno di emozioni per chi si allontana per cinquanta minuti dalla vita di tutti i giorni, con l’intento di assaporare il profumo delle vaste distese della frontiera, con la polvere ed il sole che brucia gli occhi, la fresca brezza di tramonti infiniti e l’odore del whisky che attanaglia le narici all’entrata nei bar persi per le routes, tra coyotes e serpenti a sonagli.
Questo è southern rock classico, tra poesia sudista, riff di incendiario hard blues che marchierebbe un cavallo ed atmosfere collaudate certo, ma assolutamente reali, tanto da non far rimpiangere gli album blasonati dei gruppi americani di nuova generazione.
Malinconico come solo il southern sa essere (Last Train), ruvido quanto basta per essere apprezzato anche dagli amanti dell’hard rock (Black Madame, Thunderstorm), intriso di blues rock (Damage Is Done, Turn It Up), Promised Land è il naturale proseguimento del viaggio degli Smokey Fingers nella musica americana: inutile farvi il solito elenco di band a cui i nostri rockers si ispirano, al primo accordo tutto vi sembrerà chiaro e limpido come l’acqua di fuoco fatta girare nel bicchiere in un polveroso saloon.

TRACKLIST
01. Black Madame
02. Rattlesnake Trail
03. The Road Is My Home
04. Damage Is Done
05. The Basement
06. Last Train
07. Floorwashing Machine Man
08. Stage
09. Turn It Up
10. Thunderstorm
11. Proud & Rebel
12. No More

LINE-UP
Gianluca “Luke” Paterniti – lead & backing vocals
Diego “Blef” Dragoni – electric & acoustic guitars, banjo
Fabrizio Costa – bass
Daniele Vacchini – drums & percussions

SMOKEY FINGERS – Facebook

Lucid Dream – Otherworldly

Un album coraggioso nel non fossilizzarsi su schemi collaudati e perfettamente in grado di reggere il confronto con le altre realtà di una scena nazionale ormai importantissima nello scenario metallico europeo.

Col tempo stanno tornando con i propri nuovi lavori quelle band che, due o tre anni fa, licenziarono una serie di opere sopra la media e delle quali i liguri Lucid Dream fanno sicuramente parte, dopo la pubblicazione bellissimo The Eleventh Illusion.

La band capitanata dall’ axeman Simone Terigi, affiancato dal talentuoso vocalist Alessio Calandriello e dal buon Gianluca Eroico al basso, torna con il proprio terzo album (il primo, Visions From Cosmos11, uscì nel 2011) prodotto dallo stesso Terigi, mixato e masterizzato da Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle) ed accompagnato da un bellissimo digipack, .
Il trio di musicisti liguri (Paolo Raffo non fa più parte della line up sostituito alle pelli dall’ospite Paolo Tixi) riparte con rinnovata verve, cambiando le carte in tavola e lasciando da parte le sfumature hard blues che emergevano sul lavoro precedente, trovando nuove strade dove far viaggiare la propria musica che rimane di altissimo livello.
Otherworldy risulta un lavoro più diretto e metallico, prog hard rock metal d’alta scuola energizzato da una forte impronta heavy che concede, a tratti, qualche rifinitura più moderna sia nelle ritmiche che negli arrangiamenti.
Un disco diverso da predecessore, quindi, ma con il monicker del gruppo ben impresso sul sound, che non è cosa da tutti: le linee melodiche rimangono il piatto forte di Terigi e soci, sempre con un occhio ai Dream Theater e con un Calandriello meno sanguigno ma assolutamente sontuoso dove la melodia prende il sopravvento.
L’album parte diretto e metallico così che, appena lasciata l’intro, veniamo subito presi per il colletto da ritmiche serrate e riff metallici dal gustoso flavour moderno: Buried Treasure e The Ring Of Power riempiono la stanza di metal regale, con la seconda che si nutre del sangue maideniano e risulta la prima traccia da circoletto rosso dell’album.
Everything Dies torna a solcare le strade intricate del prog metal, mentre The Stonehunter chiude la prima parte del cd, quella dall’anima aggressiva e metallica, lasciando all’acustica di Terigi il compito di introdurci alla meravigliosa seconda parte, in un crescendo emozionale che inizia dalla splendida Magnitudes, continua con Broken Mirror (brano che evidenzia l’amore del gruppo per il teatro del sogno) e non trova fine, se non all’ultima nota della conclusiva The Theater Of Silence: una traccia strumentale da brividi che ci consegna una prestazione superba di Terigi alla sei corde, accompagnato sul finire del brano dai violini e dalla viola di Andrea Cardinale, Sylvia Trabucco e Sara Calabria, per un arrivederci alla prossima opera.
Un album che conferma quanto di buono i Lucid Dream avevano dimostrato con il precedente lavoro,  coraggioso nel non fossilizzarsi su schemi collaudati e perfettamente in grado di reggere il confronto con le altre realtà di una scena nazionale ormai importantissima nello scenario metallico europeo.

TRACKLIST
01. Intro
02. A blanket of stars
03. Broken mirror
04. Buried Treasure
05. Everything dies
06. Magnitudes
07. The ring of power
08. The stonehunter
09. The theater of silence

LINE-UP
Simone Terigi – Guitars, B. vocals
Alessio Calandriello – Vocals
Gianluca Eroico – Bass

Guests:
Paolo Tixi – Drums
Martina White – B. vocals
Andrea Cardinale – First Violin
Sylvia Trabucco – Second Violin
Sara Calabria – Viola

LUCID DREAM – Facebook

Ctulu – Ctulu

L’album omonimo dei Ctulu non può essere considerato deludente e ne consolida il nome senza, però, dare seguito alla progressione iniziata con Seelenspiegelsplitter. Una scelta ponderata o solo un lieve calo di ispirazione?

Ritroviamo i tedeschi Ctulu alle prese con questo album autointitolato che spariglia abbastanza le carte in tavola rispetto al precedente Seelenspiegelsplitter.

Non vengono certo meno le tematiche care a Lovecratf, anche perché con un monickher del genere é difficile attendersi qualcosa di diverso, ma è piuttosto il sound ad essersi ulteriormente incattivito, mettendo un po’ da parte certi spunti sperimentali che avano fatto capolino nel precedente lavoro tramite un brano come Tiara Aus 10 Phobien.
I Ctulu odierni vanno via diretti, senza perdersi in troppi ghirigori, rendendo forse più elementare e prevedibile il loro black, ma riuscendo ugualmente ad evitare di risultare calligrafici e ripetitivi.
Certo, passare da un album della durata di oltre un’ora ad uno dal minutaggio pressoché dimezzato, è indicativo di quanto la band della Bassa Sassonia abbia optato in maniera decisa per un forma musicale molto più concisa, andando decisamente in controtendenza rispetto a chi, con il passare del tempo, tende ad allargare i propri orizzonti musicali (con il rischio collaterale di poter perdere talvolta la via maestra).
Detto che, comunque, preferivo non poco Seelenspiegelsplitter, questa nuova fatica dei Ctulu è soddisfacente, essendo priva di punti deboli ma, per converso, anche di particolari picchi compositivi.
L’aura maligna che aleggia in tutte le traccie e l’impeto che pervade il modus operandi del gruppo tedesco sono pur pur sempre elementi non trascurabili, così come quelle parti corali che si palesano quasi all’improvviso, ricordancoci, qualora l’avessimo dimenticato, che qui si parla pur sempre di chi dimora dormiente in R’lyeh e che nessuno può ritenersi immune dal suo fatale richiamo.
Il brano migliore, a mio avviso, è Von Mondeswächtern und Menschverächtern, ma l’album omonimo dei Ctulu non può essere considerato deludente e ne consolida il nome senza, però, dare seguito alla progressione iniziata con Seelenspiegelsplitter. Una scelta ponderata o solo un lieve calo di ispirazione? Lo scopriremo alla prossima occasione.

Tracklist:
1. Serce krwawe
2. Treibjagd
3. Totenhauswinde
4. Rozgoryczona, rozczarowana, a gotowa na wszystko
5. Heerführer der Herrenlosen
6. Dämmerung
7. Von Mondeswächtern und Menschverächtern
8. Die Arkaden von R’lyeh

Line-up:
M. – Guitar, Chorals
A. – Guitar, Bass, Chorals
I.D. – Drums

CTULU – Facebook

Peak – Into Your Veins

Un album da assaporare con attenzione per far vostre le atmosfere intrise di poetico disagio che i Peak riescono creano con maestria.

Tra la foschia notturna di una Torino grigia e malinconica nascono nel 2015 i Peak, quartetto alternative rock composto da quattro musicisti provenienti da diverse esperienze e generi musicali.

Riprendendo il titolo del loro debutto (Into Your Veins), nelle vene del gruppo scorre sangue infettato dal sound di Seattle, facendo assumere al corpo una posizione fetale, travolto da un mare di emozioni intimiste, tragiche e drammatiche.
Le scariche elettriche, a tratti rabbiose, non fanno che aumentare il senso di disagio interiore che si respira nei vari brani, facendone scaturire un’opera matura e molto personale.
Grunge e post grunge, troppo facile direte voi, ma non così scontato: il sound del gruppo si piazza perfettamente nel mezzo tra la prima ondata di gruppi partiti dalla piovosa Seattle e quella del post Kurt Cobain, con i mai troppo osannati Staind come ispirazione.
Into Your Veins vive di quelle atmosfere drammatiche e d’autore insite nella musica dei primi album di Mark Lanegan (Screaming Trees), mentre la potenza aumenta col in passare dei minuti prima del capitolo finale.
Non ci sono cali di tensione tra lo spartito dell’album e l’ alternanza tra parti intimiste e rabbiosi sfoghi alternative rock riempie di umori e colori sfocati la musica dei Peak.
Un disco molto sentito ed emozionale, con un paio di brani che il rock aggressivo rende  più agevoli all’ascolto (Fox 2: Anthem for a Doomed Youth e The Mole), ma che trova nel filone poetico e malinconico di matrice statunitense la sua massima ispirazione (A Life in a Breath e la title track).
Into Your Veins va assaporato con attenzione per far vostre le atmosfere intrise di poetico disagio che i Peak riescono creano con maestria.

TRACKLIST
1.Siren’s Silly Prayer
2.Into Your Veins
3.Dark Hour
4.A Life in a Breath
5.Fox 2: Anthem for a Doomed Youth
6.Waiting Over
7.White Stone
8.The Mole
9.Siren’s Silly Prayer (Acoustic)

LINE-UP
Simone Careglio – Vox & Guitar
Enrico Inri Lo Brutto – Guitar
Emanuel Tschopp – Bass
Roberto Cadoni – Drums

PEAK – Facebook
URL YouTube, Soundcloud, Bandcamp

Clouds – Departe

Departe è uno dei capolavori dell’anno, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom.

Quando qualche anno fa Daniel Neagoe, tra un capolavoro e l’altro dei suoi Eye Of Solitude, mise in piedi il progetto denominato Clouds, c’era la sensazione che potesse trattarsi di un progetto estemporaneo, per quanto splendido, alla luce di una line-up composita dal punto di vista logistico.

Oggi, anche se le redini compositive sono sempre ben salde nelle mani del musicista rumeno, con il secondo full length intitolato Departe, i Clouds fanno quel definitivo salto di qualità che conferma e rafforza il valore espresso con il precedente Doliu, facendolo apparire ancor più frutto del lavoro di una vera e propria band, e che band …
La definizione di supergruppo del funeral/death doom qui ci sta tutta e nessuno la può contestare: possiamo definire altrimenti un combo che presenta, oltre al proprio mastermind, il suo storico sodale Déhà (Deos, Slow, Imber Luminis, Yhdarl, We Al Die Laughing, e altri mille), Mark Antoniades (Eye Of Solitude), Jón Aldará (Hamferd, Barren Earth) Pim Blankenstein (Officium Triste), Natalie Koskinen e Jarno Salomaa (Shape Of Despair), Kostas Panagiotou (Pantheist, Wijlen Wij) e Shaun MacGowan (My Dying Bride)?
Non sempre la somma dei valori in campo corrisponde al prodotto finale, ed è proprio su questo punto che Departe ribalta le carte in tavola, riuscendo paradossalmente a spingersi anche oltre.
Clouds nasce come un progetto dedicato a chi non è più tra noi e questo, dal lato compositivo, si percepisce in ogni singola nota tramite la quale l’ascoltatore viene sommerso dalla commozione, il dolore ed il rimpianto, tutti sentimenti espressi da brani di bellezza irreale.
How Can I Be There è la prima gemma che si palesa alle nostre fortunate orecchie: una lunga e soffusa introduzione prepara il terreno al climax, che sopraggiungerà al momento dell’esplosione del growl di Daniel all’unisono con gli strumenti in sottofondo, seguendo un modus operandi non dissimile da quello degli Eye Of Soitude: nulla di strano, quando la mente compositiva è la stessa, ma nel sound dei Clouds è la malinconia, che questa traccia riesce a produrre a profusione, a prevalere sulla disperazione.
Migration è semplicemente uno dei brani più belli e toccanti mai ascoltati nella mia già abbastanza lunga vita di musicofilo: la voce spettacolare di Jón Aldará è il valore aggiunto, grazie a superlative clean vocals  che fungono da contrappeso ad un growl catacombale e a una struttura musicale che non lacera con il suo penoso incedere, bensì penetra e si insinua sottopelle con tutto il suo carico di nostalgico rammarico.
In The Ocean Of My Tears, interpretata da Natalie Koskinen, è un altro esempio di poesia musicale, introdotta da atmosfere dal sapore folk: ciò che nel brano si perde in drammaticità, si acquisisce in levità grazie alla voce della cantante finlandese e, in fondo, si rivela un mezzo diverso per evocare ugualmente quel senso di abbandono che nell’album non viene mai meno.
In All This Dark è uno dei sempre più frequenti brani in cui le clean vocals sono utilizzate in maniera consistente da Daniel Neagoe in alternativa al growl, a conferma di una crescita esponenziale negli ultimi anni della sua tecnica vocale, il che lo ha portato ad essere una delle migliori voci del metal odierno, non solo del genere specifico: anche quest’episodio conserva un livello di pathos non comune, pur mantenendo caratteristiche quanto mai atmosferiche.
E’ uno dei decani della scena, Pim Blankestein, storica voce degli Officium Triste, a prendere la scena nella magnifica Driftwood, assieme all’inconfondibile tocco chitarristico di Salomaa, che tesse nel finale una tela di passaggi indimenticabili.
La chiusura è affidata a I Gave My Heart Away, ed è inutile sottolineare quanto si tratti dell’ennesima gemma musicale, regalata a chi ne sa godere, contenuta in quest’album: chitarra, tastiere e violino producono un insieme che va a creare un contrasto esaltante con il growl, a sua volta appoggiato su un tappeto sonoro che, per quanto toccante, mostra fiochi barlumi di luce.
I Clouds rappresentano l’altra faccia della medaglia degli Eye Of Solitude, a ben vedere: se questi ultimi raffigurano in maniera tragica ed aspra il malessere esistenziale e la conseguente reazione all’ineluttabilità di un destino già scritto, i primi prefigurano una sorta di rassegnata accettazione di tutto questo, esprimendola con un sound più atmosferico e soffuso, dai toni consolatori.
Se vogliamo, anche il passaggio dal lutto (Doliu) alla lontananza (Departe) porta su un piano differente l’elaborazione del dolore: nel primo caso si descrivono la fase del distacco e le inevitabili lacerazioni che esso provoca, mentre nel secondo chi è scomparso fisicamente viene idealizzato spiritualmente in un non-luogo, il che consente di conservarne con nitidezza il ricordo, finendo per esacerbare ancor più il rimpianto .
Departe è uno dei capolavori dell’anno, e questo sia chiaro, in senso assoluto e non confinato alla nicchia del doom. Qui siamo di fronte ad un’opera d’arte musicale che travalica generi e mode, peccato per chi pensa che la musica debba essere solo allegra, con la finalità di far muovere le membra umane in una grottesca e plastificata simulazione di felicità; i Clouds, al contrario, conducono ad un’estasi raggiungibile necessariamente tramite una catarsi emotiva indotta dalla tristezza.
Qualcuno ha scritto che un essere umano incapace di emozionarsi fa paura: sottoscrivo in pieno.

Tracklist:
1. How Can I Be There
2. Migration
3. In the Ocean of My Tears
4. In All This Dark
5. Driftwood
6. I Gave My Heart Away

Line-up:
Daniel Neagoe – Drums, Vocals
Jarno Salomaa – Guitars
Déhà – Guitars, Bass
Kostas Panagiotou – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Pim Blankenstein – Vocals
Eek – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Natalie Koskinen – Vocals
Shaun MacGowan – Violin

CLOUDS – Facebook

Noveria – Forsaken

Trascurare questo secondo album dei Noveria sarebbe imperdonabile, non solo per gli amanti del prog metal, ma per tutti i cultori della buona musica.

Una band che al debutto licenzia uno straordinario lavoro come Risen (uscito un paio di anni fa e puntualmente recensito sulle pagine di iyezine) crea suo malgrado delle aspettative, almeno per chi ha avuto il piacere di imbattersi nelle evoluzioni power prog metal che il chitarrista Francesco Mattei e compagni aveavno riversato su quel splendido album.

Due anni sno un arco di tempo perfetto per tornare ad incendiare gli impianti stereo dei fans del genere con Forsaken, album che non perde un’oncia dell’alta qualità di cui era rivestita l’opera precedente, anzi: alla perizia tecnica ed il talento compositivo, la band aggiunge un quid emozionale per cui Forsaken vola tra le migliori uscite del genere, almeno nella parte finale di questo drammatico 2016.
E di drammaticità è pregno un lavoro dal concept non facile da trasformare in musica, adulto e maturo, una sfida che la band romana vince alla grande.
Forsaken, infatti, tratta dei cinque stadi dell’elaborazione del lutto teorizzati dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, ed è dedicato ad una ragazza morta per un male incurabile.
I Noveria trasformano queste drammatiche e tragiche tematiche in musica sontuosa, dura, aggressiva, ma assolutamente colma di emozionanti atmosfere intimiste, traumi psicologici, drammi interiori che prendono corpo in un travolgente power prog metal, prodotto e suonato con tutti i crismi della top band.
D’altronde che i Noveria non fossero un gruppo qualunque lo si era abbondantemente riscontrato nel primo album,: Francesco Corigliano conferma d’essere uno tra i migliori vocalist di genere e non solo nel panorama italiano, Mattei con la sei corde entra di forza nel cuore di chi ascolta, mentre le tastiere disegnano travagli interiori ed emozionano accompagnando una sezione ritmica ispiratissima.
Prog metal come nella migliore tradizione, ma con l’asticella emotiva alzata al massimo, questo è Forsaken, con Shock che esplode in fuochi d’artificio metallici, When Everything Falls, che ci delizia con il duetto di Corigliano con la cantante Kate Nord, Hatred che spara missili con sulla fiancata la scritta Symphony X e la conclusiva Archangel, che congeda il gruppo, e ci lascia tra le mani e le orecchie un monumento al metallo potente e progressivo.
Trascurare questo secondo album dei Noveria sarebbe imperdonabile, non solo per gli amanti del prog metal, ma per tutti i cultori della buona musica.

TRACKLIST
01.Lost
02.Shock
03.Denial
04.When Everything Falls
05.Hatred
06.If Only
07.Isolate
08.(W)hole
09.Regrets
10.Utopia
11.Acceptance
12.Archangel

LINE-UP
Francesco Corigliano – Vocals
Julien Spreutels – Keyboards
Omar Campitelli – Drums
Francesco Mattei – Guitar
Andrea Arcangeli – Bass

NOVERIA – Facebook

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