Glory Of The Supervenient – Glory Of The Supervenient

Un progetto estremamente interessante e potente, un ponte lanciato fra diversi stili di musica, con in comune la volontà di progressione musicale ed umana, verso ciò che abbiamo sopra e sotto di noi.

Quando la musica si fonde con il pensiero, e le note seguono e svolgono fili e curve allora siamo di fronte a qualcosa di nuovo e straordinario.

La prima fatica dei Glory Of The Supervenient è un disco molto vario e con tante cose dentro. La struttura è quasi impro, con un grande sentimento di prog , e nelle canzoni possiamo trovare metal, post rock, elettronica e anche minimalismo di scuola italica. Il gruppo nasce dalla mente del batterista milanese Andrea Bruzzone, che agli albori del 2015 comincia a scrivere i brani che andranno a comporre il disco. Il disco è un bel labirinto di suoni ed immagini sonore, con lo scopo di compiere un viaggio verso entità diverse rispetto al normale. Bruzzone si è dichiaratamente ispirato all’opera di Severino, un filosofo fondamentale per il nostro tempo, che ha aperto nuove vie nel pensiero umano, ed infatti questo disco è molto incline a far pensare, ad azionare leve ed ingranaggi del nostro cervello che raramente usiamo. La stimolazione neuronale è data dalla forza immaginativa di questa musica che traccia linee nello spazio, dopo qualsiasi accordo ci veniamo a trovare di fronte a sorprese che rendono il disco davvero ricco e da ascoltare più e più volte. La calma, la rabbia, il progredire ed il trovarsi in altri panni, la necessità di ritrovare la Gioia, che abbiamo perduto a causa di pensieri sbagliati.
Un progetto estremamente interessante e potente, un ponte lanciato fra diversi stili di musica, con in comune la volontà di progressione musicale ed umana, verso ciò che abbiamo sopra e sotto di noi.

TRACKLIST
1. I: The Destiny
2. Flexing The Inflexible
3. Identites
4. Infinte Tangles
5. Through The Circles
6. Encoutering The Encouterer
7. Firewood \ Ash
8. Isolated Earth
9. The Background
10. Connections
11. Path Of The Night

LINE-UP
Andrea Bruzzone – Drums, Virtual Instruments Programming.
Angelo ” Otus Dei “Girardello – Bass.
Mauro Scarfia – Sound Design.

GLORY OF THE SUPERVENIENT – Facebook

Under The Bed – Two Is A Lie

Una piacevole sorpresa in un genere dove gli standard sono ben consolidati e molte volte la noia prende il sopravvento.

Non più siamo così lontani come si può pensare da quell’America patria del metal moderno e la conferma arriva da Two Is A Lie, secondo album del gruppo toscano Under The Bed.

La band poggia il proprio sound su fondamenta che richiamano il metalcore, ma le manipola a suo piacimento inglobando più generi, ed il risultato, oltre ad apparire vario e mai prevedibile, riesce ad essere personale quel tanto da non finire nel solito calderone di quei gruppi che cavalcano l’onda prima che la tempesta si plachi.
Il quintetto originario di Montecatini alterna aggressive sferzate metalliche ad atmosfere rock (che qualcuno continua a chiamare post grunge), inserendo ottimi interventi elettronici e lasciando che il growl tipico del genere si alterni alle clean vocals: niente di nuovo direte voi, ma il tutto funziona, anche grazie alla bravura di Armando (voce pulita oltre che chitarra e programming) e Joshua, alle prese con le tonalità estreme.
Disperato, rabbioso, intimista, furioso, delicato, sono tutte le sensazioni derivanti dall’ascolto della musica del combo nostrano e che si susseguono nei vari passaggi di Two Is A Lie e dei suoi vari capitoli, di cui Something In The River Of Blood!, il rock cantautorale della sognante Keep Daydreaming, il rock’ n’n roll nascosto tra le pieghe di Florence On Friday e la rabbia a stento trattenuta di Crack A Selfish Open (brano che sprigiona ispirazione crossover da tutti i pori), sono i migliori esempi del credo compositivo degli Under The Bed.
Una piacevole sorpresa questo lavoro, in un genere dove ormai gli standard sono ben consolidati e molte volte la noia prende il sopravvento: una ventata di freschezza compositiva da parte di un gruppo italiano era quello che ci voleva.

TRACKLIST
01. Diatryma Paddock
02. Hatespeare
03. Something In The River Of Blood!
04. The Time
05. Aphelion / Perihelion
06. Keep Daydreaming (’til You Make It Real)
07. Florence On Friday
08. One Plus One
09. Crack A Selfish Open
10. Golden Railings

LINE-UP
Armando Marchetti – vocals, guitar, programming
Federico Morandi – bass, backing vocals
Joshua Pettinicchio – raw and backing vocals
Michele Bertocchini – guitar, backing vocals
Andrea Bruciati – drums, backing vocals

UNDER THE BED – Facebook

Node – Cowards Empire

I Node del 2016 sono un gruppo da cui non si può prescindere, non solo se si ha a cuore la scena italica, ma tutto il movimento estremo di stampo death

I Node sono e resteranno un pezzo di storia del metal estremo nazionale, il loro anno di nascita (1994) ed i loro lavori, che hanno marchiato a fuoco la scena metal dello stivale, sono lì a dimostrarlo, anche se le tante vicissitudini ed una carriera a singhiozzo hanno in parte frenato il gruppo lombardo.

Tornano quest’anno con un nuovo lavoro e una line up in parte rinnovata, con in sella come sempre dal 1995 Gary D’Eramo ed un nuovo cantante, CN Sid.
Cowards Empire si sviluppa su quasi un’ora di musica divisa in dodici devastanti brani, compresa la riedizione di Children, pescata dallo storico Technical Crime, album licenziato dal combo nell’ormai lontano 1998.
L’album non delude chi ha sempre seguito i Node: il loro death metal, sempre molto attento alla tecnica, si pregia in questo lavoro di soluzioni ritmiche colme di groove, velocità e massacro sonoro, con studiata perizia nei solos davvero intriganti e ben congegnati, gustose soluzione melodiche e un tocco di appeal moderno in più che mantiene alta l’attenzione dell’ascoltatore.
Non ci si annoia lungo il percorso musicale di Cowards Empire, passando agilmente dalle bordate potentissime e cadenzate dell’opener Stagnation alle sfumature melodiche di Lambs, traccia spettacolare che alterna devastante furia estrema ad arpeggi melodici di gran classe, mentre si continua a correre veloci come il vento e cattivi come una fiera con Average Voter, No Reason e la splendida Money Machine, a parere di chi scrive picco dell’intero lavoro con un mood melodic death metal entusiasmante.
Ottima la prova del nuovo arrivato dietro al microfono, maligno, cangiante ed assolutamente sul pezzo nel dare una voce alla musica dei Node.
Prima della bonus track arriva a chiudere l’opera il bellissimo strumentale The Plot Survives, dove il gruppo dà sfoggio della sua tecnica sopraffina senza perdere un grammo in emozionalità, soprattutto per l’intervento di una deliziosa voce femminile.
I Node del 2016 sono un gruppo da cui non si può prescindere, non solo se si ha a cuore la scena italica, ma tutto il movimento estremo di stampo death, perciò non pensateci neppure un attimo e fate vostro Cowards Empire.

TRACKLIST
01. StagNation
02. Death Redeems
03. Lambs
04. Average Voter
05. Locked In
06. No Reason
07. Money Machine
08. The Truck
09. Still the Same
10. Liar.com
11. The Plot Survives

LINE-UP
CN Sid – Vocals
Gary D’Eramo – Guitars, Vocals
Rudy Gonella Diaza – Guitars
Davide “Dero” De Robertis – Bass
Pietro Battanta – Drums

NODE – Facebook

Zix – Tides Of The Final War

Heavy metal trascinante come non mai, cantato dalla vocalist Maya Khairallah che torna a far risplendere la tradizione delle vocalist metal agguerrite e senza orpelli operistici

Hanno fatto le cose in grande gli Zix, per il loro debutto in uscita per la tentacolare label tedesca Pure Steel.
Con solo un ep autoprodotto alle spalle e la conseguente firma per la prestigiosa label (almeno per quanto riguarda le sonorità classiche) la band libanese è pronta per un esplosione sul mercato, ed i crismi perchè questo avvenga ci sono tutti.

Tides Of The Final War è stato registrato presso i Vegas View Studios in Nevada dal celebre Steve Thompson (Metallica, Anthrax, Guns N’ Roses), masterizzato da Maor Appelbaum (Sepultura, Yngwie), e mixato e rimasterizzato presso gli QuSoundStudio in Germania da Michael Kusch; Kenny Earl “Rhino” (ex Manowar) ha suonato le parti di batteria e su un brano (Metal Strike) hanno collaborato nomi altisonanti della storia del metal come Tony Martin, Blaze Bayley, Paul Di’Anno, Ronny Munroe, Dany Deaibess, Ross The Boss, David Shankle, Jack Starr e Rhino.
Allora come suona Tides Of The Final War? Bene. direi,trattandosi di un heavy metal trascinante come non mai, cantato dalla vocalist Maya Khairallah che torna a far risplendere la storia delle vocalist metal agguerrite e senza orpelli operistici, un duello continuo tra le asce che sprigionano fuoco e fiamme dalle corde e, come ciliegina sulla metallica torta, quel tocco orientaleggiante che rende ancora più epico e sontuoso l’heavy power metal del gruppo.
Il songwriting sopra la media fa il resto, i dieci brani presenti non mollano un attimo l’elevata qualità e trovarsi in mezzo al deserto a combattere tra le dune è un attimo.
La mente riporta alle migliori metal band che hanno impresso il loro marchio sulla storia dell’heavy metal, con un’epicità manowariana sfoggiata a più riprese, ed un oscurità di fondo a rimembrare che anche aldilà dell’oceano si suona metal classico duro e tripallico.
Come dicevo, le intro che portano aromi desertici sullo spartito dell’album, sono una delle marce in più di cavalcate in crescendo ed epici capitoli come la title track, Shadow Of A Dying Sun, Heavens Eyes e la marziale The Warwhore, mentre Metal Strike, Dark Days Of Babylon e Night Of Evil portano distruttrici tempeste di sabbia metalliche, oscure e rabbiose.
Album molto ben fatto, un esempio di metal classico sopra le righe da non perdere assolutamente.

TRACKLIST
1. Buyer Of Souls
2. Metal Strike
3. Tides Of The Final War
4. Shadow Of A Dying Sun
5. Crucible
6. Dark Days Of Babylon
7. Heavens Eyes
8. Thousand Wars At Sea
9. Night Of Evil
10. The Warwhore

LINE-UP
Ziad Bardawil – bass
Maya Khairallah – vocals
Juan Carrizo – guitars
Walid Awar –guitars
Ziad Alam – drums
Kenny Earl Rhino – drums debut album

ZIX – Facebook

Riti Occulti – Tetragrammaton

La prestazione dei Riti Occulti è superba e mi costringe a ripetere (anche a chi non vuole sentire) che in Italia l’arte gravitante attorno alla scena metal è più che mai viva e ricca di musicisti ricchi di ispirazione e piglio innovativo.

Il terzo album dei Riti Occulti è la dimostrazione, per la band romana, di un’impressionante coerenza nei confronti del monicker prescelto, cosa non sempre scontata.

Chi si avvicinasse all’opera del gruppo laziale, infatti, si sorprenderebbe solo per la qualità musicale esibita, perché le sonorità non lasciano spazio a dubbi riguardo alla sincerità e alla competenza con la quale la materia occulta viene maneggiata.
E’ altresì vero che l’approccio dei Riti Occulti non possiede le connotazioni orrorifiche di molti che si cimentano in territori contigui e, del resto, anche la conformazione strumentale prescelta fornisce indizi di grande discontinuità: la rinuncia alla chitarra e l’utilizzo di due voci femminili, una affidata alle tonalità stentoree di Elisabetta Marchetti e l’altra allo spietato growl di Serena Mastracco (che ben conosciamo per la sua militanza nei Consummatum Est e nei Vidharr), costituiscono un indizio eloquente su quanto la band si muova con traiettorie oblique che attraversano le diverse sfumature della musica più oscura.
Non a caso mi trovo in seria difficoltà nel definire od avvicinare Tetragrammaton ad uno stile musicale ben preciso: probabilmente la base predominante è il doom, ma l’indole progressive e l’elemento psichedelico mescolano costantemente le carte in tavola, sicché l’album finisce per essere, come desiderato dai propri autori, un costante flusso sonoro in cui il basso martellante diviene un minaccioso rombo che, assieme a tastiere dal sapore antico e ad un drumming molto asciutto, funge da sottofondo alle evoluzioni delle due cantanti.
Tetragrammaton trova il suo fulcro nella quarta parte di Adonai, dove in avvio il basso di Niccolò Tricarico ricorda non poco quello di Waters nel finale di Echoes, e nell’intensità spasmodica della conclusiva Yetzirah, essendo i due brani che maggiormente colpiscono, pur essendo tutt’altro che di semplice fruibilità.
Il lavoro, infatti, costringe l’ascoltatore a non abbassare mai la soglia dell’attenzione, perché anche nei rari momenti in cui l’album pare assumere uno schema compositivo più tradizionale, avvicinandosi al doom con voce femminile in stile Jex Thoth, aleggia sempre un sottofondo sonoro che non lascia respiro, tra dissonanze ritmiche e atmosfere cariche di tensione che trova sublimazione nell’efferato growl della Mastracco.
La prestazione dei Riti Occulti è superba e mi costringe a ripetere (non che mi dispiaccia, ma ho sempre più netta la sensazione che sia fatica sprecata) che in Italia l’arte che gravita attorno alla scena metal è più che mai viva e ricca di musicisti ricchi di ispirazione e piglio innovativo. Poi sarò smentito, e ne sarò felice, ma sono sicuro che fuori dai nostri confini una band come questa si è già guadagnata una buona fetta di estimatori, mentre dalle nostre parti lo si può solo sperare .…

Tracklist:
01 – Invocation of the Protective Angels
02 – Adonai I
03 – Adonai II
04 – Adonai III
05 – Adonai IV
06 – Atziluth
07 – Beri’Ah
08 – Yetzirah
09 – Assiah

Line-up:
Serena Mastracco: Harsh Vocals
Elisabetta Marchetti: Clean Vocals
Niccolò Tricarico: Bass
Francesco Romano: Drums
Giulio Valeri: Synthesizers

RITI OCCULTI – Facebook

Aeternal Seprium – Doominance

Non annoiano di sicuro gli Aeternal Seprium: ogni brano ha una sua anima, ben salda nella tradizione metallica ma dalle atmosfere cangianti, tra epicità, assalti sonori che si riassumono in buone cavalcate heavy power thrash ed echi di battaglie, eroi, dei e re.

Tra la moltitudine di metal band che il nostro amato stivale può vantare, sicuramente gli Aeternal Seprium, con questo nuovo album, si ritagliano il loro spazio, specialmente se si guarda all’anima più pura e old school della nostra musica preferita.

Un gruppo che, come tanti altri, è passato nel corso degli anni tra cambi di line up e label, iniziando la sua attività sul finire degli anni novanta e proseguendo il cammino in questi primi anni del nuovo millennio.
Dopo il primo album uscito nel 2012 (Against Oblivion’s Shade) e che vedeva il gruppo cimentarsi sulla lunga distanza dopo due demo d’ordinanza, arriva l’importante cambio (almeno per una metal band) dietro al microfono con l’ottimo singer Fabio Privitera (Bejelit,Sound Storm), a prendere il posto di Stefano Silvestrini e la firma per DeathStorm Records che si occupa di licenziare questo Doominance.
Heavy metal duro e puro, con tratti epici a rendere la proposta orgogliosamente metallica, una vena ritmica da thrash metal band, chitarre che si rendono protagoniste di solos melodici e intensi e la voce del singer che si scaglia come un lampo nel cielo tempestoso, sono le prime impressioni che suscita il nuovo lavoro, nella sua interezza molto ben congegnato.
Non annoiano sicuro gli Aeternal Seprium: ogni brano ha una sua anima, ben salda nella tradizione metallica, ma dalle atmosfere cangianti, tra epicità, assalti sonori che si riassumono in buone cavalcate heavy power thrash tra echi di battaglie, eroi, dei e re.
Non mancano mid tempo pesanti come macigni ma dalle accentuate melodie (Artemisia) e furiose accelerazioni (Unawaken, Fuck The Narcisism), travolgenti heavy metal songs (l’opener I Will Dance On Your Tombs) e bellissime ballate folk, dal sapore cantautorale (Angelo Branduardi) eseguite in lingua madre come la splendida Il Rifugio.
I nomi che ispirano il gruppo nostrano sono quelli che hanno fatto la storia dell’heavy metal dai tratti epici, aggiungendo sicuramente una dose letale di power/thrash per un lavoro tutto da ascoltare. Non perdetelo.

TRACKLIST
1.I Will Dance on Your Tombs
2.Grieving April
3.Unawaken
4.Rock My Name
5.Artemisia
6.Fuck the Narcissism
7.Il rifugio
8.Devil Pray
9.End Is Far … or Else?
10.The Refuge

LINE-UP
Fabio Privitera- Vocals
Leonardo “Unto” Filace – Guitar
Adriano Colombo – Guitar
Santino Talarico – Bass
Matteo Tommasini – Drums

AETERNAL SEPRIUM – Facebook

Cóndor – Sangreal

I ragazzi colombiani offrono un’interpretazione della materia così genuina che pare arrivare da altri tempi, ed è proprio questo che rende ben più che degno di un ascolto il loro sforzo compositivo.

E’ il nome del volatile andino per eccellenza il monicker scelto dai colombiani Condor, autori di un doom dai tratti epici.

Sangreal è il terzo full length della band di Bogotá, che si disimpegna piuttosto bene offrendo una cinquantina di minuti di musica intensa, in molti tratti evocativa, nonché piuttosto vintage per approccio e scelta dei suoni.
Proprio tale aspetto costituisce croce e delizia di un lavoro che, se guadagna senz’altro in spontaneità ed immediatezza, perde molto però per ciò che riguarda esecuzione e produzione.
L’arrangiamento minimale e l’inserimento di vocals pulite sicuramente rivedibili (in particolare nella title track) sono le pecche maggiori di Sangreal, che resta comunque un opera di un certo valore, proprio per il suo distanziarsi anche stilisticamente dalla maggior parte delle produzioni odierne.
I ragazzi colombiani offrono, in fondo, un’interpretazione della materia così genuina che pare arrivare da altri tempi, ed è proprio questo che rende ben più che degno di un ascolto il loro sforzo compositivo.
La parte centrale, contraddistinta da due brani molto intensi come Viejo Jabalí e Outremer, è quella che offre il meglio, ma nel complesso l’operato dei Condor è apprezzabile nel suo insieme, a patto di non soffermarsi troppo sugli aspetti meramente formali e chiudendo un occhio su qualche ingenuità che fa capolino qua e là all’interno della tracklist: questo è un bel doom, suonato e composto con passione, e di solito chi apprezza il genere non è ossessionato dalle raffinatezze stilistiche, o sbaglio ?

Tracklist:
1. Sangreal
2. Se extienden las sombras
3. Viejo jabalí
4. Outremer
5. Sainte-Terre
6. El árbol de la muerte
7. Roncesvalles

Line-up:
Andrés Vergara – Drums
Antonio Espinosa – Guitars, Vocals
Jorge Corredor – Guitars
Francisco López – Guitars
Alejandro Madiedo – Bass

CONDOR – Facebook

Atonismen – Wise Wise Man

Un oscuro scrigno musicale che, alla sua apertura, esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.

La tanto bistrattata rete nel corso degli ultimi decenni ha dato la possibilità a molte realtà di farsi conoscere, specialmente quelle nate in paesi ai confini del mondo musicale e, in questo caso, metallico.

I paesi dell’Europa dell’est per esempio, solo pochi anni fa praticamente sconosciuti a livello musicale, hanno trovato nel web la possibilità di far conoscere le loro scene, qualitativamente notevoli come in Russia, dove la musica è storicamente una parte importante della crescita culturale e non un fastidioso ripiego come per esempio nel nostro paese.
Noi fin dai tempi di Iyezine, abbiamo sempre dato il giusto spazio alle varie scene mondiali, missione che portiamo avanti con entusiasmo anche sulla nuova testata metallica a nome MetalEyes e le soprese non mancano di certo, cominciando dagli Atonismen e dal loro bellissimo primo album, Wise Wise Man.
Il trio di San Pietroburgo è un gruppo nuovo di zecca formato dal polistrumentista e cantante Alexander Orso e dai due chitrarristi Alexander Senyushin e Child Catherine.
Il loro nuovo lavoro è quanto mai riuscito, visto che nel proprio sound ingloba vari suoni ed influenze, per un mix letale ed estremo di gothic, dark, elettronica e death metal molto affascinate.
Atmosfere horror, sadiche parti elettroniche, una voce personalissima e teatrale, ritmi marziali, orchestrazioni sinfoniche, ed accelerazioni estreme, fanno parte di questo oscuro scrigno musicale che alla sua apertura esplode in un caleidoscopio di note industrial gothic death metal.
Pensate ad una jam tra i primi Crematory, i Rammstein, e le sinfonie dark di una tra le miriadi di gothic metal band sparse per il globo, ed avrete un’idea del sound malato, destabilizzante e molto estremo del gruppo russo, che dà il meglio di sé quando l’elettronica diventa padrona del sound, con parti industrial dark malatissime e destabilizzanti.
Si passa così da brani potentissimi di oscuro ed orchestrale gothic metal (la title track e la stupenda Sorry), devastanti esempi di musica estrema moderna, maligna e terrorizzante come i due remix e la splendida Almagest.
Album affascinate, molto curato e maligno il giusto per farvi attraversare da voglie strane di bondage, frustini e torture assortite.

TRACKLIST
1.Almagest
2.Sorry
3.My Tale
4.Wise Wise Man
5.Wiegenlied
6.In Timeless Clamor
7.Wise Wise Man (dark-mix)
8.Wise Wise Man (industrial-mix)

LINE-UP
Alexander Orso – All instruments, Vocals
Alexander Senyushin – Guitars
Child Catherine – Guitars

ATONISMEN

Abysmal Grief – Reveal Nothing…

Una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.

Sono già passati vent’anni da quando, in qualche anfratto di Genova, qualcuno decideva di mettere in musica la rappresentazione della morte, rendendo la materia doom un qualcosa di profondamente liturgico e sviscerando tutto quanto sia connesso con il momento del trapasso, senza lasciare da parte, però, una sottile vena di humor nero.

Gli Abysmal Grief sarebbero diventati in seguito i veri sacerdoti dell’horror/occult metal tricolore nel nuovo millennio, acquisendo uno status di culto riconosciuto anche fuori dai confini, in virtù di un sound peculiare che unisce il gothic alla Fields of the Nephilim alle ritmiche cadenzate del doom, con la decisiva immissione di quella gustosa componente horror che in Italia non ha eguali grazie a nomi quali Death SS e Antonius Rex, tra gli altri.
La ricorrenza viene così festeggiata con la pubblicazione (il 2 novembre …) di un box a forma di bara, contenente il cd Reveal Nothing… e la cassetta Mors Te Audit, contenente il secondo demo realizzato all’epoca in versione limitata di 13 copie.
L’operazione si rivela quanto mai esaustiva, in quanto il cd contiene di fatto tutti i brani incisi dagli Abysmal Grief che non sono mai stati inseriti in un loro full length: troviamo, quindi, una spettacolare sequela di tracce riconducibili alla miriade di singoli e split album che i nostri non hanno mai lesinato in tutti questi anni.
Un vero godimento per chi ama questa particolare forma musicale ed è irresistibilmente attratto da quanto, normalmente, nelle persone comuni provoca terrore o repulsione; e, in fondo, il trucco sta tutto qui: giocare con la morte per esorcizzarne il naturale timore e in qualche modo rendere più accettabile il suo incombere.
Detto questo, non resta che rendere onore a questa band facendo proprio questo prezioso prodotto che, oltre all’originale confezione, consente di godere dell’ascolto di una serie di brani magnifici, a partire dall’inedito Cursed Be The Rite, perfettamente in linea con la produzione recente, dai ritmi più incalzanti e meno doom nella sua impronta, una differenza che si coglie peraltro, in maniera evidente, ascoltando subito dopo Exsequia Occulta, alla superba traccia risalente al 2000, passando per il climax orrorifico corrispondente a Creatures Fron The Grave (tratta dallo split del 2004 con Tony Tears).
Insomma, una raccolta irrinunciabile per i fans degli Abysmal Grief, nonché una maniera ideale di approcciarsi alla loro funerea arte per chi ancora colpevolmente non li conoscesse.

Tracklist:
1. Cursed Be The Rite (Bonus Track – recorded in 2016)
2. Exsequia Occulta (2000 – Exsequia Occulta MCD)
3. Sepulchre Of Misfotune(2000 – Exsequia Occulta MCD)
4. Hearse (2002 – Hearse 7”EP)
5. Borgo Pass (2002 – Hearse 7”EP)
6. Creatures From The Grave (2004 – Split W/Tony Tears 7”EP)
7. Brides Of The Goat (2009 – Split W/Denial Of God 7”EP)
8. The Samhain Feast (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
9. Grimorium Verum (2009 – The Smhain Feast 7”EP)
10. Celebrate What They Fear (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)
11. Chains Of Death (2012 – Celebrate What They Fear 7”EP)

Tape
1. Intro
2. Open Sepulchre
3. Ignis Fatuus
4. Hearse
5. Grimorium Verum

Line-up:
Lord Alastair – Bass
Lord of Fog – Drums
Regen Graves – Guitars
Labes C. Necrothytus – Keyboards, Vocals

Widow Queen – A Matter Of Time

Tutto viene esposto con una maturità sorprendente, conquistando al primo ascolto, mentre echi post grunge continuano a giocare con il metal alternativo

Mi sono trovato recentemente davanti ad una delle tante deliranti affermazioni (fatta da un musicista) secondo cui il grunge avrebbe distrutto il rock ‘n’ roll ed il metal, assurdità che negli anni novanta era prassi leggere sulla carta stampata dell’epoca.

Questa immane stupidata riesce sempre, anche a distanza di anni, a farmi arrabbiare non poco, anche perché chi ha vissuto l’ultimo decennio del millennio scorso sa che forse solo negli anni ottanta si è potuto godere di così tanto rock sui canali musicali e non solo.
Sono i primi anni novanta, da Seattle una bomba rock viene lanciata sul mondo, ed il grunge diventa in poco tempo il genere di punta del rock americano e del mercato mondiale.
Dopo la fiammata durata qualche anno, un’altra ondata di gruppi segue la strada tracciata dal Seattle sound, con l’alternative che ora regna incontrastato, ma questo scontro finisce in una alleanza che porta ad un rock ancora più malinconico, destabilizzato da umori alternativi e crossover, anche se i gruppi che fanno la voce grossa mantengono un legame forte con i loro predecessori: nasce così il post grunge genere che continua ancora oggi a deliziare il palato degli amanti del rock moderno made in U.S.A.
E di post grunge si parla per la musica creata dai napoletani Widow Queen, trio formato dai fratelli Pellegrino, Amedeo (voce e basso) e Rosario (chitarra), con il fondamentale contributo di Riccardo Bottone alle pelli.
La band, tramite la Volcano Records debutta sulla lunga distanza con A Matter Of Time, album maturo e ben congegnato che si muove tra i meandri del rock che ha fatto storia aldilà dell’Atlantico, tra grunge e alternative, potente ma con un’anima intimista che si avvicina alle produzioni a cavallo dei due millenni: più solari degli Staind ma molto più oscuri dei Nickelback, per esempio, con il metal a guidare la sei corde ed il groove a potenziare le parti più energiche.
Partono alla grande i Widow Queen, con una label in ascesa nel panorama rock/metal nazionale e la presenza di Mark Basile dei DGM sulla bellissima Watch Over Me, brano che (sarà un caso) si assume l’onere di presentare tutte le sfaccettature del sound del gruppo campano.
Momenti acustici dai tratti intimisti lasciano spazio ad esplosioni di metallo moderno e potente, ariosi arpeggi che non mancano di emozionalità fanno preludio all’entrata in campo della voce, perfetta e e dagli umori a tratti rabbiosi e drammatici, con il trio che infiamma l’ascolto creando atmosfere di rock alternativo che, nel piccolo capolavoro Moments, si avvicinano ai System Of A Down.
Tutto viene esposto con una maturità sorprendente, conquistando al primo ascolto, mentre echi post grunge continuano a giocare con il metal alternativo, con l’opener Faith e Before the Day Falls che non mancheranno di fare breccia nei cuori dei rockers con ancora almeno una camicia di flanella nell’armadio.
Ottimo lavoro in barba a chi ancora nel 2016 vuole costruire assurdi muri ed imprigionare le sette note, noi saremo sempre dalla parte della buona musica da qualunque genere essa provenga.

TRACKLIST
1.Faith
2.Truth
3.By Your Side
4.Alive
5.Watch Over Me (feat. Mark Basile)
6.Moments
7.Liar King
8.Oxygen
9.Before the Day Falls
10.What Else Remains

LINE-UP
Amedeo Pellegrino – Bass, guitars, voice
Rosario Pellegrino – Guitars, voice
Riccardo Bottone – Drums

WIDOW QUEEN – Facebook

ABORYM

Il video di Precarious, tratto dall’album di prossima uscita Shifting.negative.

Il video di Precarious, tratto dall’album di prossima uscita Shifting.negative.

Mesarthim – .- -… … . -. -.-. .‬

Difficile fare meglio per chi si cimenta con il black metal atmosferico, anche se è evidente che l’impatto melodico del lavoro potrebbe risultare eccessivo per chi predilige il genere nella sua veste più cruda

E’ triste rendersi conto d’essersi quasi del tutto dimenticati un qualcosa che si era imparato molto bene (anche se in maniera un po’ coercitiva) qualche decennio fa …

Quando ho visto quella sfilza di punti e trattini che rappresentano il titolo del nuovo disco dei Mesarthim mi sono chiesto, senza rifletterci più di tanto, che diavolo significasse, finché, dopo qualche giorno, in un anfratto del mio sempre più ristretto hard disk interno è balenato un ricordo del passato coincidente con il periodo del servizio di leva in marina, quando conoscevo alla perfezione l‘alfabeto Morse, in quanto radiotelegrafista …
Già: ti-taa taa-ti-ti-ti e via discorrendo, in questo caso significa Absence, un titolo ed un mezzo per veicolarlo che si addicono al modus operandi dei Mesarthim, misterioso duo australiano del quale avevo già avuto modo di parlare in occasione del precedente full length Isolate.
Se, all’epoca, avevo espresso alcune perplessità derivante da un approccio gradevole ma non particolarmente incisivo, devo ammettere che stavolta i due “puntini” (che, seguendo la logica del Morse, equivalgono ad E) hanno fatto un deciso passo avanti.
Absence‬, infatti, offre quasi quaranta minuti di black atmosferico molto meglio definito ed efficace: le linee melodiche disegnano scenari cosmici in cui prevale un aspetto sognante che blast beat e screaming vocals non riescono più di tanto a screziare.
Le tastiere, soprattutto, tracciano un percorso lungo il quale l’ascoltatore viene trasportato facendolo sentire a proprio agio ma senza lesinargli, comunque, un senso di inquietudine derivante dalla riproposizione di schemi non dissimili dal depressive, benché molto meno oscuri ed urticanti nella loro espressione.
Il lavoro è davvero molto bello, con picchi rinvenibili un po’ in tutti brani, ma con menzione particolare per quello conclusivo (-…., ovvero 6), laddove il contrasto tra la voce e le ariose armonie si fa più intenso e ficcante.
Difficile fare meglio per chi si cimenta con il black metal atmosferico, anche se è evidente che l’impatto melodico del lavoro potrebbe risultare eccessivo per chi predilige il genere nella sua veste più cruda; anche per questo, Absence è un disco che mi sentirei di consigliare proprio a chi volesse approcciarsi per le prima volta a sonorità gravitanti nell’universo metal.

Tracklist:
1.
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2.
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Line-up:
. – Vocals
. – Other

MESARTHIM – Facebook

The Outlaws – Legacy Live

Legacy Live è il perfetto sunto della carriera di uno dei gruppi storici del southern rock classico

Si parla di southern rock sulle pagine di MetalEyes, pallino del sottoscritto e genere che negli States equivale alla canzone melodica in Italia, non solo per popolarità ma soprattutto come forma culturale di un paese dai molti Stati e dalle mille contraddizioni.

Una storia, quella della musica nata nel sud, che dura da cinquant’anni e che ha visto i gruppi più famosi diventare delle autentiche star, con in testa gli dei Lynyrd Skynyrd della famiglia Van Zant e poi una dietro l’altra numerose band, tra cui i The Outlaws.
Nati nel 1972 a Tampa, in Florida i The Outlaws sono diventati in poco tempo uno dei gruppi più amati della scena: la loro storia è stata attraversata da numerosi cambi di line up, tragedie ed un successo che ha avuto il suo apice con i primi album usciti nel decennio settantiano e continuato nei primi anni ottanta; poi il calo fisiologico, un primo ritorno inaspettato, vari album live e una serie di compilation che hanno mantenuto inalterata la popolarità, specialmente tra gli amanti del genere.
L’interesse per il southern rock, risvegliatosi negli ultimi anni con i ritorni di alcuni gruppi storici e grazie alla nascita di alcune ottime band, che hanno riscosso un enorme successo in patria (Blackberry Smoke e Whiskey Myers su tutti), hanno rinvigorito pure il sestetto di Tampa, fuori con questo nuovo doppio live e con un tour che li porterà in giro per i teatri statunitensi tra settembre e la fine dell’anno.
Il gruppo, capitanato dal frontman Henry Paul, ci porta per due ore in giro per la frontiera americana, tra atmosfere western, rock pregno di blues e classiche ballate dal retrogusto country in un ennesimo rito, dove il rock sudista si crogiola con una delle sue massime espressioni.
Da una band con così tanti anni sulle spalle e molti brani diventati classici del genere ci si aspetta una rivisitazione dei più importanti momenti e così accade anche in Legacy Live, alternando qualche brano più recente a titoli che sono punti fermi della storia del gruppo come There Goes Another Love Song, (Ghost) Riders In The Sky, la leggendaria Freeborn Man e l’inno South Carolina.
Legacy Live è il perfetto sunto della carriera di uno dei gruppi storici del southern rock classico, genere amato da almeno cinque generazioni là, dove il sole brucia le gole bagnate dal whiskey, il vento trasporta le palle di fieno e i tramonti sono spettacoli indimenticabili vicino al fuoco che arde e scalda i cuori.

TRACKLIST
CD 1
1. Intro
2. There Goes Another Love Song
3. Hurry Sundown
4. Hidin’ Out In Tennessee
5. Freeborn Man
6. Born To Be Bad
7. Song In The Breeze
8. Girl From Ohio
9. Holiday
10. Gunsmoke
11. Grey Ghost

CD 2
1. South Carolina
2. So Long 3. Prisoner
4. Cold Harbor
5. Trail Of Tears
6. It’s About Pride
7. Waterhole
8. Knoxville Girl
9. Green Grass & High Tides Forever
10. (Ghost) Riders In The Sky

LINE-UP
Henry Paul – guitars, vocals
Monte Yoho – drums
Chris Anderson – lead guitar, vocals
Randy Threet – bass, vocals
Dave Robbins – keyboards, vocals
Steve Grisham – lead guitar, vocals

THE OUTLAWS – Facebook

Macaria – A Strings’ Dramedy

Un’opera di death melodico sinfonico ben suonato e ben composto, con molte divagazioni di sapore classico che rendono in maniera ottimale la storia raccontata.

La rappresentazione della realtà può avere, come il suo modello, molte facce e molti momenti diversi.

Ad esempio il teatro nasce per l’esigenza di poter modellare la realtà secondo il bisogno della creazione di storie alternative. La drammatizzazione della vita ha diversi scopi, e può essere un modo migliore per spiegare la realtà. E questo che fanno i Macaria in questo debutto, che è in effetti un album concettuale basato su un pupazzo che prende vita durante la rappresentazione teatrale. La marionetta comincia così ad esplorare il mondo, vedendolo con occhi e parametri di giudizio molto diversi dagli uomini e trovando molte convenzioni sociali assai grottesche ed inutili, per arrivare infine chiedersi chi sia sbagliato, se la società o lui. I Macaria dipingono tutto ciò con un death metal sinfonico con intarsi folk, lascito della loro passata vita come Finntroll, poiché sono nati nei dintorni di Lecce nel 2009 come band folk metal, e hanno mantenuto un certo gusto per la teatralità, evolvendosi però musicalmente. Il disco è ben suonato e ben composto, con molte divagazioni di sapore classico che rendono in maniera ottimale la storia raccontata. Un debutto che colpisce per maturità ed originalità.

TRACKLIST
01. Suden Break
02. The Puppets Theater
03. Outside
04. Shaped Water
05. The Hidden Filth
06. Tar Nectar
07. Carnival Of Pigs
08. Midday Strangers
09. A Strings’ Dramedy
10 .The Knot Of Wills

LINE-UP
LORENZO MANCO – Vocals
MARCO CARANGELO – Guitar
DAVIDE PASTORE – Guitar
FEDERICO MAURO – Keyboards
LUCA DE MARCO – Bass
LUCA CASTO – Drums

MACARIA – Facebook

Degrees of Truth – The Reins of Life

La raffinatezza e l’eleganza delle orchestrazioni e della chitarra immette direttamente The Reins Of Life nel novero delle opere senza tempo.

Esporre un articolo che non ricalchi pensieri ampiamente elaborati in altre occasioni rimane un’impresa, così come essere del tutto originali suonando musica che da anni è una delle più seguite del panorama metallico, ma i Degrees Of Truth sono l’ennesima band nostrana che, con un songwriting di alto livello e una preparazione strumentale adeguata al genere, aggiunge un pizzico di elettronica al symphonic prog metal e consegna agli amanti di queste sonorità un gioiello di valore assoluto.
La band milanese, formata da Gianluca Parnisari solo lo scorso anno, debutta con The Reins Of Life, opera che non delude, ci presenta un altra singer dall’ugola d’oro (Claudia Nora Pezzotta) e ci ammalia con un metal progressivo elegante e raffinato, mai troppo debordante e sinfonico quanto basta per mandare in brodo di giuggiole i fans di orchestrazioni, musica classica ed altre diavolerie.
L’elettronica conferisce al sound un tocco moderno così che l’album possa tranquillamente posarsi sugli scaffali dei negozi, in un millennio in cui il mercato dimentica in fretta band e album, anche quelli che meriterebbero più tempo per essere apprezzati, mentre la raffinatezza e l’eleganza sia delle orchestrazioni che della sei corde immette  direttamente The Reins Of Life nel novero delle opere senza tempo.
L’album si presenta con il bellissimo lavoro di Gustavo Sazes (Kamelot, Angra, Arch Enemy, Temperance) sull’artwork, la benedizione della storica label Underground Symphony e un lotto di brani molto belli con picchi qualitativi altissimi, magari leggermente prolisso, ma assolutamente da godere di tutte le sue atmosfere, sfumature e melodie.
Benché l’elettronica tenga l’opera ben salda nel presente, la mia sensazione all’ascolto di brani come la title track, Civilization e Pillar Of Hope è stata quella di entrare in una elegante corte del diciassettesimo secolo, al cospetto di dame eleganti, sfarzose tavole imbandite, signorotti dai modi raffinati e dalle voglie peccaminose, duelli dove il male fa capolino tra i pizzi e merletti (Fine Art Of Havoc, estremizzata dalla voce in growl), in un’apoteosi di suoni progressivi, dove il metal è nobilitato come nella migliore tradizione sinfonica.
Un altra opera tutta made in Italy che non deve essere ignorata.

TRACKLIST
01. Pattern
02. Finite Infinite
03. The Reins Of Life
04. Evolution
05. Civilization
06. Subtle Borderline
07. The World Beneath My Feet
08. Fine Art Of Havoc
09. The Grim Lesson
10. Deep Six
11. Pillar Of Hope

LINE-UP
Claudia Nora Pezzotta – vocals
Gianluca Parnisari – keyboards
Graziano Franchetti – guitars
Luca Ravezzani – drums
Matteo Clark – bass

DEGREES OF TRUTH – Facebook

Revelations Of Rain – Akrasia

L’ennesimo magnifico parto di una scena russa composta da una moltitudine di band in grado di elevare il funeral/death doom ai suoi massimi livelli.

Giunti al loro quinto full length, i russi Revelations Of Rain (o Otkroveniya Dozhdya, come sono conosciuti nella loro lingua) regalano agli appassionati di death doom un lavoro di elevato spessore, in grado di racchiudere quanto di meglio la scenda estrema della musica del destino ha offerto in questi ultimi anni.

Rispetto al precedente Deceptive Virtue, che già si segnalava come un magnifico disco, la band proveniente da Podolsk inasprisce non poco un sound che trovava le sue fondamenta nell’essenza più melodica del genere (My Dying Bride, Saturnus, Swallow The Sun, Ea) attingendo ad elementi di dissonanza che rimandano agli Esoteric, a certe aperture riconducibili ai Monolithe, oltre che alla cupa indole nichilista dei Comatose Vigil.
Certo, del funeral qui c’è più un’attitudine che la forma vera e propria, visto che i ritmi non sono quasi mai soffocanti ma semmai lo sono le strutture dei brani, che restano arcigni pur se pervasi da splendide melodie.
Proprio questo suo essere algido e nel contempo emozionale è il punto di forza di Akrasia, un lavoro che al primo impatto lascia più di una perplessità e al quale, pertanto, bisogna assolutamente dare il tempo di crescere, ascolto dopo ascolto, giorno dopo giorno.
Poi, sarà anche perché dopo tre anni ci abbiamo ormai fatto l’abitudine ad album cantati un po’ in tutte le lingue, il fatto che i Revelations Of Rain continuino ad utilizzare il loro idioma natio non costituisce più un problema, anzi, forse consente loro di aumentare l’impatto e la convinzione con cui si propongono anche al pubblico straniero.
Come in Deceptive Virtue, l’elemento predominante è la chitarra solista di Yuriy Ryzhov, capace di sfornare quasi a getto continuo melodie splendide e dolenti, supportato al meglio dal growl massiccio del fondatore (nonché chitarrista) Ilya Remizov e, fatto salvo l’ordinario strumentale Instead Of A Thousand Words, Akrasia è uno scrigno colmo di gioielli preziosi, tra i quali i più splendenti sono una magistrale In Joy And Sorrow e l’accoppiata finale Root Of All Evil e On Snow Wings.
Più ombroso rispetto al predecessore, l’ultimo album dei Revelations of Rain appare però più profondo e capace di reggere in maniera prolungata gli ascolti, mostrandosi, in ogni caso, l’ennesimo magnifico parto di una scena russa composta da una moltitudine di band in grado di elevare il funeral/death doom ai suoi massimi livelli.

Tracklist:
1. Altar’ Bludnic – Altar Of Whores
2. Skvoz’ Noch’ Fobetora – Through Phobetor’s Night
3. Jeshafot – Scaffold
4. V Grusti I Radosti – In Joy And Sorrow
5. Vmesto Tysjachi Slov – Instead Of A Thousand Words
6. Demony Miloserdija – Demons Of Mercy
7. Koren’ Vseh Bed – Root Of All Evil
8. Na Snezhnyh Kryl’jah – On Snow Wings

Line-up:
Olesya Muromskaya – Bass
Ilya Remizov – Vocals, Guitars
Denis Demenkov – Drums
Yuriy Ryzhov – Guitars

REVELATIONS OF RAIN – Facebook

Whiskey Myers – Mud

La band giunge al quarto album più in forma che mai e non era facile supporre che, dopo i fasti di Early Morning Shakes, Cannon e compagni tornassero con un lavoro così suggestivo.

Premessa: Cody Cannon è il più grande vocalist dietro al microfono di una southern rock band di questi primi anni del nuovo millennio, e questo porta già i Whiskey Myers ad avere una marcia in più sulle altre realtà, giocandosela alla pari con i loro alter ego Blackberry Smoke.

Se poi sommiamo un songwriting ispiratissimo che porta il gruppo, con il nuovo lavoro, ad esplorare una varietà di atmosfere e sfumature che passano dalle tragiche trame semi acustiche della title track al solare andamento sostenuto dai fiati della gradevole Lightning Bugs And Rain’, e al rock pregno di blues e soul di Deep Down In The South (e siamo solo alla quarta traccia), capirete bene che siamo al cospetto di un’altra perla in arrivo sul binario del rock sudista dalla ridente cittadina di Palestine, Texas.
Prodotto da Dave Cobb, che i rockers di nuova generazione ed ispirazioni settantiane ricorderanno sui lavori degli splendidi Rival Sons, Mud esce prepotentemente dalle paludi e, ripulito dalla melma, corre verso la frontiera nelle sue vesti di emozionale, tradizionale, semplicemente perfetta musica rock americana, tra folk, blues, bluegrass e southern d’autore.
La band giunge al quarto album più in forma che mai e non era facile supporre che, dopo i fasti di Early Morning Shakes, album uscito un paio di anni fa, Cannon e compagni tornassero con un lavoro così suggestivo.
Pura poesia southern, Mud è forse il disco più introspettivo ed intenso del gruppo americano, pregno di un’atmosfera malinconica che esce dagli strumenti anche nei brani più movimentati ed elettrici (Some Of Your Love).
C’è spazio pure per un ospite d’eccezione e Frogman, blues rock elettrico, richiama chi ha aiutato nella stesura del brano i cinque cowboy di Palestine: Rich Robinson ed i suoi Black Crowes.
In Hank, Cannon tira fuori dal cilindro una prestazione magnifica , mentre la band si congeda con la ballad Good Ole Days, che profuma di distillerie clandestine prese d’assalto, prima che il tramonto sull’album si sia trasformato in una notte stellata ed il tasto play funga da nuova alba per questo ennesimo, bellissimo capitolo della storia discografica di una grande band.

TRACKLIST

1. On The River
2. Mud
3. Lightning Bugs and Rain
4. Deep Down In The South
5. Stone
6. Trailer We Call Home
7. Some Of Your Love
8. Frogman
9. Hank
10. Good Ole Days

LINE-UP

Cody Cannon – Vocals, Guitars
Cody Tate – Guitars, vocals
John Jeffers – Guitars
Gary Brown – Bass
Jeff Hogg – Drums

VOTO
8.50

URL Facebook
http://www.facebook.com/whiskeymyers

KING CRIMSON – 5/11/2016 Milano

Sono passati ben tredici anni dall’ultima apparizione dei King Crimson in Italia, occasione in cui toccarono anche la mia città, Genova; stranamente, nonostante l’evento riguardasse una delle band che hanno segnato indelebilmente i miei gusti musicali, possiedo solo ricordi sbiaditi di quella serata, sintomo del fatto che, all’epoca, la fredda e chirurgica precisione esibita da Fripp e soci non riuscì a rendere memorabile l’evento.

Così, al momento di partire per Milano, recarmi nuovamente a vedere i King Crimson sembra più un doveroso rito che non la finalizzazione di un qualcosa atteso da tempo, forse anche perché condizionato dall’ascolto di un album come Radical Action (sul quale mi ero espresso in questa sede qualche settimana fa), capace di trasmettermi solo a intermittenza le emozioni che cerco da sempre nella musica, pur con la riproposizione di gran parte dei brani storici.
Dopo aver preso posto nell’accogliente sede milanese del concerto, il Teatro degli Arcimboldi, la prima prova da superare per gli spettatori è quella di scendere a patti con l’idiosincrasia frippiana verso qualsiasi dispositivo audio o fotografico: una richiesta che ai più credo appaia bizzarra, se non addirittura fuori dal tempo e frutto dei capricci e delle bizzarrie di una vecchia star (chi era a Genova nel 2003 ricorderà il nostro avvolto per l’intero concerto da una luce violetta che ne celava di fatto le sembianze …), ma che, ripensandoci, finisce invece per rendere a tutti un gran bel servizio.
Infatti, oggi sembra impensabile partecipare ad un qualsiasi evento senza riprenderne o fotografarne diversi momenti, quasi che chiedessimo alla memoria del supporto tecnologico di sostituirsi alla nostra; in realtà, non credo sia un caso se i concerti che meglio ricordo sono proprio quelli che vidi quando la parola cellulare evocava solo l’immagine di furgoni blu o celesti …
Obbligati, quindi, obtorto collo, a guardare direttamente ciò che avviene sul palco anziché tramite il display di un tablet o di uno smartphone (pena il cazziatone preventivo dei solerti addetti), gli spettatori possono godersi senza distrazione alcuna circa tre ore di musica che dimostreranno come il vero extraterrestre, “l’uomo che cadde sulla terra”, risponda al nome di Robert Fripp, con tutto il rispetto per il compianto Bowie.
Quella dei King Crimson è appunto arte aliena perché inimitabile in ciascuna delle diverse sembianze che il musicista inglese ha voluto donare alla sua creatura e, sabato scorso, persino chi l’ha sempre ritenuta una snobistica e fredda espressione di pura tecnica sarebbe stato costretto a ricredersi. L’uomo sembrerebbe aver fatto pace con il mondo e forse con sé stesso, visto che non ha lesinato un solo cavallo di battaglia, affidando ai fiati del sempreverde Mel Collins il compito di riscaldarne le note, anche se, come vedremo, tale scelta racchiude anche qualche controindicazione; nulla a che vedere, quindi, con quanto accadde nella serata del Carlo Felice, in cui venne perfidamente offerta al pubblico la sola produzione più recente, relegando ai bis tre brani ottantiani (Three Of A Perfect Pair, Frame By Frame ed Elephant Talk) e gettando in pasto ad un famelico pubblico di nostalgici il contentino finale di Red, quale briciola dei capolavori del passato.

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Con un quarto d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto si parte, e l’incipit di Larks’ Tongues in Aspic Part I è una sferzata emotiva violenta, quasi stordente per quanto inattesa: la bizzarra band che si esibisce sul palco, composta da una linea di tre batteristi piazzati in prima fila con alle spalle un quartetto di eleganti signori dall’età media piuttosto elevata, è in realtà un orologio di alta precisione in cui tutto funziona alla perfezione, anche in quelle parti che parrebbero frutto di improvvisazioni e che, invece, sono esito di una meticolosità certosina oltre che di un talento superiore.
Pictures Of A City è la conferma che questo viaggio a ritroso è appena iniziato e Dawn Song, frammento di Prince Rupert Awakes, rafforza la sensazione che questa volta nulla o quasi della produzione passata verrà lasciato indietro.
Red è il secondo momento topico, e qui devo ribadire l’impressione avuta ascoltando il live, ovvero che l’inserimento dei fiati in un brano così asciutto e squadrato lascia più di una perplessità. Poco male, quando una band subito dopo può offrire un‘altra pietra miliare come Cirkus, traccia d’apertura di un disco magnifico, anche se un po’ sottovalutato rispetto agli altri, quale Lizard. In questo caso, come in Dawn Song, Jakko Jakszyk fatica il giusto nel riprodurre le tonalità di Gordon Haskell, che era già di suo un cantante molto atipico, ma tutto sommato ne esce piuttosto bene, mentre Mel Collins può sfogare le sue doti senza apparire troppo invadente.
L’ascolto delle prime note dell’ossessivo giro di chitarra di Fracture fa compiere a molti un altro salto sulla poltroncina: sia Lizard che Starless And Bible Black erano stati del tutto ignorati in Radical Action, per cui si immaginava che avvenisse altrettanto in quest’occasione: qui, oltre alla velocità sempre innaturale delle dita di Fripp, si fanno apprezzare le tre piovre in prima fila (da sinistra verso destra, guardando il palco: lo storico Pat Mastelotto, Jeremy Stacey, subentrato a Bill Rieflin e alle prese anche con le tastiere, e Gavin Harrison, protagonista in passato con gli ottimi Porcupine Tree).
Epitaph, subito dopo, riporta a quelle atmosfere, definibili in maniera più appropriata come progressive, che ammantavano l’intero album d’esordio, mentre, dopo uno dei molti intermezzi strumentali di gran pregio, l’andamento beffardo e più catchy di Easy Money si prende giustamente la scena: qui va detto che, nonostante le mie perplessità, Jakszyk regge bene il confronto con un brano cantato originariamente da John Wetton, pur possedendo una timbrica decisamente diversa.
Ancora altre tracce di destrezza esecutiva preludono, prima, al percussivo crescendo di The Talking Drum e, dopo, alla spettacolare seconda metà di Larks’ Tongues In Aspic.
Si conclude così la prima parte dello show e, visto che la speaker, in sede di presentazione, l’aveva definito “primo set”, volendola leggere in maniera tennistica si può dire che i King Crimson abbiano inflitto all’ipotetico avversario al di là della rete un bel 6-0 …

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Dopo una tale scorpacciata di pezzi storici, al rientro la band fa subito intendere, con Fairy Dust, che in questa sessione dell’esibizione verranno proposti meno brani “monumento”, anche se dopo l’evocativa Peace, è la delirante Indiscipline ad infiammare nuovamente il teatro, rivelandosi non solo una gradita apertura alla trilogia ottantiana ma offrendo al trio di percussionisti un terreno ideale per esibire la loro sopraffina tecnica.
L’inconfondibile melodia di In The Court Of The Crimson King si palesa senza preavviso, facendo temere una imminente conclusione della serata, visto che nell’immaginario collettivo il brano manifesto della band sarebbe potuto essere posizionato in coda allo show.
Così con è, per fortuna, e si prosegue con un mix tra la produzione più recente e quella storica un po’ meno incisiva (Letters e Sailor’s Tail, che facevano parte di Islands, gran disco, per carità, ma a mio avviso il più debole della prima parte dell’epopea crimsoniana), il che fa leggermente scemare la tensione emotiva in questa fase del concerto, fino ad arrivare alla convincente doppietta di inediti in studio  Radical Action / Level Five, dall’impostazione non dissimile da quella che Fripp introdusse con Discipline.
Si creano così tutti i presupposti per arrivare all’autentica esplosione emotiva costituita da Starless, un brano capace di provocare quel turbamento che è prerogativa solo delle opere destinante all’immortalità: l’assimilazione della melodia prodotta dal peculiare tocco chitarristico di Fripp è un qualcosa che segna la linea di demarcazione tra l’uomo ed il bruto e, insomma, per farla breve, è impossibile non commuoversi nell’ascoltare per la prima volta dal vivo un simile capolavoro.
Fine del secondo set (conclusosi stavolta con un punteggio meno netto ma con un ultimo game memorabile …) e ritorno sul palco dei nostri per un bis il cui titolo era già scolpito nella pietra: 21st Century Schizoid Man, un brano profetico che, a 47 anni di distanza, ribadisce una volta di più la visionarietà del talento frippiano: del resto qui si parla di qualcuno che, con il senno di poi, tra pause prolungate, decisioni apparentemente illogiche e repentine infatuazioni mistico-filosofiche, ha forse prodotto meno di quanto avrebbe potuto fare, riuscendo ugualmente ad imprimere il suo geniale marchio sull’arte musicale della seconda metà del novecento.
Il momento in cui Tony Levin (a proposito, sempre un piacere per occhi e orecchie vederlo alle prese con il suo stick) imbraccia la macchina fotografica è il segnale stabilito per il libero scatenamento dei flash degli smartphone, oltre che il momento in cui si realizza la fine definitiva di queste tre ore di magia; la sensazione è quella d’aver assistito ad un evento in cui i primi a divertirsi siano stati proprio i musicisti, cosa non del tutto scontata in simili frangenti e conditio sine qua non per il completo coinvolgimento degli spettatori.
Considerazioni finali: Fripp si avvia alla settantina, io ho scollinato il mezzo secolo già da un po’ e tutto ciò che mi sta attorno (affetti, amici, animali e cose) porta impresso il segno inesorabile del tempo che scorre.
Così, poter assistere ancora una volta ad un concerto dei King Crimson si rivela in fondo un’arma a doppio taglio: in quegli attimi il tempo letteralmente si ferma ma, quando tutto finisce, il piacere lascia spazio al rimpianto verso tutto ciò che è stato e non potrà più essere, specie se ciò a cui si assiste è la fulgida rappresentazione di musica composta per la maggior parte più di quarant’anni fa, suonata oggi e che, tra altri quarant’anni, anche se purtroppo non ci potranno più essere Fripp a suonarla né gran parte dei presenti agli Arcimboldi ad ascoltarla, continuerà ad apparire sempre un passo avanti rispetto a chi si voglia cimentare con le sette note.

kc

Hastur – The Black River

L’impressione e quella d’essere al cospetto di un gruppo esperto, che va subito al sodo e spara nove mazzate estreme con la facilità di chi nelle torbide acque del death metal ci sguazza già da un po’.

Tornano a far parlare di loro gli Hastur, dal 1993 realtà estrema della scena genovese che, dopo una storia travagliata arrivano al debutto su lunga distanza a quasi vent’anni dall’ep Dance Macabre dove, dietro al microfono, si posizionò in tutta la sua mole Trevor, ormai da anni vocalist degli storici Sadist ed uno dei personaggi più importanti di tutta la scena estrema nazionale.

Con il solo batterista Hayzmann a rappresentare la line up originale, il gruppo torna con The Black River, licenziato dalla Black Tears ed una formazione che vede anche il chitarrista Docdeath, il bassista Grinder ed il vocalist-chitarrista Napalm, in questo che ha tutti i crismi di un nuovo inizio.
The Black River è una devastante opera estrema, che della scuola classica prende impatto ed attitudine, un monolite di death metal old school dal songwriting fresco, perfettamente in linea con le produzioni dai richiami alla scena statunitense, ma senza perdere un’oncia in personalità.
E questa è la maggior virtù dell’album, l’impressione d’essere al cospetto di un gruppo esperto, che va subito al sodo e spara nove mazzate estreme con la facilità di chi nelle torbide acque del death metal ci sguazza già da un po’.
E The Black River, con queste premesse, non può che risultare un album potentissimo, un massacro senza compromessi con più di un brano che nel suo feroce estremismo si fa ascoltare con grande piacere.
Le sei corde garantiscono solos efficaci, perfettamente inseriti su di una struttura portante che non fa prigionieri, con la batteria protagonista e ben supportate da un basso pieno e vario.
Il growl cattivo e aggressivo è perfettamente inserito nel sound, che alterna velocità e parti più moderate, dove assoli gustosamente melodici fanno la differenza rispetto ad interpretazioni del genere più ripetitive.
Un death metal d’alta scuola, dunque, con almeno la metà dei brani davvero entusiasmanti (l’opener Black River, Infamous, l’eccezionale The Clock Of Evil e la devastante Prisoner Of Christ), ma è tutto l’insieme che gira alla perfezione e ci consegna una band rinata ed un lavoro sopra le righe.
Come già scritto ci troviamo in ambito death metal classico, con la scena statunitense come punto di riferimento e la Riviera Ligure a sostituirsi alla Bay Area: per gli amanti del genere un album imperdibile.

TRACKLIST
1. Black River
2. Consumer of Souls
3. Infamous
4. Possessed
5. The Clock of Evil
6. Hate Christians
7. Brain Buried
8. Prisoner of Christ
9. Purgatory

LINE-UP
Napalm – Vocal, guitar
Docdeath – guitar
Grinder – Bass
Hayzmann – Drums

HASTUR – Facebook

childthemewp.com